COMMISSIONE XI
LAVORO PUBBLICO E PRIVATO

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 19 novembre 2008


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE STEFANO SAGLIA

La seduta comincia alle 8,50.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti della Confederazione europea dei sindacati.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'assetto delle relazioni industriali e sulle prospettive di riforma della contrattazione collettiva, l'audizione di rappresentanti della Confederazione europea dei sindacati.
Do la parola al segretario confederale della Confederazione europea dei sindacati, Walter Cerfeda, che ringrazio per la sua presenza.

WALTER CERFEDA, Segretario confederale della Confederazione europea dei sindacati. Sono Walter Cerfeda; da sei anni sono segretario confederale della Confederazione europea dei sindacati e da sei anni ho la responsabilità del coordinamento della contrattazione collettiva in Europa.
Parlare di contrattazione collettiva in Europa, e in particolare della struttura di quest'ultima, è molto complicato. Cercherò di essere molto breve e di fornire gli elementi essenziali che possano raffigurare ciò che avviene.
Vi sono grandi diversità nei 27 Paesi che compongono l'Unione europea. Si potrebbe dire, banalmente, che ogni storia economica e sociale di un Paese produce una struttura di contrattazione diversa. Non c'è un tratto europeo di contrattazione; si può rinvenire piuttosto un aspetto molto specifico e dettagliato nelle storie dei diversi Paesi che compongono la comunità europea, sebbene, ovviamente, vi siano dei elementi comuni.
Ad esempio, nei 12 Paesi che sono entrati a partire dal 2003 - ad eccezione della Slovenia - a seguito del loro specifico percorso storico, la contrattazione avviene essenzialmente a un solo livello, molto ridotto da un punto di vista aziendale, ed è praticata nelle filiali dei gruppi multinazionali. Per il resto, il tasso di copertura contrattuale nei nuovi Stati membri è assolutamente insufficiente. I contratti di categoria, come li conosciamo nell'esperienza della vecchia Europa in Italia, praticamente non esistono, se non in alcune strutture che derivano, come dicevo, dalla storia di questi Paesi.
Tali contratti, ad esempio, esistono in Ungheria, in Polonia e nella Repubblica ceca nei settori della sanità e della scuola, oppure nel settore industriale e nei vecchi settori centrali dello Stato nati prima della caduta del muro. Esiste il contratto collettivo delle miniere in Polonia o il contratto della siderurgia che è rimasta come industria fondamentale nelle Repubbliche baltiche e in Ungheria. Si tratta, comunque, di una situazione molto disomogenea e in grande difficoltà.


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Vorrei passare, invece, ai punti fondamentali della contrattazione nella vecchia Europa, dove tale struttura è più solida e più continua, con l'eccezione dei Paesi anglosassoni. Come voi ben sapete, infatti, in Inghilterra esiste soltanto il livello aziendale di contrattazione come livello fondamentale in cui si esplicano le relazioni industriali e i rinnovi contrattuali.
In Irlanda, invece, c'è una struttura di contrattazione eccentrica rispetto al resto d'Europa; è una struttura molto curiosa che esiste soltanto in quel Paese, ma funziona: ogni tre anni viene convocato un incontro tra il Governo in carica e le parti sociali; si individua la crescita del PIL per il triennio successivo e si decide in quella sede, attraverso un negoziato tra le parti sociali e il Governo, la quota del PIL che è giusto destinare al lavoro. Compiuta questa operazione, per tre anni, i lavoratori irlandesi sono coperti rispetto alla crescita prevista del PIL, per la quota che viene destinata al lavoro, e nei tre anni di vigenza contrattuale ovviamente è libera la contrattazione aziendale che può aggiungersi a questa ripartizione del PIL a livello centralizzato.
I sistemi, invece, più solidi su cui conviene riflettere e dei quali è opportuno conoscere meglio il funzionamento sono il sistema continentale, adottato in Germania, Austria e Olanda, e il sistema scandinavo che mette insieme Svezia, Finlandia, Danimarca e Norvegia. Questi due sistemi hanno un tratto comune, ovvero sono a base settoriale. In altre parole, la struttura contrattuale è definita a livello di categoria. Il livello di indirizzo confederale esiste sia in Svezia sia in Germania ed è abbastanza proceduralizzato: in primavera normalmente c'è un incontro tra il Governo e le parti sociali per discutere la programmazione di ciò che avviene a livello macroeconomico nel Paese; si individua in questa discussione interconfederale la crescita possibile del PIL, il tasso di inflazione, il tasso di investimento, il tasso di produttività. Tuttavia, queste indicazioni confederali non sono prescrittive, ma orientative, di indirizzo.
Essendo la contrattazione su base settoriale, ciascun settore decide poi, assunti questi indirizzi, come comportarsi, in totale autonomia. È capitato proprio in questi giorni in Germania che la sede di indirizzo interconfederale avesse fissato per il biennio 2008-2009 un tasso di inflazione programmata dell'1,8-1,9 per cento - quindi sotto il 2 per cento fissato dalla Banca centrale europea per un montante di 3,7 - ma che la categoria dei metalmeccanici tedeschi abbia rivendicato per i due anni un aumento dell'8 per cento in totale autonomia, valutando che il ciclo economico congiunturale e la forte crescita dei profitti negli anni precedenti delle grandi imprese metalmeccaniche consentisse loro di rivendicare quella dimensione di cifra, composta da una dinamica di inflazione, più un «risarcimento» dei profitti che dovrebbero essere riconosciuti anche al lavoro.
Come voi sapete, questa vicenda contrattuale meccanica si è chiusa la settimana scorsa non con l'8 per cento rivendicato, ma con il 4,2 per cento di soluzione contrattuale; non su 24, ma su 18 mesi.
A questo proposito, vorrei segnalare un secondo aspetto, ovvero la durata dei contratti. Nei sistemi contrattuali forti dell'Europa, continentali e scandinavi, i contratti assumono la caratteristica - uso uno slogan per brevità - di essere corti e pieni, a differenza dell'esperienza che abbiamo accumulato in Italia negli anni precedenti di contratti lunghi: mi riferisco, ad esempio, al 2 più 2 del Protocollo del 1993 o all'attuale proposta avanzata da CGIL, CISL e UIL, che è unica in tutta Europa e non esiste in nessun altro Paese, di un contratto triennale.
In Europa nessuno scommette su un periodo lungo, ma si assume un atteggiamento molto più pragmatico e si stabilisce un contratto corto di vigenza che va dai 12 ai 24 mesi al massimo; quasi sempre si chiude sui 15-18 mesi. Il vantaggio è quello di poter coprire per il tempo dato, in maniera piena - per questo sono definiti «corti e pieni» - il potere d'acquisto, perché nel tempo breve è possibile osservare la dinamica congiunturale, prevedere


