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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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XVII Legislatura

I Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 1 di Lunedì 3 ottobre 2016

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME DELLA PROPOSTA DI LEGGE C. 3558  DAMBRUOSO, RECANTE MISURE PER LA PREVENZIONE DELLA RADICALIZZAZIONE E DELL'ESTREMISMO JIHADISTA

Audizione del Capo del Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno, Mario Morcone, del Direttore del Servizio centrale Antiterrorismo del Ministero dell'interno, Lamberto Giannini e del Direttore del dipartimento antiterrorismo internazionale del Ministero dell'interno, Claudio Galzerano.
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 3 ,
Morcone Mario , Capo del dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno ... 3 ,
Giannini Lamberto , Direttore del servizio centrale antiterrorismo del Ministero dell'interno ... 5 ,
Galzerano Claudio , Direttore del dipartimento antiterrorismo internazionale del Ministero dell'interno ... 7 ,
Fiano Emanuele (PD)  ... 8 ,
Galzerano Claudio , Direttore del dipartimento antiterrorismo internazionale del Ministero dell'interno ... 8 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 8 ,
Fiano Emanuele (PD)  ... 8 ,
Pollastrini Barbara (PD)  ... 9 ,
Dambruoso Stefano (SCpI)  ... 11 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 12 ,
Morcone Mario , Capo del Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno ... 12 ,
Giannini Lamberto , Direttore del servizio centrale antiterrorismo del Ministero dell'interno ... 13 ,
Galzerano Claudio , Direttore del dipartimento antiterrorismo internazionale del Ministero dell'interno ... 15 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 16 

Audizione di esperti e di rappresentanti di associazioni:
Agostini Roberta , Presidente ... 16 ,
Dennetta Teresa , rappresentante di Exit Onlus ... 16 ,
Agostini Roberta , Presidente ... 17 ,
Bauccio Luca , avvocato ... 17 ,
Colombo Valentina , ricercatrice di storia dei Paesi islamici presso l'Università europea di Roma ... 18 ,
Giorda Maria Chiara , professoressa presso la scuola di lettere e beni culturali dell'Università di Bologna ... 19 ,
Agostini Roberta , Presidente ... 20 ,
Melloni Alberto , segretario della fondazione per le scienze religiose di Bologna e titolare della cattedra Unesco di pluralismo religioso e la pace dell'Università di Bologna ... 20 ,
Moual Karima , scrittrice ... 22 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 24 ,
Panella Carlo , scrittore ... 24 ,
Rhazzali Mohammed Khalid  ... 26 ,
Pallavicini Yahya , presidente della Comunità religiosa islamica italiana COREIS ... 27 ,
Redouane Abdellah , Segretario generale del Centro islamico culturale d'Italia ... 29 ,
Nomis Fosca , rappresentante di Save the Children Italia ... 30 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 31 ,
Pollastrini Barbara (PD)  ... 31 ,
Fabbri Marilena (PD)  ... 33 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 33 ,
Bauccio Luca , avvocato ... 34 ,
Colombo Valentina , ricercatrice di storia dei Paesi islamici presso l'Università europea di Roma ... 35 ,
Giorda Maria Chiara , professoressa presso la scuola di lettere e beni culturali dell'Università di Bologna ... 35 ,
Melloni Alberto , segretario della fondazione per le scienze religiose di Bologna e titolare della cattedra Unesco di pluralismo religioso e la pace dell'Università di Bologna ... 36 ,
Moual Karima , scrittrice ... 37 ,
Panella Carlo , scrittore ... 38 ,
Cuperlo Giovanni (PD)  ... 38 ,
Panella Carlo , scrittore ... 38 ,
Rhazzali Mohammed Khalid , assegnista di ricerca-sociologia della politica e sociologia della religione dell'Università di Padova ... 40 ,
Pallavicini Yahya , presidente della Comunità religiosa islamica italiana COREIS ... 41 ,
Redouane Abdellah , Segretario generale del Centro islamico culturale d'Italia ... 42 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 43

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà- Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia Libertà: SI-SEL;
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: (LNA);
Democrazia Solidale-Centro Democratico: (DeS-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-Alleanza Liberalpopolare Autonomie ALA-MAIE-Movimento Associativo italiani all'Estero: Misto-ALA-MAIE;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera-Possibile: Misto-AL-P;
Misto-Conservatori e Riformisti: Misto-CR;
Misto-USEI-IDEA (Unione Sudamericana Emigrati Italiani): Misto-USEI-IDEA;
Misto-FARE! - Pri: Misto-FARE! - Pri;
Misto-Movimento PPA-Moderati: Misto-M.PPA-Mod.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
ANDREA MAZZIOTTI DI CELSO

  La seduta comincia alle 12.10.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata attraverso la trasmissione in diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del Capo del Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno, Mario Morcone, del Direttore del Servizio centrale Antiterrorismo del Ministero dell'interno, Lamberto Giannini e del Direttore del dipartimento antiterrorismo internazionale del Ministero dell'interno, Claudio Galzerano.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva relativa all'esame della proposta di legge c. 3558 Dambruoso, recante misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell'estremismo jihadista, l'audizione del Capo del Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno, Mario Morcone, del Direttore del Servizio centrale Antiterrorismo del Ministero dell'interno, Lamberto Giannini, e del Direttore del Dipartimento antiterrorismo internazionale del Ministero dell'interno, Claudio Galzerano.
  Ringrazio i nostri ospiti per la presenza e do subito la parola al dottor Morcone.

