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Resoconti stenografici delle audizioni

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Commissione VI
36.
Mercoledì 20 aprile 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Conte Gianfranco, Presidente ... 3

Audizione del Ministro dell'economia e delle finanze, nell'ambito dell'istruttoria legislativa sul disegno di legge C. 4219, di conversione del decreto-legge n. 26 del 2011, recante misure urgenti per garantire l'ordinato svolgimento delle assemblee societarie annuali (ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento):

Conte Gianfranco, Presidente ... 3 4 8 10 12 18 19 22 25 27
Barbato Francesco (IdV) ... 18 19
Causi Marco (PD) ... 9
Comaroli Silvana Andreina (LNP) ... 26
Farina Renato (PdL) ... 25
Fluvi Alberto (PD) ... 7 22
Fogliardi Giampaolo (PD) ... 15
Fugatti Maurizio (LNP) ... 4
Leo Maurizio (PdL) ... 14
Pagano Alessandro (PdL) ... 20
Strizzolo Ivano (PD) ... 12
Tremonti Giulio, Ministro dell'economia e delle finanze ... 3 5 7 8 10 12 15 16 19 20 24 26 27
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Futuro e Libertà per l’Italia: FLI; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IR; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

COMMISSIONE VI
FINANZE

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di mercoledì 20 aprile 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANFRANCO CONTE

La seduta comincia alle 9,10.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del Ministro dell'economia e delle finanze, nell'ambito dell'istruttoria legislativa sul disegno di legge C. 4219, di conversione del decreto-legge n. 26 del 2011, recante misure urgenti per garantire l'ordinato svolgimento delle assemblee societarie annuali.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento, l'audizione del Ministro dell'economia e delle finanze, nell'ambito dell'istruttoria legislativa sul disegno di legge C. 4219, di conversione del decreto-legge n. 26 del 2011, recante misure urgenti per garantire l'ordinato svolgimento delle assemblee societarie annuali.
Ringrazio il Ministro dell'economia e delle finanze per avere aderito al nostro invito. Oggetto dell'audizione odierna è il decreto-legge n. 26 del 2011, ma poiché questo ha già esplicato i propri effetti, credo che il Ministro non avrà difficoltà ad ampliare lo spettro della conversazione, fornendoci qualche informazione generale in merito alla situazione dell'economia e del sistema finanziario, nonché all'attività del Governo.
Do quindi la parola al Ministro Tremonti.

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Il primo argomento di cui ci dobbiamo occupare è, naturalmente, il decreto-legge n. 26 del 2011, che la Commissione sta esaminando in sede referente.
Ritengo che la norma recata dall'articolo 1, comma 1, del provvedimento debba essere introdotta a regime. In realtà, è stata riprodotta una disposizione che era già stata inserita nel decreto-legge cosiddetto «milleproroghe» dello scorso anno. Essa introduce un elemento di flessibilità nella vita e nell'attività delle società cui si applica l'articolo 154-ter del decreto legislativo n. 58 del 1998. Si tratta di una norma di portata generale, non occasionale, che esisteva già e che dovremmo mettere a regime nel software del «milleproroghe». Non credo vi sia altro da aggiungere al riguardo.
A un certo punto, è venuto fuori - in questi termini ne ha parlato la stampa - che la norma era volta a superare alcune complessità relative alle nomine nelle grandi società pubbliche quotate. Quando ho letto i giornali, ho pensato che anche quella potesse essere un'idea, a conferma del fatto che la lettura dei giornali è sempre utile. In realtà, le liste sono state depositate tempestivamente, e le nomine sono state effettuate nei termini. Effettivamente, però, anche quella indicata avrebbe potuto costituire un'utilità.
Ribadisco, quindi, che la disciplina recata dal decreto-legge n. 26 del 2011 è volta a soddisfare un'esigenza di carattere generale, non particolare.


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Le società cui si applica l'articolo 154-ter del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo n. 58 del 1998, possono avvalersi della facoltà di convocare l'assemblea annuale nel termine di centottanta giorni dalla chiusura dell'esercizio 2010, ovvero di rinviare l'assemblea già convocata, indipendentemente dalle previsioni degli statuti societari.
Il provvedimento è ora all'esame del Parlamento e, come ha rilevato il presidente, ha esaurito i propri effetti. Tuttavia, è importante che esso sia convertito e, soprattutto, che ci ricordiamo di dettare un'analoga disciplina anche l'anno prossimo, in modo da rimuovere definitivamente ogni supposizione relativa alla connessione dell'intervento con necessità specifiche (il che, invece, è assolutamente da escludere).
Per quanto riguarda, in generale, la situazione economico-finanziaria, ieri sera, nel corso della mia audizione presso le Commissioni riunite 5a del Senato e V della Camera, ho reso in merito ampia informativa, alla quale non avrei altro da aggiungere.
Comunque, qualora lo riteniate opportuno, ascolterò le vostre domande.
Francamente, mi trovate un po' spiazzato, perché non dispongo, in questa sede, della documentazione cui ho fatto riferimento nella serata di ieri: pensavo, infatti, di venire a discutere soltanto del decreto-legge n. 26 del 2011. Peraltro, è stata già depositata in Parlamento tutta la documentazione relativa al Programma nazionale di riforma, integrata dai documenti che abbiamo presentato alla riunione dell'International Monetary and Financial Committee del Fondo monetario internazionale, cui ho partecipato nell'ultimo fine settimana. Possiamo provvedere affinché alla Commissione finanze sia fornita la medesima documentazione, che ritengo di enorme utilità, anche per avere una visione generale dei grandi andamenti economici e, al loro interno, del posizionamento dell'Italia nel contesto internazionale.
Non so quanto tempo abbiate voi, ma io ne ho moltissimo. Se desiderate porre domande, proverò a rispondere. Mi pare che abbiano chiesto di intervenire soltanto i deputati dell'opposizione.

PRESIDENTE. La situazione è un po' diversa: le curiosità sono molte.
Come le è noto, Ministro, la Commissione ha avviato un'indagine conoscitiva sui mercati degli strumenti finanziari, nel corso della quale stiamo affrontando le problematiche della borsa e, in particolare, le questioni connesse alla costituzione del Fondo italiano di investimento per le piccole e medie imprese.
Hanno già partecipato alle nostre audizioni l'ABI e la Consob, e abbiamo intenzione di sentire anche la Banca d'Italia. Immagino che i colleghi desiderino cogliere l'occasione per avere qualche delucidazione in merito alle iniziative intraprese in tale settore dal Ministero dell'economia e delle finanze.
Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

MAURIZIO FUGATTI. Grazie, signor presidente.
La mia domanda, Ministro, è legata alla discussione in atto riguardante la difesa delle nostre società da potenziali attacchi esterni. In passato, per adeguarci a quanto avevano fatto altri Paesi, eravamo intervenuti sulla regola di passività, modificando la normativa approvata in sede di recepimento della direttiva comunitaria in materia di OPA e introducendo norme volte a ridurre la contendibilità delle nostre imprese.
Secondo lei, Ministro, la disciplina attuale assicura una sufficiente tutela alle nostre imprese?
Com'è noto, l'Autorité des Marchés Financiers francese può intervenire in caso di OPA, e lo stesso può accadere in Gran Bretagna. Secondo lei, Ministro, il Parlamento dovrebbe intervenire in materia? La disciplina attuale garantisce la non contendibilità delle nostre imprese rispetto a quelle di Paesi nei quali vigono regole più restrittive delle nostre?


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GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Premesso che la pubblicità dei lavori parlamentari non è contestabile, desidero riferire, prima di rispondere alla domanda, di un'esperienza che mi ha francamente impressionato.
Intervenendo in audizione, ieri, presso la Commissione affari costituzionali del Parlamento europeo, ho svolto un intervento articolato, il cui senso, chiarito fin dall'inizio, era il seguente: poiché in tre anni abbiamo attraversato tre crisi - la crisi economica, la crisi geopolitica e la crisi atomica -, effettuiamo uno stress test ai due principali trattati, per verificare quale grado di tenuta abbiano dimostrato, o dimostrano, e quale sia il loro grado di utilità.
Credo che l'intervento sia stato apprezzato da molti, almeno a giudicare dall'applauso che mi è stato tributato. Sono seguiti interventi successivi, repliche, applausi alla fine degli interventi e anche al termine della replica.
Un parlamentare liberale inglese, prestigioso e importante, ha formulato alcune considerazioni, sostenendo, in particolare, che si potrebbe andare oltre i trattati vigenti, stipulando una convenzione, o un trattato, più adatti allo spirito del tempo che viviamo. A lui ho risposto, in maniera molto cortese, considerati il clima e la persona, che l'ipotesi è da prendere in considerazione, pur con tutte le complessità che sappiamo caratterizzare simili processi. Ho dato una risposta analoga anche a un parlamentare europeo della Lega.
Ebbene, un'agenzia italiana ha commentato il mio intervento con il titolo: «UE/Tremonti: l'ipotesi è di uscire dai trattati», che subito veniva diffuso dai telegiornali.
Francamente, trovo che questo tipo di lavoro delle agenzie non sia oggettivamente al servizio del Paese. Si tratta di un tipo di informazione che estrae una parola, o una frase, e la immette nel circuito informativo. Stava per diffonderla anche il TG1, e ciò è inaccettabile.
Ne sto parlando in questa sede per evidenziare i cortocircuiti che può determinare un certo tipo di informazione, confezionata estraendo una frase, manipolandola e ponendola in un contesto diverso da quello originario. Insomma, dopo aver partecipato, presso il Parlamento europeo, a un'audizione caratterizzata da un generale senso bipartisan, mi è sembrato singolare trovare a Roma titoli come quello che ho indicato. Se è questo il metodo di informazione, è naturale che avverta qualche difficoltà, adesso, a parlare di questi temi con voi.
Ciò premesso, tenendo conto che il mercato borsistico è aperto e che la giornata è ancora tutta da «riempire» di notizie, credo che la migliore difesa sia l'attacco. Meglio ancora, il problema dell'economia di questo Paese non è tanto quello di difendere, quanto quello di sviluppare.
Cerchiamo di essere empirici e concreti. Il 90-95 per cento del PIL di questo Paese è da ricondurre all'attività di imprese con meno di 15 addetti. La base della nostra economia è strutturata in questo modo. Al vertice della piramide vi sono alcune società quotate, che non credo abbiano di questi problemi, anche perché sono tra le grandi e hanno una struttura proprietaria saldamente bloccata. Certo, esistono società intermedie, ma il numero delle società quotate alla Borsa di Milano si è ridotto negli ultimi tempi. Dobbiamo capire, innanzitutto, in quale contesto ci troviamo.
Perché sostengo che il problema non è altro se non quello di crescere, che dobbiamo far crescere la nostra economia sotto l'aspetto dimensionale?
Non voglio certamente dire che dobbiamo mostrare ingratitudine verso quei milioni di piccoli imprenditori che, con le loro capacità, individualità e vitalità, hanno saputo comporre la base della nostra economia. In proposito, vi informo che siamo comunque la seconda manifattura d'Europa. La precisazione mi fornisce l'occasione per evidenziare, incidentalmente, come gli ideologi che avevano teorizzato la fine della manifattura stiano risalendo i pendii da cui erano baldanzosamente discesi negli anni passati. Accade,


