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PDL 5709

XVI LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 5709



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

BELTRANDI, BERNARDINI, FARINA COSCIONI, MECACCI, MAURIZIO TURCO, ZAMPARUTTI

Abolizione del valore legale dei titoli di studio scolastici e universitari

Presentata il 21 dicembre 2012


      

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Onorevoli Colleghi! — Prima di illustrare la proposta, ci appare necessario chiarire, in via preliminare, che cosa si debba intendere con l'espressione «valore legale del titolo di studio», e quale sia il significato che a tale espressione vada attribuito. A tale fine deve subito essere precisato che nessuna legge fornisce una definizione di valore legale del titolo di studio. Ricorreremo, quindi, a quanto scritto nell'indagine parlamentare al riguardo svolta in Senato: «Con l'espressione “valore legale del titolo di studio” si indica l'insieme degli effetti giuridici che la legge ricollega ad un determinato titolo scolastico o accademico, rilasciato da uno degli istituti scolastici o universitari, statali o non, autorizzati a rilasciare titoli di studio [...]. Il valore legale del titolo di studio non è dunque un istituto giuridico che trovi la sua disciplina in una specifica previsione normativa, ma va desunto dal complesso di disposizioni che ricollegano un qualche effetto al conseguimento di un certo titolo scolastico o accademico». A maggior chiarimento «si potrebbe dire che con l'espressione “valore legale” si fa riferimento a quella particolare condizione, sul piano dell'efficacia oggettiva, nella quale l'ordinamento italiano pone i titoli di studio riconosciuti. Ad essi soli la legge annette l'idoneità a produrre determinati effetti giuridici. Un titolo attesta, difatti, in primo luogo il raggiungimento di un determinato tipo o livello di preparazione; e, nel caso di titoli riconosciuti, questa attestazione ha un rilievo particolare essendo fornita di certezza legale e valevole erga omnes». Sulla base di tali
 

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definizioni è evidente che parlare di abolizione del valore legale del titolo di studio appare privo di ogni significato se non si indicano con precisione quali siano le disposizioni normative sulle quali si intende intervenire per cancellare gli effetti che esse attribuiscono al possesso di un determinato titolo di studio. Ed è quanto viene fatto con questa proposta di legge.
      Attualmente il valore legale del titolo di studio fa sì che ogni laurea conferita da una qualsiasi delle tante università italiane abbia lo stesso «peso» nel mercato degli impieghi, soprattutto quelli pubblici o afferenti le professioni liberali. Così gli atenei hanno scarsi incentivi a scegliere docenti preparati; i laureati bravi sono intercettati dal settore privato; le risorse delle famiglie premiano i servizi formativi scadenti. Problemi che si potrebbero superare se si valutasse la qualità delle lauree sulla base non di una presunzione legale, ma di un ranking delle università di provenienza dei candidati.
      Sono quindi numerosi gli scopi che ci spingono ad avanzare questa proposta, primo tra tutti la creazione di un forma di virtuosa concorrenza tra atenei al fine di indurre le università a migliorare la propria offerta didattica e formativa, nonché di fare del merito e della competenza i fondamentali criteri informatori della scelta dei ricercatori e dei docenti, a cui seguirebbe naturalmente un livello di maggiore conoscenza e competenza in capo agli studenti. Un secondo positivo effetto consiste nella possibilità di aprire al mercato le libere professioni e sciogliere i lacci che gli albi stringono attorno a queste, a danno dei concorrenti esclusi e dei consumatori.
      È a tutti nota la difficoltà di valutare l'offerta delle università, in genere pubbliche, e di incentivare queste ultime a migliorarsi. Il nocciolo della questione, sia per quanto concerne la riforma dei concorsi per ricercatori e professori, sia con riguardo alla qualità del servizio offerto, è riassumibile nel lamentato primato dei legami personali sul merito nell'orientare la scelta di chi e come è preposto alla ricerca e all'insegnamento.
      Si consideri che il 90 per cento dei vincitori dei concorsi per ordinario sono interni ed è noto il caso di una giovane ricercatrice italiana, scartata a Modena e Reggio, assegnataria di una cattedra a vita alla Boston University, una delle migliori al mondo. La candidata vantava la pubblicazione di un paio di articoli in due fra le prime cinque riviste del mondo e quattro fra le prime settanta. In ciò superava nettamente i membri della commissione di esame, a digiuno di pubblicazioni nelle prime settanta riviste.
      Il problema più grave, però, è rappresentato dall'individuazione del criterio che di fatto orienta gli studenti nella scelta. Sono molti coloro i quali mirano a laurearsi presto e con un punteggio alto per superare in giovane età un concorso per l'accesso alla pubblica amministrazione, peraltro spesso per poi svolgere funzioni che richiedono competenze diverse rispetto a quelle acquisite durante i corsi di laurea. Agendo razionalmente rispetto al fine, sarà scelto l'ateneo che prospetta loro un cammino più facile e veloce, piuttosto che privilegiare la qualità e la sostanza della formazione offerta. Ciò vanifica qualsiasi speranza di avere una futura classe dirigente con competenze adeguate ai bisogni.
      Rimane, quindi, come premessa a una riorganizzazione del sistema fondata sulla concorrenza e il merito, l'esigenza dell'abolizione del valore legale della laurea. Così facendo, lo studente sceglie l'ateneo per la qualità della formazione che offre, non per il «pezzo di carta», e ogni università porta le conseguenze delle decisioni che prende. Se un gruppo di «baroni» nomina professore il figlio del collega (succede ancora) l'università perde prestigio, fondi legati alla ricerca, studenti e quindi fondi legati agli studenti. Finché la laurea è un mero «passaporto» per accedere al mondo delle professioni e ciò che conta è il punteggio di laurea, lo studente è incentivato a scegliere la sede che gli prospetta minori difficoltà. I professori, d'altra parte, non sono incoraggiati ad andare
 