  MARIO MORCONE, Capo del dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno. Presidente, la ringrazio per averci offerto l'opportunità, questa mattina, di esprimere qualche considerazione sulla proposta di legge Dambruoso e altri C.3558 sulle misure per la prevenzione della radicalizzazione dell'estremismo jihadista.
  Per prima cosa, vorrei dire che si condivide molto l'approccio a un tema così delicato, evidenziando come il contrasto del fenomeno sia rivolto al radicalismo jihadista piuttosto che al più comune ed equivoco radicalismo religioso islamico. Ciò è particolarmente utile per non incorrere in errori definitori, che possono affossare ogni iniziativa che vada a scontrarsi con i princìpi costituzionali di uguaglianza, libertà religiosa e libera manifestazione del pensiero.
  Il disegno di legge si incentra su un approfondimento delle possibili azioni preventive. In effetti, apparirebbe improprio calibrarlo solo su interventi repressivi. Il testo, secondo gli intendimenti dei sottoscrittori, tende a favorire l'aberrazione di misure di contrasto all'estremismo violento, per trovare una risposta più equilibrata che combini misure repressive e un approccio preventivo, in collaborazione con attori della società civile e con le comunità di riferimento.
  In questo senso, per disinnescare il rischio che misure esclusivamente di polizia possano condurre a ulteriori sentimenti di esclusione, la proposta prevede una serie di misure promozionali, come le attività di formazione specialistica per le Forze di polizia, all'articolo 2, e per i giovani nelle scuole, attraverso linee guida sul dialogo interculturale e interreligioso finalizzate a prevenire questi episodi, all'articolo 4.
  Una nostra direzione centrale, la Direzione centrale per gli affari dei culti, al Dipartimento libertà civili – è presente il Pag. 4prefetto Giovanna Iurato, che ne è la responsabile – può dare un contributo a mio avviso nelle attività di formazione previste su questi temi, per quanto riguarda sia le Forze di polizia sia le scuole, fornendo elementi di conoscenza ed esperienza specifici sull'aspetto culturale e religioso e sul dialogo tra le diverse confessioni di fede.
  Soprattutto negli ultimi tempi, si sta facendo promotrice di una serie di iniziative anche sul territorio, volte a favorire il dialogo e la reciproca conoscenza tra le diverse comunità presenti in Italia, coinvolgendo attivamente anche i rappresentanti del mondo islamico, un percorso che era iniziato in verità già nella XIV legislatura, con l'istituzione della Consulta per l'Islam, proseguita nella XV con il coinvolgimento non solo delle istituzioni, ma anche delle comunità religiose presenti in Italia e della società civile, culminato nell'approvazione della Carta dei valori, che rimane uno strumento fondante dell'inclusione nel nostro Paese nel rispetto dei princìpi costituzionali e delle leggi.
  Oggi, il confronto prosegue sia a livello centrale sia sul territorio, con incontri periodici e con la promozione di conferenze interreligiose, che valorizzino storie e culture nel rispetto dell'altro. In particolare, sullo specifico tema si sta avviando anche un ciclo di formazione dei ministri di culto, in collaborazione con le università italiane, per favorirne la qualificazione e la trasparenza degli insegnamenti impartiti da comunità di fede che non hanno ancora ottenuto l'intesa né il riconoscimento giuridico.
  Inoltre, ai fini di cui stiamo parlando e per non dilatare troppo nel tempo l'acquisizione degli strumenti di conoscenza di base di cui stiamo argomentando, si richiama anche l'importanza di iniziative di confronto culturale e di dialogo già esistenti presso le prefetture, attraverso i consigli territoriali per l'immigrazione, che a mio avviso andrebbero ulteriormente rilanciati, dove è ampiamente garantito l'accesso al dialogo e alla discussione delle rappresentanze religiose di settore.
  Non dobbiamo mai dimenticare che ogni indagine sul rischio potenziale pone, chiaramente, in luce che i rapporti di conoscenza tra comunità ospitante e soggetti da analizzare e prevenire include anche un dialogo con le famiglie di appartenenza. Va benissimo, quindi, il coinvolgimento del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, e delle realtà scolastiche, che possono immediatamente sensibilizzare i genitori nel percorso positivo di conoscenza interculturale e di eventuale richiamo nell'alveo della convivenza positiva in ogni situazione di reale e forte disagio sociale. Certo, bisognerà essere prudenti sui livelli di sensibilità diversi che certamente si registreranno sul territorio e sulle figure di responsabilità sulle quali graveranno le azioni richieste.
  La formazione, se potrà e dovrà essere utilmente sviluppata con le Forze di polizia, che peraltro già lo fanno, dovrà essere ampiamente somministrata agli operatori scolastici o comunali con metodi veloci, chiari e diffusi. È palese che una formazione adeguata dei soggetti che sono a contatto con il rischio radicalismo gioca un ruolo fondamentale. La preoccupazione è che potrebbe registrarsi un eccesso di segnalazione, tendente a definire comportamenti o manifestazioni comunque e sempre pericolosi, con l'unico effetto di aggravare inutilmente gli sforzi e le analisi mirate degli organi competenti e di incidere sul processo di fiducia reciproca tra comunità ospitanti e rappresentanze di settore, alle quali i soggetti interessati spesso fanno riferimento.
  È appena il caso di sottolineare che la fiducia è l'elemento di base sul quale costruire le soluzioni positive e inclusive e di inserimento lavorativo richiamate all'articolo 5, che nel provvedimento vengono allargate alla categoria dei soggetti a rischio. La scelta di promuovere percorsi mirati di inserimento lavorativo è una soluzione lungimirante e innovativa, che si condivide pienamente.
  Si fa riferimento, inoltre, a un'attività di comunicazione attraverso la realizzazione, da parte della Presidenza del Consiglio, di un portale diretto a diffondere cultura e convivenza pacifica tra le religioni. Ogni soggetto, già in fase avanzata di rischio, ha Pag. 5ovviamente oltrepassato la linea di confine della fiducia nei messaggi istituzionali della comunità di residenza. Il punto è, quindi, come sviluppare un'efficace e positiva controinformazione, diretta a esso, in grado di smontare la fascinazione dei reclutatori, offrendo chiavi di lettura degli eventi internazionali e interni articolati e non apodittici, possibilmente non alimentati dall'emotività del fenomeno.
  Sono certo che la presidenza saprà dare al meglio un indirizzo di comunicazione ampia, dando conto anche delle tante positive esperienze del territorio, spesso ignorate dai media, sempre alla ricerca ansiosa della difficoltà, se non del dramma, da rappresentare spesso con l'enfasi richiesta dallo share, dal calo delle vendite dei quotidiani e dei periodici.
  Da ultimo, si prevede un decreto del Ministro della giustizia, dove siano individuati i criteri per l'ammissione negli istituti penitenziari dei soggetti di cui all'articolo 17 della legge del 1975, n. 354, in possesso di specifiche conoscenze.
  Sul punto l'articolo 7, comma 2, della proposta richiama l'articolo 17, come dicevamo, della legge 354. Questa norma prevede l'accesso, su autorizzazione dell'amministrazione penitenziaria, di tutti coloro che, avendo concreto interesse per l'opera di risocializzazione dei detenuti, dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera.
  In questo senso, appare opportuno che anche gli operatori sociali che svolgono la loro opera in carcere siano in possesso di specifiche conoscenze delle culture e delle pratiche religiose, come la nuova disposizione prevede.
  Si segnala, in proposito, che lo stesso ordinamento penitenziario prevede, all'articolo 58, uno specifico canale di accesso nelle carceri al fine di assicurare ai detenuti e agli internati che ne facciano richiesta l'istruzione e l'assistenza spirituale nonché la celebrazione dei riti delle confessioni diverse da quella cattolica.
  Quest'assistenza spirituale è assicurata da ministri di culto indicati dalle confessioni religiose e i cui rapporti con lo Stato siano regolati con legge; in caso di enti senza intesa con lo Stato, da ministri di culto indicati a tal fine dal Ministero dell'interno.
  Conclusivamente, si sottolinea l'approccio innovativo della proposta di legge, che mostra sensibilità e lungimiranza nell'affrontare un fenomeno in espansione, con speciale attenzione ad alcune fasce di persone particolarmente sensibili, come gli adolescenti, i reclusi, gli utenti di Internet. La concreta realizzazione dei propositi del legislatore dovrà, però, trovare poi eguale attenzione e sensibilità nelle istituzioni e nelle persone deputate a rendere concreti gli interventi proposti.
  Ringrazio e resto a disposizione per eventuali approfondimenti.