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cioè, che chi ipotizzava tempi infausti per l'industria manifatturiera adesso sostiene il contrario: evidentemente, si tratta di casi o di omonimia o di asimmetria informativa...
La base di cui dicevamo, nella globalizzazione, non basta: se cresce la dimensione dei mercati e delle strutture globali, deve crescere anche la dimensione delle imprese. Come ottenere ciò? Per decreto? Non sarebbe possibile. Usando una bacchetta magica? Attualmente, non ne disponiamo. Offrendo incentivi? Dipende.
Per anni, Governi di diverso colore hanno tentato di incentivare le aggregazioni tra imprese mediante trattamenti fiscali agevolati. Il risultato è stato: «zero carbonella»! In altre parole, non hanno funzionato. È curioso come ogni Governo prevedesse una copertura massima di 20 o 30 milioni. Comunque, il grado di utilizzo di tali incentivi è stato bassissimo: gli incentivi alle aggregazioni aziendali non hanno funzionato.
Cosa sta funzionando, invece, in modo straordinario e sorprendente? Si tratta di un istituto che ha una piccola base normativa, ma un grande effetto sul piano applicativo. Invero, contrariamente a quanto divulgato da una retorica roboante, molte attività relative allo sviluppo e alla crescita si compiono sul piano amministrativo e applicativo. L'idea che la crescita si attui per decreto, con annunci in televisione, attraverso le leggi, riflette un apparato ideologico che fa parte del passato e che, forse, non funziona più di tanto.
Il piccolo appiglio normativo è costituito dalla disposizione relativa alle reti d'impresa, eredi dei distretti produttivi, che introducemmo, tra le altre novità (come il 5 per mille), nella legge n. 266 del 2005 (legge finanziaria 2006).
Allora, l'idea era che un libero contratto tra imprese generasse, in una logica, se volete, consortile, un'entità - il distretto, appunto - che potesse andare in banca, dal fisco e all'estero come tale, non come singola impresa. L'idea è stata disapplicata per qualche anno, perché il Governo successivo non credeva in quel tipo di strumento (credo che fosse stata chiesta al Parlamento una delega, ma in termini che non erano operativi).
Quando siamo tornati, abbiamo incontrato difficoltà, anche perché, nel frattempo, molti avevano maturato la convinzione che il concetto di distretto non fosse più sufficiente. Infatti, il distretto è una realtà territoriale. Serviva, invece, un'idea di filiera, più funzionale. Si è pensato, quindi, alla rete tra imprese: può stare in rete, infatti, anche un'impresa che non si trova necessariamente a due chilometri dal capannone dell'altra.
L'idea della rete sta funzionando in maniera incredibile: esistono già quaranta reti, create con liberi contratti tra liberi imprenditori. Quello della rete è un modo per creare la media e la grande impresa, consentendo di dare massa a una realtà che, diversamente, resterebbe molecolare e distinta. Il contratto di rete, che non dà luogo a una fusione, sta funzionando in modo straordinario.
Si possono fare altri esempi di strumenti legislativi a bassa intensità, che, una volta seminati, per così dire, germogliano moltissimo.
Sta cominciando a funzionare anche l'idea dell'export banca. L'idea è che, con il supporto di Cassa depositi e prestiti e SACE, le reti, cioè la struttura più grande, possa acquisire commesse all'estero, in modo da trasferirle, in seguito, alle imprese più piccole che fanno parte della rete. Si tratta di strumenti pensati per operare all'interno di una logica di crescita dimensionale.
Inoltre, vi è il Fondo italiano di investimento per le piccole e medie imprese.
Per inciso, sebbene non ci si rechi all'ufficio brevetti per registrare le idee politiche, l'idea dei distretti è oggettivamente nostra, non degli operatori, i quali, tuttavia, l'hanno accettata e applicata. Lo stesso Fondo per le piccole e medie imprese è un'idea che ha incontrato il consenso, e anche un po' di capitale, delle banche e della Confindustria. Anch'esso sta cominciando a lavorare nell'ottica della crescita dimensionale.


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Credo, e lo abbiamo sottolineato, che il Fondo debba intensificare la propria attività. L'amministrazione si attiene a criteri un po' troppo prudenziali. Secondo me, invece, il Fondo dovrebbe tendere un po' più alla crescita. Quando è stato istituito, il management ha posto la condizione di non subire influenze politiche. Non ne ha avute. L'unica raccomandazione che adesso rivolgiamo al Fondo è quella di essere un po' meno prudenziale e di tendere un po' più alla crescita.
Occorre altresì tenere conto, nella medesima ottica di crescita, del fondo strategico.
Per essere molto chiari, la gran parte delle nostre imprese, anche medie, non ha grandi chance in un contesto di globalizzazione, nel quale la dimensione assume un valore strategico. È molto importante, quindi, che al processo di integrazione delle economie si accompagni un percorso di crescita dimensionale delle imprese. Tuttavia, questo richiede non soltanto le disponibilità economiche e il know-how necessari, ma anche l'appoggio, psicologico se vogliamo, di un partner più grande, il quale non chieda di realizzare affari, né di accondiscendere a interventi politici, ma semplicemente di dare una mano per far crescere. Questa è la grande questione.
Ieri, peraltro, sviluppando in modo specifico il processo del semestre europeo, ho ripetuto l'invito ad avanzare proposte, che fa parte della dialettica del predetto processo.
Esiste la pars destruens, ma anche la pars construens. Noi abbiamo attuato una pars construens, elaborando, nel Documento di economia e finanza, le nostre future linee di azione. Abbiamo ragione di ritenere che quanto abbiamo pianificato sarà apprezzato dai partner europei. Ispirandoci a valutazioni molto prudenziali, abbiamo sviluppato un Programma di stabilità che punta a raggiungere alcuni obiettivi di bilancio in un determinato arco temporale. Inoltre, rispetto a quanto esposto analiticamente nel Programma nazionale di riforma, abbiamo indicato alcune priorità che saranno presto oggetto di un provvedimento d'urgenza, quali quelle relative alle opere pubbliche, all'edilizia abitativa privata, al turismo, alla ricerca scientifica e sviluppo.
Aggiungo due ulteriori considerazioni. In primo luogo, l'attività di un Governo, di un'amministrazione, consiste, come dice il nome stesso, anche nell'amministrare. Molti atti risultano fondamentali per l'economia - magari, sono anche i più importanti - pur non essendo annoverabili tra quelli legislativi o proclamativi (in precedenza, ho fatto l'esempio dei distretti, delle reti di imprese, dei fondi istituiti negli ultimi anni).
In secondo luogo, noi aspettiamo le proposte. Finora, non ne ho ricevute molte.
Mi è stato riferito che il Partito Democratico ha elaborato un documento. In effetti, lo conosco e, per usare una parafrasi diplomatico-eufemistica, credo che il suo lifetime, ove sottoposto all'Eurostat, non supererebbe i dieci minuti.
I calcoli si eseguono con i numeri veri, verificati, effettivamente coerenti. Un conto sono i documenti proclamativi e programmatici, un altro è la realtà europea.
Ho proprio l'impressione che una gran parte di documenti di quel tipo...

ALBERTO FLUVI. Si attenga all'argomento, Ministro!

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Vedo che...

ALBERTO FLUVI. Ma come si permette?

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Io posso permettermi di affermare tutto ciò che voglio; a vostra volta, voi potete permettervi di affermare ciò che volete. Siamo in un libero Parlamento, al cui interno ognuno è libero di esprimere le proprie opinioni.

ALBERTO FLUVI. Signor presidente, siamo qui per parlare del provvedimento conosciuto come «decreto Parmalat».


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PRESIDENTE. Stiamo svolgendo un ragionamento complessivo. Lasciamo che il Ministro completi la risposta.

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Onorevole, l'argomento all'ordine del giorno è diverso da quello che lei ha indicato: oggetto dell'audizione è il disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 26 del 2011, il quale reca disposizioni urgenti volte a garantire l'ordinato svolgimento delle assemblee di tutte le società italiane.
Ho raccolto l'invito a una discussione più ampia, che ho scoperto essere uno sviluppo di quella già svolta ieri sera. Ieri ho svolto le stesse considerazioni, ma non ho notato la sua presenza, onorevole, anche se, forse, era presente.
A questo punto, dovrei dire: «Arrivederci!».

PRESIDENTE. Direi di lasciar perdere le schermaglie polemiche.
Invito il Ministro a continuare il proprio intervento.

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Se volete, interrompo, ma non posso esimermi dal ribadire che, essendo noi parte del processo del semestre europeo, aspetto anche le proposte.
Queste, però, devono avere una «metrica», per così dire, assolutamente diversa da quella dei documenti che sono stati redatti finora, nonché da quelli che ho avuto occasione di leggere: devono essere coerenti quanto a tempi, metodi e numeri. Ho l'impressione, invece, che molti dei documenti che ho ricevuto non abbiano tali caratteristiche e si siano limitati a sviluppare, giustamente e dialetticamente, soltanto la pars destruens. Non ho ancora visto, quindi, proposte che abbiano la tenuta e le coerenze degli aggregati di finanza pubblica o privata europei. Quasi tutto il contenuto è di tipo programmatico.
Se si propone di vendere il patrimonio pubblico, in Europa replicano: «Bravo, bene! Adesso dimmi con quali strumenti, entro quali termini e a quali valori. Poi, quando avrai incassato, farai la manovra». Si propone un intervento qualsiasi? La risposta è sempre dello stesso tenore: devi prima avere ricavato i soldi per realizzarlo.
La mia impressione è che la connotazione dialettica dei documenti ai quali stiamo facendo riferimento li ponga un po' fuori dal metodo che il Governo ha dovuto seguire per adeguarsi a quella che ho definito «metrica europea».
Rimango in attesa, pertanto, di documenti scritti secondo la corretta «metrica»: li porterò in Europa e vi relazionerò circa le reazioni che susciteranno. Riferirò che le proposte contenute nei documenti che mi farete pervenire sono avanzate dall'Italia, non dal Governo, e chiederò ai partner europei di dirmi se esse possano funzionare oppure no. Vi assicuro che i colleghi tedeschi, francesi e inglesi vi daranno risposte oneste, di consenso europeo. Mi permetto di sostenere, avendo conoscenza della situazione, che saranno risposte non particolarmente ottimistiche. Voi, però, fornitemi i documenti. Li presenterò in sede europea - ripeto - e poi vi riporterò anche il consenso dell'Eurogruppo, dell'Ecofin, in merito alla fattibilità delle proposte.
Noi abbiamo elaborato un testo che riteniamo realistico e che passerà, pur con il tratto prudenziale che lo caratterizza.
Avanzate, però, le vostre proposte. Oggettivamente, non è pervenuto molto materiale al Ministero dell'economia e delle finanze. Comunque, noi aspettiamo le proposte, le quali, tuttavia, devono essere scritte con la metrica giusta. Non basta la protesta: servono le proposte. Noi siamo qui: prendiamo le proposte, le aggreghiamo tutte al Programma nazionale di riforma italiano e aspettiamo le risposte.

PRESIDENTE. Ricordo ai colleghi che siamo stati noi a chiedere un intervento più generale. Il Ministro, il quale è dotato di impianto start and stop, alla prima domanda, è partito...


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Se ci atteniamo al contesto, forse, riusciamo ad avere le risposte a tutte le nostre domande.