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oltre una preparazione asettica e manualistica.
      Per lo stesso motivo, un errore ancor più madornale consiste nell'adottare la percentuale di promozioni e di completamento degli studi, la media dei voti e dei punteggi di laurea come indici di produttività e criteri di giudizio degli atenei, poiché si andrebbe a sovrastimare proprio quelli che puntano su un minor impegno (meno pagine, domande più evasive e maggior clemenza) per attirare gli studenti.
      Ne consegue, a nostro avviso, che il miglior modo per creare una virtuosa competizione tra atenei, per indurre gli studenti a scegliere preferibilmente le università migliori e spingere le università ad assumere persone capaci e meritevoli è l'abolizione del valore legale della laurea.       Naturalmente ciò non presuppone una istruzione universitaria di esclusivo appannaggio dei privati.
      Nel Regno Unito, ad esempio, le università sono pubbliche, e rilasciano certificati senza valore legale. Quello che da sempre conta in Gran Bretagna non è tanto il voto finale, quanto l'università di provenienza e la capacità riconosciutale di dare una formazione di qualità. In questo modo, le università sono incentivate a soddisfare la domanda formativa e dare una preparazione idonea all'inserimento nel mondo del lavoro, gli atenei sono messi in competizione tra loro, mirano a conquistare la stima di studenti e imprese, che porta alla naturale conseguenza, per le migliori università, di avere un numero maggiore di domande di iscrizione. Ne consegue una scelta del personale docente e un'organizzazione dei corsi e del lavoro di ricerca finalizzate alla qualità e produttività, anziché alla cooptazione di amici e parenti o alla spartizione del più alto numero di cattedre possibile.
      Se compariamo poi il numero di anni che gli studenti impiegano a completare un corso di laurea, molto al di sopra della media europea, un po’ per la difficoltà degli esami, un po’ per pigrizia, i costi del nostro sistema universitario fanno presto a lievitare.
      Molti economisti ormai esplicitamente menzionano l'abolizione del valore legale della laurea come possibile soluzione alle difficoltà incontrate dagli atenei di fronte alla «massificazione» dell'università.
      Il sudato, e dopotutto costoso, pezzo di carta rilasciato al giorno d'oggi in Italia si riduce a una semplice premessa all'entrata nel sicuro mondo degli albi professionali.
      Più che la preparazione, conta il titolo nominale utile al successivo ingresso in una di quelle associazioni sottratte al libero mercato (solo per fare gli esempi più noti: notai, avvocati, farmacisti, architetti, giornalisti), aree notoriamente protette.
      Il tema dell'abolizione del valore legale della laurea si inquadra sistematicamente in un ampio dibattito sulla liberalizzazione del mercato del lavoro e delle professioni in particolare.
      Entrambi i temi non sono nuovi a uomini di ispirazione liberale che sostengono un fatto solare: la medicina e la salute non appartengono né ai medici, né agli infermieri, né ai farmacisti; l'università non appartiene ai professori (e neanche agli studenti occupanti); l'informazione non appartiene all'ordine dei giornalisti. Solo in un Paese in cui si elimini il valore legale della laurea, studenti e famiglie potranno iniziare seriamente a domandarsi se il professore dell'università locale sia bravo o sia preferibile un ateneo più distante ma dotato di docenti e laboratori in grado di fornire una migliore formazione.
      Inoltre, un giovane di buona volontà ma con scarsi mezzi potrebbe far affidamento sulle proprie capacità, sulla dedizione agli studi da autodidatta, per diventare giornalista; oppure potrebbe risparmiare qualche soldo, non iscrivendosi all'università, ma preparandosi in maniera specifica ai concorsi pubblici o all'esercizio di una professione liberale. Non occorrerebbe più una laurea per dimostrare le proprie capacità nell'esercizio della professione che si predilige.
      Forse si troverebbero altri modi per imparare un'arte (scuole specialistiche, programmi di tirocinio). Ciò incentiverebbe
 