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come proceda il ciclo e che andamento abbia l'inflazione, senza perdersi in fumisterie tra inflazione percepita, programmata e successivi riallineamenti, fattori molto barocchi. In questo modo, invece, si compie un'operazione secca: si prevede, ad esempio, che in Germania l'inflazione aumenterà del 3 per cento e si chiede, dunque, il 3,1 per cento per coprire, per quell'anno, in maniera piena, l'insieme dei lavoratori.
Questo sistema consente, inoltre, il riaggiustamento. Ad esempio, ho citato poco fa il caso del sindacato metalmeccanico tedesco che aveva chiesto l'8 per cento; successivamente si era reso conto della recessione attuale e ha chiuso al 4. Se, invece, ci si lega a un ciclo lungo, non si può prevedere, in epoca di globalizzazione, nei successivi tre anni quale sarà il tasso di inflazione, quanto aumenteranno le materie prime, quale sarà l'inflazione importata. Si rischia di perdersi in complicazioni molto gravi.
In Europa si adotta, dunque, un contratto corto e pieno: non esistono clausole di riallineamento se non nel contratto spagnolo; inoltre, soltanto in Belgio esiste la scala mobile come elemento che può affiancare i contratti per recuperare il potere d'acquisto in caso di scostamento tra l'inflazione programmata e l'inflazione reale. Tuttavia, questi due elementi, unici ed eccezionali in Europa, hanno una controindicazione. Il Belgio, che è l'unico Paese che mantiene la scala mobile, ha però anche il tasso di inflazione più alto di tutta Europa: siamo al 6,1 per cento, proprio perché si rincorrono i prezzi. Pertanto, con l'insorgere dei prezzi caldi, che abbiamo avuto fino a qualche mese fa, delle materie prime energetiche e di quelle alimentari, il Belgio si è trovato nei guai.
La Spagna, invece, dove vige il contratto di riallineamento - ovvero in caso scostamento, si recupera ogni due anni - ora che si trova in un forte processo di recessione economica, la Confindustria spagnola ha chiesto formalmente al Governo in carica di sospendere il riallineamento per evitare la ripresa dell'inflazione, che in Spagna è salita al 5,4 per cento.
Occorre, dunque, adottare un contratto corto e un contratto pieno, scelta che ha una conseguenza sui livelli di contrattazione. In Europa non esistono i due livelli distinti di contrattazione; anche questa è una peculiarità soltanto italiana. Esiste in Europa un solo livello che si snoda o si può snodare in due fasi, ma non due livelli proceduralizzati distinti e ambedue acquisitivi, come avviene nell'esperienza italiana.
Spiego molto semplicemente in cosa consiste un solo livello che si snoda in due fasi. Nei Paesi scandinavi, ad esempio in Danimarca e in Finlandia, dove il contratto dura 24 mesi, si decide di disciplinare i due livelli in questa maniera: per 24 mesi viene concordato il contratto nazionale, nei 24 mesi successivi si stabilisce soltanto la contrattazione aziendale. Nei 24 mesi ancora successivi, si redige di nuovo il contratto nazionale per portare a sintesi ciò che la contrattazione ha disperso. Si tratta, però, di un solo livello che si divide e si proceduralizza in due fasi.
In Svezia e in Norvegia, invece, viene compiuta un'operazione differente, nel senso che anche in questi Paesi il contratto dura solo 24 mesi, ma il contratto collettivo nazionale disciplina minimi salariali e condizioni di lavoro. Il secondo livello, che è più libero di quello danese e finlandese, è un livello applicativo. Non si ha titolo a rivendicare nulla, se non il salario, e non si può intervenire sulla condizione di lavoro che è disciplinata dal contratto nazionale. Questo, evidentemente in Svezia e in Norvegia spinge ad una contrattazione salariale a livello aziendale solo se le condizioni ci sono, ovvero se c'è una azienda che va molto bene e si valuta di poter intervenire sui margini di produttività e di redditività di quell'impresa.
In Germania, il livello contrattuale essenziale è uno solo e il contratto collettivo di lavoro dura da 18 a 24 mesi al massimo. Il secondo livello è partecipativo, dove è possibile avanzare piattaforme (non