MARCO CAUSI. Signor presidente, avevo due domande molto attinenti all'oggetto dell'audizione, ma a questo punto, dopo le affermazioni del Ministro, non posso non svolgere una premessa.
Invito il Ministro a una maggiore correttezza nei rapporti con le opposizioni. L'Eurostat e le altre sedi europee devono valutare i documenti dei Governi e degli Stati, non i documenti politici dei partiti politici. Credo, quindi, che il Governo sbagli: considero un errore politico trattare in maniera non rispettosa documenti mediante i quali i partiti politici di opposizione cercano di offrire un contributo alla soluzione dei problemi del Paese. I documenti di cui stiamo parlando non vanno a Bruxelles. Agli organi dell'Unione europea saranno trasmessi il Programma di stabilità, il Programma nazionale di riforma e gli impegni di finanza pubblica che il Paese sta assumendo in questi giorni, come esposti nel Documento di economia e finanza e nei materiali allegati, non nei documenti dell'opposizione.
Se ci incamminassimo sulla stessa strada del Ministro - che io, però, non vorrei percorrere -, le opposizioni potrebbero chiedere, ad esempio, quale sia stata la risposta dell'Europa al Programma nazionale di riforma presentato dal Governo nell'ottobre scorso.
Più specificamente, se andiamo a sfogliare il precedente PNR, quello dell'ottobre scorso, ci accorgiamo che in ben quindici pagine sulle quaranta complessive del documento si parla del nucleare. In altre parole, nel Programma nazionale di riforma che il Governo e il Ministro hanno portato in Europa a ottobre dell'anno scorso si sostiene - in quindici pagine su quaranta, ripeto - che lo sviluppo italiano dei prossimi anni è basato sulla scelta nucleare.
Adesso, quindi, potrei chiedere al Governo di dirci, gentilmente, come si sia espressa l'Europa su quel Programma nazionale di riforma e, inoltre, come l'Europa si esprimerà da domani, atteso che il Governo ha scelto di non assegnare più al nucleare, dopo appena cinque mesi, la funzione di volano principale dello sviluppo dell'Italia.
Allora, non mi inoltrerei su questo piano inclinato e, invece, se il Ministro desidera ascoltare e non soltanto farsi ascoltare, sfrutterei le sedi parlamentari per parlarsi e non per suscitare polemiche.
Chiusa la premessa, che era a questo punto doverosa, mi ero preparato un intervento che esordiva con un ringraziamento al Ministro: lo ringraziamo, io e i miei colleghi, con i quali mi sono consultato poco fa, perché il Ministro, stamani, ci ha fatto finalmente capire quale sia la portata del decreto-legge n. 26 del 2011.
In effetti, signor Ministro, le dobbiamo confessare che non l'avevamo capito. Non avevamo capito nulla! Soltanto adesso abbiamo chiara la situazione. A noi sembrava che il provvedimento d'urgenza fosse motivato da un'esigenza contingente. In particolare, essendo entrato in vigore, a marzo dello scorso anno, il decreto legislativo n. 27 del 2010, di attuazione della direttiva 2007/36/CE, relativa all'esercizio di alcuni diritti degli azionisti di società quotate, ritenevamo che il Governo avesse pensato, nel primo anno di applicazione delle nuove regole, di concedere un po' di tempo in più sia alle predette società, per la convocazione dell'assemblea, sia agli azionisti, per organizzare meglio la loro presenza. Alla luce della necessità di applicare le nuove regole, che gli interessati stanno approfondendo proprio in queste settimane, tale motivazione era anche comprensibile, ma l'efficacia del provvedimento avrebbe dovuto essere temporanea.
Lei ritiene, invece, che la possibilità di convocare l'assemblea entro centottanta giorni dalla chiusura dell'esercizio debba essere introdotta nell'ordinamento in maniera definitiva e permanente. A questo punto, però, dovreste un po' cambiare - ve lo suggerisco - le motivazioni e la lettera


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del decreto-legge n. 26 del 2011, in quanto legate alla prima applicazione del decreto legislativo n. 27 del 2010.
Non avevamo capito anche un'altra questione. Noi tutti avevamo pensato, forse perché leggiamo troppo i giornali - sono d'accordo con il Ministro quando afferma che la stampa, spesso, distorce le fonti informative -, che il decreto-legge fosse legato alla specifica vicenda della Parmalat: tutti i giornali ne hanno parlato in questi termini.
Sul tema specifico eravamo preparati ad ascoltare, ma non solo. Aderendo alla lettura del provvedimento divulgata dalla stampa, ci sembrava che il collegamento tra le disposizioni da esso recate con altre attualmente in discussione presso il Senato offrisse l'opportunità per sviluppare una discussione più generale sulle politiche industriali in Italia, che noi, anche in quanto opposizioni, siamo pronti ad affrontare.
Ricordo al Ministro che circa tre anni fa, in occasione dell'esame parlamentare delle misure anticrisi, un emendamento delle opposizioni, che portava, tra le altre, anche la firma di chi sta parlando, suggerì al Governo di introdurre nel nuovo armamentario della Cassa depositi e prestiti un fondo strategico per gli investimenti, secondo il modello francese.
L'ipotesi di mettere a disposizione delle nostre imprese nuovi strumenti di politica industriale ci trova, dunque, assolutamente favorevoli. Naturalmente, rispetto a questa ipotesi, mancano, a nostro modo di vedere, criteri, linee guida, indirizzi atti a definire la portata, gli obiettivi, i limiti degli interventi, nonché i metodi di governance da applicare. Ad esempio, non è chiaro se gli interventi debbano avere una prevalente vocazione industriale, come sembrava trasparire, poco fa, dalle parole del Ministro, oppure se ne possa beneficiare anche il settore bancario.
Poiché si tratta di una scelta di grande rilevanza, desidereremmo sapere se l'obiettivo sia quello di incidere sull'economia reale, agevolando una ricostruzione o una ricomposizione del sistema industriale italiano, ovvero se anche gli interventi di cui stiamo discorrendo debbano avere come obiettivo quello di sostenere l'industria finanziaria.

PRESIDENTE. Poiché sono previsti numerosi interventi, inviterei i colleghi a porre le domande in maniera sintetica, in modo che il Ministro possa rispondere a tutti.

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Se la mia stima relativa al lifetime del documento del Partito Democratico ha determinato una reazione negativa, mi dispiace.
Mettiamola in questi termini: il semestre europeo, che è un esperimento, una novità non soltanto economica, ma anche politica, di enorme rilievo, per l'Europa e per ogni singolo Paese europeo, presuppone formalmente un processo di consultazione nazionale, cui devono partecipare i soggetti politici, in primis i Parlamenti, nonché le parti economiche e sociali. Si tratta, quindi, di un passaggio che fa parte del processo, durante il quale è attentamente valutata la tenuta, nella logica del semestre europeo, di tutte le proposte.
Potrebbe anche capitare che un Governo proponga il programma «A», ma non riesca a farlo accettare dalle parti sociali e dal Parlamento. Allora, il processo di consultazione serve a capire quali possibilità vi siano di ottenere il consenso dei soggetti politici ed economici su un certo programma. Personalmente, credo che il processo consenta di allegare ai documenti governativi, come annessi, anche le proposte degli altri soggetti politici ed economici. Mi spingo oltre: posso fare miei i vostri documenti e portarli in Europa per l'analisi di fattibilità. Non è decisiva la provenienza dei documenti: a mio avviso, il processo contiene lo spazio, un segmento, per accogliere i risultati della discussione svoltasi in Parlamento e nella società.
Il mio interesse è così grande da indurmi a fare miei i vostri documenti. Naturalmente, non potrò accettare ipotesi contrarie a principi politici che, invece, devono rimanere fermi, quali l'introduzione


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di forme di tassazione che non fanno parte del nostro programma elettorale.
In seguito - apprezzerà il modo in cui lo dico, onorevole Causi -, vi riferirò cosa pensino i colleghi europei delle vostre proposte. Conoscendo un po' i criteri ai quali si attengono, penso che quelli che lei chiama «documenti politici», onorevole, resteranno tali: non avranno, cioè, la capacità di entrare in un processo che, bene o male, è improntato a un assoluto rigore, che ha poco di politico.
Lei stesso, onorevole Causi, ha affermato che il Partito Democratico ha elaborato documenti politici. Ebbene, dobbiamo cominciare a capire tutti - noi adesso, voi domani, noi dopodomani - che il Programma nazionale di riforma non è un documento politico: la cornice dei numeri è talmente stretta da togliere ad esso ogni respiro o visione politica, nel senso classico del termine. Quelli di cui si compone il Documento di economia e finanza sono documenti operativi.
Tutti i Paesi hanno presentato, lo scorso mese di novembre, il vecchio Programma nazionale di riforma, ma sapevano che si trattava di un documento preliminare. Al di là del nucleare, si trattava, quindi, di un «semilavorato». Nessuno lo ha studiato, perché era in atto la discussione sul semestre, che, peraltro, è finita tardi, perché il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo, che avrebbe dovuto svolgersi a febbraio, si è tenuto, invece, alla fine di marzo. Solo a giugno avremo il quadro finale.
Parlando da politico a politici, ripeto che il meccanismo cambia radicalmente. Non stiamo parlando di documenti politici nel senso classico del termine, ma di documenti che devono avere, quanto ai numeri, un contenuto assolutamente stringente: non si tratta, infatti, semplicemente di numeri del Governo, italiani, ma di numeri che devono essere condivisi anche dai nostri partner, i quali, a volte, sono critici attenti nei confronti delle politiche dei diversi Paesi. Non si può attuare una politica di un certo tipo in un Paese e una di un tipo diverso in un altro Paese.
Quando si propone di abbattere il debito vendendo gli immobili pubblici, la risposta, ripeto, è del seguente tenore: «L'idea è giustissima. Prima vendili, poi riferisci di quanto abbatti il debito». Non si può, invece, ragionare nei seguenti termini: poiché si prevede di abbattere il debito di un determinato importo, nel frattempo si finanzia una riforma.
Passando al decreto-legge n. 26 del 2011, non ho affermato che le disposizioni da esso recate assumeranno carattere permanente: se avessi quest'idea, vi proporrei una modifica del codice civile, che si configurerebbe quale strumento ordinamentale permanente. Ho affermato, invece, che stiamo verificando la possibilità di inserire il meccanismo nel software del «milleproroghe». L'anno scorso è stato fatto per una ragione e quest'anno per un'altra, che è esposta nella relazione. Penso che, considerati i cambiamenti in atto, anche per l'anno prossimo, forse, dovremo mettere in conto l'introduzione di un'analoga flessibilità temporale. Non ho affermato, quindi, che la misura sarà permanente. Arriveremo, probabilmente, a un punto di stabilizzazione. Se fosse stata ipotizzata un'instabilità permanente, avremmo apportato una modifica al codice civile.
Per quanto riguarda la Cassa depositi e prestiti, ricordo bene, onorevole Causi, la vostra ipotesi, peraltro corretta. Tuttavia, vorrei ricordare, se posso, e senza spirito polemico, quali reazioni suscitò la trasformazione di una direzione generale del Tesoro in società con personalità giuridica, nella cui base azionaria era previsto l'ingresso di soci privati: l'operazione fu catalogata come «finanza creativa».
In realtà, ho proposto di trasformare la Cassa depositi e prestiti in Spa, come la SACE, per realizzare ciò che all'estero esisteva già. Si trattava, quindi, non di creazione, ma di emulazione, perché la Caisse de dépôt è un gigante dell'economia francese, come la KfW è un gigante dell'economia tedesca.
Al nostro Paese mancava uno strumento analogo, che diventerà sempre più importante per l'economia. Al momento


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attuale, la Cassa depositi e prestiti ha immesso nel circuito economico pubblico e privato più di 100 miliardi di euro, che rappresentano una somma certamente non marginale.
In precedenza, la Cassa concedeva finanziamenti ad amministrazioni locali; adesso, finanzia l'economia. Il suo impegno crescerà, ma senza alcun rischio, in conformità a criteri di governo e a una logica totalmente prudenziali - nessuno ha in mente di distruggere i valori capitali costituiti dall'affidamento -, e progressivamente si sposterà, con un patrimonio di esperienza arricchito, verso l'economia privata (all'interno della Cassa vi sono, lo ricordo, soci privati, come le fondazioni di origine bancaria). L'iniziativa, quindi, è molto seria.
Credo sia stato giusto trasformare la Cassa depositi e prestiti in Spa. Ritengo giusta, altresì, la proposta - che avete avanzato l'anno scorso, e che stiamo attuando - di creare un fondo per sostenere l'economia.
Per quanto riguarda le banche, tema che non è opportuno trattare in pubblico di mattina, penso che il processo di capitalizzazione delle stesse sia strategico per tutte le economie europee. Il processo è in atto, e vede l'assunzione progressiva di responsabilità da parte dei soci delle banche. Credo che esso sia importante anche per la nostra economia.
Guardando a quest'ultima, ritengo che non sia all'ordine del giorno, in Italia, il ricorso a meccanismi di backstop - pure suggerito in sede europea -, nel senso che, nell'ipotesi in cui non arrivasse il privato, allora si dovrebbe comunque garantire alle banche di importanza sistemica un certo grado di capitalizzazione. Dobbiamo avere fiducia nel senso di responsabilità della proprietà e delle basi associative delle nostre banche. Comunque, il processo è giustissimo.