  LAMBERTO GIANNINI, Direttore del servizio centrale antiterrorismo del Ministero dell'interno.
  Vi ringrazio per quest'opportunità che ci viene data.
  In primo luogo, valutiamo in maniera estremamente positiva quest'iniziativa, perché essa coglie un problema, un aspetto che, a nostro avviso, è uno dei punti fondanti della minaccia. Non è solamente un avviso, ma è quello che ci dice l'esperienza dei fatti anche sui più recenti attentati. Abbiamo visto, infatti, che in molti casi hanno operato dei soggetti con radicalizzazioni estremamente veloci e soggetti provenienti da basi disagiate.
  Quando è iniziata questa nuova stagione del terrore, e mi riferisco all'attentato a Bruxelles, al Museo Ebraico, la persona che ha colpito si è andata radicalizzando in carcere, ma da un percorso lontanissimo dai dettami o da un approfondimento della religione islamica. Stiamo parlando di un ragazzo senza genitori, affidato a una zia, che è andato tra carceri minorili, riformatori e affidamenti a diverse famiglie tra la Francia e il Belgio, e che, dopo un passaggio, una detenzione un po’ più lunga – ma un anno e mezzo o qualcosa del genere – esce e va a raggiungere il teatro di guerra.
  Capiamo come sia importante riuscire a intercettare questo salto di qualità. Io ritengo che, per quanto riguarda non solo l'Italia ma l'Europa, quest'attenzione alla Pag. 6radicalizzazione sia assolutamente fondamentale per quel che riguarda la prevenzione. Tra l'altro, questo consente anche di metterci sullo stesso asse con le varie organizzazioni e con i diversi Paesi europei. Debbo dire che ci permette anche di avere una disciplina su attività che come Forze di polizia – abbiamo il piacere della presenza del dottor Galzerano, che potrà illustrare nello specifico – stiamo già svolgendo in maniera empirica.
  Mi riferisco all'istruzione e alla preparazione dei soggetti che facciamo, con appositi interventi e corsi, per le DIGOS sparse sul territorio affinché nelle questure possano diffondere e dare indicazioni sui segnali da cogliere per vedere delle radicalizzazioni e sulla necessità che derivino non solo dalle attività classiche di Polizia (indagini, intercettazioni e altro), ma dal contatto leale, costante e proficuo con le comunità islamiche. L'obiettivo è quello di dare l'immagine di uno Stato che non deve semplicemente far applicare la legge, ma presenta anche un volto e un'interfaccia tali da consentire un'acquisizione di fiducia da parte di questi soggetti.
  Oltre a questo, c'è anche la necessità di fare squadra con una serie di soggetti, che ho visto sono stati indicati nel progetto di legge, che servono a creare un fronte unico per cercare di cogliere questi segnali.
  Ci siamo permessi di fare alcune riflessioni. A mio avviso, l'idea di una norma su queste problematiche è anche una grandissima occasione. Noi ci siamo trovati – parlo a nome del mio ufficio, del Servizio centrale antiterrorismo, comunque della Polizia – ad affrontare una straordinaria difficoltà in questo momento. Debbo dire che abbiamo tantissimo apprezzato che in questa legislatura ci siano stati forniti dei mezzi formidabili.
  Mi riferisco all'ultimo decreto-legge e alla creazione di nuovi reati, che prima lasciavano delle zone di vuoto e delle zone su cui non arrivavamo. Basti pensare che individuavamo dei soggetti che arruolavano persone che aderivano a una formazione terroristica e si davano da fare per raggiungere questa formazione terroristica e operare, e noi non avevamo la possibilità di bloccarle, perché si poteva punire chi arruolava, ma non l'arruolato.
  Fatta questa breve premessa, ritengo che questa sia un'occasione importante da cogliere. Una delle valutazioni che avevamo fatto anche nel nostro ufficio riguardava la possibilità di un'estensione ad altre forme di estremismo e di radicalizzazione.
  Anche se, al momento, non ci sono stati fatti violenti e diretti contro le persone, quando mi trovavo a dirigere l'ufficio della DIGOS di Roma ho potuto percepire, sempre attraverso il Web e con collegamenti dall'estero – mi riferisco a organizzazioni razziste e xenofobe degli Stati Uniti, White Power e altre – dei fenomeni di radicalizzazione di soggetti in chiave neonazista. Siedono in questa Commissione persone che sono state vittime di pesantissime minacce in questo senso. A mio avviso, è una valutazione, questa, che si può fare. Noi consideriamo quest'attenzione da parte del Parlamento un'occasione importante.
  Faccio anche presente qualche piccola altra indicazione, ma dovuta alla nostra esperienza di poliziotti, di persone che stanno sulla strada. Noi abbiamo apprezzato tantissimo il richiamo alla formazione delle Forze di polizia. Chiaramente, è qualcosa che non basta mai, su cui non bastano mai fondi e bisogna fare attenzione.
  Si potrebbe anche valutare, in questo momento, di cogliere la possibilità di una formazione insieme, non solo dei poliziotti, ma di tutti i soggetti che debbono affrontare il problema. Parlo di chi sta in carcere, ma anche di servizi sociali, di medici, di operatori della scuola. Oltre a essere, infatti, soggetti che affrontano sul campo e sul territorio questi problemi, da quest'esperienza insieme potremmo creare il valore aggiunto per far funzionare le cose: la reciproca conoscenza e il contatto, che permettono anzitutto di abbattere le diffidenze che spesso ci sono tra appartenenti a organizzazioni e istituzioni diverse, che hanno sempre una sensibilità diversa. La sensibilità del poliziotto, infatti, spesso può essere diversa da quella del medico, da quella dell'insegnante o altri. Questa comunanza potrebbe essere sicuramente importante. Pag. 7
  Inoltre, si calcherebbe la mano sull'esigenza di una strategia centrale. Certo, relativamente alla radicalizzazione la Polizia ha dei compiti, può essere un terminale per le informazioni, deve gestire le informazioni e poi è chiamata, in ultima analisi, a intervenire per bloccare alcuni processi cose. È evidente, però, che oltre a questi compiti istituzionali, un discorso di deradicalizzazione richiede una strategia che deve prevedere una regia dal centro, con un'importanza rilevante sulle articolazioni territoriali, quindi con un'attenzione sul territorio.
  Da ultimo, rimanendo poi a disposizione per eventuali chiarimenti rispetto a dubbi o anche semplicemente per la condivisione di esperienze professionali, faccio una riflessione sul sistema di raccolta dei dati. Bisogna trovare una soluzione per la sua alimentazione e per il fatto che si fa capo a un organo di Polizia, con dei doveri una volta che c'è la ricezione della notizia. In alcuni casi, infatti, questo potrebbe creare qualche diffidenza o qualche resistenza. Bisognerebbe immaginare un sistema molto fluido di circolazione dei dati e stabilire qualche forma di regola.
  Resto a vostra disposizione per ogni indicazione.

  CLAUDIO GALZERANO, Direttore del dipartimento antiterrorismo internazionale del Ministero dell'interno. Integrerò brevemente quanto detto dal dottor Giannini. Apparteniamo allo stesso ufficio, alla stessa Direzione centrale, e quindi il nostro angolo visuale è identico.
  Io sono stato il presidente del Working Party on Terrorism durante il semestre di Presidenza italiana dell'Unione europea, quindi nel secondo semestre del 2014. Con quell'esperienza ho avuto modo di fare approvare le linee guida per implementare la strategia dell'Unione europea per il contrasto alla radicalizzazione che porta al terrorismo.
  È con grande gioia che oggi vedo che finalmente si stanno muovendo le cose su questo fronte. Nel corso degli anni, siamo stati sempre a rincorrere, a dover delineare una posizione nazionale, che era nei fatti, ma non era giuridicamente codificata. Salutiamo, quindi, con grande piacere quest'esperienza che finalmente ci porterà ad avere un quadro giuridico definito.
  Insisto su alcuni elementi ai quali ha già fatto cenno il dottor Giannini. Il primo punto è quello di dotarsi, oltre che di un quadro normativo definito a livello centrale, anche di una strategia, che poi deve essere chiamata a implementare queste direttive.
  Mi riferisco direttamente alla strategia adottata dall'Unione europea per il contrasto alla radicalizzazione e al reclutamento del terrorismo, che poggia su alcuni pilastri essenziali: in primo luogo, quello di un maggiore coinvolgimento delle realtà locali e della società civile nell'implementare la strategia di contrasto alla radicalizzazione.
  Anche il testo della proposta di legge che viene approfondito in questa sede prevede un ruolo fondamentale, importantissimo, delle amministrazioni centrali dello Stato, a cominciare dal Ministero dell'interno, dalla rete delle questure e così via. Il lavoro che, però, le amministrazioni locali, le organizzazioni non governative, il volontariato, possono svolgere in questo settore è altrettanto cruciale. Mi rifaccio all'esperienza di altri Paesi europei.
  In Olanda, una rete di sindaci ha fatto una collezione di buone pratiche. In Francia, esistono dei poli regionali per la lotta alla radicalizzazione, è stato chiamato un prefetto al centro a coordinarli. Insomma, viene organizzato un concorso strategico da parte di tutte le componenti della società civile.
  Nel progetto di legge che stiamo approfondendo non vedo riferimenti a quello che l'Europa sta facendo in questo settore. L'onorevole Dambruoso conosce, perché è uno degli attori principali nel tentativo di importare queste buone pratiche dall'estero verso l'Italia, il ruolo della Radicalisation Awareness Network, una rete di reti che cerca di diffondere le buone pratiche in materia di contrasto alla radicalizzazione, che implementa diversi gruppi di lavoro.
  Il cosiddetto RAN POL (Police and Law Enforcement Working Group), il braccio che organizza l'attività della Polizia nel contrasto alla radicalizzazione, è solo uno Pag. 8degli aspetti. C'è il RAN HEALTH (RAN H&SC, Health and Social Care), che si occupa di salute, e qui potremmo anche aprire un'ulteriore parentesi importante sulla necessità che venga rivisto un po’ il segreto professionale della classe medica.
  Quando ci si trova di fronte a fenomeni borderline, e noi sappiamo che la gran parte dei soggetti che presenta problemi sotto il profilo della radicalizzazione che porta al terrorismo conosce non solo disagio sociale, marginalizzazione, esclusione e così via, ma anche aspetti di patologie psichiatriche, venirne a conoscenza da parte delle autorità, anche in funzione recuperatoria, anticipatoria, è una cosa che trovo molto importante.
  È esplicito, quindi, il richiamo al ruolo del Radicalisation Awareness Network. Oltretutto, sarebbe importante prevedere dei meccanismi che aggancino progetti che sono, ripeto, appannaggio di organizzazioni non governative, di società che non debbono fare profitto, non solo appannaggio delle istituzioni statali. Si tratta di sfruttare opportunità orizzontalmente, per tutti.
  Allo stesso modo, un maggiore coinvolgimento si potrebbe prevedere per il mondo dell'università e della ricerca, che in tutta Europa guida gli approfondimenti sulle tematiche della radicalizzazione, anche per avere un polo nazionale che possa fungere da interlocutore a livello internazionale.
  Un'ultima annotazione riguarda il portale, che serve a comunicare, sicuramente, ma anche ad ascoltare. Nel resto d'Europa, sono previsti meccanismi di acquisizione di testimonianze da parte di persone in difficoltà o dei familiari di persone che si stanno avviando verso percorsi di radicalizzazione, proprio per cercare di aiutarli. Dal nostro punto di vista, si tratta di intercettare in maniera precoce questi processi nel loro divenire; dal punto di vista della persona aiutata, significa una capacità di ascolto maggiore.
  L'ultimo aspetto sul quale mi permetto di richiamare la vostra attenzione è quello della raccolta del materiale on line che facilita la propaganda – mi riferisco soprattutto alla propaganda jihadista – di diverse forme di estremismi, per l'identificazione dei contenuti, la neutralizzazione dei contenuti e, se possibile, la rimozione, proprio per cercare di limitare la diffusione. In questo, un ruolo cruciale a livello internazionale e a livello dell'Unione europea è rivestito soprattutto da un forum che ha messo in contatto gli Stati con le società che gestiscono internet, che gestiscono i vari servizi di providing.
  In questo, le società che fanno da provider di servizi telematici si impegnano a rimuovere determinati contenuti estremistici on line. Bisogna, quindi, vedere il mondo di internet in una visione un po’ più complessa.

