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Resoconti stenografici delle audizioni

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XVII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 2 di Giovedì 1 agosto 2013

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Spadoni Maria Edera , Presidente ... 2 

Audizione del viceministro degli affari esteri, Lapo Pistelli (Ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento):
Spadoni Maria Edera , Presidente ... 2 
Pistelli Lapo (PD) , Viceministro degli affari esteri ... 2 
Spadoni Maria Edera , Presidente ... 10 
Locatelli Pia Elda (Misto-PSI-PLI)  ... 10 
Quartapelle Procopio Lia (PD)  ... 10 
Scotto Arturo (SEL) , Presidente del Comitato permanente sull'Africa e le questioni globali ... 10 
Di Stefano Manlio (M5S)  ... 11 
Sibilia Carlo (M5S)  ... 11 
Di Battista Alessandro (M5S)  ... 12 
Spadoni Maria Edera , Presidente ... 12 
Pistelli Lapo (PD) , Viceministro degli affari esteri ... 12 
Sibilia Carlo (M5S)  ... 15 
Pistelli Lapo (PD) , Viceministro degli affari esteri ... 15 
Sibilia Carlo (M5S)  ... 15 
Pistelli Lapo (PD) , Viceministro degli affari esteri ... 16 
Spadoni Maria Edera , Presidente ... 16

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Fratelli d'Italia: FdI;
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DEL COMITATO PERMANENTE SULL'AGENDA GLOBALE POST-2015, LA COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO E IL PARTENARIATO PUBBLICO-PRIVATO MARIA EDERA SPADONI

  La seduta comincia alle 8.40.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del viceministro degli affari esteri, Lapo Pistelli.

  PRESIDENTE. Buongiorno a tutti. L'ordine del giorno reca l'audizione del viceministro degli affari esteri Lapo Pistelli, che interviene oggi in quanto delegato dal Ministro Bonino per le politiche di cooperazione allo sviluppo nonché per le relazioni con i Paesi dell'Africa subsahariana ad eccezione dei Paesi SADC (South African Development Cooperation).
  Con la sua audizione, inizia l'attività dei Comitati permanenti sull'Agenda globale Post-2015 e sull'Africa, per la corrente legislatura.
  Nella certezza che con l'odierna audizione si stabilisca un proficuo e periodico rapporto di collaborazione, invito il viceministro Pistelli a svolgere il suo intervento.

