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PDL N. 3250

XVI LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 3250



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa del deputato SBAI

Modifica all'articolo 61 del codice penale in materia di circostanza aggravante per i reati commessi per ragioni o consuetudini etniche, religiose o culturali

Presentata il 24 febbraio 2010


      

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Onorevoli Colleghi! - Nel processo per il barbaro assassinio, l'11 agosto 2006, di Hina Saleem che aveva solo ventuno anni, era pakistana e viveva da tempo in Italia, per cui il padre e i suoi due cognati furono condannati a trenta anni di reclusione, lo zio Tariq Muhammad a due anni e otto mesi, al processo di appello la procura della Repubblica chiese la conferma delle condanne inflitte in primo grado e il 5 dicembre 2008 il tribunale di Brescia, nella sentenza di appello, confermò la condanna a trenta anni di reclusione al padre di Hina. Ai due cognati la pena fu ridotta a diciassette anni, mentre allo zio furono confermati i due anni e otto mesi. Un aspetto rilevante di questo processo, che qui si vuole sottolineare, è stato che il difensore del padre di Hina invocò «le attenuanti per motivi di valore morale, etnico e culturale», cosiddette «attenuanti culturali», sostenendo che l'esasperazione assoluta in questo omicidio terribile era sorretta da una forte identità religiosa. Nel caso di Hina, quindi, la difesa del padre aveva chiesto l'applicazione della predetta «attenuante culturale», non codificata nel nostro ordinamento, ma ammessa in tanti Paesi islamici, quale forte attenuante, legata al vissuto culturale etnico e religioso del reo, purtroppo retaggio di usi e costumi del suo Paese d'origine. Il giudice per le indagini preliminari (GIP) non l'ha giustamente concessa, non riconoscendo i presupposti per la conseguente forte riduzione di pena. Infatti, tale attenuante non può e non deve mai essere riconosciuta nel nostro sistema giudiziario, non solo poiché, appunto, non codificata ed estranea al nostro ordinamento, ma poiché in totale contrasto con la Costituzione e con l'ordinamento vigenti nel nostro Paese e non
 