  EMANUELE FIANO. (fuori microfono) Non è un obbligo di legge. È un accordo tra gentiluomini.

  CLAUDIO GALZERANO, Direttore del dipartimento antiterrorismo internazionale del Ministero dell'interno. No, è un forum dell'Unione europea, animato dalla Commissione europea.

  PRESIDENTE. Do ora la parola agli onorevoli colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  EMANUELE FIANO. Io ho tre domande. Vorrei stare qui tre giorni, ma farò solo tre domande. Ringrazio moltissimo lor signori per le loro relazioni.
  La prima è per il prefetto Morcone. In realtà, tutti avete parlato in parte di aspetti della formazione: secondo la sua esperienza, lei ritiene adeguata la formazione di coloro che compongono le commissioni per l'esame delle richieste di asilo? Quello è un primo filtro di conoscenza di una parte di arrivi in Italia. Io ritengo, e anzi chiederò ai firmatari e alla relatrice di ragionare su quest'aspetto, che un aspetto importante sia la qualità del personale.
  Noi abbiamo fatto un atto politico raddoppiando il numero delle commissioni in Italia. Non so se abbiamo raddoppiato anche la qualità di coloro che li esaminano. Io non dico che siano persone non preparate, ma tutti e tre avete detto che c'è una Pag. 9preparazione specifica per capire alcuni segnali nella richiesta di asilo. È pur vero che in genere chi chiede asilo dovrebbe in teoria scappare da situazioni di integralismo, ma il dottor Giannini sa che non è esattamente sempre così.
  Il dottor Morcone ha parlato anche di percorsi di formazione dei ministri di culto che vanno a operare nelle carceri per fornire servizi di culto, per ascoltare. Secondo me, questo è un aspetto molto delicato, perché qui si è accennato al percorso di formazione. Chi fa la formazione? Noi siamo in presenza – l'avete accennato anche voi – di comunità islamiche che qui non hanno firmato nessun tipo di intesa con lo Stato, con le quali quindi non c'è, non con tutte, un tessuto di condivisione sicuro di tutti i valori. Ho citato le carceri, ma c'è anche altro tipo di personale: chi fa la formazione, a parte il Ministero dell'interno?
  Dottor Giannini, lei ha citato, se non ho capito male, la condivisibilissima necessità di una regia dal centro. Esiste un organo in cui le forze dello Stato si confrontano sui temi del terrorismo, il C.A.S.A., a cui partecipate voi, i servizi di informazione e sicurezza, le Forze dell'ordine e così via.
  Io sono portato, però, a non confondere i due piani, cioè quello del contrasto al terrorismo e quello del contrasto alla radicalizzazione. Ovviamente, sono connessi, ma sono due attività distinte. Vorrei sapere dal dottor Giannini se lui pensa che potrebbe esserci l'esigenza legislativa di costituire in Italia una regia di quel tipo, un luogo in cui si confrontano organi dello Stato, magari, visto che li avete citati, anche non tutti dello Stato.
  Mi pare che il dottor Galzerano abbia citato, infatti, la società civile, quindi altri enti che possono partecipare ai processi di contrasto alla radicalizzazione. Vorrei capire che se lei pensa a un organo di quel tipo.
  Infine, vorrei fare una domanda al dottor Galzerano. Lei ha citato molto l'Europa. Personalmente, anche per aver svolto qualche attività conoscitiva lì sul posto, se devo pensare all'emblema della sconfitta del contrasto alla radicalizzazione in ambito europeo, penso a Molenbeek, il quartiere di Bruxelles.
  Il pregevolissimo lavoro svolto da Stefano Dambruoso, la pregevolissima relazione della collega Pollastrini, stanno, secondo voi, andando nella direzione di impedire che nel nostro Paese crescano e si fortifichino situazioni che ancora non abbiamo, ma che possono diventare quella cosa lì? Diversamente, parliamo troppo di tecnicismi, di colpire questo o quello sulla radicalizzazione, ma alla fine il terrore che noi abbiamo è che crescano delle frange nelle nostre città.
  Tra l'altro, non abbiamo parlato delle politiche urbanistiche, che c'entrano, delle politiche sulla realizzazione di moschee, che c'entrano. Il mio personale terrore è che in Italia nei prossimi dieci anni non sorgano certi elementi. Vorrei capire se le cose che ha detto servono ad andare in quella direzione.

  BARBARA POLLASTRINI. Vorrei anch'io ringraziare molto il dottor Morcone, il dottor Giannini, il dottor Galzerano e, naturalmente, la dottoressa Iurato.
  Mi trovo ad avere l'onore – proprio di questo si tratta – di svolgere la funzione di relatrice della proposta di legge Dambruoso-Manciulli e altri colleghe e colleghi del Parlamento. Come l'onorevole Fiano sa, ho già svolto – lo diceva egli stesso – la mia relazione. Voglio riferirmi a questo per dire poche cose. Condivido le domande dell'onorevole Fiano. Le risposte per noi sono davvero importanti.
  Detto che io svolgerò questa funzione, in punta di piedi e ascoltando il più possibile, facendomi guidare da chi ne sa più di me, come è sempre utile fare nella vita, intanto sono d'accordo, ed è una domanda anche questa, con alcune osservazioni che facevate sull'occasione che ci offre la pregevole proposte di legge Dambruoso C.3558 nell'accelerare una riflessione delle istituzioni, della politica, del Parlamento, per il raggiungimento di alcuni traguardi.
  Se non ho capito male anche da quanto voi dicevate, da quanto dice la relazione che accompagna la proposta di legge del dottor Dambruoso, è un tassello quello che noi ci proponiamo di disegnare, di costruire. Pag. 10 È un tassello, perché bastava ascoltare l'autorevolezza della vostra esperienza e della vostra sapienza per capire che è tutta una tastiera del piano, che in modo armonico le istituzioni e lo Stato dovrebbero saper suonare per ottenere e degli esiti concreti. È un tassello.
  È un tassello che si inserisce, e arriva la domanda, nelle indicazioni normative e nelle esperienze europee nonché nei provvedimenti che già le istituzioni italiane si sono date, a partire dal decreto-legge n. 7 del 2015 contro il terrorismo. Bene, perché ho voluto riprendere questo tema? Perché anche per me è molto importante avere la vostra opinione sul terzo quesito posto dall'onorevole Fiano: essendo un tassello, qual è, dal vostro punto di vista, il luogo, lo spazio, più utile per avere quella funzione di coordinamento, di visione strategica e anche progettuale per il nostro Paese in armonia con l'Europa?
  Come poi dirà il collega Dambruoso, la proposta di legge avanza delle ipotesi. Insieme – ci tengo a dirlo – ci siamo predisposti in modo molto aperto: può essere, l'intento, quello di un osservatorio e di una cabina di regia – non so come esprimermi, poi troveremo le formule – che tenga insieme associazioni, rappresentanti importantissimi degli enti locali, grandi istituzioni di ogni tipo, presso il Ministero dell'interno, presso la Presidenza del Consiglio, per avere un'operatività.
  Mi rivolgo al dottor Morcone, da cui io imparo molte cose trovandomi nella situazione di seguire anche il provvedimento sui minori stranieri non accompagnati: la qualità delle iniziative dei Governi e delle istituzioni rischia di non avere l'efficacia che potrebbe proprio perché non c'è sempre la possibilità di riconoscere un coordinamento essenziale, centrale. Questa è una domanda, la terza domanda dell'onorevole Fiano. È molto importante per noi riflettere su questo.
  Sempre tenendo conto delle esperienze, voi sapete che abbiamo il problema irrisolto – porremo la questione anche ai rappresentanti della comunità islamica – della mancanza di intese. Questo, a detta di molti studiosi esperti, e soprattutto dei sindaci, degli amministratori, rende un po’ più complicato l'agire, l'intervenire e il trovare delle regole condivise anche rispetto agli obiettivi che indicava l'onorevole Fiano. Vorrei avere la vostra opinione.
  Ci si domandava col dottor Dambruoso se non sia il caso, qualora delle audizioni ci fosse una condivisione nel Parlamento, di inserire, eventualmente con emendamenti della relatrice, la possibilità di parziali intese, se non è possibile avere un'intesa complessiva nello stesso progetto di legge.
  Io sono convinta che una delle inadempienze del Parlamento italiano sia la legge sulla libertà religiosa – ho finito, per la responsabilità che ha il presidente, mi scuserà se porto via pochi minuti – ma questa è una mia opinione. Penso che quella sia la madre di tutte le cose. Per quanto ci riguarda, come gruppo PD, continuiamo a insistere. Secondo me, è davvero la madre di tutte le questioni.
  In terzo luogo – avrei mille cose da chiedervi, ma mi fermo, è troppo interessante l'incontro con voi – qui pongo una questione davvero come donna. Io penso che un ruolo importante in quel rapporto di prevenzione, fatto anche di dialogo e di relazione, possa essere favorito innanzitutto dalle donne di tutto il nostro Paese e dalle donne delle comunità.
  Devo porvi un'ultima questione. Avete letto, e saprete tutto più di me, delle esperienze in corso negli altri Paesi, ad esempio per ultima di quella in corso in Francia. Non mi soffermo per non far perdere tempo alle colleghe e ai colleghi, ma si è riaperto un dibattito anche in Francia tra chi è favorevole – proprio un'esperienza concreta ultima – e chi è contrario o comunque perplesso. Avete visto il dibattito di quel Paese. Mi piacerebbe avere una vostra opinione.
  Io so bene che qui ci sarebbe da aprire un grande discorso culturale sul modello di fondo, venuto meno in un certo senso, sulle difficoltà del modello francese – andiamo al cuore della vicenda – nell'interpretazione della laicità. Peraltro, non avanzato il modello inglese, rimane il grande tema che sottostà a questa proposta di legge, che non viene scritto ma a cui richiamarsi, di come Pag. 11le istituzioni nella convergenza di dialogo e, nello stesso tempo, nell'obbligo a determinate regole, possono far vivere quel principio, che è da rivisitare, ma che è decisivo.