  LAPO PISTELLI, Viceministro degli affari esteri. Desidero, innanzitutto, ringraziare i due presidenti, cui auguro buon lavoro in questa nuova avventura. Ringrazio anche i colleghi che si sono prestati a questa levataccia il 1 agosto.
  Su entrambi gli argomenti, potremmo parlare per ore. Mi permetterete dunque di procedere a una presentazione sintetica e propositiva, tracciando le linee grossolane di un campo di gioco nel quale sviluppare un primo dibattito. Dividerò sostanzialmente l'intervento in due diverse presentazioni, guardando l'orologio che è davanti a me, usando una decina di minuti per ciascuna e illustrando qualche indirizzo.
  Partirò dall'Africa. Siamo davanti a un continente che nel corso del tempo è stato oggetto di mille luoghi comuni e stereotipi, tante volte pure fondati su elementi reali o verosimili: il continente vergine, di grandi opportunità, il continente dei conflitti, luogo endemico di guerre, di pandemie e così via. Questa retorica spesso definiva il continente come un luogo di grandi opportunità, salvo il fatto di preferire poi un investimento politico altrove, in aree molto meno rischiose.
  Desidero invece partire dal dato demografico. In un mondo profondamente cambiato, colpiscono i numeri della crescita di questo continente: nel 1950, che sembra un anno lontano ma non lo è, questo continente aveva una popolazione pari alla metà di quella europea; nel 2000, l'Africa sostanzialmente ha eguagliato con la sua popolazione quella europea; nel 2050, l'Africa avrà il triplo della popolazione europea.
  In cento anni, quattro generazioni, l'Africa è passata dall'essere metà al triplo della popolazione europea. Consideriamo che i primi due numeri sono già reali, non Pag. 3proiezioni, e che le proiezioni sul 2050 sono quelle «medie» del Dipartimento demografico delle Nazioni Unite.
  Se guardiamo i dati sulla crescita, tema che interessa molto la politica, negli ultimi dieci anni, tra le dieci economie mondiali che hanno avuto il tasso di crescita più rapido, sei sono state africane: Angola, Ciad, Etiopia, Mozambico, Nigeria e Ruanda. Talvolta, si tratta di piccoli numeri, tassi di crescita elevati in Paesi non particolarmente grandi, ma così stanno le cose.
  Dico Africa, ma si tratta in realtà di Afriche. Se esiste, infatti, un continente che contiene enormi diversità al suo interno, interne ai singoli Stati e tra Stati e regioni, questo ovviamente è l'Africa. Chi di voi avesse avuto la fortuna, l'avventura di volare in una tratta diurna da qui al Sudafrica, ha colto visivamente le differenze dell'Africa. Chi attraversa l'Europa, a parte l'emozione di varcare le Alpi, trova sotto di sé un continente solidamente urbanizzato, con colori simili, infrastrutture fittamente intrecciate. Chi viaggia verso il Sud Africa, attraversa il Mediterraneo, riconosce la parte costiera delle città del Maghreb, sorvola l'enorme deserto del Sahara con i suoi 9 milioni di chilometri quadrati, cambia colore nella zona centrafricana con le sue immense risorse naturali, per tornare nuovamente a un diverso colore di deserto a mano a mano che ci si avvicina all'Africa australe.
  Parliamo, quindi, di Africa-Afriche: è impossibile definire anche sinteticamente un approccio politico a questo continente se non lo si spacchetta, se cioè, all'interno di alcuni princìpi di riferimento, non si adatta l'iniziativa politica a quel segmento di Africa cui ci riferiamo.
  Il nostro Paese, oltre a un'azione bilaterale che descriverò rapidamente, si muove all'interno del quadro di appartenenza alla squadra europea. L'Unione europea ha sempre teso a riprodurre il proprio modello laddove si muoveva fuori dai propri confini: un must, un pilastro dell'azione europea è stato dunque costruire ownership africana, rafforzando il più possibile l'integrazione continentale.
  L'Unione europea ha tentato di stabilire, sul piano politico ed economico, rapporti organici fra Europa e Africa, non tra singoli Paesi, cercando sempre, per quanto riguardava le crisi africane, di costruire un principio di ownership e di responsabilità africana. Quando anche intervenivamo con un'assistenza militare indiretta, pagando missioni African-led, il tentativo era sempre quello di far nascere un processo di consapevolezza all'interno di quel continente.
  Non lo dico perché siamo qui, in Italia, ma il nostro Paese gode in quel continente, come in altre parti del mondo, complessivamente di una buona immagine. Questo è un grande asset di partenza. È chiaro che nella «nostalgia» di un passato coloniale, anche l'Italia ha in Africa qualcosa di «proprio», il Corno d'Africa, Etiopia, Somalia, Eritrea, e poi la Libia. Tendenzialmente, però, la nostra presenza è oggi percepita come meno legata a un passato coloniale di quanto, ad esempio, sia legata quella di altri player europei o altri che, avendo pesanti e importanti interessi in quel continente, tendono ad avere un approccio, un passo nel rapporto bilaterale assai più ingombrante, intrusivo del nostro.
  Abbiamo la riprova di questo nel contesto onusiano dove, ad esempio, nonostante l'Africa abbia una propria posizione rispetto alla governance del sistema, gli africani hanno sempre visto con simpatia le nostre posizioni (Uniting for Consensus) e ci hanno spesso sostenuto nelle nostre ambizioni per competere per il Consiglio di Sicurezza.
  Nella logica tradizionale del Ministero degli affari esteri, il Maghreb, cioè la sponda sud del Mediterraneo, non è oggetto di delega. Anche se è Africa, geograficamente parlando, esso fa parte del vicinato che resta dentro le competenze del Ministro. In virtù della delega sulla cooperazione, ho occasione comunque di collaborare spesso col Ministro su questo delicato scacchiere.
  Come abbiamo già sottolineato, discutendo in questa Commissione i documenti sulle politiche di vicinato, parlare di Maghreb Pag. 4significa rinunciare a un approccio in cui «un solo vestito va bene per tutti».
  Potremmo dunque spezzettare la discussione e l'analisi dei fatti di quanto sta accadendo in Egitto, in Libia, Paese, quest'ultimo, sul quale ribadisco che abbiamo e portiamo speciali responsabilità non solo storiche, ma anche a seguito delle intese scaturite nell'ultimo G8. Purtroppo la situazione è in peggioramento in Tunisia, anche se ancora sotto controllo. Relativamente agli altri due casi, Algeria e Marocco, invece, per il processo delle «primavere arabe» non si è pagato alcun prezzo, perché forse un inverno islamico c'era già stato negli anni Novanta – mi riferisco all'Algeria – e perché altrove, in Marocco, si era verificata una situazione di relativa innovazione politica, controllata in modo intelligente dal Sovrano. Il Maghreb è un'area nella quale siamo molto presenti, sia in termini multilaterali che bilaterali: siamo sempre, infatti, tra i primi tre interlocutori economici di ciascuno di questi Paesi, in molti casi il primo e il secondo. È quindi un'area in cui chiedo, se ci saranno occasioni, di poter tornare con un approccio molto più sistematico, ma dividendo caso per caso.
  Spostandosi gradualmente verso sud, da due anni, è emersa con forza l'emergenza Sahel in ragione di due fatti. Uno di questi era già presente prima delle «primavere arabe». Per dare un elemento di discussione, il Sahel, alla lettera la «riva del deserto» (ci si riferisce ovviamente al Sahara), è un'area di 2,5 milioni di chilometri quadrati, grosso modo otto volte la superficie dell'Italia, una striscia di 5.000 chilometri che dall'Oceano Atlantico porta fino al Mar Rosso. È una carta geografica ricca di file ortogonali tirate al righello, in parte perché è difficile decidere i confini in un deserto, in parte perché al Congresso di Berlino si andava un po’ di fretta quando si trattava di tirare i confini in Africa. Oggi questi 5.000 chilometri sono un corridoio in cui negli anni si è creata una situazione di assenza di controllo e in quel corridoio è passato di tutto: ostaggi, armi, droga, pezzi di ricambio, materie prime, ogni cosa.
  Il secondo fattore deriva dalla destabilizzazione oggettiva prodotta dalla «prima fila», cioè della fila dei Paesi del Maghreb, che ha avuto immediatamente una ripercussione più a sud. Alcuni gruppi già attivi negli anni Novanta e poi, a seguito dell'intervento in Libia, anche nuovi gruppi algerini e libici hanno ingaggiato un'ulteriore fase di destabilizzazione che ha avuto la sua emergenza principale nel caso del Mali.
  Il voto di pochi giorni fa è stato giudicato dall'Unione europea e dagli osservatori come sostanzialmente equo. Resta ancora da affrontare e risolvere l'effetto di destabilizzazione più complessiva dei Paesi contermini. A seguito dell'azione militare francese, infatti, una parte dei combattenti si è sparsa nei Paesi contermini così come anche una parte dei maliani si è spostata altrove, creando un fenomeno di internally displaced person di cui anche noi ci stiamo occupando insieme ad altri Paesi con interventi di emergenza e di primo aiuto. Su questo scacchiere, l'Italia si è mossa coerentemente con altri alleati europei, mantenendo un profilo di seconda fila. Esiste de facto una «divisione del lavoro» dove i francesi hanno fatto la parte del leone, anche se noi non abbiamo fatto mancare il nostro aiuto in termini di conferenza dei donatori a Bruxelles nel mese di maggio.
  Voglio ricordare però che portiamo una responsabilità nazionale importante, dopo che il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha attribuito a Romano Prodi il ruolo di «special representative» per il Sahel. Recentemente, il professor Prodi ha presentato al Consiglio di sicurezza un breve paper di strategia regionale, che ha il compito di uscire dall'emergenza dell'immediato post-conflitto, per costruire una risposta regionale e integrata, cioè sostanzialmente rimuovere le cause profonde del conflitto.
  Non dimentichiamo infine che il Sahel è l'area in cui insistono tutti i Paesi che geograficamente appartengono all'area dei Paesi più indebitati e poveri del pianeta. In quasi tutti questi Paesi, infatti, la maggioranza assoluta della popolazione vive sotto la famosa e fatidica soglia dei 2 dollari al giorno.Pag. 5
  Spostandosi verso sud, verso il west Africa e l'Africa centrale, giungiamo in una parte di continente in cui siamo meno presenti. È fortissima invece la presenza inglese e francese. Siamo là dove l'Africa cambia colore, nella parte di continente più ricca di materie prime. Un'area potenzialmente ricchissima e non soltanto delle risorse che in genere accendono la fantasia immediata, quelle legate all'energia, ma di materie prime, minerali, terre rare, di tutto e di più.
  È anche una zona devastata da grandi conflitti, antichi e nuovi, in Congo, nella Repubblica Centrafricana, e finalmente segnata da alcuni processi di lenta riconciliazione.
  L'Italia torna presente invece nell’east Africa, nella zona del Corno d'Africa. Potremmo francamente dedicare un'audizione solo a quello. Il primo atto del Ministro Bonino dopo il suo insediamento è stato partecipare alla Conferenza di Londra, una tappa delle iniziative diplomatiche atte a cercare di riportare un po’ di stabilità in Somalia e nella regione. Due brevi cenni sulla Somalia: molti di noi sono probabilmente legati ancora all'immaginario filmico di «Black hawk down», il film dedicato al tragico episodio degli aerei americani abbattuti a Mogadiscio, una capitale ridotta a un cumulo di macerie, perfetto esempio dello «Stato fallito». Non è più esattamente così. Certo la Somalia non è la Svizzera, ma negli ultimi due anni c’è stato un tentativo di inversione, anche grazie alla scelta e all'elezione del nuovo Presidente Hassan Sheikh Mohamud, fortemente sostenuto dalla comunità internazionale.
  In Somalia si sta provando un faticosissimo percorso di ricostruzione unitario ma federale, dove dunque si tenta di ristabilire un'autorità centrale a Mogadiscio nel riconoscimento parallelo delle autonomie che si sono nel frattempo sviluppate nel Somaliland e nel Puntland e di governare, invece, il processo un po’ più complicato che anche nelle ultime settimane si è aperto nel Jubaland.
  Come sapete, in quel Paese, le cose non sono semplicemente complicate dal rapporto fra centro e periferia, ma dalla lotta contro una delle varianti del jihadismo islamico, quello di Al-Shabaab, combattuto militarmente dai somali, dagli etiopi e dai keniani, su base bilaterale, e dalle truppe AMISOM (African Union Mission in Somalia) che aiutiamo bilateralmente e nel quadro dell'Unione europea. È una delle sfide che è indispensabile superare se vogliamo assicurare alla Somalia un decente futuro o, meglio, una decente ripartenza.
  Evidentemente parliamo di Corno d'Africa perché i due Paesi più importanti vicini alla Somalia, Etiopia e Kenya, che sono stati anche oggetto passivo della destabilizzazione nata in Somalia, sono anche però influenti nel processo di ricostruzione del Paese.
  Spostandosi ulteriormente verso sud, lasciatemi soltanto sottolineare come il nuovo Eldorado, per molti sia rappresentato dagli straordinari progressi dell'Africa australe. Cito due Paesi in modo particolare, Angola e Mozambico, diventati oggetto di grandissima attenzione da parte dei sistemi economici di vari Paesi, tra cui il nostro, non soltanto per la scoperta di enormi e ricchissimi giacimenti di oil & gas, ma anche perché, secondo una politica che giudico intelligente messa in atto da quei due Governi, le revenues di queste scoperte sono in questo momento utilizzate per conferire una struttura più solida allo sviluppo economico del Paese.
  Si tratta cioè di vincere il rischio di un'economia di rendita energetica, per cercare di mettere in moto più complessivamente questi due Paesi.
  Due ultime battute perché ho già usato una parte del tempo significativa.
  Siamo presenti in Africa attraverso strumenti diversi. Ovviamente ci siamo tramite l'Unione europea, in particolar modo grazie alla partnership con l'Unione Africana, ma ad esempio, all'interno di questa partnership, abbiamo messo a disposizione uno strumento bi-multilaterale, finanziato esclusivamente da noi, l’Italian African Peace Facility. Originariamente finanziato con 20 milioni di euro, una parte di queste risorse è ancora oggi utilizzata per finanziare gli stipendi di AMISOM, cioè per l'intervento di peace-keeping in Pag. 6Somalia. Si è trattato di un gesto bilaterale e gratuito dell'Italia che, come potete immaginare, ci ha procurato un'ottima accoglienza nei meccanismi dell'Unione Africana, un ottimo gradimento.
  Siamo poi presenti con la cooperazione allo sviluppo. Bisogna tenere conto che dieci degli attuali Paesi prioritari sono Paesi dell'Africa sub sahariana, che l'anno scorso oltre la metà delle risorse destinate a dono è finita in Africa e che, secondo le linee guida attualmente in vigore, almeno il 42 per cento delle nostre risorse deve essere destinato a questa parte del mondo. Insomma, per noi l'Africa è parte importante della nostra politica di sviluppo.
  Segnalo infine, e rapidamente, che uno strumento che si va concretamente affermando, anche se non supportato da un'elaborazione concettuale preventiva e particolarmente strutturata, è l'utilizzo di una peculiare capacità italiana nel training, sia nelle operazioni di peace keeping ma anche nelle fasi ricostruttive post-conflitto.
  Molti sono, infatti, i modi per aiutare un Paese: stiamo aiutando la Somalia attraverso l'esperienza dei Carabinieri a Gibuti, stiamo finanziando in misura crescente progetti di capacity building, potremo intervenire e stiamo intervenendo in Libia a partire dalle ultime settimane; tutto questo sta di fatto configurando una impronta digitale italiana. Si tratta di concentrarsi anche nel processo di training, militare, di polizia, di pubblica amministrazione, di governo locale. Non è più soltanto un intervento di penetrazione economica o di assistenza umanitaria tradizionale, ma un aiuto a questi Paesi ad avere proprie gambe su cui camminare.
  Sempre sull'Africa, concludo annunciando che abbiamo deciso – e spero che sarà una delle impronte più importanti che cercheremo di lasciare come eredità del Governo – dopo più di trenta anni di convocare, per l'autunno del 2014, la prima conferenza Italia-Africa.
  Esiste già una piattaforma che con successo la Farnesina ha attivato da circa una decina d'anni, quella Italia-America Latina: conferenze di taglio biennale, per le quali si alternano Roma e Milano, che hanno costituito una base di dialogo importantissima tra il nostro Paese e l'America Latina. Non devo spiegarvi anche in questo caso l'importanza dell'America Latina per la diaspora italiana, per la presenza delle nostre aziende. Nonostante il taglio medio del nostro Paese, questa ha davvero costituito una pratica di buon successo.
  Con tutto il ragionamento teorico, e talvolta retorico, che si faceva sull'Africa, non esisteva però a oggi nessun momento in cui il nostro Paese ingaggiasse un dialogo con questo continente. Abbiamo gettato il cuore oltre l'ostacolo, ci siamo dati anche una data di riferimento, stiamo discutendo sul concept. Sappiamo di non poter replicare i summit Cina-Africa, non abbiamo da portare miliardi di investimenti né i mezzi per immaginarci cinquantacinque Capi di Stato che sfilano a Roma.
  Credo però – utilizzando questo annuncio come argomento ponte per passare alla seconda tematica di questa audizione – che, coerenti con l'idea di Africa che abbiamo (corridoi puliti di energia e acqua, sviluppo sostenibile, governo locale), possiamo avere un modello di dialogo con questi Paesi che potrà essere apprezzato in quanto coerente con quell'immagine non coloniale, non pesante, non ingombrante che potrebbe, invece, caratterizzare altri Paesi.
  Prevengo la domanda sulla presenza cinese in Africa. È vero che negli ultimi anni è andato molto di moda parlare dello strapotere acquisito dalla Cina in Africa. In parte è anche vero rispetto ai numeri oggettivi, ma è giusto notare che si cominciano a registrare i primi fenomeni di arretramento. La presenza cinese apparentemente gratuita, apparentemente legata alla presenza delle infrastrutture, spesso legata a lavori di non grande qualità e all'utilizzo massivo di manodopera cinese, non locale, sta cominciando a produrre anche qualche insofferenza. Il tappeto rosso srotolato davanti alla presenza cinese in Africa viene talora gradualmente riarrotolato. Ne ricavo che esiste uno spazio possibile per un modello diverso di rapporto con questo continente.Pag. 7
  Vengo rapidamente alla seconda parte dell'introduzione.
  Sono molto contento che esista un Comitato sull'Africa, che non era più nel radar politico da anni. Sono molto contento altresì che esista un Comitato che si occupa di Agenda Post-2015, più in generale di cooperazione. Negli ultimi anni, questa Commissione ha svolto, tramite un Comitato che si occupava degli Obiettivi del Millennio, il ruolo dell’advocacy nei confronti del Governo. Eravamo un po’ il punto di richiamo, la fiammella accesa per ricordare ai nostri Governi gli impegni assunti in sede internazionale, il tentativo di stare in linea, di non arretrare drammaticamente sulle quote di bilancio da dedicare all'APS (Aiuto Pubblico allo Sviluppo), e così via.
  Siamo davanti a un'altra stagione, non perché sia arrivato un nuovo Governo, ma perché anche il calendario internazionale è molto cambiato. Anche per questo, come sapete, uno degli obiettivi dell'esecutivo è far partire un'iniziativa governativa di riforma della legge n. 49 del 1987. Questo ci consentirà, a mio avviso, di lavorare col Parlamento in una dimensione interamente nuova. Non sappiamo quanto durerà quest'esperienza, come ci ripetiamo tutte le volte, ma è una dimensione interamente nuova.
  Partirò dalla legge, non perdendomi in dettagli. Mi interessa dire che la legge n. 49 è del 1987. Era una bella legge ma sono trascorsi venticinque anni: non c’è un'ossessione riformista nel voler riformare la legge, ma molto semplicemente nessuno di noi indossa i vestiti che indossava venticinque anni fa.
  Cercando di semplificare il racconto, il modello della cooperazione di venticinque anni fa – la Camera è anche largamente rinnovata, quindi molti di voi erano appena nati o poco più – era più o meno corrispondente all'intervento di ONG, animate da persone splendide come ancora oggi, che realizzavano interventi di natura assistenziale o emergenziale con fondi quasi interamente provenienti dall'aiuto pubblico allo sviluppo, erogati a dono. Il mondo si era svegliato da poco davanti alle grandi emergenze, le carestie, le denunce della morti per fame, la desertificazione. Chiara era la distinzione tra chi stava al nord, il donatore, e chi stava a sud, il ricettore. Se la volessi forzare un po’, direi che venticinque anni dopo un modello tipico di intervento è una ONG, costituita magari dalle stesse persone ma con venticinque anni di esperienza in più, che prende dall'aiuto pubblico allo sviluppo una quota che talvolta non raggiunge il 10 per cento dell'importo del progetto, che nella restante parte si autofinanzia con fund raising o attraverso strumenti regionali come le banche regionali di sviluppo o tramite l'Unione europea, che lavora in partnership magari con un Governo locale o con altre ONG. Il modello di intervento cerca di produrre self empowerment, imprenditoria, agricoltura sostenibile con un progetto deciso insieme alla controparte. Questa è un'idea semplice del cambiamento avvenuto in questi venticinque anni.
  Le leggi fanno sempre stato di una situazione e oggi i soggetti sono cambiati. Ci sono le ONG, ma anche i territori: uno dei marchi di fabbrica italiani che, anche in sede di OCSE-DAC, il Comitato di aiuto pubblico dell'OCSE e di peer review, ci viene sempre non addebitato ma accreditato, è la cooperazione territoriale che regioni e comuni, ovviamente con enormi difficoltà, mettono in campo in partnership con altri territori.
  Ci sono le fondazioni private, bancarie e filantropiche: quelle bancarie le conosciamo ma esiste una ricchissima rete di fondazioni filantropiche italiane che, pur spesso non desiderando essere conosciute, sono erogative. Abbiamo le università con le loro linee di cooperazione, le aziende che sempre di più, coerenti con i nuovi codici di corporate social responsibility, dedicano pezzi della loro attività a modelli di intervento no profit. Sono cambiati i soggetti. Sono cambiati, come dicevo, i modi di finanziamento.
  Una comunicazione recente dell'ambasciatore Stefano Sannino, Rappresentante Permanente d'Italia presso l'Unione europea a Bruxelles, descrive come, in sede di discussione dell'Agenda Post-2015, in Europa Pag. 8ci sia la crescente consapevolezza che la quota di aiuto pubblico allo sviluppo è sempre più componente minoritaria dell'aiuto, ossia è «un» pezzo del sistema, ma non è più «il» sistema. Se esistesse un consiglio di amministrazione, coloro che rappresentano l'aiuto pubblico allo sviluppo siederebbero a rappresentare la minoranza, non la maggioranza.
  Cambiano le modalità: oggi si parla di matching, di blending, di partenariato pubblico-privato, realtà che venticinque anni fa semplicemente non esistevano. È venuta meno anche una contrapposizione ideologica, per me molto significativa: un tempo tra ONG e aziende, profit e no profit c'era un muro che oggi è caduto. Anche i cosiddetti Paesi recettori chiedono sempre più strumenti, come quelli che abbiamo anche recentemente introdotto nel cosiddetto decreto del fare, che cercano di attrarre aziende italiane sui propri Paesi in via di sviluppo. Strumenti al confine fra cooperazione allo sviluppo e diplomazia commerciale. Parlo di Paesi che sanno di non essere la prima opzione di investimento per quelle aziende, ma che possono diventarlo se, appunto, strumenti al confine tra l'internazionalizzazione e l'aiuto pubblico allo sviluppo possono attrarre investimenti e opportunità di sviluppo in settori che, in una pura logica di profitto, non sarebbero scelti.
  Sono cambiati anche i tipi di progetto, sempre meno mordi e fuggi, sempre più sostenibili, capaci di rimanere in piedi anche dopo che l'intervento è terminato.
  Aggiungo che è cambiato anche il quadro regolatorio internazionale.
  C'era una volta la Conferenza di Rio sull'ambiente. Oggi c’è Rio+20, Rio venti anni dopo, un pezzo di riflessione internazionale che ha cercato di introdurre un riferimento concettuale ai cosiddetti sustainable development goals, gli SDGs, legando assieme la riflessione tripartita su un modello che metta in coerenza sviluppo sociale, sviluppo economico e sviluppo ambientale, in modo che sia tutto sostenibile e legato coerentemente.
  Questa riflessione, appunto, partiva venti anni fa. Non venti, ma poco più di dieci anni fa, invece, partiva un secondo filone di riflessione, che si sostanzia nella dichiarazione sugli Obiettivi del Millennio.
  Di fine anni Novanta è, infatti, la riflessione che parte nelle Nazioni Unite e che propone al mondo di ingaggiarsi in modo sostanziale nel raggiungimento degli otto Obiettivi del Millennio: sradicare la povertà estrema e la fame; raggiungere una migliore istruzione elementare universale; promuovere la parità tra i sessi e accrescere il potere d'autonomia delle donne; ridurre la mortalità infantile; migliorare la salute materna; combattere HIV, AIDS, malaria e altre malattie; assicurare la sostenibilità ambientale; sviluppare il partenariato globale per lo sviluppo.
  Alcuni di questi obiettivi erano legati a indicatori quantitativi, al raggiungimento di un certo risultato. Più in generale, la comunità internazionale si impegnava a destinare, secondo un percorso graduale, una data percentuale di ricchezza in un percorso virtuoso che avrebbe dovuto portare allo 0,7 per cento del PIL.
  Prima ancora di discutere dei risultati raggiunti, dopo quindici anni, la comunità internazionale sta riflettendo su come fare convergere armoniosamente questi due percorsi in una sola cornice di riferimento. Prendiamo atto che la povertà ha una sua natura multidimensionale, che è inutile ingaggiare una causa dimenticando le altre. Aggiungiamo alla triplice natura degli obiettivi, sociale, economica e ambientale, la dimensione dei diritti umani, della parità di genere, della rule of law e della good governance.
  In sede europea, abbiamo contribuito al dibattito sollecitando al superamento degli indicatori dello sviluppo solo quantitativi.
  Potremmo definirlo un modo per uscire dal ricatto della logica del PIL, degli indicatori puramente quantitativi. Ovviamente, è un tema incredibilmente controverso, ma visto che siamo riflettendo, perché non porre anche questo tema ?
  In Italia, l'ISTAT, ma anche una parte dell'accademia, si è esercitata sul tema della misurazione «della felicità» o, comunque, della ricchezza non solamente materiale.Pag. 9
  Come dovrebbe terminare questa riflessione ? L'Europa ha percorso un suo primo pezzo di cammino. A maggio e giugno, al Consiglio europeo, abbiamo definito la nostra Agenda Post-2015, portando questo contributo verso la tappa di settembre alle Nazioni Unite, nel frattempo adottando il nuovo quadro di riferimento finanziario 2014-2020. Questo è il punto in cui ci troviamo in Europa.
  Quanto a Rio+20, cioè agli SDGs, la comunità internazionale ha organizzato la riflessione dividendola in una trentina di constituency multi-paese, gli open working group. L'Italia partecipa a uno di questi insieme alla Spagna e alla Turchia. Gli MDGs, millennium development goals, non hanno, invece, un percorso definito, ma negli ultimi mesi il Segretario generale delle Nazioni Unite ha incaricato una serie di personalità, il Presidente della Liberia, il Premier inglese e altri – il cosiddetto High level panel – di elaborare un rapporto, presentato qualche mese fa, che sarà alla base del rapporto che, a sua volta, il Segretario generale presenterà a settembre allo special event delle Nazioni Unite.
  L'obiettivo di questo special event 2013 alla sessione delle Nazioni Unite e della riflessione su MDGs e SDGs è di arrivare l'anno prossimo, 2014, a una compiuta convergenza di questi due percorsi.
  Immaginiamo tutti che questo nuovo modello, un po’ olistico, sarà a sua volta spacchettato in cluster di obiettivi diversi, misurabili e aggredibili con specifiche campagne. Per la prima volta però potremmo avere un modello condiviso, non un modello di riferimento che il nord propone al sud, l'Europa propone all'Africa, bensì un modello condiviso da Paesi ex donatori ed ex recettori, molti dei quali sono diventati donatori emergenti e che mette insieme e in coerenza tutte queste riflessioni.
  Ho avuto occasione di incontrare Amina Mohamed, la special representative del Segretario generale ONU sul Piano di sviluppo post-2015, che sta materialmente stendendo il rapporto di settembre. Ovviamente, gli obiettivi che avevamo alle spalle sono considerati un unfinished business; non ce li lasciamo alle spalle perché abbiamo raggiunto l'obiettivo. Da qui al 2030 però, l'obiettivo è giungere in una sola generazione alla sconfitta, su base universale, della povertà e della fame. Non sono più obiettivi transitori, milestone; qui parliamo dello sradicamento della fame a livello universale.
  Siamo tutti in questo percorso. Come ho già ripetuto molte volte, non vanno dimenticati i prossimi due anni: innanzitutto c’è il semestre italiano di presidenza dell'Unione europea. Dovremo allora dire qualcosa sul Mediterraneo e sull'Africa, sulla cooperazione. E poi ho ricordato questa nostra scadenza bilaterale, Italia-Africa, che per me è una sorta di agenda che va in trasparenza sovrapposta all'altra e che, in coerenza, si proietta fino ad Expo2015.
  Di quest'ultimo tema mi piacerebbe parlare, anche se non è la mia delega, ma lasciatemi comunque dire una sola cosa. Rispetto allo showcase universale, come Shanghai 2010, dove ogni Paese aveva il suo padiglione, raccontava le sue eccellenze, l'Expo di Milano nasce con un concetto totalmente diverso. Il tema è «Feeding the Planet»: i Paesi potranno partecipare a cluster tematici sul cibo, il cacao, il caffè, il riso e così via. Saranno raccontate storie Paese, eccellenze di filiera, percorsi di self empowerment, ogni Paese sceglierà a quale pezzo del racconto del Feeding the Planet partecipare.
  L'Italia ha sfidato i centotrenta Paesi che finora hanno aderito non a raccontare soltanto l'effetto vetrina. Il percorso è complicato, come comprenderete ed il lavoro è molto intenso.
  Avremo modo di parlare anche di questo perché, mentre è in atto un'assidua e importantissima diplomazia da parte del viceministro Dassù nel coinvolgere nuovi Paesi, c’è un parallelo lavoro di costruzione di questo messaggio, in cui siamo evidentemente ancora agli inizi. Credo, dunque, che ci sarà nel corso di questi mesi la prosecuzione di un proficuo dialogo col Parlamento.
  Vi ringrazio e mi fermerei qui.