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vi è il divieto di poterle presentare), ma la presentazione della piattaforma, anche in questo caso, avviene soltanto in materia salariale, se le condizioni dell'impresa lo permettono, ossia se vi sono un margine di una produttività, di redditività o di profittabilità che consentano questa operazione. Tuttavia, l'intero sistema tedesco è incentrato su una forte rete di relazioni industriali e partecipative, per cui tutto l'insieme delle condizioni di lavoro (orari e inquadramento) è disciplinato in maniera partecipativa da commissioni e da enti bilaterali interni all'impresa. Il comitato di sorveglianza, invece, è il luogo in cui il sindacato, conoscendo la strategia e le politiche di crescita dell'impresa, può anche decidere di avanzare una rivendicazione salariale specifica alla Volkswagen, o alla Bosch, o alla Siemens. Ma è anche vero il contrario, come è successo nel 2005-2006, quando le grandi imprese hanno avanzato piattaforme al sindacato.
Mi riferisco ai famosi accordi di concessione per cui, per evitare la delocalizzazione nel 2005-2006 di grandi imprese come la DaimlerChrysler, la Opel, la Bosch e la Siemens, è stato contrattato l'aumento dell'orario di lavoro a 45 ore (pagate 35), per rafforzare la produttività.
La valvola di flessibilità dei contratti tedeschi è data essenzialmente da due elementi: la clausola d'uscita dal contratto nazionale di lavoro, che è disciplinata dai contratti di lavoro, e l'applicazione non erga omnes dei contratti.
Voi sapete che la clausola d'uscita significa la possibilità di rinnovare il contratto - concordato, ad esempio, fra sindacato e associazione delle imprese metalmeccaniche, per rimanere in questo settore - ma di decidere, in sede di rinnovo del contratto, che in una certa regione (può essere l'Assia o la Baviera) quel 4,2 per cento non è sopportabile. Si stabilisce, dunque, che in quella regione non sarà applicato questo contratto e si avvierà una contrattazione a livello regionale finalizzata alla stesura di un contratto specifico corrispondente alle possibilità di quelle imprese e alle condizioni di lavoro da applicare in quella specifica area territoriale.
Si chiama clausola «di uscita» perché è previsto il rientro: si decide di sospendere per un certo numero di anni l'applicazione del contratto nazionale di lavoro in territori dove ci sono condizioni differenti; pensate alle regioni che provengono dalla vecchia Germania dell'est. Questa consente una grande flessibilità alla contrattazione nazionale.
Un secondo fattore di flessibilità è dato dal fatto che i contratti sono applicati alle imprese che fanno parte dell'associazione che redige il contratto; per esempio, in Germania abbiamo Gesamtmetall, che è l'equivalente di Federmeccanica. Se, dunque, l'impresa Müller decide che il contratto che ha rinnovato la sua federazione di categoria, la Gesamtmetall, è troppo oneroso, si disaffilia e il contratto non sarà applicato in quella impresa. In quel caso, la procedura prevede che si svolga la contrattazione aziendale che porterà ad ottenere ciò che i lavoratori e l'impresa Müller riusciranno a realizzare al di fuori del contratto nazionale di lavoro.
In tal modo, il tasso di copertura contrattuale in Germania è molto variabile: varia da una categoria all'altra e da un contratto all'altro. È arrivato a un picco del 91 per cento ed è sceso ultimamente al 57 per cento, perché la libertà di disaffiliarsi e le clausole d'uscita consentono al contratto di respirare attraverso la capacità di adeguarsi all'effettiva realtà aziendale o territoriale che esiste in quel Paese. Questo sistema spinge alla ragionevolezza delle parti sociali, perché se viene redatto un contratto irragionevole dal punto di vista della condizione economica, si verifica la disaffiliazione immediata e la conseguenza è non solo la perdita dall'associato, ma anche la caduta del tasso di copertura.
Vediamo ora su cosa si basa la contrattazione a livello aziendale: la tendenza precedente, fino al 2002, era la produttività; la tendenza crescente dal 2005 ad oggi è la profittabilità. Questo deriva dal fatto che più l'Europa entra nel commercio