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le università a ottimizzare il rapporto qualità-prezzo, al fine di incoraggiare i giovani a iscriversi, con la prospettiva di potenziare le suddette capacità.       Questi si rivolgerebbero agli atenei per soddisfare domande specifiche: una buona preparazione che effettivamente serva loro a trovare l'occupazione che desiderano ed esercitare con profitto la professione a cui aspirano. La maggiore motivazione che muoverebbe studenti e docenti potrebbe anche ridurre il tasso di abbandono (oggi elevatissimo, superiore al 60 per cento) e ridurre i tempi di laurea. Studenti e docenti motivati non vedrebbero più le aule, oggi gremite, come un parcheggio, un rilassante e lungo purgatorio in attesa della lotta vera per l'inserimento nel mondo del lavoro, mondo che oggi si incontra molto tardi, al fine di poter brandire come un'arma quel pezzo di carta che, dopotutto, ce l'hanno, prima o poi, tutti.
      L'argomento secondo il quale abbiamo bisogno di uno Stato che certifichi la qualità di un servizio, che chiuda l'ingresso al mercato a soggetti ritenuti non in grado di soddisfare il consumatore è sostenuto con forza. Una delle argomentazioni si basa sulla constatazione che l'abolizione del valore legale è già intervenuta de facto con la frammentazione dell'offerta didattica e la moltiplicazione dei corsi di laurea prodotte dalla riforma «3 più 2», poiché renderebbe inefficace ogni tentativo da parte dello Stato di certificare il valore dei titoli conseguiti.
      L'argomento opposto alla proposta è, quindi, la supposta necessità dell'intervento dello Stato ad assicurare i cittadini su ciò che l'università fornisce.
      Questa impostazione ci appare fuorviante, poiché la qualità non coincide con la quantità, ed è difficile da contabilizzare. I parametri potrebbero essere diversi. Se prendiamo come parametro l'ammontare di nozioni assorbite e lo sforzo necessario a studiare un alto numero di pagine, le università italiane, a prescindere dall'impegno infuso dal corpo docente, già sopravanzerebbero probabilmente quelle inglesi e statunitensi.
      Ma la lista dei parametri possibili è interminabile (professionalizzazione, esperienze applicative, capacità di ricerca individuale, uso delle nuove tecnologie, ma anche servizi offerti dall'ateneo, infrastrutture, rapporto docenti-discenti. Chi certifica la capacità dello Stato di attestare la bontà di un servizio secondo coordinate indiscutibili e universalmente accettate? Ogni lavoro privato e ogni ruolo nella pubblica amministrazione richiede una miscela di diverse capacità e un particolare bagaglio culturale-nozionistico, per cui nel complesso è il mercato il luogo capace di rilasciare le molteplici certificazioni che si pretendono.
      In Inghilterra sono le testate giornalistiche, quelle che riscuotono la maggior fiducia del pubblico come il Times e il Guardian, a stilare le classifiche degli atenei proponendo diversi criteri. Le informazioni sulle qualità, i pregi e i difetti delle università e della preparazione che impartiscono circolano tra studenti e datori di lavoro e certificano la bontà, sempre soggettiva, dell'offerta formativa. In poche parole è il mercato a certificare la qualità e l'efficienza.
      La flessibilità, questa volta, tocca i docenti e i presidi, anziché i lavoratori. Senza voler sminuire la nostra tradizione, la capacità di analisi e l'ampiezza del bagaglio di sapere di cui la nostra università ci nutre, è facile rendersi conto che un'apertura a questo tipo di approccio potrebbe portare a dei miglioramenti, soprattutto sul piano dei servizi, delle modalità della didattica, del grado di professionalizzazione, dell'interattività con i docenti (spesso i contatti si limitano alla prima lezione del corso e al giorno dell'esame, salvo accidentale incontro facendo la fila in segreteria, immancabilmente non riconosciuti).
      L'abolizione del valore legale della laurea costringerebbe le università a cercare di comprendere le molteplici domande espresse dai giovani e dal mondo del lavoro, per offrire servizi ad esse rispondenti.
      Si consideri poi che nessuna università rischierebbe un collasso di iscritti. L'effetto
 