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  PRESIDENTE. Ringraziamo il viceministro Pistelli per la dettagliata relazione sia sulla questione africana sia sulla cooperazione.
  Do ora la parola agli onorevoli colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  PIA ELDA LOCATELLI. Il mio non sarà tanto un intervento, quanto l'espressione insieme di ammirazione e anche un po’ del senso di un annegamento in questa agenda bellissima. Ringrazio il viceministro per il panorama completo, ma mi sento un po’ overwhelmed.
  La ringrazio davvero perché ci ha offerto una fotografia dell'Africa e del tema di questi percorsi che si intrecciano, Rio+20, MDG, SDG. È davvero l'approccio giusto perché non si spezzetta niente. C’è una visione complessiva, che però rende particolarmente difficile lavorarci. Resta una bellissima e grandissima sfida, che ci affascina, ma dovremmo occuparci solo di questo. Questo, tuttavia, è un Comitato di una Commissione di un'Assemblea parlamentare.
  Ci aiuti e ci guidi un po’ a fare in modo che il nostro lavoro possa essere utile. Io so già a cosa voglio lavorare, a temi di genere, con un approccio di genere a tutti i temi, ma davvero il rischio è che ci perdiamo. Se non ci si dà anche un po’ un filo per non disperdere il lavoro, il rischio è che lo disperdiamo. Grazie, comunque, per questa presentazione bellissima e molto stimolante. Spero di non farmi spaventare dalla quantità di lavoro perché ho la sensazione di essere proprio sopraffatta dalla quantità dei temi.