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mondiale e affronta la sfida della globalizzazione, più la produttività non è tripartita. In altre parole, le imprese serie tendono a reinvestire la produttività nel ciclo per essere capaci di gestire la competizione.
Se osserviamo i dati contrattuali europei del periodo 2002-2007, Eurostat certifica che l'Europa mediamente ha avuto una crescita di produttività dell'1,7 per cento, ma che è stato ridistribuito al lavoro solo lo 0,3 per cento, proprio perché le grandi imprese hanno bisogno di reinvestire ciò che ottengono dalla produttività nel ciclo medesimo (innovazione, ricerca e politica di prodotto); mentre la profittabilità cresce sempre di più come l'elemento che va al lavoro in qualità di riconoscimento della capacità del lavoro di aiutare l'impresa nella competizione mondiale.
Ad esempio, la richiesta in Germania di IG Metall di chiedere il 4 per cento dell'8, che avevano rivendicato in piattaforma per una ripartizione dei profitti, è diventata legge in Francia. La legge sull'interessamento, infatti, avanzata dal Presidente Sarkozy prevede che le imprese, non soltanto le grandi, ma anche le piccole e le medie, debbano ripartire una quota ex post e non ex ante. Poiché ex post si ha il risultato produttivo, quando c'è il profitto finale. Una quota di questo profitto deve essere riconosciuto, appunto, al cosiddetto interessamento al lavoro.
L'ultimo tratto - e concludo - che aiuta molto la contrattazione settoriale in Europa è il fatto che in 21 Paesi su 27 (ma se ne sta approcciando un ventiduesimo) esiste un salario minimo, per legge o per contratto. Per legge, nella maggior parte dei Paesi; per contratto è stato di recente firmato in Austria a livello interconfederale e partirà dal 1o gennaio 2009 un salario minimo di mille euro.
Il salario minimo in Europa, che è differente da Paese a Paese, varia tra un minimo del 30 per cento e un massimo del 70 per cento a seconda dei diversi Paesi, rispetto alla media salariale di quel Paese. In Bulgaria il salario minimo è di 92 euro al mese e corrisponde al 30 per cento della media salariale bulgara. In Lussemburgo, è di 1.714 euro al mese che corrispondono al 70 per cento del salario medio lussemburghese.
In questi 22 Paesi - dico 22 perché la Germania, anche se la Cancelliera Merkel non ha ancora aperto il tavolo delle trattative, rivendica un salario minimo di 7,50 euro all'ora, corrispondente al 40 per cento della retribuzione media - si va, dunque, da un 30 a un 70 per cento del salario medio. L'utilità di questo zoccolo costituito dai 22 Paesi che hanno stabilito il salario minimo è che questo costituisce un grande aiuto contro il lavoro nero. Un buon salario che si fissa su una media tra il 30, il 40 o il 60 per cento è un incentivo ad evitare il ricorso da parte delle imprese a forme di sottosalario per aggirare la rigidità di contratti di lavoro in cui a volte il costo non è corrispondente alle possibilità dell'impresa.
In conclusione, si può dire che in Europa il modello prevalente è un modello corto, pieno e partecipativo. Sono queste le tre caratteristiche fondamentali che consentono alle imprese di affrontare il ciclo della competizione con ragionevole possibilità di avere capacità competitiva e al sindacato di tutelare in tempi delimitati, ma continui, i lavoratori dal punto di vista della copertura contrattuale.
Se si osservano gli ultimi cinque anni, si evince che questi modelli sono quelli che hanno meglio difeso, in tutta Europa, il potere d'acquisto dei salari. Non è vero che due livelli distinti diano di più di un solo livello; non è vero che due livelli, entrambi acquisitivi, offrano di più di un solo livello che si snoda in due fasi. Dipende molto da come sono disciplinate le storie, le piattaforme di ciascun Paese e da come si riesce concretamente e molto pragmaticamente a risolvere i problemi dei lavoratori in questa fase, peraltro molto dura, che si apre di recessione economica.
Resto a vostra disposizione per rispondere ad eventuali domande.

PRESIDENTE. Ringraziamo il dottor Cerfeda.


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Vorrei porre una domanda rispetto al modello tedesco. C'è un regime fiscale di maggior favore per gli utili reinvestiti in aziende, in Germania e in altri Paesi che hanno questo modello?
Do ora la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti e formulare osservazioni.

MARIA GRAZIA GATTI. Ringrazio Walter Cerfeda per la relazione molto specifica che ha presentato e soprattutto per averci fornito il senso di ciò che si muove in Europa. Proprio per questo, vorrei chiedergli due chiarimenti.
Innanzitutto, vorrei sapere se c'è un'ipotesi di evoluzione dei CAE (Comitati aziendali europei) e che possibilità c'è di stabilire a livello europeo una forma, anche se iniziale, di contrattazione. Inoltre, di converso, chiedo se nella discussione dei sindacati europei, a livello nazionale, cominci a porsi il problema di una cessione di sovranità al sindacato europeo, per una eventuale contrattazione sovranazionale.
In Italia si sta riflettendo su una riforma della contrattazione; a mio parere, questo potrebbe essere uno degli elementi evolutivi importanti da considerare.