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di una simile scelta sarebbe la fuga di quanti desiderano, o non escludono, un giorno, di voler esercitare le professioni liberali o concorrere per un posto nella pubblica amministrazione.
      Un'università che insegna il modello comportamentale razionale rispetto allo scopo non può permettersi un simile danneggiamento. Infatti, la massima utilità complessiva per il Paese si otterrebbe ponendo l'istruzione universitaria come ponte per lo sviluppo del sistema economico. Più risorse, più internazionalizzazione, più stretti legami con il mondo imprenditoriale sono i concetti chiave da divulgare e realizzare.
      Il ranking internazionale, la comparazione con altri sistemi per ora ci vede in una posizione indecorosa. Partendo dall'abolizione qui proposta, si otterrebbe una maggior dose di concorrenzialità nel mondo accademico, così come nei servizi delle libere professioni, con grande beneficio dei consumatori e dei giovani che chiedono un'università di qualità e che desiderano inserirsi nel mondo del lavoro.
      L'abolizione del valore legale dei titoli di studio apre nuove realtà al libero mercato trovando il favore delle fasce più deboli: a tutti, infatti, gioverebbero riduzioni delle parcelle di notai e avvocati, anche per le piccole transazioni o contese legali, mentre ai giovani in cerca di occupazione sarebbero offerte maggiori opportunità.
      Gli argomenti menzionati, a favore di una riforma radicale e a costo economico zero, sono avversati da quasi tutte le forze politiche solo perché esse sono preoccupate del loro possibile costo politico, poiché intaccherebbe interessi di parte bene organizzati.
      È però necessario far crescere i talenti migliori del Paese per avere un futuro migliore, aprendo le porte del mondo del lavoro ai laureati migliori, dando loro, sulla base del merito, maggiori opportunità di lavoro. Sarà necessario lo sviluppo autonomo e diffuso, spontaneo ed efficace di un sistema di valutazione delle università per spingerle a migliorare i propri servizi. Un traguardo che prevedibilmente sarà sofferto e il cui significato vedrà il tentativo di edulcorazione e diluizione sotto la pressione degli interessi organizzati.
      Interessi specifici, egoistici, volti solo al proprio vantaggio personale e che danneggiano il complessivo sistema Paese. Un gioco a somma negativa, dal quale dobbiamo prendere le distanze per rimanere nel novero dei Paesi in grado di guidare lo sviluppo.
      L'unico modo per risolvere i problemi dell'università italiana, in altre parole, è lasciare che chi si serve dei titoli di studio sia libero di attribuire rilevanza ai titoli che ritiene maggiormente significativi e da cui si sente più garantito.
      Ripetiamo che, attualmente, le università hanno scarsi incentivi a scegliere docenti bravi e ricercatori impegnati. Sia che la lezione la tenga il figlio o l'amico del «barone» locale, sia che la tenga un futuro premio Nobel, la laurea vale sempre lo stesso. Perché dunque cercare di reclutare il futuro premio Nobel?
      Si consideri inoltre che, mentre il settore pubblico non può distinguere tra lauree, quello privato lo può fare, almeno in parte, basandosi sui diversi ranking oggi disponibili. Ciò implica che, ad esempio, la clinica privata, diversamente dall'azienda sanitaria locale, può scegliere di assumere un dottore che viene da un'ottima facoltà di medicina, scartando liberamente quello che viene da una facoltà non selettiva, anche se ha un voto di laurea più alto. In tal modo, si innesta un meccanismo perverso per cui i laureati bravi sono intercettati dal settore privato, mentre quelli scadenti sono lasciati al settore pubblico.
      Dato che ogni laurea, ovunque ottenuta, vale lo stesso sul mercato (almeno su quello pubblico), molte famiglie non selezionano le università in base alla loro qualità, anzi sono tentate di iscrivere i loro ragazzi dove i corsi sono più facili e i voti dati più generosi.
      Superando l'attuale sistema si ridurrebbero fortemente tutti i suoi effetti negativi. Si segnalerebbe alle famiglie, in maniera immediata e facilmente comprensibile, che l'iscrizione presso una università o facoltà
 