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deve perciò essere rimessa esclusivamente alla discrezione, per non dire all'arbitrio, del magistrato giudicante. Tale «attenuante culturale» per la riduzione di pena sarebbe quasi un meccanismo di legittimazione di atti contrari alle norme del nostro ordinamento. Nel predetto caso, ovvero nei delitti d'onore, essa non può certamente coesistere con il sistema giuridico occidentale, poiché è legata al vissuto etnico, religioso e culturale del reo in relazione al Paese d'origine e a leggi, talvolta applicate in senso estremo per manipolazioni psicologiche barbare e disumane di matrice estremista, e quindi deve essere bandita da ogni possibile approccio processuale e valutazione discrezionale del giudice, a difesa della nostra Costituzione, delle leggi vigenti e dei diritti umani. Come giustamente è accaduto nel processo per il terribile crimine del padre di Hina; anzi, se proprio questa connotazione legata al vissuto culturale sociale e religioso del reo deve essere giuridicamente recepita, essa deve configurare non un'attenuante bensì un'aggravante di carattere comune che comporti per reati di ogni tipo un inasprimento della pena, alla stregua di azioni per motivi abbietti o futili, per abuso di ufficio eccetera. Successivamente al caso di Hina, detta attenuante ha fatto ingresso nei tribunali. Si cita l'episodio del cittadino algerino Abdelmalek Bayout, processato per aver ucciso a coltellate nel 2007 a Udine, durante una rissa, il cittadino colombiano Walter Felipe Navoa Perez, condannato con il rito abbreviato a nove anni e due mesi di reclusione dal GIP di Udine, il 10 giugno 2008, per omicidio volontario e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, che si è visto scontare la pena di un anno in secondo grado, dalla corte d'assise d'appello di Trieste perché «ritenuto vulnerabile geneticamente», cioè, attraverso un'indagine cromosomica innovativa, Bayout sarebbe stato trovato in possesso di alcuni geni che lo renderebbero più incline a manifestare aggressività, se provocato o espulso socialmente. Questi sono i fatti, ma occorre sottolineare le motivazioni processuali della riduzione della pena decisa dalla corte d'assise d'appello di Trieste che ha riconosciuto la «vulnerabilità genetica» dell'algerino Abdelmalek Bayout, a cui, per effetto di tale «attenuante culturale» è stato applicato uno sconto di pena di un anno. Secondo il giudice, «Bayout, colpito dalla discrasia di dover "coniugare il rispetto della propria fede islamica integralista con il modello comportamentale occidentale"», avrebbe subìto «un importante deficit nella sua capacità di intendere e volere». Non solo, la stampa, in merito a detto pronunciamento «inedito», ha riportato i commenti favorevoli di altri magistrati: «la sentenza - ha osservato il giudice Amedeo Santosuosso, consigliere della corte d'appello di Milano - applica l'orientamento espresso nel 2002 nel documento britannico diventato da allora il punto di riferimento in merito alle connessioni fra caratteristiche genetiche, comportamento e responsabilità». Il documento richiamato, intitolato «Genetica e comportamento umano: il contesto etico», è stato elaborato dal Nuffield Council on Bioethics. «Le conclusioni di quel documento, in generale condivise, rilevano - spiega Santosuosso - che dalle conoscenze genetiche attuali non emerge una sufficiente evidenza scientifica tale da escludere la responsabilità e assolvere persone con determinate caratteristiche; tuttavia possono verificarsi casi in cui parziali evidenze scientifiche possono essere utilizzate per calcolare la pena». Questo, in pratica, può dirsi il primo riconoscimento dell'«attenuante culturale», non codificata nel nostro ordinamento, ma interamente rimessa alla discrezionalità del giudice, finora negata, come nel caso di Hina. È evidente, ed è un atto sconcertante in un Paese che mira all'integrazione tra i popoli, il fatto che una simile decisione si pone in netto contrasto con alcuni dei princìpi fondamentali su cui si regge il nostro Stato di diritto. Infatti, il pronunciamento del giudice che ha concesso l'attenuante si pone in netto contrasto con le disposizioni dell'articolo 3 della Costituzione, che afferma che «tutti i cittadini (...) sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di
 