  STEFANO DAMBRUOSO. Intervengo solo per confermare la gratitudine e il piacere di vedere tre rappresentanti delle istituzioni qui oggi cooperare in maniera costruttiva con il Parlamento: davvero grazie per il tempo che ci state dedicando. È davvero importante per il legislatore cercare di trasformare la qualità del servizio che rendete quotidianamente allo Stato in provvedimenti legislativi che siano soprattutto condivisibili da chi rappresenta le istituzioni ai massimi livelli, come voi.
  Condivido le domande che hanno fatto sia Emanuele Fiano sia Barbara Pollastrini. Li ringrazio entrambi per l'attenzione che stanno prestando a questo tema, occupandosi loro, essendo espressione del partito di Governo, di molti temi importanti. Questo è, però, davvero un tema importante che loro hanno voluto con sensibilità inserire nella loro progettualità. Sono davvero felice che abbiano colto l'importanza di questo tema.
  Prefetto Morcone, mi limito soltanto a chiederle questo: alla luce delle esperienze già maturate in materia di Consulta e dei non felici esiti che negli ultimi sei o sette anni, forse anche di più, si sono avvicendati, lei non ritiene che il rapporto con la comunità musulmana nelle sua frastagliata rappresentatività sia da modificare in termini di strategia? Non dobbiamo essere noi come Paese e come istituzioni a porre loro un progetto che va o accolto o non accolto? Purtroppo, quel dialogo che le Consulte si sono prospettate ha manifestato la difficoltà di essere finalizzato per la diversità delle varie anime che popolano quel mondo.
  Al dottor Giannini, che continuo a ringraziare per la sua presenza, essendo il vertice dell'amministrazione della Polizia nel contrasto al terrorismo, quindi per il contributo che ha voluto dare, pongo due questioni. Lei ha ricordato l'importanza della cooperazione tra i vari attori prospettati nella proposta di legge (Forze di polizia, insegnanti, polizia penitenziaria). In piccolo, è qualcosa che sto tentando di prospettare proprio per Milano, dove è in corso un possibile progetto di questo genere. Lei conosce fin troppo bene il mondo della DIGOS e i rapporti che maturano con gli altri attori presenti sul territorio: almeno sul terrorismo; secondo lei sarà praticabile quel tipo di cooperazione, difficile proprio perché i Corpi restano fedeli alla propria etichetta, e quindi difficilmente cooperano?
  La DIGOS è la più esperta, senz'altro sul territorio milanese. Su questo tema del terrorismo internazionale abbiamo un modo di cooperazione con la polizia municipale, che sarà chiamata a essere presente proprio nei quartieri dove intendiamo essere presenti con dei progetti. È praticabile concretamente quest'azione?
  In secondo luogo, abbiamo fatto riferimento alla controinformazione. È stato riferito da voi, che davvero avete esperienza nel settore, di una controinformazione che miri in maniera quasi subliminale, con la capacità di comunicazione che esiste oggi da parte degli esperti della comunicazione sul Web, a trasmettere messaggi e valori costruttivi della società che sta accogliendo questo mondo: è praticabile o stiamo parlando di un mondo che non serve a niente?
  Mi chiedo se immaginare che sul Web, oltre a messaggi di disvalore relativi al mondo in cui queste persone si ritrovano a vivere, a giovani di 10-11 anni venga lanciato anche un messaggio sulla negatività di alcune condotte, se praticate, o al contrario della positività del mondo che li sta ospitando e che li vuol fare crescere come propri cittadini, sia tra gli obiettivi utili da mantenere nel progetto di legge.
  Concludo col dottor Galzerano. Tra le varie cose a cui ha fatto riferimento, mi interessa che sia richiamato il senso della sua esperienza a Bruxelles e durante il Semestre europeo. Lei è stato presidente di questo gruppo di lavoro importante sul contrasto al terrorismo: c'è una consapevolezza autentica, così come ci ha detto, che la prevenzione che si realizza con la deradicalizzazione corrisponde esattamente in termini di utilità alla cosiddetta prevenzione repressiva, che invece intelligence, Pag. 12Forze dell'ordine e magistratura si troverebbero a fare con l'introduzione di nuove norme o di nuovi poteri da dare all’intelligence o alla Polizia?
  Sono due settori assolutamente necessari oggi da sviluppare in chiave parallela? Questo è uno dei tentativi che stiamo cercando di introdurre nel nostro ordinamento attraverso questo tipo di norma. Vi ringrazio ancora per la vostra attenzione.

  PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

  MARIO MORCONE, Capo del Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno. Interverrò rapidissimamente per non togliere tempo ai colleghi.
  Quanto alle commissioni d'asilo, ha perfettamente ragione, anche su quello che non ha detto, l'onorevole Fiano. Si è fatto un grande sforzo, non c'è dubbio. Si sono tagliati i tempi. Si fa tanta formazione, ma è necessaria una riforma dell'asilo – lo stiamo dicendo apertamente – che veda, al di là del presidente, del personale più giovane, più motivato, più qualificato.
  Noi pensiamo a giovani neolaureati, naturalmente con laurea specialistica, adeguatamente formati, che sostituiscano sostanzialmente un corpo pesante e molto spesso poco motivato che fa parte delle commissioni dell'asilo. Lo penso sinceramente. L'abbiamo proposto più volte. Cerchiamo il momento istituzionale utile per lanciare questa riforma, senza nulla togliere comunque allo sforzo di chi sta lavorando nelle commissioni, che sta facendo anche un buon lavoro sul tema della tratta, tema che è stato purtroppo affrontato non come sarebbe stato necessario. Le commissioni dell'asilo vanno riviste. Di questo sono assolutamente convinto.
  Chi fa la formazione? Noi ci rivolgiamo prevalentemente agli istituti universitari, con l'aiuto delle comunità di fede. Si è appena chiuso un bando sul nostro sito, e adesso andremo a valutare chi, tra le università, ha presentato dei progetti. Con loro lavoriamo insieme alle comunità di fede per la trasparenza degli insegnamenti degli imam e dei ministri di culto delle altre regioni, in uno scambio costante di culture tra le nostre università e i responsabili delle varie comunità di fede.
  Voglio aggiungere un'altra considerazione. Onestamente, non avevo sentito Giannini, che ha detto molte cose molto belle, che mi piacciono tanto, sulla formazione, sullo scommettere sulla formazione, ma possibilmente una formazione comune, che veda insieme Forze di polizia sì, ma anche gli operatori della società civile, del comune e di altre istituzioni, vivere quest'esperienza di arricchimento culturale e di formazione professionale davvero insieme, così da non creare ulteriori separazioni nell'approccio al problema.
  Certo, l'onorevole Fiano ha toccato, ma non so se lo potremo approfondire – non mi pare – alcuni temi bollenti delle politiche urbanistiche, ad esempio il tema delle moschee. Se l'idea è quella di costringere negli scantinati la gente a esercitare la libertà religiosa che la nostra Costituzione assicura loro, non andiamo da nessuna parte. Naturalmente, il coraggio non devo averlo io. Auspico che il Parlamento possa arrivare a quella legge sulla libertà religiosa, che pure aveva citato l'onorevole Pollastrini, ma anche a dare delle indicazioni, delle linee guida e un approccio da parte di chi è al governo del territorio francamente meno legato ai concetti di una sicurezza presunta, che a mio avviso non si raggiunge in questo modo, ma con il dialogo, il coinvolgimento, con l'impegno a evitare la marginalizzazione di alcuni settori.
  Francamente, io non considero un riferimento né la Francia né il Belgio né altri Paesi. Lo dico con molta franchezza. Noi non abbiamo avuto e non abbiamo i guai che altri hanno non solo per la bravura dei nostri colleghi della Polizia di prevenzione, ma anche per un modo di accogliere diverso e meno identitario di altri Paesi europei, come la Francia, dove la situazione è molto pesante e sono costretti a rincorrere, evidentemente, adesso una nuova politica che non hanno fatto.
  Quanto al luogo più utile, qui parlo con molta franchezza. A suo tempo – il Presidente Pag. 13 Napolitano era Ministro dell'interno, se ricordo bene – furono istituiti i consigli territoriali. È chiaro che anche i consigli territoriali poi vivono una vita decisa nel suo svolgimento dalla qualità e dalla ricchezza culturale del prefetto di turno, per cui alcuni hanno fatto cose bellissime, buone pratiche, mentre altri hanno vissuto una vita sicuramente meno brillante, molto più routinaria.
  È uno strumento che credo dobbiate prendere in considerazione per un suo eventuale rilancio. È chiaro che il consiglio territoriale non può essere una sorta di parallelo Comitato di ordine e sicurezza pubblica. Bisogna avere la capacità di coinvolgere e di animare le varie componenti della società civile e, naturalmente, delle varie confessioni e comunità di fede, e avere la ricchezza culturale e la pazienza di saper ascoltare proprio per evitare forme di marginalità.
  Una cosa che pure è emersa, ma che vorrei richiamare, uno dei temi forti, che poi ha portato ad alcuni episodi di terrorismo che sono stati anche citati, è quello della salute mentale. Basta parlare con Virginio Colmegna a Milano per farsi spiegare quanto sia grande questo tema, quanto diffuso e quanto noi, onestamente, con tutta la buona volontà delle nostre istituzioni sanitarie, non siamo in grado o facciamo fatica a gestire fenomeni complessi, pesanti, anche economicamente, quale quello della salute mentale.
  Sulla mancanza delle intese ho già accennato. Sono convinto anch'io che il tema fondamentale sia quello di mettere mano a una legge sulla libertà religiosa, sempre inseguita nel corso delle legislature e ancora lontana dal suo traguardo.
  Infine, devo dire però all'onorevole Dambruoso che, pur nelle difficoltà di una politica spesso vivace, di un confronto spesso forte, abbiamo però fatto grandi passi nei rapporti con la comunità musulmana. Siamo molto lontani dalla prima Consulta per l'Islam del Ministro Pisanu, mentre con il Ministro Amato abbiamo raggiunto lo strumento della Carta dei valori, che il professor Cardia a suo tempo elaborò, interrogando e coinvolgendo tutte le anime della società civile, che purtroppo abbiamo un attimo congelato, ma che invece secondo me è uno strumento assolutamente da rilanciare.
  Oggi, il ministero sta puntando fortemente sulla formazione degli imam, dei ministri di culto, attraverso un colloquio costante – lo accennavo prima – un confronto con le università italiane. Certo, però, se a fronte di questo poi siamo costretti a vivere la polemica delle leggi regionali assolutamente incostituzionali, come quella della regione Lombardia sulla moschee o quella che sta arrivando del Veneto, che fa la stessa operazione, cioè di marginalità di queste posizioni, francamente lo sforzo diventa davvero molto pesante.

  LAMBERTO GIANNINI, Direttore del servizio centrale antiterrorismo del Ministero dell'interno. Ho annotato le varie indicazioni.
  L'onorevole Fiano ha citato l'esperienza del C.A.S.A., che è molto positiva, perché c'è un'assoluta condivisione di tutto. Come discorso strategico, immaginavo due piani: un piano locale, come diceva il prefetto Morcone, con le commissioni territoriali, ma comunque dei tavoli a cui possano sedere tutti questi rappresentanti della società civile coinvolti nel problema, che abbiano una grande capacità di ascolto, di segnalazione al centro delle più ricorrenti problematiche e, proprio per il collegamento che c'è, di stabilire delle modalità di intervento anche su singoli e precisi casi. È evidente che ci si potrebbe appoggiare a quella che è l'ossatura delle prefetture, al discorso territoriale, che è una base solida che già c'è.
  Per quanto riguarda il centro, ripetere un meccanismo con tutti questi attori potrebbe, a mio avviso, essere una duplicazione e creare qualche problema di paralisi, sovrapposizione. Immaginavo se ne parlasse a un tavolo interministeriale con i vari ministeri a cui fanno riferimento le articolazioni, Salute, MIUR, Interno, che possano dare una linea e delle indicazioni di carattere strategico. Chiaramente, sono a disposizione per eventuali ulteriori chiarimenti che dovessero essere ritenuti necessari. Pag. 14
  Per quello che riguarda le considerazioni dell'onorevole Pollastrini, in particolar modo il discorso dell'esperienza del quartiere Molenbeek, vorrei portare – sarò brevissimo – l'esperienza personale di un'attività di Polizia del 2005, fatta anche in collaborazione con i colleghi dell'Ucigos, quando arrestammo un kamikaze che aveva tentato di farsi saltare in aria nella metropolitana di Londra.
  Nel 2005, a Londra c'era stata una serie di attacchi devastanti, 54 morti, che avevano paralizzato la capitale inglese. Tentarono di ripetere la cosa dopo una quindicina di giorni, ma per un difetto nella fabbricazione dell'esplosivo, preparato in maniera artigianale, non ci erano riusciti. Le persone erano sopravvissute, andate in fuga, e ne arrestammo uno a Roma.
  Abbiamo avuto occasione di parlare, perché il ragazzo era stato accolto in Italia, salvo poi la sua famiglia, proveniente dal Corno d'Africa, disperdersi in vari Paesi, dal Canada all'Olanda, ad altri Paesi del nord Europa, l'Inghilterra e altro. Sostanzialmente, a un certo punto disse delle cose che hanno indotto alla riflessione che in Paesi in cui vengono dati anche sostanziosi contributi per la disoccupazione o l'accoglienza, non sempre questi contributi vengono percepiti come una spinta all'integrazione. Il caso di specie era qualcosa di diverso.
  Lui rifaceva riferimento alla differenza che c'è tra chi arriva subito e le seconde e le terze generazioni. Chi arriva subito riceve una certa cifra e, chiaramente, si confronta con quello che ha lasciato, quindi con la difficoltà di arrivare la sera in primis in vita e in secondo luogo a riuscire a mangiare, quindi arriva all'Eden. Il secondo invece commisura quello che gli viene dato non con quello che non ha mai avuto, ma con quello che hanno i suoi coetanei e con le opportunità che possono avere gli altri. Arriva quindi a percepire quello che è un contributo anche generoso come una specie di guinzaglio, che può neutralizzare degli istinti primari, però non mette in condizione di avere le stesse chances e le stesse possibilità degli altri. Su questo a mio avviso bisogna riflettere e fare attenzione, perché la necessità dell'integrazione e non solo dell'accoglienza, ma anche di garantire a chi rimane delle possibilità, è fondamentale anche per la prevenzione.
  Vengo adesso all'onorevole Dambruoso. Si parlava di cooperazione tra i vari attori e tra le varie forze di polizia, e in questa sede mi sento di affermare che per quanto riguarda la lotta al terrorismo per il comparto delle forze dell'ordine e di sicurezza in quasi trent'anni che faccio questo lavoro non ho mai registrato una tale sintonia. Con i colleghi con cui ci occupiamo di queste tematiche siamo infatti la stessa cosa, sappiamo che è un problema talmente importante che c'è un continuo ed efficace scambio di informazioni e un coordinamento garantito sia dal Comitato di analisi strategica antiterrorismo, sia dalla consapevolezza della difficoltà del momento e della necessità assoluta di fare fronte comune. Volevo dirlo pubblicamente in questa sede così alta, perché è giusto rilevarlo.
  Per quanto riguarda le possibilità anche con comparti (si faceva riferimento alla polizia municipale di Milano), le varie DIGOS sono già sensibilizzate ad avere proficui contatti sul territorio con tutte le realtà, anche perché dalla capillarità di intervento che possono avere i colleghi della polizia municipale, dal tipo di servizio che fanno possono venire indicazioni importanti. Il mondo sta cambiando, sta cambiando quello che succede e noi dobbiamo essere aperti a tutto.
  Faccio un esempio: i centri antiviolenza in particolare per le donne. Abbiamo sempre pensato allo stalker, all'ubriacone che alza le mani, a difficoltà di contesto familiare, ma adesso anche da questi centri possiamo ricevere indicazioni importanti per il nostro lavoro. Immaginate il piccolo spacciatore che fa vari traffici, che fa una vita anche piuttosto libera, ha una compagna o è sposato, torna dal carcere, si radicalizza, non tollera più i costumi che la sua signora aveva in precedenza e quindi tenta di imporre con la violenza la sua nuova ideologia, che spesso non viene accettata. Anche questi canali di comunicazione debbono essere ascoltati con assoluta attenzione, Pag. 15 quindi c'è già una sensibilizzazione delle DIGOS in questo senso.
  Ritengo da ultimo che la capacità della contro-narrativa possa essere veramente efficace. Si può fare in varie maniere, anche perché i messaggi di questi signori sono diffusi con grande cura e attenzione, diretti a platee diverse, a pubblici diversi, a volte richiamano dei videogames, altre volte richiamano dei film, sono incessanti, bombardano.
  Si può fare il discorso subliminale, però a mio avviso si può anche fare una contro-narrativa di tipo assolutamente diretto, perché nel caso di ragazzi (e ne abbiamo trovati) anche di media cultura, magari con qualche problema di integrazione (mi riferisco non solo all'integrazione del lavoro, ma anche a quella sociale, della comunicazione tra coetanei) è necessario contrapporre messaggi estremamente diretti, a fronte dell'ingiustizia (questo è il pilastro di questa narrativa) che subiscono i musulmani in questo momento (il Daesh sta facendo delle stragi di musulmani che non sono nemmeno paragonabili a cose avvenute in passato nella storia), dal momento che ci sono delle strategie che hanno poco senso, perché portano ad azioni che vengono fatte qui e a reazioni che possono andare a finire non solo su dei combattenti, ma anche su altri.
  A mio avviso, quindi, è necessario anche un messaggio assolutamente diretto, che possa ribattere alle singole comunicazioni, e studiare con gli esperti forme di comunicazione, perché non dimentichiamoci che molta della comunicazione del Daesh riguarda anche i bambini. Ci colpisce molto, mentre per loro deve essere una manifestazione di forza, vedere questi poveri minori indottrinati a cui fanno fare delle cose terribili, quindi anche su questo è importante battere in maniera diretta.