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seria e selettiva è un investimento pagante in termini di futura occupazione dei figli, mentre iscriversi a un'università scadente penalizzerebbe il figlio al momento della ricerca di occupazione; fornirebbe informazioni precise ai datori di lavoro, sia pubblici che privati, sull'effettiva preparazione dei giovani che intendono assumere, in base all'università di provenienza; indurrebbe le università a cercare di migliorare i loro servizi formativi e la ricerca, in modo da ottenere una posizione migliore nei ranking; indirizzerebbe il flusso delle risorse delle famiglie verso le università di qualità invece che verso quelle scadenti, ottimizzando l'utilizzo delle stesse.
      Questa la situazione attuale. Eppure l'Italia, dalla nascita della Repubblica, è profondamente mutata e la stessa università si è trasformata, divenendo università di massa e non più di élites.
      Luigi Einaudi, nel 1955, scrisse un breve saggio sulle pagine di Scuola e Libertà dal titolo: «Per l'abolizione del valore legale del titolo di studio».
      Ci piace riprodurlo integralmente perché, a problemi antichi, dobbiamo dare soluzioni moderne, già indicate dallo statista liberale. Il non averlo ascoltato per tempo ci ha impoveriti culturalmente, socialmente, economicamente. Potremmo oggi recuperare parte del terreno perso, realizzando il suo preveggente e lucido disegno.
      «Il valore legale del titolo di studio ha, nel sistema napoleonico, taluni effetti e principalmente quello di esclusiva. Solo i diplomati in medicina e veterinaria sono medici o veterinari; solo i diplomati in otolaringoiatria hanno diritto di farsi dentisti; solo i diplomati di ingegneria di costruire ponti e case e via dicendo. Privilegio gravissimo; perché salvo due o tre casi interessanti la salute e la incolumità pubblica, non si vede perché, se così piace al cliente, il ragioniere non possa fare il mestiere del dottor commercialista, il geometra quello dell'agronomo ed il contadino attento e capace quello del diplomato in viticoltura ed enologia. Il peggio è che l'esclusiva partorisce la legittima aspettativa. Il giovane diplomato al quale è stato dichiarato che, in virtù di legge, egli soltanto ed i suoi pari hanno diritto ad esercitare la professione libera dell'avvocato o procuratore od a partecipare ai concorsi banditi da questo o da quel ministero, ad essere scelti periti in determinate controversie giudiziarie, a ricevere incarichi temporanei di supplenze scolastiche, trasforma volentieri il diritto suo teorico di esclusiva in legittima aspettativa; ed aspettando, talvolta invano, finisce per entrare nella cerchia di coloro che sono definiti “disoccupati intellettuali”. Il giovane, al quale i bolli e le firme di personaggi autorevoli e forniti di autorità legale hanno fatto sperare di potere esercitare professioni o coprire pubblici impieghi, diventa moralmente disoccupato se non consegue quel successo professionale o non riesce ad entrare in quell'ufficio che dal possesso del diploma si riprometteva di conseguire.
      Poiché nulla dice che impieghi ed avviamenti professionali debbono essere ogni anno vacanti in numero uguale a quello degli aspiranti licenziati o diplomati, nasce la delusione. In verità il concetto medesimo della disoccupazione “intellettuale” è concetto assurdo, ove sia considerato distintamente da quello della disoccupazione in genere; la quale può, di tempo in tempo, variabilmente colpire molte o poche o parecchie branche dell'attività umana. La dottrina ha inventato parole nuove per indicare i diversi generi di disoccupazione; e, fra l'altre, quella di “strutturale” per indicare una disoccupazione che parrebbe più duratura di altre e dipenderebbe da non so quali vizi detti di struttura della organizzazione economica della società odierna. Qualunque siano questi vizi, parmi certo che il vizio situato alla radice della disoccupazione degli intellettuali in Italia sia la aspettativa dell'impiego pubblico o della professione remunerata privata fatta legittima dall'istituto del valore legale dei diplomi rilasciati da pubbliche autorità.
      Se il diploma non fosse stato fornito degli amminicoli esteriori, in cui soltanto sta la sostanza del valore legale, forse non sarebbe nato il sentimento morale della
 