IVANO STRIZZOLO. Procederò per flash.
Signor Ministro, lei ha ironizzato sulle proposte del PD, formulando inopportune previsioni sul loro lifetime nelle sedi europee deputate a valutare i documenti di programmazione economico-finanziaria dei singoli Stati.
Ebbene, allora mi spieghi come mai, nonostante i robusti tagli attuati dal Governo, il debito pubblico è aumentato, tra la fine del 2008 e la fine del 2010, di circa 200 miliardi di euro e, allo stesso tempo, la crescita del Paese è stata di poco superiore allo zero. Questi sono dati reali. Quali sono le motivazioni?
Inoltre, lei ha istituito, doverosamente e giustamente, dopo anni e anni di annunci, alcuni tavoli tecnici per realizzare una grande riforma fiscale. Come si coniuga il lavoro dei tavoli tecnici con il processo di attuazione del federalismo fiscale? Non c'è il rischio di un intreccio pericoloso, che potrebbe determinare una sorta di paralisi del sistema fiscale italiano?
Vengo all'ultima questione. La Commissione ha finalmente avviato l'esame, in sede referente, di alcune proposte di legge sull'abuso del diritto in materia tributaria. Ci risulta che importanti soggetti quali ABI, ANIA e Confindustria le abbiano sollecitato, tempo fa, un intervento normativo atto a rendere più certi e stabili i rapporti tra i contribuenti, in questo caso le imprese, e il fisco.
Mi interessa sapere, quindi, se da parte del Ministero dell'economia e delle finanze ci sarà un «OK» a proseguire il lavoro avviato in Commissione, oppure se vi siano, al riguardo, problemi o dubbi.

PRESIDENTE. Onorevole Strizzolo, se il Ministro intende rispondere alle domande da lei poste, è libero di farlo. Tuttavia, per evidenti ragioni anche di tempo, eviterei di andare a ruota libera su tutto ciò che riguarda il fisco. Forse, dovremmo attenerci un po' di più al tema dell'audizione.

IVANO STRIZZOLO. Signor presidente, chiedo che il Ministro risponda almeno alla mia prima domanda, dal momento che ha ironizzato sui documenti del PD.

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Onorevole Strizzolo,


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al di là dell'idea dello yogurt e della relativa scadenza, ho l'impressione che dobbiamo tutti produrre una documentazione diversa da quella finora prodotta, naturalmente cercando di essere il più possibile costruttivi e innovativi.
Onestamente, finora, ho ricevuto e sentito una relativa quantità di critiche e di considerazioni negative sul Programma nazionale di riforma, ma non mi sono ancora pervenute proposte, o comunque proposte che abbiano quel tipo di metrica che deve connotare i documenti di programmazione economico-finanziaria.
Ripeto: prenderò il vostro documento, lo porterò all'Eurostat, lo sottoporrò ai tedeschi, ai francesi, agli inglesi, e vi riferirò le loro valutazioni. Avendo un'idea di come ragionano, e poiché il criterio è che ciò che va bene in Italia debba andar bene anche in Germania, e viceversa, ho l'impressione che il documento non presenti una particolare fattibilità e agibilità.
È un'impressione personale, certo, ma vi darò la documentazione ufficiale quando questa sarà disponibile.
Il senso del semestre europeo è che la politica economica deve essere il più possibile coordinata: ciò che si ritiene giusto per l'Italia deve essere considerato giusto anche per la Germania e per gli altri Paesi, perché non possiamo più avere ventisette politiche economiche diverse.
Farò mio, quindi, il vostro documento di politica economica, lo presenterò in Europa e vi riporterò le reazioni che esso susciterà nei colleghi degli altri Stati membri.
Credo, comunque, che l'interesse di tutti, da ora in avanti, sia quello produrre di più e anche diversamente, con nomi, cognomi, indirizzi, numeri, date e tempi. Invece, ho visto moltissimi documenti in cui l'unico numero non teoretico era quello delle pagine.
Il processo che è stato avviato, che voi sarete chiamati a proseguire - il più tardi possibile, suppongo -, è radicalmente diverso dal processo politico finora condotto nei Parlamenti nazionali, incluso quello italiano. Ad ogni modo, aspettiamo e vedremo.
Per quanto riguarda il debito, forse non ha prestato attenzione, onorevole Strizzolo, ai documenti del Fondo monetario e dei forum internazionali che ho fornito ieri. Comunque, possiamo discuterne.
I debiti pubblici sono saliti a una velocità impressionante in tutto il mondo occidentale, anche in Asia. Sono aumentati a una velocità enormemente superiore a quella che ha caratterizzato la crescita del debito italiano.
Potevamo comportarci diversamente, con il PIL che cadeva? Certo, ma avremmo dovuto negare le medicine agli ammalati o la pensione ai pensionati, ai quali avremmo dovuto spiegare che, altrimenti, si sarebbe deteriorato il ratio. Invece, abbiamo garantito la tenuta sociale al massimo grado possibile. Naturalmente, abbiamo impedito dinamiche espansive, ma abbiamo garantito tutti i diritti quesiti, anche a fronte di un deterioramento del PIL, verificatosi in quanto è crollato il commercio mondiale, a causa del venir meno dell'elemento fiduciario.
Questa è la fenomenologia della crisi in Italia. È caduto il PIL, ma abbiamo mantenuto i diritti sociali, al massimo grado possibile. Sono convinto che la nostra sia stata la politica migliore sotto il duplice profilo dell'etica sociale e della morale pubblica.
In altri Paesi, la crescita del debito è stata dovuta non soltanto al calo del PIL e alla garanzia sociale, ma anche alla necessità di colossali interventi a sostegno del settore bancario e finanziario, che in Italia, invece, non sono stati necessari. Questa è la realtà.
Come lei può constatare, onorevole, il debito pubblico cresce in tutto il mondo - a velocità enormemente superiore a quella con cui aumenta il debito pubblico italiano -, in dipendenza di precise scelte di politica economica e finanziaria, tra cui quella di sostenere i consumi. Noi non potevamo fare una scelta analoga. Aggiungo che è servito a poco sostenere i consumi ampliando la spesa pubblica: non


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si sono registrati, infatti, risultati importanti; si sono visti alcuni risultati sul PIL, ma non colossali.
Altrove, l'aumento del debito pubblico è da ricondurre soprattutto al fatto di avere usato la mano pubblica per sostenere il sistema bancario e finanziario. Questa è la realtà.
Quindi, onorevole Strizzolo, alla domanda se il debito pubblico italiano sia cresciuto, rispondo di sì (del resto, lo si vede dai numeri). La ragione, come ho riferito in precedenza, è che non abbiamo negato alle persone ciò che consideravamo giusto dare loro, in quanto corrispondente a precisi diritti sociali.
È vero che non abbiamo effettuato spesa per sostenere i consumi, ma questa si è rivelata, alla fine, una felix culpa. Eppure, quante volte ho sentito affermare che avremmo dovuto creare deficit per sostenere la domanda! Credo che sarebbe stata una scelta sbagliata, e la realtà di altri Paesi lo dimostra.
Per fortuna, non abbiamo avuto la necessità di effettuare scelte che, ve lo comunico, avremmo avuto difficoltà a compiere, quale quella di usare i soldi dei cittadini per salvare banche sull'orlo del fallimento.

MAURIZIO LEO. Con riferimento al decreto-legge n. 26 del 2011, è sicuramente condivisibile, come lei affermava, Ministro, la scelta di introdurre una norma che differisse il termine per la partecipazione alle assemblee societarie. Invero, gli statuti possono legittimamente prevedere, per l'approvazione del bilancio, un lasso temporale non superiore a centottanta giorni, anziché centoventi, dalla chiusura dell'esercizio. Tuttavia, è chiaro che l'intervento legislativo si rendeva necessario per dare analoga possibilità anche a quelle società i cui statuti non recano una disposizione in tal senso. Si tratta, pertanto, di una scelta sicuramente condivisibile, che apprezziamo.
Penso, inoltre, che le sia dovuto un sincero ringraziamento, Ministro, per come ha gestito la finanza pubblica nel periodo, particolarmente complesso, successivo alla crisi internazionale.
In altri momenti, forse, si è scelto di far fronte alla spesa sociale mettendo in campo strumenti fiscali molto invasivi: basti pensare all'indeducibilità degli ammortamenti anticipati o alla stretta sulla deducibilità degli interessi passivi. Invece, il Governo in carica si è mosso sulla strada del contrasto all'evasione fiscale: sono stati potenziati gli strumenti di accertamento (redditometro, accertamento sintetico) ed è stata combattuta l'elusione legata alla fiscalità internazionale. Si tratta di una politica sicuramente ragionata, che, come si suole dire, non ha messo le mani nelle tasche degli italiani.
Ciò premesso, Ministro, mi piacerebbe avere una sua valutazione su un aspetto che, probabilmente, genererà un po' di preoccupazione nei contribuenti da qui a pochi mesi.
Correttamente, si è optato per il superamento del meccanismo di riscossione delle imposte imperniato sulla cartella di pagamento. Si tratta di una scelta sicuramente allineata con gli standard europei. In particolare, l'articolo 29 del decreto-legge n. 78 del 2010 ha stabilito che l'agente della riscossione procede ad espropriazione forzata - con i poteri, le facoltà e le modalità previste dalle disposizioni che disciplinano la riscossione a mezzo ruolo - senza la preventiva notifica della cartella di pagamento: ciò in relazione agli avvisi di accertamento, e ai connessi provvedimenti di irrogazione delle sanzioni, emessi dall'Agenzia delle entrate ai fini delle imposte sui redditi e dell'imposta sul valore aggiunto, notificati a partire dal 1o luglio 2011 e relativi ai periodi di imposta in corso alla data del 31 dicembre 2007 e successivi. I predetti atti, i quali devono contenere anche l'intimazione ad adempiere al pagamento degli importi in essi indicati (o, in caso di proposizione del ricorso, di quelli dovuti a titolo provvisorio in pendenza del giudizio tributario), acquisteranno efficacia di titolo esecutivo decorsi sessanta giorni dalla notifica, e dovranno recare l'avvertimento


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che, decorsi trenta giorni dalla scadenza del termine ultimo per il pagamento, la riscossione delle somme richieste sarà affidata in carico agli agenti della riscossione anche ai fini dell'esecuzione forzata.
Il problema è legato al fatto che il 1o luglio 2011 è una data assai ravvicinata. Probabilmente, a seguito della «rivoluzione copernicana» attuata con l'articolo 29 del decreto-legge n. 78 del 2010, di cui ho sinteticamente ricordato il contenuto, i contribuenti cui sarà notificato un avviso di accertamento relativo a periodi di imposta dal 2007 in poi si affretteranno a presentare ricorso alle commissioni tributarie, in numero maggiore di quanto già non accada, al fine di ottenere la sospensione dell'esecuzione degli atti impugnati. Tuttavia, come sappiamo bene, le commissioni tributarie non sono attrezzate per far fronte a una simile evenienza.
In proposito, vorrei sapere se ritenga possibile, signor Ministro, un differimento almeno di alcuni mesi del previsto termine del 1o luglio 2011. Consentendo alle commissioni tributarie di attrezzarsi meglio, il differimento del termine scongiurerebbe gli effetti, assolutamente deflagranti, che potrebbero derivare da un eccesso o da un difetto di provvedimenti di sospensione. In tal modo, il sistema diventerebbe più coerente, anche sul versante del contenzioso, e si eviterebbero problemi seri sia ai contribuenti sia all'Amministrazione finanziaria.