LUCIA CODURELLI. Ho ascoltato con piacere la sua relazione, che ha fornito un inquadramento più generale, ma vorrei fare brevemente riferimento all'ultima sua considerazione,relativa all'attuale stato di recessione. Tra l'altro, le audizioni che la Commissione ha previsto si collocano proprio nell'ambito di una indagine conoscitiva sul tema della riforma della contrattazione.
Lei ci ha dato l'idea delle differenze incredibili che esistono ad esempio, con riferimento al salario minimo (si va dal 30 al 70 per cento); allo stesso modo, sulla contrattazione minima e massima lei ha citato la Slovenia, citando Paesi che comunque sono entrati in Europa. Questo discorso è importantissimo.
Mi auguro che alla fine di queste audizioni la Commissione riesca a trarre delle conclusioni e a dare anche un apporto alla discussione in atto, che mi sembra arenata: a mio avviso, infatti, non si può assolutamente prescindere dal quadro più generale del contesto dell'Europa. Noi sappiamo che in questo momento di crisi, ma anche in futuro, il fatto di appartenere all'Europa rappresenta una fortuna; da questo, dunque non possiamo prescindere.
La ringrazio per il quadro che ci ha fornito stamattina. Spero che la Commissione in qualche modo ne faccia tesoro per un ragionamento molto più ampio.

GIULIANO CAZZOLA. Mi unisco al ringraziamento per l'illustrazione puntuale e precisa che ci ha esposto, non solo del quadro esistente, con le sue differenze nell'Europa a 27, ma anche per le considerazioni che ha espresso riflettendo su questa esperienza. Mi riferisco, in particolare, alle sue considerazioni finali, quando ha detto che non è vero che più livelli siano migliori di un livello solo e non è vero che un sistema che prevede solo dei modelli di contrattazione aggiuntiva, come quello italiano, tuteli i lavoratori.
Personalmente, credo che vi sia ben poco riformismo nella discussione che c'è in Italia sulla struttura della contrattazione, a partire dal mio giudizio sul documento della Confindustria che mi pare si muova nell'ambito di quanto è stato realizzato in tutti questi anni, aggiustando qualche aspetto di un modello introdotto nel 1993.
Credo, invece, che l'unica vera riforma che si potrebbe attuare, ovviamente tenendo conto delle caratteristiche e dei profondi divari del nostro Paese, sia quella delle clausole derogatorie, ovvero il modello tedesco con le clausole d'uscita e con la possibilità di adattare la contrattazione alle diverse realtà che si determinano nei territori e nelle imprese.
Lei ha spiegato molto bene la questione: ogni Paese ha la sua storia e quindi diventa sempre difficile adattare dei modelli; in ogni caso, se questi modelli vanno adattati, lo si deve fare tenendo conto della realtà.


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La ringrazio in particolare per aver voluto sottolineare questo aspetto. Credo che il giudizio che noi dobbiamo trarre da questa ricostruzione del quadro europeo che lei ci ha fornito è che comunque il modello di contrattazione rappresenta anche un elemento integrante della competitività di un Paese.
Pertanto, non dobbiamo tener conto di quello che avviene in Bulgaria, o del salario minimo in questo Paese, ma dobbiamo tener conto del fatto che, per esempio, se la Germania ha un livello di flessibilità maggiore al nostro, tale circostanza ci crea dei problemi. Il fatto che Paesi come la Francia, la Germania o Paesi come quelli dell'Europa a 15 abbiano modelli contrattuali molto più flessibili e molto più capaci di prevedere anche l'evoluzione del costo del lavoro è comunque un problema di cui tener conto.
Volevo solo esporre queste considerazioni e ringraziarla ancora una volta per questo incontro che credo sia stato molto utile.

PRESIDENTE. Le pongo un' ultima domanda: l'assetto federale istituzionale tedesco condiziona la struttura del contratto o è indipendente, da un punto di vista territoriale?
Do la parola al nostro interlocutore per la replica.

WALTER CERFEDA, Segretario confederale della Confederazione europea dei sindacati. Signor presidente, partendo da quest'ultimo quesito, le rispondo che l'assetto istituzionale tedesco non condiziona la contrattazione dal punto di vista strutturale. Addirittura, in Germania storicamente i contratti di categoria non vengono presentati da una piattaforma a livello nazionale; esiste una tradizione tedesca per cui il sindacato nazionale decide la piattaforma (nel settore chimico, in quello metalmeccanico o nel tessile) e la presenta in un territorio, in una regione. Il risultato che si ottiene in quella regione diventa contratto nazionale.
Ovviamente, il gioco del sindacato è quello di presentare la piattaforma nella regione dove si ritiene più forte. Supponiamo, cambiando «territorio geografico», di essere in Italia: il sindacato, ad esempio, nel settore metalmeccanico, presenta la piattaforma in Emilia-Romagna. Ebbene, se in quella regione si realizza l'accordo, questo diventa contratto nazionale. Da questo momento, scattano le clausole di uscita: le parti, dunque, decidono che quel contratto, nato in Emilia-Romagna e divenuto nazionale, non si applica in Calabria, in Basilicata, in Puglia, in Sardegna e in Friuli perché non ci sono le condizioni. Si può decidere, poi, che la Puglia esce per quattro anni, la Basilicata per otto e la Sardegna per dodici. A livello centrale si sorveglia l'uscita per poi riportarli nel contratto nazionale, ma si consente loro per i quattro, gli otto o i dodici anni di stipulare contratti flessibili corrispondenti al loro livello territoriale.