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disoccupazione; forse il diplomato non avrebbe avuto la sensazione di essere divenuto un minorato solo perché frattanto avesse seguitato ad attendere alle cose della terra o della bottega o del mestiere di suo padre o dei suoi.
      Forse non avrebbe pensato di decadere se, in attesa, avesse fatto il manovale od il meccanico. Il diploma l'avrebbe tirato fuori il giorno in cui taluno, vedendolo lavorare, si fosse interessato a lui ed ai suoi precedenti; e quel giorno il diploma avrebbe avuto un valore ben diverso e più alto di quello legale, fatto valere attraverso le solite lettere di raccomandazione di amici, parenti, personaggi autorevoli, deputati, senatori, ministri; lettere produttrici di altre lettere, di tempo sprecato e di lentezza amministrativa.
      Forse; perché quando in un paese da un secolo e mezzo è inoculato il veleno del “valore legale” è vano sperare che, se anche quel valore fosse negato, vengano meno, non aiutando il costume, i suoi effetti. Che sono di irrigidimento del meccanismo sociale, di formazione di un regime corporativo di caste l'una dell'altra invidiosa, ciascuna intenta ad impedire all'altra di lavorare diversamente da quel che è scritto nelle leggi e nei regolamenti; e tutte intente a cercare occupazione, salari, stipendi là dove non si possono ottenere e cioè nei vincoli posti alla libertà di agire degli uomini.
      Il mito del “valore legale” del diploma scolastico è davvero insostituibile? Un qualunque mito è accettato se e finché nessun altro mito è reputato per consenso generale più vantaggioso. Il giorno in cui si riconobbe che il metodo del rompere la testa agli avversari politici era caduto in discredito – ma era durato a lungo, per secoli e per millenni – e si accettò la tesi del contare le teste invece di romperle, l'accettazione non si basò su un ragionamento. Si sarebbe dovuto supporre, per giustificare la razionalità del sistema, che tutte le teste fossero ugualmente atte alla scelta politica; laddove è noto che talune teste sono pensanti e le altre meramente ricettive del pensamento altrui; che le une sono fornite dell'attitudine a pensare, riflettere e giudicare, le altre sono del tutto impulsive; che alcune teste sono preparate e le altre del tutto digiune di qualsiasi voglia e capacità di preparazione alla scelta politica. Ma subito si dovette riflettere che la scelta fra certi tipi di teste e certe altre avrebbe dovuto essere fatta da giudici non solo sapienti ma imparziali ed incorruttibili; sicché, per la difficoltà di valutare le teste, e per il pericolo di ritorno al vecchio sistema di romperle per affidare la scelta politica alle più dure, si preferì, come al minor male, ricorrere al sistema di contarle. Che non è razionale ed è un mito, destinato a durare sinché non se ne inventi uno migliore. Da quel che pare durerà a lungo, anche perché ha operato tollerabilmente bene in tutti i paesi ed i tempi nei quali si è riusciti, con l'istruzione, l'educazione, l'esperienza e la discussione, a ridurre al minimo il rischio che i non pensanti piglino il sopravvento sui pensanti.
      Il mito del valore legale dei diplomi statali non è, dicevasi, fortunatamente siffatto da dover essere accettato per mancanza di concorrenti. Basta fare appello alla verità, la quale dice che la fonte dell'idoneità scientifica, tecnica, teorica o pratica, umanistica, professionale non è il sovrano o il popolo o il rettore o il preside o una qualsiasi specie di autorità pubblica; non è la pergamena ufficiale dichiarativa del possesso del diploma. Ogni uomo ha diritto di insegnare e di affermare che il tale o tal altro suo scolaro ha profittato del suo insegnamento. Giudice della verità della dichiarazione è colui il quale intende giovarsi dei servizi di un altro uomo, sia questi fornito o non di dichiarazioni più o meno autorevoli di idoneità. Le persone o gli istituti i quali, rilasciando diplomi, fanno dichiarazioni in merito alla dottrina teorica od alla perizia pratica altrui godono di variabilissime reputazioni, hanno autorevolezze disformi l'uno dall'altro. Si va da chi ha aperto una scuola e si è acquistato reputazione di capace o valoroso insegnante in questo o quel ramo dello scibile; ed un tempo, innanzi al 1860, fiorivano, particolarmente in Napoli,
 