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Prendo atto di quanto da lei segnalato, onorevole Leo.

GIAMPAOLO FOGLIARDI. Signor Ministro, desidero portare alla sua attenzione una situazione che gli imprenditori rappresentano sovente ai propri commercialisti.
Lei ha invitato a presentare proposte, e ha giustamente sostenuto che non si tratta di difendere, ma di sviluppare l'economia. Ha sottolineato, inoltre, come le imprese con meno di quindici dipendenti svolgano il ruolo di colonna portante del nostro sistema economico. Noi che siamo la seconda manifattura d'Europa, dobbiamo promuovere la crescita delle nostre imprese, di cui non si può che riconoscere la capacità imprenditoriale. Ebbene, non ritiene che, in un momento in cui si intravedono segnali leggermente positivi, sia opportuno prevedere qualche forma di incentivazione?
Sono molti gli imprenditori italiani che stanno rientrando dai Paesi dell'Est, anche perché l'illusione che in quei Paesi si potesse sviluppare l'industria si sta un po' ridimensionando. So che stanno pensando di ritornare in Italia, ad esempio, alcune imprese manifatturiere del Veneto che operano nei settori delle calzature e dell'abbigliamento.
Non ritiene che, in questo momento, o anche in prospettiva futura, si potrebbero attuare alcuni interventi concreti richiesti dagli imprenditori? Come ho avuto modo di rilevare, discutendone con i colleghi di partito, ma anche sollevando il problema nei dibattiti parlamentari, si è perduta l'occasione del «milleproroghe».
Non pretendo certamente di imporre le mie valutazioni, ma alcuni strumenti ai quali si è fatto ricorso in passato - ad esempio, la rivalutazione ai fini civilistici dei fabbricati e dei terreni non edificabili detenuti dalle imprese e la detassazione di alcuni investimenti - si sono rivelati molto utili. Al di là di una «Tremonti-ter» o di una «Tremonti-quater», si potrebbe introdurre un incentivo anche per chi cerca di mettere insieme le imprese dal basso.
L'imprenditoria con meno di quindici dipendenti ha ancora voglia di fare e svolge tuttora il ruolo di elemento portante della nostra economia. Si tratta di gente che, probabilmente, si recherà in fabbrica anche a Pasquetta, che non è stanca di tirare la carretta e che, pertanto, meriterebbe una particolare attenzione.
Il tema sul quale si è soffermato il presidente Leo poco fa è di grande attualità per noi professionisti, quotidianamente costretti a passare da un ufficio all'altro dell'Agenzia delle entrate. Me ne lamentavo proprio ieri con il direttore Befera, in occasione di un'audizione nella quale abbiamo affrontato alcune problematiche


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tributarie di competenza dell'Agenzia delle entrate: ci sono piccole aziende, piccoli negozianti, piccoli artigiani, i quali, in cinque anni, sono stati sottoposti a verifica cinque volte, anche per effetto dell'applicazione degli studi di settore. Capita, così, di perdere tanto tempo e tante energie a causa di «fregnacce» (mi perdoni il termine, Ministro).
Premesso che a quanto sto per affermare non è sotteso alcun intento razzista, esiste anche il problema, che ho evidenziato ieri, di tutti i laboratori abusivi, gestiti soprattutto da cinesi, i quali stanno creando notevoli problemi al nostro tessuto economico. Sia chiaro che il mio pensiero non coincide in alcun modo con quello dei leghisti, che comunque rispetto. Sono favorevole all'apertura della nostra società agli stranieri: ci mancherebbe altro! Tuttavia, se gli stranieri che vengono in Italia devono rispettare, come noi, le nostre leggi, bisogna anche che le autorità cui compete la vigilanza sulla corretta applicazione delle regole svolgano tale compito in maniera adeguata. È possibile che questi laboratori non siano mai oggetto di ispezioni da parte delle autorità preposte ai controlli fiscali, previdenziali, sanitari e via discorrendo?
Il problema che sto sollevando è quello del rispetto delle regole. Molte imprese edili italiane sono in crisi anche perché molti artigiani operano nel settore senza adeguarsi, ad esempio, agli obblighi previdenziali. Molti imprenditori mi segnalano, affinché io ne riferisca nella sede parlamentare, situazioni caratterizzate dal ricorso a lavoro nero.
Chiedo, quindi, che l'Agenzia delle entrate, per la parte di propria competenza, cominci a interessarsi un po' di più a tali situazioni e un po' meno ai piccoli imprenditori, agli artigiani e ai commercianti cui ho fatto riferimento in precedenza.
Signor Ministro, non voglio interferire con i suoi programmi, né pretendo che lei debba occuparsene domani mattina, ma credo che interventi come quelli cui ho fatto riferimento (rivalutazione e detassazione) potrebbero rimettere in moto l'economia pur senza determinare riduzioni di gettito per l'erario.
Collegando il tema in esame con le problematiche della finanza pubblica, capisco che gli enti territoriali non possano oltrepassare i limiti imposti dal Patto di stabilità interno; tuttavia, considerato che i comuni stanno sfornando nuovi piani urbanistici, generali e attuativi, mediante i quali o si creano nuove aree edificabili o si prevede il recupero del patrimonio edilizio, anche di centri storici, credo che le iniziative da me ricordate contribuirebbero a migliorare la situazione. Esse devono essere supportate, però, da un'azione dell'Agenzia delle entrate e della Guardia di finanza volta a far rispettare le regole da parte di tutti.

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Grazie per l'intervento.
Quando ho invitato ad avanzare proposte e ad accettare una determinata convenzione, ho specificato che alcune proposte sono da piano - o da programma, attenendoci al lessico del semestre europeo - e altre sono più specifiche. Pur essendo tutte benvenute, quelle da piano sono da portare in Europa, mentre quelle più specifiche sono da consumare in loco.
Premesso che entrambe le tipologie di proposte sono importanti, se quelle da lei avanzate, onorevole Fogliardi, si potessero riprodurre, come si fa per i disegni con il pantografo, su scala più ampia, in modo da essere adatte anche per il piano, sarebbero benvenute ancora di più. Comunque, simuliamo, in piccolo, una discussione che dovrebbe essere svolta ad un livello più ampio.
Nel 1994, con il decreto-legge n. 357, «inventammo»: il premio di assunzione, il primo mai introdotto in Italia, consistente in un credito di imposta per imprese ed esercenti arti e professioni che assumevano con contratto a tempo indeterminato soggetti al primo impiego o altri che si trovavano in particolari situazioni; agevolazioni fiscali per le società che si quotavano in borsa; la detassazione del reddito


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di impresa reinvestito, ad esempio, in nuovi impianti o in beni strumentali nuovi.
Il provvedimento si finanziava autonomamente, in quanto, creando nuovo imponibile, generava essa stessa entrate superiori alle riduzioni di gettito. A uno specifico rilievo della Ragioneria generale dello Stato rispondemmo individuando alcune coperture. In realtà, la riduzione dell'aliquota IRPEG per le società che si quotavano in mercati regolamentati non faceva perdere gettito, ma lo faceva recuperare. Infatti, le società quotate, da un lato, sono più trasparenti e, dall'altro, devono realizzare utili, perché devono distribuire dividendi.
Alla fine, il Ragioniere generale dello Stato appose, tramite la bollinatura, il proprio visto di conformità per correntezza, in quanto la formula di copertura utilizzata era di tipo macroeconomico.
Adesso il mondo è cambiato: come sapete bene, quel tipo di copertura non è più praticabile. Si devono adottare criteri più stringenti, magari più stupidi, ma sui quali si conviene dappertutto. Il finanziamento aperto a copertura, che il buonsenso porterebbe ad accettare, purtroppo, non basta più. Si devono studiare altre soluzioni.
Alcune delle proposte che lei ha avanzato, onorevole Fogliardi, avrebbero, a mio avviso, un'efficacia ridotta. Torno a ripetere che, quando abbiamo tentato di agevolare le aggregazioni tra imprese - lo avete fatto anche voi -, gli incentivi non hanno funzionato: le piccole imprese non hanno approfittato dei benefici per fondersi tra loro, mentre le grandi si fondevano per altre ragioni.
Per quanto riguarda la detassazione degli utili reinvestiti, sono assolutamente d'accordo, avendoli «battezzati» personalmente già nel 1994. Tuttavia, si pone il problema della copertura, che non può essere aggirato. Si tratta di un'iniziativa giusta, ma occorre capire come trovare la copertura.
Una questione sulla quale, invece, potremmo lavorare - se volete, anche insieme - riguarda l'esistenza effettiva, nei confronti delle imprese, di un quantum di controlli, o comunque di ispezioni, di accessi e di visite assolutamente incredibile ed eccessivo, che impone una costosa corvée: si pensi al tempo che i controlli sottraggono, allo stress che procurano, alle occasioni di corruzione che creano, anche a causa dell'eccesso di potere che si attribuisce.
Così configurato, il meccanismo è non di pressione, ma di oppressione fiscale, che dobbiamo interrompere. Tuttavia, la proposta da avanzare deve essere equilibrata.
Alcune questioni non possono essere risolte nel modo in cui lo fa, ad esempio, la legislazione in materia di sicurezza sul lavoro. Una volta, mi sono permesso di affermare che alcuni aspetti del decreto legislativo n. 626 del 1994, successivamente trasfuso nel decreto legislativo n. 81 del 2008, andavano cambiati, ma le mie parole hanno scatenato una polemica eccessiva. A livello di laboratorio artigiano, si possono compiere alcuni interventi; a livello di altoforno, magari, i controlli devono essere intensificati. Comunque, esclusi i settori sensibili, come quelli che presentano le maggiori esigenze sotto il profilo della sicurezza sul lavoro, ve ne sono molti altri in relazione ai quali potremmo immaginare qualche forma di concentrazione. In altre parole, potremmo individuare un criterio che, fatte salve le esigenze del controllo erariale, riduca la frequentazione delle imprese da parte di soggetti incaricati di eseguire controlli, secondo un ciclo continuo in cui si alternano i vigili urbani e, via via, tutti gli altri ispettori.
Se riuscissimo a trovare un criterio per contemperare le esigenze sottese alle varie forme di controllo e l'attività delle imprese, renderemmo un servizio all'economia del Paese. Occorre individuare, però, un criterio equilibrato.
È un'idea alla quale abbiamo cominciato a lavorare. Se in Parlamento dovessero emergere idee e proposte su questo tema, saranno benvenute. Fermo restando il discorso della sicurezza sul lavoro, che non può essere messa in discussione, su tutto il resto - sui vigili urbani che


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vengono a chiedere le etichette e sull'andirivieni degli ispettori - possiamo trovare un modo per intervenire: magari, attuando un coordinamento dall'alto, oppure riconoscendo, in qualche modo, il diritto di poter affermare: «Non mi rompete più di tanto».
Occorre un intervento efficace. Se lo troviamo tutti insieme, in Parlamento, rendiamo un servizio a milioni di imprenditori, i quali non vogliono subire controlli che trasmodino nella «rottura di scatole».

PRESIDENTE. Potremmo approfittare del mese di agosto, durante il quale, di solito, si consegnano le chiavi alle autorità. Si è aperta una discussione molto interessante...