GIULIANO CAZZOLA. Noi facciamo così con l'artigianato.

WALTER CERFEDA, Segretario confederale della Confederazione europea dei sindacati. Infatti, questo è il modello che funziona.
Per rispondere alla prima domanda che lei mi ha posto, riferisco che le politiche fiscali esistono. Ci sono due vantaggi forti per le imprese che consentono ancora oggi alla Germania di essere il primo Paese esportatore al mondo nella classifica grazie alle performance che realizza. Tali vantaggi sono, da un lato, un sistema fiscale di alleggerimento per gli utili reinvestiti, dall'altro, il fatto di avere le banche nel comitato di sorveglianza. Il credito è strettamente connesso alla produzione industriale.
A questo proposito, pensate alla polemica espressa recentemente fra la Cancelliera Merkel e il Presidente uscente degli Stati Uniti d'America sulla crisi finanziaria relativa al fatto che la Germania si opponeva ad importare dai Paesi anglosassoni; infatti, tale crisi induce, conseguentemente, problemi per quello che riguarda l'economia industriale e la recessione dell'economia reale.


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Contrapporre l'economia reale all'economia finanziaria è un principio fondamentale dei tedeschi per cui da sempre il sistema del credito è connesso alla produzione e, quindi, finanzia in anticipo innovazione e tecnologia. La Germania è capace di essere sempre sull'ultima generazione di prodotto perché ha il sistema del credito connesso, nei consigli di sorveglianza, alle grandi imprese tedesche.
È un sistema particolare e specifico che però alla fine ha consentito a quelle imprese di realizzare questi risultati, ivi compreso - sempre per rimanere nell'ambito della Germania e per rispondere all'onorevole Cazzola - un altro importante vantaggio, che è stato realizzato ad occhi aperti. Tra il 2005 e il 2006 tutte le grandi imprese tedesche decisero la delocalizzazione. La Mercedes aveva già pronta la Daimler in Sudafrica; la Bosch aveva deciso di delocalizzare in Messico; la Siemens in Cina. Le grandi imprese posero al sindacato come sfida il fatto di essere pronte a delocalizzarsi e, dunque, a chiudere gli impianti in Germania, se non fosse avvenuta una revisione delle convenzioni contrattuali in grado di rilanciare la produttività tedesca sulla competizione mondiale.
I sindacati ad occhi aperti hanno redatto quelli che si chiamano «accordi di concessione» e hanno operato uno scambio con l'impresa che fosse rimasta: questa, rimanendo in Germania, avrebbe reinvestito in innovazione e tecnologia, garantendo, quindi, l'occupazione; il sindacato, in cambio, ha restituito produttività, aumentando da 35 a 44-45 ore settimanali l'orario di lavoro a parità di salario. Questo ha consentito alla Germania di tornare, dopo il 2006, ad essere il primo produttore mondiale al mondo con il tasso di produttività più alto.
È un sistema di relazioni forte, in cui il conflitto non avviene neanche per sbaglio, perché c'è un fine, che viene realizzato insieme, di convergenza - non dico di collaborazione - il cui esito, poi, costituisce un vantaggio per tutti.
Lo dico oggi perché voi vivrete insieme a me ciò che avverrà nel 2009: sono sicuro che in Germania in quella data ritorneranno i contratti di concessione, perché la recessione è dura. I tassi di previsione di crescita dell'economia europea sono quelli riferiti da Almunia ieri. Il rischio di combinare recessione e deflazione in Europa è molto forte. Le imprese soffriranno nuovamente di produttività e ritornerà in Germania il problema di come concedere alle imprese le condizioni del rilancio, nel corso della recessione.
A livello europeo ne stiamo già parlando: a dicembre si riunirà il nostro comitato esecutivo ed io presenterò la risoluzione annuale sulla contrattazione europea. Questo è un tema all'ordine del giorno, ovvero come gestire il 2009 nella recessione, per rilanciare la competizione a livello dell'Europa e nel mondo.
Vengo alle altre domande che mi sono state poste.
I CAE sono una realtà: esistono oggi 15 mila lavoratori che sono delegati dei CAE. Sulle 1.800 imprese multinazionali europee i CAE sono costituiti nel 50 per cento, ovvero in 870-880 di queste. Essi hanno un diritto di informazione e consultazione a volte bene, a volte meno bene praticato, motivo per cui la Presidenza francese in carica dell'Unione europea sta discutendo la revisione della direttiva sui CAE per precisare meglio il diritto di informazione e il diritto di consultazione. Noi ci auguriamo che questo sforzo della Presidenza francese vada in porto.
È, poi, molto importante la domanda che l'onorevole Gatti ha posto. Da un punto di vista contrattuale, in Europa le grandi multinazionali hanno bisogno di trattare; avanza il processo di mobilità, di ristrutturazione transnazionale. Sempre di più la globalizzazione procede e sempre di più avanza la mobilità dell'impresa.
Dal punto di vista contrattuale, dunque, la Commissione europea - come voi sapete - ha affidato uno studio a un gruppo di esperti che ha censito ciò che si contratta a livello europeo. È emerso che, pur non esistendo il livello di contrattazione europea, già oggi 243 imprese multinazionali europee hanno firmato accordi a livello europeo, a volte con la federazione