  LIA QUARTAPELLE PROCOPIO. Ringrazio il viceministro per la presentazione.
  Innanzitutto, ci ha raccontato di alcuni appuntamenti importanti nei prossimi mesi: a Bruxelles, il prossimo 16 settembre, la Conferenza sulla Somalia; l'Assemblea generale delle Nazioni Unite; credo che sia nell'interesse di tutti, così come per i vertici europei, un contatto più diretto tra Parlamento e Governo in vista o al ritorno da questi vertici.
  All'Assemblea generale delle Nazioni Unite probabilmente parteciperà anche la nostra delegazione. Sulla Somalia avevamo fatto un'interrogazione per chiedere degli esiti della Conferenza di Londra. Quindi ancora più importante è sapere della conferenza per la Somalia.
  La seconda questione cui ha accennato in coda, ma che a mio avviso si lega a tutto, riguarda il modo in cui riusciamo a fare del lavoro svolto come Paese all'interno dell'Agenda Post-2015 un elemento di lavoro anche di Expo 2015. Con le ONG è emersa, in un incontro informale che avevamo organizzato, la possibilità di consultazioni o cluster a Milano: mi chiedo se non vi si possa lavorare insieme dal momento che rientra nel lavoro che sappiamo il Governo sta svolgendo per fare di Milano un centro della discussione internazionale 2014-2015.