FRANCESCO BARBATO. Ringrazio il Ministro dell'economia e delle finanze, anche a nome del gruppo parlamentare Italia dei Valori, per la sua partecipazione all'audizione odierna.
Venendo senz'altro al tema, ovvero al decreto-legge n. 26 del 2011, recante misure urgenti per garantire l'ordinato svolgimento delle assemblee societarie annuali, le chiedo, signor Ministro, accogliendo l'invito del presidente a formulare domande asciutte, se non ritenga che il predetto provvedimento attui, ancora una volta, una politica protezionistica. Sembra che ci si arrocchi sempre di più, quasi come se ci si volesse chiudere in un fortino. Ebbene, rispetto a un sistema economico ormai globalizzato, se si ha paura della Cina, o del nuovo che avanza, la reazione peggiore è proprio quella di arroccarsi, di chiudersi nel fortino.
Signor Ministro, desidero segnalarle che il World Economic Forum ha pubblicato il Global Information Technology Report 2010-2011, contenente i Networked Readiness Index Ranks, i quali indicano la capacità dei Paesi di beneficiare pienamente delle nuove tecnologie nelle loro strategie competitive. Purtroppo, l'Italia ne esce davvero molto male, e ciò conferma l'incapacità del suo Governo di mettere in moto i meccanismi necessari per consentire al nostro Paese di essere all'altezza degli altri. Ancora una volta, risultiamo agli ultimi posti della classifica tra i Paesi europei e precediamo soltanto la Grecia. Ormai, siamo stati superati dal Costa Rica, dall'Uruguay e persino dalla Tunisia (nella quale ci rechiamo in pellegrinaggio quasi quotidianamente).
Dal momento che dobbiamo occuparci di società, in ordine alle quali ha opportunamente preso alcune iniziative, colgo l'occasione per rammentarle, signor Ministro, che il mondo delle imprese, a leggere le dichiarazioni pubblicate nei giorni scorsi dalla stampa, si sente, mai come questa volta, abbandonato dal Governo. Insomma, gli imprenditori hanno la sensazione di essere stati lasciati soli, in quanto i provvedimenti del Governo seguono una logica emergenziale, affrontano i problemi giorno per giorno, e non sono espressione di una politica economica capace di guardare a medio e lungo termine.
Inoltre, poiché sulla tempistica della riforma fiscale ho presentato già due interrogazioni a risposta immediata in Commissione senza avere alcun riscontro concreto, le chiedo, signor Ministro, di dare risposta, in questa sede, alla domanda che le ho infruttuosamente rivolto attraverso il sindacato ispettivo.
L'ultima volta, il sottosegretario ha addirittura affermato che la materia non si prestava ad annunci e ad anticipazioni (come se si trattasse di ordire un complotto...). È esattamente il contrario: il mondo economico e tutti i contribuenti vogliono certezza di regole e di tempi, dal momento che, se non si sa dove si va a parare, è estremamente difficile programmare.
Se, invece, si vuole far credere che, indicando i tempi di attuazione della riforma fiscale, peraltro già annunciata più volte dallo stesso Governo, si potrebbero turbare i mercati, l'inconsistenza dell'argomentazione renderebbe evidente l'incapacità di dare una risposta.
Signor ministro, confido nella sua serietà. Faccia conto che, in questo momento - ho anche i capelli molto lunghi -, io sia Emma Marcegaglia e le rivolga la seguente domanda: «Gradirei sapere il


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giorno, il mese e l'anno in cui porterà in Consiglio dei ministri una proposta di riforma fiscale».
Inoltre, poiché ha parlato da politico a politici, non posso fare a meno di rilevare come il Ministro Alfano, dopo essere stato designato dal Presidente Berlusconi come prossimo Presidente del Consiglio, abbia immediatamente messo in campo una riforma definita «epocale», di cui, peraltro, si sta parlando molto.
Orbene, poiché il vostro Premier aveva promesso, durante la campagna elettorale, due grandi riforme, quella della giustizia e quella fiscale, mi pongo, e rivolgo anche a lei, il seguente interrogativo: la riforma della giustizia si farà perché il Ministro Alfano è stato designato come successore del Presidente del Consiglio, mentre di quella del fisco non si sa ancora nulla perché lei, purtroppo, ha subito una deminutio?

PRESIDENTE. È un provocatore...

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Prendo atto della sua attenta lettura dei rapporti del World Economic Forum di Davos, i quali, francamente, suscitano talvolta qualche perplessità e, pertanto, non costituiscono, in generale, oggetto di particolare interesse. Sono molto più degni di attenzione altri rapporti, più seri e attendibili.
Lei ha fatto riferimento alla Tunisia, al Costa Rica e all'Uruguay. A quale proposito? Si riferiva alla sviluppo economico? Al progresso scientifico? È davvero convinto che il nostro Paese sia così indietro o riferisce la convinzione altrui?

FRANCESCO BARBATO. Ho letto ciò che è stato pubblicato sui giornali.

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Molto francamente, un Paese che ha uno sviluppo tecnologico di rilievo è Israele, di cui il secondo partner, nel campo della ricerca e dello sviluppo industriale, scientifico e tecnologico, è proprio l'Italia, non il Costa Rica, né la Tunisia, e nemmeno l'Uruguay.
I rapporti del World Economic Forum si interessano, tra l'altro, del grado di sviluppo dell'attività di impresa. Certo, se si vuole prendere una ruspa e spianare una giungla per realizzare una pista, lo si può fare in un mese. Il Paese che lo fa sarà anche liberissimo, ma non necessariamente avanzato. Un altro esempio? Il narcotraffico gode - come dire? - di notevoli riduzioni del carico burocratico e contabile, ma non si può sostenere che il Paese in cui esso prospera sia quello in cui c'è maggiore libertà di impresa, perché quest'ultima e l'attività illecita sono entità non comparabili. Voglio dire, insomma, che le classifiche vanno viste cum grano salis.
Qual è, invece, la graduatoria osservando la quale dobbiamo sentirci orgogliosi? Noi siamo comunque, e saremo ancora, un Paese del G7. Siamo la seconda manifattura d'Europa, e abbiamo una struttura economica che esprime grandi numeri, tali considerati nel mondo.
Naturalmente, in una logica afflittiva, dannunziana, o da sinistra storica minimalista dell'Ottocento, si parla di «Italietta»: è allucinante, ma, probabilmente, fa parte della nostra cultura. Anche nel primo cinquantenario dell'Unità d'Italia, nel 1911 - l'Italia era la quinta potenza industriale del mondo e una grande democrazia liberale, nella quale era stato introdotto il suffragio universale maschile -, vi era, da una parte, Gozzano, il quale celebrava la possente vecchiezza di Giolitti e, parallelamente, c'era chi parlava di «Italietta».
Cerchiamo di darci una dimensione giusta. Dobbiamo e possiamo fare di più, ma non possiamo e non dobbiamo ignorare ciò che siamo. Le posso pertanto riferire, onorevole Barbato, che abbiamo alcuni numeri in più - su tutto - rispetto ai Paesi che lei ha citato.
Per quanto riguarda la data e l'ora della riforma fiscale, mi riservo di darle una comunicazione preventiva di almeno mezz'ora.

PRESIDENTE. Credo che la riforma fiscale si farà.


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ALESSANDRO PAGANO. Signor Ministro, grazie per essere con noi oggi. Per noi è sempre un piacere ascoltarla. Al di là dell'oggetto dell'audizione, costituito dal disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 26 del 2011, l'occasione è comunque ghiotta per apprendere, per spiegare - perché no? - e, ovviamente, ove possibile, anche per portare, mediante le domande, un umile e modesto contributo alla discussione. Confidiamo nella sua capacità di saper cogliere anche nelle domande di un certo tipo uno stimolo per poter immaginare taluni scenari. Naturalmente, la sintesi, alla quale il presidente ci ha invitati, mi induce ad esprimermi quasi per titoli.
I dati mostrano, e lei giustamente lo ricordava, che siamo la seconda manifattura d'Europa. Tuttavia, lo scenario che abbiamo davanti non è, secondo me, proprio esaltante.
Poiché non possiamo considerarci alla stregua di bivaccatori, abbiamo il dovere di immaginare cosa succederà fra dieci o vent'anni: è questo il compito alto di chi, come lei, Ministro, ha determinate responsabilità.
Se vogliamo capire come ci dovremo muovere, quali idee dovremo elaborare e concretizzare, dobbiamo assolutamente tenere conto di due dati.
Il primo è il crollo demografico, dinamica che non interessa soltanto a chi, come me, crede che la famiglia sia la cellula fondamentale di una società. Comunque, al di là di ciò che si ritiene al riguardo, da un punto di vista culturale, ci si deve interrogare sul fatto che, se non nascono figli, verrà meno la forza lavoro del Paese e, cosa assolutamente inquietante, la base produttiva si restringerà, sarà sempre più vecchia e costerà di più in termini di welfare. Le nostre partite IVA non saranno più 4 milioni nei prossimi anni, perché il calo demografico ne farà contrarre il numero.
Dobbiamo tenere conto di questa prospettiva oggi, o comunque a breve, in quanto, anche se ci mettiamo in testa di generare un numero maggiore di figli, occorreranno nove mesi per partorirli e vent'anni per farli crescere.
Il secondo dato è quello del Mezzogiorno, che è un contenitore vuoto, signor Ministro: le politiche assistenzialistiche attuate a partire dal secondo dopoguerra hanno prodotto questo risultato. La cultura non è una tara, ma una mentalità. Il Sud è stato assistito per quarant'anni, perché le braccia dei lavoratori servivano in altre aree del Paese. Adesso, è rimasto il dato culturale che ben conosciamo, rispetto al quale sono il primo e più ostinato censore. Sappiamo bene quali siano state le dinamiche negative che hanno caratterizzato la storia del Mezzogiorno. Tuttavia, ora abbiamo il dovere di renderci conto che proprio il Sud, essendo un contenitore da riempire, offrirà l'unica possibilità di autentico sviluppo nei prossimi anni.
In Germania dell'Est sono stati investiti in opere infrastrutturali, negli ultimi vent'anni, circa 1.200 miliardi di euro, con i seguenti risultati: il PIL dei cinque Länder orientali si è quadruplicato e l'indice di produttività è ormai molto vicino a quello occidentale.
L'Italia è la seconda manifattura d'Europa, sebbene una parte del Paese non abbia concorso a tale risultato, e noi siamo qui a discutere e a immaginare scenari futuri.
Giustamente, nel Programma nazionale di riforma sono stati individuati non soltanto gli interventi prioritari, ma anche le risorse a disposizione per attuarli. In proposito, atteso che i tempi non possono essere, ovviamente, quelli generazionali cui ho accennato, ma quelli di breve o di medio periodo, avrei bisogno di capire come tutto ciò possa essere articolato e realizzato all'interno della politica complessiva del Governo.