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europea, a volte con l'insieme dei sindacati nazionali coinvolti in quella multinazionale, a volte con i CAE, a volte con tutte e tre insieme. Non c'è, infatti, una procedura che disciplina chiaramente questo esercizio della contrattazione il cui trend è geometrico. Nel 2001 gli accordi che sono stati censiti dal gruppi di esperti erano 31, oggi sono 243 nel giro di pochissimi anni.
Si pone, dunque, un problema. Su questo aspetto, c'è una forte discussione aperta. Vengo da una recentissima riunione della Presidenza francese presso un seminario a Lione proprio su questo argomento. Questi accordi che vengono realizzati a livello europeo non hanno un quadro giuridico applicativo. Questo è il grande nodo, sia per le imprese, sia per i sindacati.
In questo caso, se un'impresa multinazionale, ad esempio la Siemens, firma un accordo multinazionale a livello europeo sulla sua ristrutturazione, in cui prevede di chiudere uno stabilimento a Vilnius e di aprirne uno a Malaga, io posso firmare questo accordo, ma poi lo devo ricontrattare in tutti i Paesi perché non ha valore giuridico applicativo.
La Commissione europea nel 2005 nella sua agenda sociale aveva avanzato l'ipotesi di dare un valore giuridico ai contratti firmati a livello europeo se le parti sociali lo avessero richiesto. Quindi, è una scelta delle parti sociali decidere a quali contratti abbiano bisogno di dare un valore giuridico, in maniera che quello sia applicativo nei diversi Paesi. Purtroppo, questa proposta della Commissione europea, che noi, per parte sindacale, abbiamo sostenuto, mentre è stata osteggiata dalla nostra controparte BusinessEurope, ha portato la Commissione europea a battere il passo, tanto che questo valore giuridico non è stato ancora riconosciuto ai testi dei contratti firmati a livello transnazionale. Le imprese, dunque, nella situazione attuale, sono costrette a firmare prima un accordo generale e a ricontrattarlo successivamente Paese per Paese.
Questo, però, è un livello che crescerà. Ci sono, infatti, una asimmetria e una schizofrenia insopportabili. La globalizzazione obbliga l'impresa alla mobilità transnazionale, ma i poteri contrattuali rimangono nazionali. Questa contraddizione impedisce di negoziare il ciclo del prodotto. Si allunga la catena del ciclo del prodotto e del suo valore, e la contrattazione rimane bloccata a livello nazionale. Quindi, in un processo di delocalizzazione si contratta quest'ultima e non si segue più il ciclo, senza riuscire più a contrattare la nuova localizzazione.
Pertanto, una simmetria nuova di poteri è necessaria. Quanto tempo ci si metterà non lo so. I tempi europei sono sempre complicati e lunghi, ma questa sarà la tendenza.
Sono convinto - e mi avvio alla conclusione - che questo sia il livello effettivo di contrattazione europea. Nella mia esperienza - ormai sono sei anni che vivo a Bruxelles - il livello di contrattazione è quello aziendale. Poco fa ho menzionato chi ha due livelli di contrattazione, chi ne ha uno e chi ne ha mezzo. Non ci sono, in questa fase storica, per le diversità esistenti relative alla struttura contrattuale, possibilità di immaginare dei contratti collettivi settoriali europei. Non è questa generazione che riuscirà ad ottenere questo risultato.
Questa generazione, invece, deve negoziare la mobilità dell'impresa. Quello è il livello fondamentale. Da questo discendono i CAE, la revisione, le procedure.
Noi abbiamo già grandi categorie europee come i meccanici, i chimici e i tessili che hanno delle procedure interne precise su come affrontare la negoziazione dei grandi gruppi multinazionali a livello europeo, per evitare incertezze sulla validità di un certo accordo, o su quali sono le procedure di arbitrato in caso di mancata applicazione di un altro accordo.
È in atto un bel lavoro. Se la Commissione vuole, sono in grado di fornire la documentazione necessaria sullo stato dei lavori su questo argomento. A questo livello va individuata la possibilità di immaginare nei prossimi cinque anni lo sviluppo della contrattazione europea, non a livello di categoria, poiché vi sono troppe differenze per poterlo immaginare.


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PRESIDENTE. Ringrazio il Segretario Cerfeda, anche per la documentazione che metterà a disposizione della Commissione, compresa quella che ha annunciato rispetto ad un ipotetico accordo di dicembre. Quello certamente può essere un riferimento importante.
Dichiaro conclusa l'audizione.
Sospendo brevemente la seduta.

La seduta, sospesa alle 9,35 è ripresa alle 9,40.