  ARTURO SCOTTO, Presidente del Comitato permanente sull'Africa e le questioni globali. Innanzitutto, ringrazio il viceministro Pistelli per la relazione estremamente ricca e suggestiva nella definizione non dei confini geografici, ma della dimensione culturale, economica e politica dei temi che dobbiamo affrontare.
  Penso che la formula di convocare insieme i Comitati e provare ad associare le questioni che inevitabilmente si intrecciano vada continuata e perseguìta rispetto a una serie di appuntamenti e di agende che ci siamo dati. Vorrei porre poche questioni e concludere rapidamente.
  In primo luogo, abbiamo necessità, ovviamente dentro un ragionamento e una riflessione che lei ha avviato sulla divisione dell'Africa, di un focus più forte rispetto alle aree di conflitto: Sahel, Corno d'Africa, regione dei Grandi Laghi, oltre che, ovviamente, sulla gigantesca dimensione del Maghreb. Ritengo che, nel lavoro della Commissione affari esteri, questo tema già esiste, vive; ieri è venuto il Ministro Bonino sull'Egitto, la Tunisia, la Libia, abbiamo avuto la possibilità di fare anche un punto rispetto alle aree di crisi. Tuttavia, su questo, dobbiamo audire le organizzazioni non governative e, ovviamente, chiedere a lei di poter ulteriormente affrontare la questione.Pag. 11
  Vorrei, inoltre, chiederle a che punto siamo con gli Obiettivi del Millennio. L'ambizione entro il 2030 del salto one generation dello sradicamento della fame e della povertà necessita di un bilancio di quanto si è fatto prima. Credo che su questo punto abbiamo la necessità di fare un ragionamento ulteriore.
  Sono convinto che sia giusto sottolineare il cambio di prospettiva rispetto agli aiuti allo sviluppo, una sensibilità crescente di vari attori, dai comuni alle regioni, per cui potrebbe essere utile provare anche a intrecciare dialoghi e discussioni, incontri, con questi mondi, con le aziende più significative, con le fondazioni e così via.
  Tuttavia, è chiaro che l'obiettivo dello 0,7 per cento del prodotto interno lordo è molto lontano. Siccome credo che investimenti privati si attivino quando c’è un impegno forte da parte del pubblico, il mio timore è che, se non riusciamo ad accelerare sulla riforma e su un dibattito più generale sulla cooperazione e sullo sviluppo, non ce la faremo. Credo che dobbiamo fare della legge sulla cooperazione un grande atto di questa legislatura, politico, non semplicemente uno dei tanti aspetti affrontati.
  Infine, ovviamente, avvertiamo l'esigenza di radicare la Giornata Italia-Africa anche sul terreno parlamentare. Abbiamo immaginato di avviare a settembre, come Comitato sull'Africa, un seminario di studio di approfondimento anche insieme al CeSPI, Centro studi politica internazionale, e di altri per approfondire i temi.
  Vorremmo, se possibile, strutturare anche sul terreno parlamentare la costruzione della Giornata Italia-Africa, così come credo sia giusto, associandomi all'onorevole Quartapelle Procopio, provare a seguire direttamente anche tutta la vicenda a partire dallo special event delle Nazioni Unite. Abbiamo bisogno, da questo punto di vista, a maggior ragione perché questo è un Parlamento giovane, di essere aggiornati continuamente e di avere una relazione più stretta con il Governo e con gli attori globali rispetto a tutti i passaggi esistenti.