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Per quanto riguarda il calo demografico, non credo che il che processo in atto possa essere modificato in maniera più o meno istantanea: la longue durée, la curva dei grandi numeri,


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ha una sua dinamica. Dopo una battaglia, Napoleone osservò il campo pieno di morti e affermò: «Una notte d'amore a Parigi modificherà la curva demografica». Non era così, e Napoleone lo sapeva, perché coltivava la passione per la matematica.
Dobbiamo creare un ambiente favorevole, utilizzando molteplici strumenti, non soltanto giuridici, ma anche culturali, in un senso che riguarda il vissuto profondo dei popoli. Comunque, la demografia è strategica.
Quello del Mezzogiorno è un tema fondamentale e complesso, su cui sarebbe utile riflettere seriamente, in una o più occasioni.
Per essere chiari, il nostro è un Paese duale: lo ripeto da tempo, e adesso il concetto comincia ad avere una certa forza di penetrazione. Tuttavia, ancora oggi, nell'opinione pubblica e nell'ambito scientifico, si continua a trattare il caso italiano come se la realtà economica di riferimento fosse riducibile a un tutt'unico. In realtà, non è così: il Nord e il Centro crescono in un modo, e il Meridione in un altro. I numeri del Nord e del Centro sono uguali a quelli del Nord Europa, ossia della Germania, per essere chiari, mentre la media nazionale non è in alcun modo rappresentativa di una realtà mediana. Quando si va al pronto soccorso, non si chiede una ricetta generalista, ma una per la specifica malattia da cui si è affetti in quel momento.
Il nostro problema sta, dunque, nel fatto che siamo un Paese duale. Non volendo diventare anche un Paese diviso, dobbiamo ragionare sulla specificità del Nord e su quella del Sud. Sembra un concetto rivoluzionario: sta cominciando a diffondersi, ma tutti i nostri scienziati e accademici sono ancora orientati a trattare i numeri italiani come se fossero espressione di una realtà uniforme.
Questo è un aspetto su cui, in Europa, abbiamo avuto ragione. Del resto, già nei documenti del Trattato di Roma del 1957 si teneva conto della specificità del Meridione d'Italia, e il tema è stato ripreso in uno dei protocolli allegati al Trattato di Nizza. È una delle vie. Se l'interesse dell'Europa nel semestre è che cresca il continente, allora si deve prestare attenzione al fatto che nel continente, all'interno di un Paese, esiste un'area che non cresce a sufficienza. Dovranno cambiare le teste e la cultura, e dovremo superare una certa mentalità, secondo la quale era comodo fare riferimento all'Italia in generale. L'Italia è molto diversificata, ma noi vogliamo che non sia divisa.
Ciò premesso, non è corretto, secondo me, parlare di politiche assistenziali, dal dopoguerra, in maniera indifferenziata. Credo che, fino a un determinato periodo, le politiche infrastrutturali attuate attraverso la Cassa per il Mezzogiorno siano state fondamentali: esse hanno fatto in modo che il Sud si portasse fuori dall'abisso nel quale era sprofondato.
Tutto, poi, è degenerato. Tuttavia, non possiamo pensare che la degenerazione sia la continuazione di ciò che era stato positivamente avviato: non possiamo sommare tutto e attribuire all'insieme una connotazione negativa.
Quando ho proposto di ripristinare la Cassa per il Mezzogiorno, la mia non era apologia della degenerazione, ma constatazione del fatto che, governata e gestita in un certo modo, essa aveva funzionato.
Ho presieduto per tanti anni il CIPE e, in tale ruolo, ho proseguito la politica attuata dai miei predecessori, non avendo idea o esperienza relativamente a possibili cambiamenti.
Tutti i tentativi possono essere legittimamente compiuti, ma è anche legittimo svolgere alcune riflessioni.
Dell'argomento che lei ha introdotto nella discussione, onorevole Pagano, discuto spesso con Fabrizio Barca, dirigente generale e consigliere ministeriale presso il Ministero dell'economia e delle finanze. Negli ultimi anni, egli si è occupato della politica di coesione dell'Unione europea, ma, verso la fine degli anni Novanta, collaborò con Carlo Azeglio Ciampi, elaborando, anche con riferimento specifico al Mezzogiorno, alcune linee di riforma del processo decisionale relativo agli investimenti pubblici e alla


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politica di sviluppo. Ricordate il seminario di Catania dal titolo «Cento idee per lo sviluppo»?
L'errore, metodologico, è stato quello di seguire l'idea secondo la quale dal piccolo nasce il grande, alla quale si ispirò Galbraith durante la sua permanenza in India, all'inizio degli anni Sessanta. È stato un errore storico, che ho replicato per alcuni anni, e di cui, quindi, condivido la responsabilità. È stata una «stupidata» assoluta, che ha comportato la dispersione di un'enorme quantità di fondi. Peraltro, si sono alterati anche i normali circuiti politici, nel senso che il meccanismo messo in piedi ha cominciato, a un certo punto, a produrre corruzione e degenerazione.
Credo che le idee da riprendere siano quelle della regia nazionale e della concentrazione degli interventi su alcuni grandi programmi.
Per essere chiari, i fondi europei hanno come luogo di destinazione le regioni, ma non devono anche essere amministrati dalle regioni: queste devono essere sentite, devono essere coinvolte e devono essere il luogo di arrivo dei fondi.
La questione meridionale non è la somma algebrica delle singole questioni regionali, bensì una realtà diversa. L'errore storico è stato, per troppo tempo, quello di stanziare troppi soldi per un meccanismo che comportava una gigantesca dispersione di risorse. Con quale risultato? È ormai evidente come un'enorme quantità di fondi non venga spesa. Non lo affermo io, ma il commissario europeo, il quale osserva che, dopo la Romania, in testa alla lista dei Paesi che ricevono e non spendono - è la cosa più folle! - c'è l'Italia, la quale, nel Mezzogiorno, non spende i fondi che riceve.
Per questo motivo, mi sono permesso di sostenere che chi non spende, pur avendo, tende a giustificare la propria omissione adducendo di non avere. Invece di spendere ciò che ha, costui chiede un di più, in modo da alimentare i fondi di cui dispone: è questa la follia che dobbiamo correggere.
Credo, quindi, che sia fondamentale spendere quanto si ha, e che l'unico modo per farlo sia quello di concentrarsi su alcuni interventi.
Cosa può fare il Ministero dell'economia e delle finanze? Introdurremo, in un provvedimento di prossima adozione, disposizioni in materia di distretti turistico-alberghieri, una formula che consentirà di rilanciare il turismo sulle nostre coste, anche, se volete, a partire dal Mezzogiorno.

ALBERTO FLUVI. Tengo innanzitutto a tranquillizzare il presidente Conte: nonostante le provocazioni del Ministro, per quanto ci riguarda, il rapporto tra maggioranza e opposizione, in questa Commissione, continuerà a essere improntato a un rispetto reciproco assoluto.
Ciò premesso, signor Ministro, non interverrò sul PNR, né sul DEF, perché ho partecipato, come lei, all'audizione di ieri sera, rivelatasi molto interessante, al di là delle legittime opinioni di ciascuno sui vari argomenti.
Vorrei concentrarmi, invece, come da programma, sul decreto-legge n. 26 del 2011. In particolare, mi sembra opportuno collegare la disposizione che differisce il termine per la convocazione delle assemblee societarie con la norma di cui all'articolo 7 del decreto-legge n. 34 del 2011, attualmente all'esame del Senato, il quale consente alla Cassa depositi e prestiti di assumere, anche attraverso veicoli societari o fondi di investimento, partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale in termini di strategicità del settore di operatività.

PRESIDENTE. Mi sembra un'opera meritoria.

ALBERTO FLUVI. A tale proposito, desidero sollevare alcune questioni, ma senza alcuno spirito polemico. Le mie considerazioni le sembreranno, forse, anche un po' confuse, Ministro, ma vorrei approfittare della sua presenza proprio per provare a chiarirle.


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Onestamente, tutti avevamo immaginato che il decreto-legge n. 26 del 2011 fosse connesso alla vicenda relativa agli assetti proprietari della Parmalat, in quanto consentiva a tale società di rinviare l'assemblea, per i problemi che tutti conosciamo.
Ne è prova il fatto che, da quanto risulta a noi, e da quanto abbiamo appreso anche dalla stampa, soltanto la Parmalat ha utilizzato la facoltà di rinvio introdotta dal provvedimento.
Se ho ben compreso le sue parole, Ministro, sembra che l'intenzione del Governo sia non tanto quella di mettere a regime tale strumento, quanto quella di inserirlo nel software del «milleproroghe».
Noi non siamo pregiudizialmente contrari a modificare il termine per le assemblee. Infatti, intervenendo, nella seduta del 2 dicembre 2009 delle Commissioni riunite II e VI, sullo schema di decreto legislativo recante attuazione della direttiva 2007/36/CE, relativa all'esercizio di alcuni diritti degli azionisti di società quotate, avevo suggerito ai relatori di integrare la proposta di parere che essi avevano formulato, valutando l'opportunità di consentire lo svolgimento dell'assemblea per l'approvazione del bilancio entro 180 giorni, anziché entro 120, dalla chiusura dell'esercizio sociale.
Ci lascia alquanto perplessi, tuttavia, l'ipotesi di inserire in un provvedimento ad hoc, ogni anno, una disposizione che dia la possibilità ai consigli di amministrazione di posticipare le assemblee, magari già convocate. Se il termine di 120 giorni è ritenuto troppo breve, individuiamone un altro, ma a regime, in modo che gli azionisti, avendo certezze in merito al termine per la presentazione delle liste, siano meno soggetti al potere discrezionale dei consigli di amministrazione.
Sempre secondo la vulgata, il decreto-legge Parmalat - mi scusi se continuo a definirlo così, Ministro, ma è per intendersi - sarebbe stato adottato per salvaguardare l'italianità dell'industria di Collecchio. La mia impressione - ma, forse, anche in questo caso mi sbaglio - è che, se non vi fosse stato il precedente di Groupama e Premafin, anche la vicenda riguardante Lactalis e Parmalat sarebbe stata vissuta in maniera diversa.
Credo che sia interesse del nostro Paese non quello di difendere l'italianità delle aziende, ma quello di attirare capitali esteri. Ho letto un'interessante ricerca, che si ferma, però, al 2008 - probabilmente, la situazione sarà in parte cambiata -, secondo la quale le società partecipate per oltre il 50 per cento da azionisti esteri erano, in Italia, soltanto il 4 per cento, mentre in Austria erano quasi il 13 per cento, in Francia il 10 per cento e in Germania il 6 per cento. Siamo, quindi, nella fascia bassa tra i Paesi europei.
Ebbene, credo che interventi come quello che è stato compiuto con il decreto-legge n. 26 del 2011 rischino di scoraggiare gli investimenti esteri nel nostro Paese: perché, ormai, non c'è più certezza del diritto; perché la contendibilità delle società quotate è praticamente bloccata e via elencando.
Il presidente Conte, nella sua introduzione, faceva riferimento alla nostra indagine conoscitiva sui mercati degli strumenti finanziari. È stata molto interessante, in particolare, l'audizione del presidente della Consob, il quale ci ha rammentato che, mentre le società quotate domestiche sono crollate da 344 del 2007 a 286 del 2010, la capitalizzazione complessiva delle società quotate sui mercati gestiti da Borsa italiana Spa, che ammontava a circa 818 miliardi nel 2000, nel 2010 è stata di circa 423 miliardi.
Perché collego le due questioni? Ho l'impressione che, a forza di dichiarare di voler tutelare l'italianità delle nostre società - vedremo se riusciremo a farlo -, corriamo il rischio di scoraggiare gli investimenti esteri nel nostro Paese. Cosa ne pensa, Ministro?
In merito all'articolo 7 del decreto-legge n. 34 del 2011, anticipo subito che non siamo pregiudizialmente contrari nemmeno alla creazione di un fondo strategico. Anzi, abbiamo visto con favore l'istituzione del Fondo italiano d'investimento, attualmente partecipato da Cassa depositi e prestiti e anche da alcune banche,


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di cui ci ha parlato, nel ciclo di audizioni cui facevo riferimento, proprio l'amministratore delegato di Cassa depositi e prestiti Spa.
Probabilmente, è ancora presto e, quindi, non dobbiamo scoraggiarci. Credo anch'io che dobbiamo proseguire lungo questa strada. Il fatto è che, a oggi, sono solamente due o tre gli interventi diretti realizzati dal Fondo italiano d'investimento.
Il fondo strategico può sicuramente avere portata e rilevanza diverse. Tuttavia, a me sembra, onestamente, che la formulazione del predetto articolo 7 sia troppo generica. La disposizione attribuisce una discrezionalità eccessiva al Ministro dell'economia e delle finanze, il quale, con proprio decreto di natura non regolamentare, definisce i requisiti, anche quantitativi, delle società oggetto di possibile acquisizione da parte della Cassa depositi e prestiti, ai fini della loro qualificazione come società di interesse nazionale.
Poiché mi risulta che al Senato non sia stato accolto alcun emendamento, né di maggioranza, né di opposizione, riferito all'articolo 7, le rivolgo, Ministro, pur mantenendo un giudizio favorevole sul fondo strategico, la seguente domanda: c'è spazio, qui alla Camera, per individuare quei criteri, anche di trasparenza della governance, che non è stato possibile introdurre nel testo presso l'altro ramo del Parlamento, oppure il testo che il Governo vuole portare all'approvazione definitiva è quello che ci sarà trasmesso dal Senato?