Audizione di rappresentanti del Forum del terzo settore.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'assetto delle relazioni industriali e sulle prospettive di riforma della contrattazione collettiva, l'audizione di rappresentanti del Forum del terzo settore.
Ringrazio i rappresentanti del Forum: sono presenti Maria Guidotti (portavoce del Forum), Paola Menetti (coordinatore del Forum e Presidente di Lega cooperative sociali) e Andrea Olivero (coordinatore del Forum e Presidente delle ACLI).
Mi scuso per il ritardo, ma abbiamo ritenuto importante poter ascoltare la vostra esperienza rispetto ai tema trattati nell'ambito dell'indagine conoscitiva..
Do la parola al portavoce del Forum del terzo settore, Maria Guidotti.

MARIA GUIDOTTI, Portavoce del Forum del terzo settore. Signor presidente, prima di tutto mi permetta di esprimere una specificazione. Sul primo punto della vostra indagine, che afferisce strettamente alla questione del modello contrattuale, per la peculiarità del tipo di rappresentanza di cui siamo investiti, riteniamo di non dover intervenire. Le altre questioni poste nell'indagine che voi state utilmente svolgendo, invece, ci sembrano molto importanti e vi ringraziamo per averci consentito di portare anche il nostro contributo.
La prima questione che noi vorremmo porre alla vostra attenzione, peraltro molto legata alle premesse espresse nel documento, in relazione ai mutamenti che sono avvenuti in questi ultimi anni - possiamo dire anche negli ultimi giorni, drammatici per i riflessi che avranno sul mondo del lavoro - noi abbiamo molto caro e riteniamo urgente il tema dei lavoratori svantaggiati, delle fasce deboli e del lavoro sommerso; riteniamo che quest'ultimo sia un tema prioritario da affrontare, anche nella revisione di regole e modalità della contrattazione.
Occorre, inoltre, affrontare tutta la questione della sicurezza sul lavoro, che riguarda l'intero mondo e in particolare le categorie che prima menzionavo.
Sulla questione dei contratti, voi citate opportunamente la parità uomo-donna. Noi siamo evidentemente d'accordo che questo tema sia sottolineato e abbia una sua significanza all'interno della contrattazione, ma riteniamo che dovrebbe essere inserito all'interno di un più largo contesto di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Questi aspetti sono spesso teoricamente affrontati, ma concretamente gli ultimi dati ISTAT ci confermano che l'Italia è uno dei Paesi più indietro sull'attuazione di effettive politiche di conciliazione, che poi implicano in larga parte possibilità di accesso al mondo del lavoro o di rientro nello stesso da parte delle donne.
Conseguentemente, ci pare di poter dire che è assolutamente necessaria, per quello che ci riguarda, una riforma degli ammortizzatori sociali che consenta a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori di poter avere una rete di protezione, che invece non esiste nell'attuale modello.
Naturalmente, ci sarebbero molti aspetti da approfondire: stiamo riflettendo all'interno del Forum sull'opportunità di inviare una memoria, come peraltro voi richiedete.
Gli ultimi due punti per noi molto importanti riguardano la questione del rapporto tra welfare lavoristico e welfare di cittadinanza. Nel vostro documento si parla di un welfare contrattuale con molta attenzione alla bilateralità. Riteniamo che questo sia un punto importante per il futuro welfare, ma non è il solo.


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Il welfare lavoristico sta mostrando tutta la sua «incapacità» di coprire l'intero sistema di bisogni della cittadinanza. Deve, quindi, essere inserito all'interno di un più ampio concetto di welfare di cittadinanza, di welfare community capace di rispondere anche a soggetti che non sono inseriti nel mondo del lavoro o lo sono solo parzialmente, ovvero alla complessità che si rappresenta oggi nella società.
Viene opportunamente menzionata la questione della democrazia partecipativa. All'interno del Forum pensiamo ad una esperienza particolare e anche consolidata. Tutto il campo della cooperazione sociale si fonda su questo punto e nasce dalla partecipazione dei lavoratori alla definizione del piano strategico anche dell'impresa sociale, in questo caso, e dalla condivisione degli obiettivi e degli scopi; pensiamo, dunque, di poter portare su questo un contributo che può essere utile.
Un ultimo titolo riguarda la formazione. Noi pensiamo che per realizzare tutto questo e anche per dare possibilità di reinserimento, di rientro, al fine di compiere percorsi diversi all'interno del mondo del lavoro - una flessibilità che sia anche in positivo legata ai temi della conciliazione e non solo, che consenta effettivamente alle lavoratrici e ai lavoratori di rientrare in posti di lavoro anche diversi da quelli in cui sono stati - la formazione durante tutto l'arco della vita (in questo caso professionale, ma non solo) sia un elemento assolutamente fondamentale.
Mi sono limitata a considerazioni di carattere generale, che potranno essere integrate successivamente. In tal senso, sarà nostra cura inviare una nostra memoria, come richiesto.

PRESIDENTE. Ringraziamo il rappresentante del Forum anche per il contributo scritto che ci fornirà e che sarà tenuto in debita considerazione nella predisposizione del documento finale.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 9,50.