  CLAUDIO GALZERANO, Direttore del dipartimento antiterrorismo internazionale del Ministero dell'interno. Ringrazio l'onorevole Fiano e l'onorevole Dambruoso per le domande, risponderò con un'unica, sintetica risposta ad entrambi.
  L'onorevole Fiano chiede se quello che stiamo facendo serva per evitare un'altra Molenbeek, altri stragi di questo genere. È chiaro che chi fa prevenzione nel momento in cui si verifica un attentato si trova davanti a un fallimento professionale, a un fallimento totale, in quanto la nostra vita è stata completamente orientata ad evitare che si verifichino fatti di terrorismo.
  È chiaro che però chi fa prevenzione sa che per intervenire ha bisogno di un supporto informativo, che non deve essere solo quantitativo, ma deve essere anche qualitativo, «qualificato».
  Trovo che, se la proposta di legge va, come a me sembra, nel senso di anticipare ancora la percezione della problematica del terrorismo in un momento che coinvolga varie istanze a livello locale, centrali dello Stato, degli enti locali e di altre amministrazioni, va nella direzione assolutamente giusta per evitare un'altra Molenbeek.
  Cosa è successo a Molenbeek? È successo che non c'erano le condizioni per una penetrazione informativa adeguata, responsabilità che va imputata sicuramente alle forze di sicurezza. Alla base di questo problema ci sono però delle condizioni sociali, urbanistiche, di una comunità quale quella marocchina stanziata in questa banlieue di Bruxelles che ha reso impermeabile alle forze di polizia un'azione incisiva, che potesse andare nella direzione della prevenzione degli attentati.
  Dobbiamo evitare che questo accada di nuovo. Come? Mettendo in moto tutti i meccanismi che possiamo attivare per cercare di avere innanzitutto un terreno su cui la penetrazione informativa sia possibile. Il dialogo è il primo dei meccanismi che consente l'attivazione dell'acquisizione informativa, non possiamo pensare di esercitare un'azione di prevenzione efficace se ci confrontiamo con un mondo chiuso, che non riusciamo a penetrare.
  Dobbiamo cercare di aprirlo, di conoscerlo, attraverso delle istanze che – ripeto fino allo sfinimento – debbono essere innanzitutto locali, perché è la comunità che conosce e sa far emergere determinati processi di radicalizzazione nel loro divenire, ma prima ancora evitare che i processi di radicalizzazione si verifichino. Pag. 16
  Qui abbiamo bisogno del concorso di opportunità di lavoro, di opportunità di inserimento, di opportunità anche di dialogo interreligioso.
  Evitare un'altra Molenbeek, quindi, è possibile, e ribadisco che l'Europa, almeno sotto il profilo dello sforzo strategico, fa molto, ci offre delle opportunità di fronte alle quali non possiamo sbattere la porta. Se ci sono dei fondi ad esempio che Radicalisation Awareness Network mette a disposizione delle nostre comunità, dobbiamo fare in modo di trovare dei meccanismi di trascinamento, che impongano di sintonizzarsi con questo mondo, che è un mondo di opportunità, è un mondo che fa in modo anche di facilitare il lavoro di chi fa prevenzione professionale come noi.
  Se continuiamo a giustapporre il mondo della politica e delle iniziative sociali a quello dell’intelligence (e qui vengo alla domanda dell'onorevole Dambruoso), non andiamo nella direzione giusta: bisogna creare dei meccanismi di interscambio tra l'uno e l'altro, perché la penetrazione informativa fatta dalle forze di polizia è tanto più ostica quanto le condizioni sociali e di partecipazione, di opportunità di determinate realtà sono difficili.
  Cercare di trovare una compenetrazione tra questi due approcci alla problematica della radicalizzazione che porta al terrorismo potrebbe essere la chiave di volta.

  PRESIDENTE. Grazie. Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di esperti e di rappresentanti di associazioni.

PRESIDENZA DELLA VICEPRESIDENTE
ROBERTA AGOSTINI

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva nel merito dell'esame della proposta di legge C. 3558 Dambruoso, recante Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell'estremismo jihadista, l'audizione di esperti e di rappresentanti di associazioni.
  Sono presenti in qualità di esperti l'avvocato Luca Bauccio, Valentina Colombo, ricercatrice di storia dei Paesi islamici presso l'Università europea di Roma, Maria Chiara Giorda, professoressa presso la scuola di lettere e beni culturali dell'Università di Bologna, Alberto Melloni, segretario della fondazione per le scienze religiose di Bologna e titolare della cattedra Unesco di pluralismo religioso dell'Università di Bologna, Karima Moual, scrittrice, Carlo Panella, scrittore, Mohammed Khalid Rhazzali, assegnista di ricerca-sociologia della politica e sociologia della religione dell'Università di Padova, l'avvocato Teresa Dennetta e l'onorevole Rinaldo Bosco per l'associazione Onlus EXIT, l'Imam Yahya Pallavicini, presidente della Comunità Religiosa islamica italiana (COREIS), Abdellah Redouane, segretario generale del Centro islamico culturale d'Italia, Fosca Nomis, capo Dipartimento Advocacy di Save the Children Italia.
  Ringrazio i nostri ospiti per la loro presenza e lascio la parola all'avvocato Teresa Dennetta, rappresentante della Onlus EXIT, raccomandando agli auditi di attenersi a dieci minuti.