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religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Inoltre, quest'attenuante va anche a violare l'articolo 3 del codice penale, che stabilisce l'obbligatorietà della legge penale, per cui tutti i cittadini o gli stranieri che si trovano nel territorio dello Stato sono tenuti a osservarla. È da escludere che a tale disposizione possa essere apportata qualsiasi deroga non espressamente prevista dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale. Le tradizioni etico-sociali di coloro che sono presenti nel territorio dello Stato possono essere praticate solo fuori dall'ambito di operatività della norma penale. Principio, quello dell'obbligatorietà della legge penale, che assume particolare valore morale e sociale se - come in questo caso - la tutela penale riguarda materie di rilevanza costituzionale. Quella della corte di assise d'appello di Trieste è una decisione dai connotati molto preoccupanti. La prassi giudiziaria del riconoscimento della cosiddetta «attenuante culturale» rischierebbe di dare vita a un perverso meccanismo di legittimazione di atti contrari alle regole che governano lo Stato italiano, in quanto in qualche modo «coperti» dall'origine culturale del soggetto che compie atti criminali. Si cita anche la sentenza della corte di cassazione penale, sezione I, n. 1478 del 13 dicembre 2006, in merito all'attenuante concessa all'immigrato clandestino con problemi culturali e di emarginazione sociale, ai fini del computo della pena, con specifico riferimento al background culturale e religioso del reo (attenuante culturale), che non può essere tuttavia riconosciuta riguardo a fattispecie di delitti di particolare gravità come l'omicidio, la violenza sessuale e in genere i reati contro la persona. Si rileva, a tale proposito, che la corte d'assise d'appello di Trieste ha dato conto, sia pure in modo sintetico, delle ragioni per le quali è stata ritenuta esistente l'attenuante di cui all'articolo 62-bis del codice penale: si è avuto riguardo al comportamento processuale, alla giovane età dell'imputato, nonché alla sua arretratezza culturale e alla sua situazione di emarginazione sociale conseguente allo stato di immigrato clandestino, senza un lavoro fisso e senza uno stabile riferimento in Italia. Anche questo caso è eclatante, perché non possono esserci scriminante né sconto di pena per questi motivi.
      Dalla Germania, arriva l'attenuante culturale per un cittadino italiano accusato di stupro, secondo cui «Si deve tener conto delle particolari impronte culturali ed etniche dell'imputato. È un sardo. Il quadro del ruolo dell'uomo e della donna, esistente nella sua patria, non può certo valere come scusante ma deve essere tenuto in considerazione come attenuante». Certo anche questa sentenza di quattro anni fa destò scalpore: uno stupro è uno stupro, sotto qualunque cielo e in qualsivoglia contesto! Pare, però, non la pensasse così il giudice di Hannover, che ha concesso uno sconto di pena «per attenuanti etniche e culturali» al ventinovenne sardo che aveva più volte violentato la sua ex fidanzata lituana. In questo caso l'attenuante è costituita dalla cultura di origine dell'imputato, cioè della sua «sardità».
      L'attenuante culturale è l'ultima novità che l'Europa importa dagli Stati Uniti d'America (USA), dove essa è già da anni al centro del dibattito penale e politico su come far convivere i vari diritti dei soggetti di diversa origine con l'ordinamento giuridico di ciascun Paese nelle società multiculturali. Tale attenuante, negli USA, è stata invocata a difesa di: un gruppo di uomini Hmong, popolazione autoctona della Cina fortemente radicata negli USA, che avevano rapito e stuprato delle donne, sentendosi autorizzati dalla loro pratica culturale del zij poj niam; immigrati asiatici e mediorientali che avevano ucciso le loro mogli adultere, sentendosi autorizzati dalla loro religione; madri cinesi e giapponesi che avevano ucciso i loro figli e poi tentato il suicidio, sentendosi autorizzate dalla vergogna per l'infedeltà del marito, cosa insopportabile nella loro cultura. In tutti questi casi, compreso quello in cui le imputate sono donne, ad avvantaggiarsi della «difesa culturale» sono prevalentemente i rapporti patriarcali o di supremazia maschile. Il giudice tedesco ha addirittura considerato, con la
 