  MANLIO DI STEFANO. Vorrei ringraziare il viceministro Pistelli. È stata una relazione molto dettagliata e molto schietta e credo che uno dei problemi principali dell'Africa sia proprio il fatto che difficilmente in ambito politico si parla in modo aperto e criticando le scelte del passato. Sappiamo tutti perfettamente che l'assistenzialismo è ciò che, probabilmente, ha rovinato maggiormente l'Africa negli anni descritti dalla sua relazione e forse oggi le grandi difficoltà del nuovo modello di sviluppo risiedono, paradossalmente, proprio nel retaggio che ha lasciato l'assistenzialismo.
  Purtroppo, sono vere le migliorie e che il modello è cambiato, ma è vero anche che rimane una dipendenza da quel modello precedente che dobbiamo cercare di scardinare anche a livello culturale. Si arriva a questo, effettivamente, come sottolineava anche lei, tramite quei cinque volani e non soltanto i tre del classico intervento sul territorio.
  Vorremmo – questo è un auspicio che abbiamo fatto diverse volte anche in fase di costituzione di questo Comitato – ribadire che, a nostro giudizio, l'attenzione massima deve essere data a tutti gli ambiti di intervento, quindi anche a quelli più piccoli. Spesso, infatti, è più facile applicare un modello nuovo in realtà più piccole.
  Speriamo che si riesca in questo Comitato a portare avanti la conoscenza anche degli interventi di piccole ONLUS e piccole ONG. Siamo certi che, comunque, l'Italia possa offrire lo stesso grande contributo di sempre in termini di cooperazione. Purtroppo, siamo tutti consci di essere ben lontani dallo 0,7 per cento dell'auspicio, ma si può comunque compiere quantomeno un lavoro di qualità anche con un impegno economico ridotto.
  Siamo certi che anche le altre audizioni in questo Comitato potranno essere proficue in tal senso. Noi abbiamo proposto al presidente Scotto una lista di nostri nominativi per le audizioni e siamo certi che sarà interesse di tutti portarle avanti.

  CARLO SIBILIA. Anche io colgo l'occasione per ringraziare il viceministro perché Pag. 12ho trovato la discussione, in realtà, mai banale e questo mi fa molto piacere. È stata pregna di informazioni e anche questo ho trovato un elemento di positività che mi dà anche occasione di andare un po’ oltre il dibattito.
  Onestamente, infatti, così è bella una discussione politica e si può anche trovare qualche spunto in più. Uno degli spunti mi è venuto in mente quando ha parlato benissimo della questione delle risorse. Sono, infatti, la parte forse che più interessa, inerente lo sfruttamento subìto dall'Africa.
  Possiamo dircelo in tutte le lingue del mondo, ma il fatto che l'Africa sia al centro delle politiche di aiuti dell'Italia e di altri Paesi, testimonia forse che gli aiuti sono un metodo per espiare il peccato che hanno in sé dello sfruttamento incondizionato e del colonialismo esagerato del quale l'Africa è stata vittima.
  Chiedo, giusto per il piacere della discussione e per avere anche un suo parere, come si concilia, secondo lei, la ripresa della sovranità, se vogliamo, del continente africano con alcuni modi di sfruttamento delle risorse. Mi riferisco, in particolare anche agli interessi economici dell'Italia nel continente.
  Noi, ad esempio, abbiamo presentato un'interpellanza urgente al Ministro dell'economia e delle finanze riguardante soprattutto ENI e i suoi investimenti. In quel caso, ricordo che era interessata la Nigeria e altri casi simili, con forti casi di corruzione. Apprezzo moltissimo – credo questo sia uno dei lati migliori anche a livello di immagine dell'Italia – la nostra vocazione alla cooperazione internazionale e allo sviluppo ma, se mettiamo una faccia bellissima, un'immagine perfetta e, dall'altro lato, in un certo senso miniamo il nostro stesso lavoro, come succede anche in altre realtà, mi chiedo come si possano conciliare questi due aspetti e quanto, mettendo in primo piano la cooperazione allo sviluppo, come parlamentari all'interno di questo Comitato stesso, possiamo influire nel controllo di questi processi di corruzione.

  ALESSANDRO DI BATTISTA. Ringrazio il viceministro. Ho apprezzato soprattutto la passione delle sue parole.
  In America Latina si parla moltissimo del concetto di sovranità alimentare. Sembra che il concetto di sicurezza alimentare sia piuttosto passato. Io la penso allo stesso modo. Vorrei chiedere un suo parere, una battuta, un feedback su questo tema e rispetto all'Africa.

  PRESIDENTE. Do la parola al viceministro Pistelli per la replica.