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Anche quello della finanza è un tema rilevante. Credo sia più importante quello del Mezzogiorno, ma è molto importante anche quello della finanza.
Da parte mia, vi è grande disponibilità a riflettere anche su quest'ultimo tema.
Onorevole Fluvi, lei sostiene che i dati fino al 2008 sono di un certo tipo. Non se la prenda a male se le rispondo che ci sono due modi per ricostruire la realtà. Prima della mela di Newton, si diceva, in modo scolastico, post hoc, ergo propter hoc: ciò che accade dopo è causato da ciò che si è verificato prima. Newton introduce, invece, il meccanismo di causa ed effetto: qual è nella sequenza temporale la causa, e quale l'effetto? Il nesso è causale o casuale?
È di questo tipo, onorevole Fluvi, la riflessione che, se vuole, dobbiamo svolgere insieme, in maniera non polemica. Quando lei afferma che il numero delle società quotate domestiche è crollato, e poi aggiunge che, forse, è crollato perché è stato sviluppato un certo discorso sulla contendibilità o sulla italianità, ci crede davvero? Personalmente, non credo che il legame sia quello da lei indicato. Ritengo, invece, che le causali, le meccaniche che hanno portato alla drastica riduzione del numero delle società quotate non abbiano attinenza con i discorsi sulla contendibilità e sull'italianità. Credo che le ragioni del fenomeno siano molto più profonde e abbiano a che vedere con la struttura dell'economia italiana.
Il numero delle società quotate è salito dal 1994 in poi perché esisteva il premio di quotazione, di cui molti imprenditori hanno approfittato. Dai dati di borsa risultava un incremento sistematico. In seguito, quel meccanismo è venuto meno. Inoltre, vi sono altre infinite ragioni.
Fornisco un dato del Fondo per le piccole e medie imprese (che, come ho già affermato, deve lavorare di più, e più intensamente). Per quotare una società che raggiunge 80 milioni di euro di capitalizzazione, i costi di quotazione possono raggiungere gli 8 milioni di euro: è una follia! I costi diretti da affrontare per le spese legali, per la prima revisione e certificazione del bilancio, per la stampa dei certificati azionari e dei prospetti, per la pubblicità, e via dicendo, è elevatissimo.
Perciò, quando sento parlare del peso dei servizi e delle barriere nell'economia, ricordo che queste ultime non le crea soltanto lo Stato. L'idea è stata quella di affermare che deve essere la Borsa a vendere il prodotto, cioè a garantire un certo valore a chi intende quotarsi. È


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pazzesco, tuttavia, che gli oneri di quotazione possano arrivare anche al 10 per cento del capitale raccolto.
Sono, quindi, tanti i fattori di cui tenere conto, tra i quali anche determinate scelte: il nostro è un capitalismo di tipo familiare. Se lei, onorevole Fluvi, si recasse alle assemblee - non quelle degli operai -, per chiedere quali società siano possedute da una holding italiana, quasi nessuno le darebbe una risposta affermativa. Se, invece, chiedesse quali società siano possedute da una holding del Lussemburgo, tutti risponderebbero di appartenere a tale categoria. Da lì, poi, gli investimenti nell'Est e nel Far East, le trading sui confini, i soldi depositati in alcuni luoghi. La struttura dell'economia italiana è molto particolare, e a volte, entrare in borsa non conviene.
Al Fondo monetario internazionale c'è una carta geografica molto interessante: la metacarta della finanza, la quale dà risalto a indicatori diversi dalla superficie e dagli altri elementi utilizzati per la composizione delle carte geografiche. Essa vede giganteggiare tre Paesi: la Svizzera, il Lussemburgo e la City di Londra, enormi rispetto a tutti gli altri. Il Lussemburgo? La Svizzera? Evidentemente, la ricchezza che li fa grandi nella metacarta della finanza non è prodotta in loco, ma arriva da fuori.
Credo che, per spiegare la struttura finanziaria del nostro Paese, si debba tenere conto di tanti fattori.
Premesso che l'idea di attrarre è giusta, l'attrazione non si esercita esprimendosi pro o contro l'italianità, ma offrendo un regime che, compatibilmente con criteri di moralità e di legalità, risulti effettivamente accattivante. Se, in Italia, entrare in borsa costa, in questo momento, l'8 o addirittura il 10 per cento del valore di capitalizzazione, magari non lo si fa.
Sono molte le riflessioni da svolgere. Stiamo parlando di una borsa che sta riducendo drasticamente i suoi numeri e non certo perché si parli di italianità o di altro. I problemi strutturali sono molto rilevanti.
Credo che le chance di riportare i capitali in Italia siano molto alte. Si devono offrire, però, regimi legali e livelli di burocrazia assolutamente competitivi. Questo è il discorso da svolgere.
Per il resto, davvero, il disposto del decreto-legge n. 26 del 2011 e le sue causali sono assolutamente generali. Se si esamina il testo, si vede che la portata della norma e le motivazioni ad essa sottese sono assolutamente generali. Nessuno vuole modificare il Codice civile. L'anno scorso, e anche quest'anno, abbiamo visto che vi erano margini di tolleranza da offrire all'operatività delle imprese: li abbiamo accordati e, forse, ci regoleremo in maniera analoga anche l'anno prossimo. Non vi era, quindi, alcuna logica relativa a una specifica casistica societaria. Mi risulta, del resto, che molte società abbiano sfruttato la possibilità offerta dal provvedimento.
Talvolta, gli stessi statuti societari contemplano la possibilità di convocare l'assemblea entro centottanta giorni dalla chiusura dell'esercizio sociale. Non credo sia il caso di modificare il codice civile, se non, magari, per allungare il termine a regime, ma ci deve pensare anche il Parlamento.
Per quanto riguarda l'articolo 7 del decreto-legge n. 34 del 2011, credo che uno o due emendamenti siano stati accolti, e che maggioranza e opposizione ne abbiano discusso. Riterrei difficile la terza lettura, ma non voglio influire sui lavori.

PRESIDENTE. Con riferimento al «pacchetto» necessario per sviluppare la borsa, sarebbe interessante conoscere il pensiero del Ministro in merito alla prospettata integrazione del London Stock Exchange Group con il gruppo canadese TMX (e al connesso spostamento del listing a Toronto), nonché sulla possibilità, in un'ottica di crescita dimensionale, di portare in borsa, anziché le società, le obbligazioni da queste emesse, magari prevedendo un sistema di garanzia.

RENATO FARINA. Mi appello alla gentilezza del Ministro, al quale rivolgo l'invito


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a rispondere a una domanda un po' fuori sacco. Del resto, Ministro, anche quando affronta discussioni relative alla situazione dell'Italia, lo fa da persona che è comunque in grado, per la sua cultura enciclopedica e per la sua attitudine, di trattare ogni questione relativa alla realtà internazionale.
Il mese scorso, lei ha affermato che una buona maniera per interpretare la cooperazione italiana allo sviluppo potrebbe essere quella di destinare una quota dell'IVA, via volontariato, per aiutare le popolazioni africane, ma in casa loro. Si tratta di un sogno o di un progetto realistico?

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Nel 2001, durante il semestre di presidenza belga del Consiglio europeo, proprio la Presidenza belga chiese uno studio di fattibilità di una Tobin tax a livello europeo, ossia di una forma di tassazione sulle transazioni valutarie, il cui gettito sarebbe stato destinato a finalità di sostegno dei Paesi più bisognosi.
Invero, la Tobin tax nasce in un altro contesto, ispirata alla logica di moderare la finanza, non di tassarla. In quel caso, invece, il ragionamento era: più transazioni, più gettito, più aiuti.
Per svariate ragioni, proposi, in alternativa, di introdurre un diverso strumento di aiuto, che non era una tassa, ma una non-tassa, ossia la De-tax. Il ragionamento che proponevo era, in sintesi, il seguente: quando si compra un paio di scarpe del costo di 100 euro, pagando la relativa IVA, se il negozio presso il quale è effettuato l'acquisto è collegato a particolari iniziative etiche, ovvero di cooperazione allo sviluppo (volontariato, no profit, charity), che destinano le risorse raccolte direttamente ai Paesi poveri, lo Stato rinuncia a una percentuale dell'IVA, la quale, attraverso le predette iniziative, va in Africa o, comunque, nei posti in cui ve n'è bisogno.
A differenza della Tobin tax, la De-tax non era una tassa, ma una non-tassa, sia pure limitata. Inoltre, essa era gestita direttamente dalla società civile, principalmente perché i fondi gestiti dai Governi, transitando verso altri Governi, finiscono regolarmente o in armamenti o in Svizzera. Diversamente, se si coinvolgono direttamente i cittadini di uno Stato e di un altro, si ha la sicurezza che l'utilizzo delle risorse raccolte sarà più diretto e più efficace.
Dopo averla avanzata in sede Ecofin, presentai con orgoglio la mia proposta pubblicamente su Le Monde del 12 settembre 2001 (i giornali la chiamarono anche atax, con l'alfa privativa). Naturalmente, la coincidenza temporale con gli attentati di New York ha spostato l'attenzione da quel piccolo contributo. Comunque, l'idea è andata avanti in Europa - poiché l'IVA è un'imposta europea -, ed è stata sostenuta, accanto a quella relativa alla Tobin tax e ad altre proposte simili, dal Cancelliere inglese, Gordon Brown, che la portò alle Nazioni Unite (insieme, l'abbiamo riproposta anche a L'Aquila).
La De-tax deve e può tornare di enorme attualità, considerato quanto sta succedendo dall'Atlantico fino all'Asia. Credo sia l'iniziativa giusta da attuare nel Mediterraneo, anche se si incontrano sempre limiti e obiezioni. Ancora adesso, quando si parla del Mediterraneo, gli altri rappresentano, in alternativa, la fondamentale dimensione baltica, dove, da una parte, c'è gente che cammina praticamente sull'acqua e, dall'altra, le aringhe presentano livelli di sostanze tossiche superiori a quelli di sicurezza. Tuttavia, secondo me, si tratta di un'idea giusta, che è da riproporre.

SILVANA ANDREINA COMAROLI. Grazie, signor Ministro, per la sua disponibilità.
Nell'audizione svoltasi ieri il dottor Befera ci ha illustrato l'andamento dell'attività dell'Agenzia delle entrate, che ha generato un aumento delle entrate.
Tale aumento è dovuto, tra l'altro, all'introduzione delle disposizioni in materia di compensazioni indebite, di cui


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all'articolo 31 del decreto-legge n. 78 del 2010. Sebbene avessero un fine nobile, tali disposizioni hanno anche prodotto, purtroppo, l'effetto collaterale di generare seri problemi di liquidità ai piccoli e ai piccolissimi imprenditori.
La mia domanda è la seguente: intende dare segnali di attenzione a questi imprenditori piccoli, che però rendono grande la nostra economia?

GIULIO TREMONTI, Ministro dell'economia e delle finanze. Non ho una conoscenza specifica del problema, ma me ne occuperò.

PRESIDENTE. Ringrazio il Ministro per la sua disponibilità e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 11.

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