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codeste scuole private ad opera di uomini, che furono poi segnalati nelle arti, nelle lettere e nelle scienze. Che cosa altro erano le “botteghe” di pittori e scultori riconosciuti poi sommi, se non scuole private? V'era bisogno di un bollo statale per accreditare i giovani usciti dalla bottega di Giotto o di Michelangelo? Accadde si radunassero taluni venuti in fama di dotti e gli scolari accorressero ad apprendere dalle “letture” di essi i rudimenti del diritto o della medicina o della filosofia. Si insegnò e si apprese innanzi che, attratti dalla fama acquistata da lettori e scolari, intervenissero imperatori e papi e re a dichiarare l'esistenza di un corpo, detto Università degli studi, ed a conferire al corpo il diritto di rilasciar diplomi di baccelliere, di maestro o di dottore. Nei conventi degli ordini religiosi convennero uomini dediti alla meditazione ed insegnarono ai giovani chiamati da intima vocazione ad entrare nell'ordine; e i collegi di Oxford o di Cambridge risalgono spesso a questa origine ed i membri si dicono fellows o frati ed hanno a capo un warden o padre guardiano. Chi diede loro la facoltà di insegnare e giudicare? Il sovrano poi sanzionò il fatto già accaduto, la fama già riconosciuta; ma la fonte del diritto di insegnare e dichiarare non era il diploma imperiale o la bolla papale; era invece il riconoscimento pubblico spontaneo di un corpo di facoltà nato dal fatto, e affermato dalla gelosa tutela del buon nome del collegio insegnante. Il riconoscimento viene meno ed i diplomi perdono valore quando lo spirito di abnegazione dei monaci insegnanti si affievolisce; quando il crescere del reddito dei patrimoni dei corpi insegnanti rende appetibili le cattedre per motivi diversi da quelli scientifici e le cariche si danno a prebendari favoriti o simoniaci. Altre scuole, altri corpi, altri collegi sorgono contro i corpi ribassati o decadenti o corrotti.
      Ancor oggi, questo è il tipo dominante nei paesi anglosassoni. Non ordine, non gerarchia, non uniformità, non regolamentazione, non valore legale dichiarato dallo stato; ma disordine, varietà, mutabilità, alegalità dei diplomi variamente stilati che ogni sorta di scuole, collegi, università rilascia, per l'autorità che formalmente deriva bensì, e non sempre, da un diploma regio, da una carta di incorporazione; ma diplomi e carte non sono nulla di più e forse parecchio di meno dei decreti di riconoscimento di corpi morali, di associazioni filantropiche, di enti più o meno economici, di personalità giuridiche con contenuto variabile, i quali sono firmati ogni anno in Italia da ministri e da presidenti di repubblica e non hanno di fatto alcun ulteriore, come era la terminologia d'un tempo, tratto di conseguenza.
      Una diversità tipica, sebbene non necessaria, vien fuori dal confronto delle parole diverse usate per fatti uguali nel nostro paese e in quelli anglosassoni; ed è la minor frequenza, qui, del titolo dottorale. La singolarità nasce dalla mania del titolo cresciuta oltremisura da noi; sicché ciascuno si riterrebbe disonorato se, dopo aver frequentato una scuola universitaria, non fosse almeno proclamato “dottore” in qualche cosa, e si videro uomini appartenenti a professioni illustri agitarsi per “conquistare” il diritto di aggiungere all'antico appellativo di ingegnere, che veramente li distingue e li illustra, l'altro di dottore, atto soltanto a creare confusione; e pure si videro i ragionieri, venuti con quell'insegna in giusta reputazione, non aver requie sinché a coloro che avevano proseguito negli studi non fosse concesso l'uso del titolo di dottore commercialista, quasi che la nuova denominazione non fosse meno propria di quella antica. La generalizzazione del titolo dottorale, altra conseguenza del mito del valore legale, reca non onore, ma discredito. Non forse nell'uso comune soltanto i medici son detti dottori? È credibile che vivano in un paese tanti uomini dotti quanti hanno diritto di chiamarsi, a decine o a centinaia di migliaia, dottori? Fu caratteristico, nel tempo di vacanza, in Italia, dei titoli cavallereschi, tra il venir meno degli insigniti della Corona d'Italia e il non ancor nato ordine al merito della Repubblica,
 