  LAPO PISTELLI, Viceministro degli affari esteri. Ringrazio per le domande e anche per gli apprezzamenti sul piano personale, sempre graditi in questo mestiere.
  Dirò sinceramente che credo molto al dato generazionale. Mi è capitato di entrare in Parlamento molto tempo fa, da giovane e credo davvero che, su alcune delle questioni di cui abbiamo parlato, il Parlamento – non lo dico ritualmente – sia fondamentale per riuscire a imprimere lo spin giusto alla discussione.
  Si è parlato delle risorse. Descriviamo la questione per come è, senza girarci intorno: altro che 0,7 per cento  ! Siamo allo 0,13 per cento, cioè allo 0,1 non allo 0,7, in un continente dove l'Italia purtroppo pesa per il 40 per cento dell'incidenza generale nel mancato raggiungimento degli obiettivi europei.
  Siamo un Paese grande. Se noi buchiamo l'obiettivo di così tanto, incidiamo sul complesso europeo, anche se un Paese piccolo come il Lussemburgo magari destina pure l'1 per cento. Lo ripeto. Noi siamo allo 0,13-0,14. Siamo davanti soltanto alla Grecia: è uno dei prezzi drammatici che abbiamo pagato negli ultimi sette anni della crisi, un oggetto di battaglie continue in questa Commissione, tanto continue quanto inutili, durante gli anni del risanamento. Sulla parte tradizionale della cooperazione gestita dal Mae, siamo passati da un budget che nel 2007, se non ricordo male, era di circa 1,3 miliardi ai 150 milioni di euro dell'anno scorso. È stata un'inversione importante, ed è stata ottenuta dal Ministro Riccardi, l'aumento Pag. 13dell'anno scorso da 150 a circa 250 milioni di euro. Tendiamo sempre a dimenticare – è stata una delle battaglie culturali su cui ci siamo spesi negli ultimi anni – che questa cifra è il dito (e tutti guardano il dito) ma il dito indica la luna; e la luna a cui dobbiamo guardare nella torta della cooperazione è tutto ciò che il nostro Paese fa e dona in sede europea e multilaterale. Si tratta all'incirca dell'80 per cento dell'intera torta – banche regionali di sviluppo, Banca mondiale, fondi globali, Unione europea – che a sua volta viene rispeso e implementato con progetti di cooperazione delegata. Sono contento di dirvi che negli ultimi mesi siamo stati capaci di conquistare, un po’ col coltello tra i denti, alcuni importanti progetti di cooperazione delegata in sud Sudan e in Etiopia. Per intendersi, soldi europei implementati da soggetti italiani, mentre per anni era successo esattamente il contrario: assegni italiani e progetti implementati da altri.
  Non è automatico, l'aiuto non è legato in questo caso per cui, se l'assegno è italiano, il soggetto implementatore deve essere italiano: non funziona così.
  Per certi versi era anche irritante vedere quest'importante quota di contributo italiano alla cooperazione su canali multilaterali perdersi senza un vero e proprio indirizzo o un riconoscimento del nostro sforzo. Pur essendo, invece, oggi un importante canale di aiuto, è decisivo, dopo aver staccato l'assegno, stargli dietro per imprimergli anche una curvatura.
  La battaglia sulle risorse parte dal Parlamento, prima qui e poi in Commissione bilancio. L'anno scorso c’è stata quest'importante inversione, da 150 a 250 milioni di euro e un impegno nel DEF, Documento di economia e finanza, a un incremento del 10 per cento annuo da qui al 2016 per arrivare a una quota per noi comunque importante, lo 0,29 nel 2017, più del doppio della cifra attuale. Ricordiamo che, secondo gli obiettivi che ci eravamo dati, nel 2010, tre anni fa, l'Europa doveva essere allo 0,56, per giungere poi allo 0,7 nel 2015. È chiarissimo che questi traguardi scontano un qualche ottimismo e non tengono conto della crisi recente, ma diciamo fra noi che ci permetterebbero almeno di recuperare una minima credibilità. Per arrivare fino a lì, la scelta è del Parlamento e – lo dico con molta franchezza – non è una scelta facile. Ciascuno di voi, di noi, risponde politicamente ai suoi valori, ai suoi princìpi, agli elettori e a una constituency di riferimento, che vi obietterà – il film è già scritto negli ultimi quindici anni – davanti a un impegno sulla cooperazione, che contano di più le scuole, le infrastrutture, il lavoro, i disoccupati italiani. La cooperazione, per molti, serve solo quando le cose vanno bene, quando i soldi sono in abbondanza, come l'obolo domenicale.
  Non è così, ma la prima battaglia da fare è chiaramente di tipo culturale. Nel mondo degli addetti ai lavori, si sa cosa sia la cooperazione, nel mondo largo la si associa a un'idea in genere positiva, ma gli stakeholder che sono in mezzo tra la constituency di riferimento e il mondo largo sono quelli che dicono sì o no quando si tratta di allocare risorse.
  Ad esempio, quelle che noi chiamiamo «spese» – non è una norma di linguaggio – quando parlo con i miei colleghi ministri per la cooperazione francese, tedesco, di diversi orientamenti politici, loro li chiamano «investimenti» in cooperazione. Non si tratta di una definizione tecnica ma politica. Sono investimenti in termini immateriali, in stabilità, in pace, in buone relazioni. Se un Paese accanto al nostro non crolla, avremo meno immigrazione disperata, meno barconi, perché si sta meglio a casa propria se le cose vanno meglio: nessuno lascia quei Paesi per turismo, ci si muove per disperazione.
  Inoltre, è statisticamente documentato che la relazione di amicizia creata produce un ritorno anche in termini economici, di scambi e di commerci.
  Si parte quindi da una battaglia culturale: questa Commissione l'ha combattuta varie volte nelle scorse legislature. Vi chiedo, col cuore in mano, nei prossimi anni di tenere il punto, di tenerlo innanzitutto con i nostri, i vostri, gli altri colleghi, che vi diranno, davanti alla coperta Pag. 14corta, di destinare le risorse ad altro, che vi diranno che la cooperazione non c'entra, che è un lusso.
  Va fatto capire, invece – poiché non siamo una Svizzera con il mare – che se questo Paese ha un'idea di sé nel mondo, deve in qualche modo testimoniarla e lo deve fare anche con la cooperazione.
  Questo, ovviamente, è l'inizio di una discussione. Credo, per perdere il senso di sindrome di Stendhal di fronte al tanto che abbiamo davanti – come l'onorevole Locatelli sottolineava – che sarebbe molto utile, con i due presidenti, stabilire – offro la mia disponibilità completa, se alle 8.30 del mattino è ancora meglio – un calendario realistico, che però spacchetti i temi. È chiarissimo, infatti, che si può ragionare un'ora di Mali, un'ora di Somalia, un'ora di Libia, un'ora di tutto: è tutto legato ed è chiaro che, se in un'ora e mezza parliamo di tutto, offriamo soltanto un affresco generale.
  È importante che gli altri temi siano affrontati con maggiore calma.
  Ringrazio chi ha detto che sia stata una relazione esaustiva: magari ! Abbiamo solo letto i titoli dei capitoli, ma ogni capitolo andrebbe a sua volta sviluppato.
  Ciascuno di questi punti – spero – presenta una sua coerenza interna con gli altri: lavorando assieme nei prossimi mesi, ci renderemo conto che queste coerenze sono come trasparenti colorati messi uno di seguito all'altro, coerenti in se stessi e coerenti tra loro. Azioni positive in materia di cooperazione aiutano il rapporto bilaterale, sostengono l'idea della Conferenza Italia-Africa, realizzano gli MDG's, stabilizzano magari un'area di conflitto.
  Mi piace molto, presidente Scotto, l'idea di un côté parlamentare a fianco della conferenza Italia-Africa. Ancora è una proposta aperta e questo coinvolgimento del Parlamento sarebbe molto positivo.
  Rispetto alla legge n. 49 del 1987, abbiamo sofferto un po’, in questo mese di luglio, per perfezionare alcuni passaggi interni. Voi siete deputati e sapete che, se scrivete una proposta di legge, la presentate in bozza, ve la restituiscono e la firmate. È sufficiente per entrare in pipeline. Un disegno di legge non funziona così. Per passare il concerto con gli altri ministeri, ricevere l'approvazione della struttura, passare da Palazzo Chigi, questo richiede molto più tempo. La parte di mia competenza è terminata, ma voglio ricordare che luglio è stato un mese complicato: Kazakistan, Libia, Egitto e altre crisi. Abbiamo accumulato colpevolmente un mese di ritardo rispetto alla tabella di marcia che avevo immaginato, ma il mio obiettivo resta quello di completare i passaggi interni entro settembre. Presumo che la discussione possa cominciare – in omaggio a dove era terminata la scorsa legislatura – al Senato, ma voglio anche dire con molta amicizia politica che, se c’è un'intesa forte, come ho percepito, per fare della riforma della legge n. 49 del 1987 un atto finalmente maturo in questa legislatura, l'obiettivo potrebbe essere lavorare in sede parlamentare bicamerale come se fossimo già un Parlamento monocamerale. È necessario un lavoro congiunto fra partiti che ci permetta di velocizzare. Inoltre, dato che la proposta riprenderà quella presentata nella scorsa legislatura dai senatori Tonini, Mantica ed altri (A.S. 1744, Riforma della disciplina legislativa sulla cooperazione allo sviluppo e la solidarietà internazionale) ma innoverà su alcuni passaggi e avrà bisogno di strumenti di normazione secondaria – ad esempio quello che riguarda l'Agenzia – non vorrei che emergesse un testo che richieda poi chissà quanto tempo per essere implementato. Ancora non avete un testo ma io vi faccio la mia promessa per cercare di terminare a settembre e per lavorare congiuntamente fra le Camere. Questa è la mia proposta politica.
  Quanto al focus sui conflitti, sono d'accordo con quanto osservava l'onorevole Scotto: vanno scorporati, ovviamente, Sahel, Corno d'Africa e Grandi Laghi. Aggiungo che, secondo me, anche la parte Maghreb va letta alla luce delle più generali transizioni arabe.
  Due focus sono necessari, invece, rispetto alla Somalia e a Expo 2015.
  Sulla Somalia voglio fornire soltanto pochi elementi. C’è stata la Conferenza di Londra a maggio, poi la mia occasione Pag. 15personale di incontrare il Presidente somalo durante il Giubileo dell'Unione Africana ad Addis Abeba, altre occasioni per incontrare altri esponenti del Governo federale somalo da varie altre parti. Nella seconda metà di agosto, farò un giro in Corno d'Africa, anche in Somalia; il 9 settembre si riunisce in Italia il core group Somalia; il 16 settembre c’è la Conferenza di Bruxelles e, presumibilmente, il 26 – anche se la data non è ancora esatta – l'Italia ha convocato, insieme all'Etiopia nel formato IGAD (Intergovernmental Authority on Development) Partners Forum, durante la settimana ministeriale delle Nazioni Unite, un seguito della discussione.
  Come già detto, l'obiettivo è di cogliere la finestra di positività esistente. Non siamo in Svizzera. È di ieri l'altro lo scoppio di un'autobomba a Mogadiscio, che ha frenato il rimpasto del Governo. A voi, che siete appassionati di rete, segnalo un ottimo blog di Shukri Said su Repubblica.it, che si occupa specificamente di Somalia e che aggiorna costantemente la situazione con elementi di dettaglio.
  Siamo davanti a una partita molto complicata, ma stiamo cercando di fare la nostra parte perché, evidentemente, a differenza di altri, l'opinione italiana dai somali è ancora ascoltata e rispettata. In alcune di quelle regioni si parla con le autorità locali in italiano perché molti hanno frequentato l'università somala in italiano a Mogadiscio. Il retaggio è dunque ancora molto forte.
  Con riferimento a Expo 2015, al ruolo della società civile o delle ONG, non so quanto ne sappiate finora, se è previsto che siano questi Comitati a farlo.