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motivazione in precedenza citata, che la Sardegna sia un luogo a sé in quanto a tradizioni e cultura, non appartenente all'Italia e all'Europa.
      Tornando all'attenuante culturale, oggetto della presente proposta di legge, bisogna anche considerare il rapporto con la funzione rieducativa della pena di cui all'articolo 27, terzo comma, della Costituzione. La decisione di concedere l'attenuante culturale come attenuante comune di cui all'articolo 62 del codice penale, in questo caso, genera il paradosso di tendere alla rieducazione di un soggetto verso uno stile di vita diverso da quello per il quale, tuttavia, ha ottenuto una riduzione di pena. Inoltre bisogna considerare che l'assenza di parametri certi per poter valutare l'attenuante culturale potrebbe costituire un serio rischio di concedere troppa e indiscriminata discrezionalità ai giudici chiamati a decidere. Per questo occorre codificare la materia, ma nel senso contrario, individuandola come circostanza aggravante comune, proprio per evitare tali arbitri interpretativi e quale deterrente a delinquere. In caso contrario, la prassi giudiziaria del riconoscimento dell'attenuante culturale, quale meccanismo premiale invece che punitivo, rischierebbe di dare vita, anche in nome dell'eugenetica, a un perverso meccanismo di legittimazione di atti contrari alle regole che governano lo Stato italiano, in quanto, in qualche modo, «coperti» dall'origine culturale, etnica e religiosa del soggetto agente, un'assurda giustificazione che non trova alcun riconoscimento eziologico nei princìpi fondanti del nostro ordinamento. Fino alle estreme conseguenze, «in fieri», che anche i terroristi di matrice integralista, o gli estremisti islamici, con siffatte premesse, potrebbero usufruire dello stesso trattamento, magari dopo aver compiuto attentati o aver usato violenza, aver ucciso una donna o aver commesso altre efferatezze. Si rende perciò opportuno, anzi, necessario impedire che l'innesco di questo meccanismo vada avanti e codificare non come circostanza attenuante comune ma come circostanza aggravante comune di cui all'articolo 61 del codice penale quale valido deterrente al crimine, la commissione di reati per ragioni o consuetudini etniche, religiose o culturali, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali, rilevando così, nella predisposizione a delinquere, il background specifico legato alle origini del soggetto. È di questi giorni la notizia della bambina rom di tredici anni di età venduta in sposa e infettata dal marito sieropositivo, che lascia letteralmente sgomenti. Paradossalmente, l'uomo che le ha inferto questa doppia atroce violenza e tutti coloro che sono implicati in questa vicenda aberrante dovrebbero essere puniti in modo rigoroso, con le giuste aggravanti e senza nemmeno la lontana possibilità che un giudice possa essere libero di riconoscere e di applicare attenuanti di matrice culturale. Questa pratica barbara rientra nelle loro tradizioni e non deve costituire motivo di atti criminosi perpetrati nel nostro Paese e ricondotti nell'alveo delle radici etniche e culturali. È giunto il momento, anche per la politica, di prendere coscienza di questo problema, spesso trascurato quando si parla di immigrazione. Eppure è un altro aspetto fondamentale di essa. È evidente, infatti, che inquadrare la questione solo in termini di diritto alla cittadinanza, come strumento propedeutico all'integrazione e non come punto conclusivo di un percorso di radicamento, oppure inasprire le sanzioni per combattere la clandestinità rischia di essere assai riduttivo. Ciò soprattutto in relazione alle comunità islamiche, indiane, arabe e rom presenti nel nostro territorio, le cui usanze barbare e tribali perpetrate da frange integraliste ed estremiste spesso confliggono con il più elementare rispetto dei diritti e della dignità umani, sfociando in delitti aberranti e in violenze. Solo affrontando il nodo culturale che è alla base di questa situazione potremo evitare che nel nostro Paese si formino «enclavi» di illegalità, soprattutto per le donne che vivono all'insegna dell'invisibilità e della sottomissione, e si veicolino reati e delitti sotto l'influsso ancestrale delle radici di origine etnica, religiosa o culturale dell'agente. Con la presente proposta di legge si vuole scongiurare
 

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il ripetersi di simili casi processuali in cui, riconoscendo scriminanti non codificate, legate al rispetto della fede islamica (o alle radici religiose) del reo o al suo vissuto etnico religioso e culturale, quasi si ammettono e giustificano condotte criminose, in nome di princìpi di eugenetica o di leggi estranei al nostro Stato sociale e al nostro sistema ordinamentale, e si concedono riduzioni di pena, in violazione dell'articolo 3 della Costituzione - quindi del principio per cui tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione e opinioni politiche - nonché dell'articolo 3 del codice penale, che stabilisce l'obbligatorietà della legge penale. Devianze inammissibili che vengono, nei predetti casi, addirittura ricollegate alla vulnerabilità genetica, sommata alla necessità di coniugare il rispetto della fede islamica integralista, mescolando contesto etico e genetico, per calcolare la pena. Questo non deve accadere: tali condotte criminose devono essere soggette a pene più pesanti e non devono essere edulcorate, come segno di civiltà e di dignità, di rispetto della persona umana e, ancora di più, della Costituzione e delle leggi del nostro Paese, nonché in attuazione del principio del giusto processo. La presente proposta di legge consta di un articolo unico.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. All'articolo 61 del codice penale è aggiunto, in fine, il seguente numero:

      «11-quater. Se il fatto è commesso per ragioni o consuetudini etniche, religiose o culturali».
    


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