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il moltiplicarsi dei “dottori” nei ministeri romani. Non potendo più rivolgere la parola ai funzionari come a cavalieri e commendatori, tutti, nell'uso degli uscieri e dei postulanti, divennero “dottori”, facendo quasi scadere il valore dell'appellativo al grado di quello di “eccellenza”, usitato dai lustrascarpe e dai vetturini napoletani verso tutti i loro clienti».
      Con l'articolo 1, comma 1, si dispone l'abolizione del valore legale dei titoli di studio scolastici: con l'articolo 1, comma 2, si dispone l'abolizione del valore legale dei titoli di studio universitario; con l'articolo 2 si abroga il complesso di disposizioni presenti nell'ordinamento che ricollegano un qualche effetto giuridico al conseguimento di un certo titolo scolastico o accademico.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.
(Abolizione del valore legale dei titoli di studio scolastici e universitari).

      1. È abolito il valore legale dei titoli di studio rilasciati dalle scuole pubbliche e private di ogni ordine e grado per l'accesso agli uffici pubblici, alle professioni e alle università pubbliche e private.
      2. È abolito il valore legale dei titoli di studio universitari e post-universitari rilasciati dalle università pubbliche e private per l'accesso agli uffici pubblici e alle professioni.
      3. Nell'esercizio della propria autonomia le università possono stabilire che il possesso di determinati titoli, universitari o post-universitari, è richiesto per l'accesso a specifici corsi di specializzazione universitaria successivi alla laurea.
      4. Restano ferme le disposizioni vigenti che prescrivono un esame di Stato per l'abilitazione all'esercizio professionale, ai sensi dell'articolo 33 della Costituzione.

Art. 2.
(Abrogazione e soppressione di norme e disposizioni finali).

      1. All'articolo 172 del testo unico delle leggi sull'istruzione superiore, di cui al regio decreto 31 agosto 1933, n. 1952, le parole da: «, cui sono ammessi soltanto» fino alla fine dell'articolo sono soppresse.
      2. L'articolo 16, comma 4, lettera e), della legge 9 maggio 1989, n. 168, e gli articoli 3, comma 6, e 4, comma 4, della legge 19 novembre 1990, n. 341, sono abrogati.
      3. Al testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili

 

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dello Stato, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, sono apportate le seguenti modificazioni:

          a) all'articolo 161, comma 1, le parole: «siano muniti di diploma di laurea e» sono soppresse;

          b) all'articolo 173, comma 1, le parole: «muniti di diploma di istituto di istruzione secondaria di secondo grado ed» sono soppresse;

          c) all'articolo 182, comma 1, le parole: «muniti di diploma di istituto di istruzione secondaria di primo grado ed» sono soppresse;

          d) all'articolo 190, comma 1, le parole: «abbiano compiuto gli studi di istruzione obbligatoria e» sono soppresse.

      4. Le disposizioni della presente legge si applicano a decorrere dal 1o gennaio del secondo anno successivo a quello della sua entrata in vigore.


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