  CARLO SIBILIA. Sappiamo che c’è molta criminalità organizzata !

  LAPO PISTELLI, Viceministro degli affari esteri. Nella grande area di Expo 2015 c’è un'area specifica, ben conosciuta dall'onorevole Quartapelle Procopio, Cascina Triulza, una zona specificamente dedicata e affidata alla società civile. Il Forum del terzo settore e molte altre ONG si sono candidate a gestire questo spazio per l'intero semestre, hanno costituito un'apposita Fondazione. Altre importanti ONG si sono invece candidate a gestire degli eventi. Vi renderete conto che uno spazio così grande per sei mesi è un impegno massiccio.
  Da parte nostra, settore cooperazione del Ministero degli affari esteri, stiamo ancora riflettendo insieme al resto del Governo – entro la metà di settembre dovremo elaborare, da questo punto di vista, un masterplan – su quale sarà il nostro tipo di presenza: se staremo con altri nel padiglione Italia o se, invece, racconteremo alcune nostre best practice all'interno dei cluster ad alcuni alimenti, o se invece saremo nel cosiddetto Padiglione Zero della FAO, padiglione di ingresso all'interno di Expo 2015. Probabilmente, saremo da più parti e non da una sola, esattamente perché è trasversale il nostro modo di narrare l'idea italiana su questo tema.
  La sicurezza alimentare, la food security è il focus centrale dell'intera operazione. Lo è in Italia Expo2015, ma anche nel modo in cui l'Agenda del nuovo sviluppo si coniuga in Africa.
  L'onorevole Sibilia, da ultimo, pone un problema molto specifico. Rimetto la risposta sul tema dell'ENI in Nigeria al suo strumento di sindacato ispettivo specifico.
  In generale, mi permetto di affermare con tranquillità che ENI è un player molto importante in quel continente. Da molte parti dell'Africa, mi arrivano richieste di ulteriore presenza di ENI. Il nostro Paese, privo di risorse ma diventato grande campione nella capacità di sfruttare, raffinare e distribuire, è chiamato oggi da molti Paesi che dispongono delle risorse, ma sono privi delle tecnologie e degli investimenti per poterle adeguatamente sfruttare.
  Non lavoro per ENI, evidentemente, ma alla fine ENI ha perfino un problema di overstretching. Ovunque vada, Libano, Israele, Cipro, Mozambico, tutti chiedono più ENI, un nostro grande campione.

  CARLO SIBILIA. E ti credo, gli danno le mazzette !

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  LAPO PISTELLI, Viceministro degli affari esteri. Non vorrei ridurre un grande campione nazionale a una figurina su cui fare facili e ingiustificate ironie. È un grande player e sta giocando grandi partite anche in quel continente, non da solo. Abbiamo, infatti, buoni player nel campo dell'energia rinnovabile, fossile e così via.
  È chiaro che nella riflessione di carattere generale che facevo prima, i temi che ha sollevato l'onorevole Sibilia vengono un po’ tutti al pettine. Nell’ownership africana c’è il rispetto delle modalità con cui il continente nel suo complesso, le sue organizzazioni regionali, i suoi Stati si strutturano. Al tempo stesso, dico pure che, nel momento in cui si interviene con la cooperazione, si ha il diritto-dovere di chiedere qualcosa di più in termini di rispetto dei diritti umani, della rule of law, del buon governo.
  Qualcuno diceva «Ce n'est pas qu'un debut». Anche questo è soltanto l'inizio di una riflessione. Ringrazio i due presidenti e i deputati che hanno partecipato stamattina.
  C’è la disponibilità, dopo l'estate, non soltanto ad aggiornare il quadro delle iniziative in corso ma anche a riferire su quanto sarà fatto a margine della sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite.
  Ci sarà il gruppo del Sahel, quello dei Friends of Yemen; si tratterà il tema delle mutilazioni genitali femminili, eccetera. L'Italia parteciperà a una quantità di eventi enorme, ma ripeto l'invito a voi e ai presidenti dei due Comitati a stabilire assieme un percorso di lavoro che smonti il pacchetto e permetta ai commissari di seguirlo con maggior dettaglio, non necessariamente in sostegno al Governo, ma in dialogo con esso.
  Sono convinto che su queste tematiche sia più facile che su altre costruire un'intesa molto forte tra Parlamento e Governo, in una logica bipartisan tradizionale e pure con un consenso ulteriormente allargato a quei gruppi nuovi che oggi si collocano legittimamente all'opposizione del Governo in carica.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il viceministro Pistelli. Chiaramente, è accettato l'invito sempre e comunque in un discorso di pluralità di voci. Se il Governo in qualche modo vorrà contribuire, saremo più che felici.
  D'altra parte, come anticipavo nella prima seduta del Comitato, mi piacerebbe che insieme creassimo anche una lista di persone da audire. Pensavo, per la settimana prossima, appunto a una riunione con l'Ufficio di Presidenza, di modo che potremo eventualmente invitare anche le associazioni che ogni gruppo è interessato ad audire.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 10.