  TERESA DENNETTA, rappresentante di Exit Onlus. Grazie, presidente, sarò breve. Ho rassegnato le mie perplessità per iscritto e mi limito ad enunciarle, nella speranza che questa attività possa in qualche modo essere recepita.
  Innanzitutto si parte dal titolo: si limita la radicalizzazione all'estremismo jihadista, escludendo così tutte le altre forme di estremismo violento, quindi potrebbe essere una legge parziale. Inoltre in questa proposta di legge non è evidenziata la ripartizione dei ruoli (Stato, forze dell'ordine, società civile).
  Tutti gli articoli prevedono per la funzionalità l'emissione di decreti, ma non c'è alcuna penalità. Questo è molto grave perché, nel caso in cui il Ministero non provveda, questa legge diventa soltanto un'enunciazione. All'osservazione del testo manca la società civile, uno spazio neutro dove è più facile per le persone segnalare delle criticità. Pag. 17
  Si parla poi di dialogo interreligioso, ma questo è marginale, non è sicuramente fondamentale. Sarà fondamentale invece istruire sulla società civile, sulla parità tra generi, tra diritti e doveri fondanti la nostra cultura italiana ed europea.
  Non è dato capire nel testo in esame come si muoverà lo Stato nei confronti di chi è radicalizzato e soprattutto manca la previsione di centri di aiuto e di ascolto, ai quali è più facile che le famiglie si rivolgano e facciano delazione. Dare il compito di fare da delatori alle istituzioni scolastiche è veramente inopportuno, soprattutto perché non ci sono le competenze tecniche, professionali. Io combatto ogni giorno per l'affermazione dei diritti dei bambini disabili all'interno delle scuole o per i riconoscimenti di atti di bullismo, quindi vedo ben difficile parlare di radicalizzazione!
  Si rappresenta inoltre che ci sono anche italiani che si radicalizzano, pertanto alcune misure potrebbero essere sufficienti per gli immigrati, ma non per gli italiani, come nel caso dell'espulsione.
  Il portale previsto dall'articolo 6 potrebbe essere una sorta di contro-propaganda, che non farebbe altro che facilitare la radicalizzazione, pertanto questo progetto di legge va sicuramente rivisto, soprattutto perché sia una legge applicabile e non di pura enunciazione. È interessante il fatto che cominci una sensibilità sull'argomento, ma è necessario anche che questa sensibilità sia tradotta in maniera pratica ed effettivamente utilizzabile a favore di questi soggetti.
  Non è dato sapere neanche chi farà formazione, laddove pensare che degli psicologi possano risolvere il problema del radicalismo significa non aver compreso l'entità del problema. Vi ringrazio, spero di essere stata abbastanza breve, presidente.

  PRESIDENTE. Grazie, è stata perfettamente nei tempi. Lascerei la parola all'avvocato Bauccio.

  LUCA BAUCCIO, avvocato. Buongiorno e grazie dell'invito, anch'io cercherò di essere molto conciso e breve. Come avvocato mi occupo da circa vent'anni dei principali processi per terrorismo internazionale in Italia. Partirei da una sintesi estrema della mia esperienza, per arrivare poi alla mia valutazione su questa proposta di legge.
  Negli anni ’90 i grandi filoni investigativi contro il terrorismo internazionale riguardavano la dissidenza da Paesi come l'Algeria e l'Egitto, persone che fuggivano da situazioni di mancanza di libertà (in Algeria erano state appena annullate le elezioni, in Egitto non si erano mai tenute delle vere elezioni) e trovavano nella moschea un insediamento abbastanza stabile e vasto.
  Le operazioni antiterrorismo, spesso concluse con delle assoluzioni, focalizzavano questo tipo di fenomeno. Si trattava di una prima generazione legata a temi politici, che usava anche il paradigma dell'esperienza politica europea per reinterpretare i fatti che accadevano nel proprio Paese.
  Dopo l'11 settembre abbiamo un'evoluzione, il presunto terrorista non si rifà più ad un contesto nazionale, ma si richiama a un concetto molto vago, che è quello dell'alqaedismo, quindi troviamo persone che si aggregano in misura sempre più ristretta, si allentano i legami con la moschea e si espandono invece gli scenari.
  Saltando e arrivando ai giorni nostri notiamo un ulteriore cambiamento: non abbiamo più le prime generazioni in prima fila nel fenomeno della radicalizzazione, ma troviamo dei giovani che agiscono fuori del contesto della moschea, dei luoghi di religione, spesso in aperto conflitto con i propri genitori (riporto sommariamente dati che emergono da indagini recentissime che seguo come difensore), con i fratelli, con gli Imam delle moschee, e agiscono spesso da soli, fuori da contesti aggregati.
  L'intervento sul piano dell'educazione e della formazione è molto importante, ma è importante cogliere in questa proposta di legge lo spirito che nasce dalle direttive del Consiglio d'Europa. C'è una bellissima espressione che dice: «rendere più forte la voce della maggioranza sulle minoranze radicali ed estremiste».
  Come rendere più forte la voce della maggioranza, la maggioranza delle moschee, la maggioranza dei musulmani, la Pag. 18maggioranza degli ambienti in cui questi soggetti in qualche modo vivono è una questione molto ampia, alla quale questa proposta di legge si può solo collegare, ma che non può risolvere, cioè più diritti, più riconoscimento di diritti, più dignità per le comunità musulmane, più rispetto per i loro leader, per i loro rappresentanti.
  Soltanto se la voce di questi Imam, di questi rappresentanti, di queste comunità sarà voce non solo maggioritaria, ma forte, questa sarà capace di sovrastare la voce solitaria e pericolosa dei singoli che ordiscono trame criminali o si radicalizzano.
  Vorrei richiamare l'attenzione su una questione che è stata trattata anche all'inizio di questa seduta, cioè lo sforzo di epurare il linguaggio della legge da riferimenti religiosi. È un fatto assolutamente positivo che non ci sia richiamo al radicalismo islamico, forse sarebbe apprezzabile espungere dalla legge il riferimento al radicalismo jihadista.
  Per i musulmani la parola jihad ha un connotato positivo, pacifico e non violento, quindi l'utilizzo all'interno del linguaggio della legge di un termine accreditato nella letteratura (non stiamo qui a fare operazioni superficiali) sarebbe un passo avanti nello sforzo di mettersi dal punto di vista di chi deve collaborare con le istituzioni per arginare questi fenomeni, quindi evitare l'uso di questa parola, operazione compiuta anche dal Consiglio d'Europa.
  Concentrarsi sull'espressione «radicalismo» ed «estremismo» è già sufficiente per definire un certo fenomeno, usare la parola «jihadista» è una concessione che facciamo a chi si è accaparrato il brand religioso per commettere dei crimini, per portare avanti progetti politici criminali, ma non certo di tipo religioso.
  Ultima osservazione di contesto: questa legge si deve necessariamente collegare a un contesto legislativo più ampio, ad oggi manca in Italia una legge che consideri reato la propaganda di idee radicali che noi definiamo jihadiste, anche se ho proposto di evitare questa espressione. Questo è un vuoto che produce due gravi problemi: una forza attrattiva di norme più gravi come l'arruolamento, la finalità di terrorismo, l'apologia di reato, di comportamenti che invece rimangono sul piano della manifestazione dell'opinione, di un pensiero; un'espansione dei poteri amministrativi di polizia, che colmano un vuoto e attraverso il provvedimento di espulsione cercano di superare una mancanza di governo della legge di questo tipo di espressioni.
  Ritengo che debba cadere il tabù della libertà di opinione in sé considerata: ci sono opinioni che negano la possibilità di avere delle opinioni, così sono le opinioni antisemite, le opinioni che negano l'Olocausto, le opinioni che propugnano una forma di fascismo o di nuovo nazismo non religioso, ma politico ed economico, perché quello di Daesh è questo tipo di fascismo o di nazismo.
  A mio avviso (lo dico da persona che guarda le indagini ogni giorno) sarebbe un bene anche per i cittadini, perché sarebbe un bene conoscere qual è il comportamento vietato e qual è il comportamento consentito, e sapere che la propaganda e la diffusione di idee fondate sul radicalismo e sull'estremismo integrano un reato è un passo avanti e un modo per circoscrivere dei comportamenti e isolarli, perché a quel punto ci sarà qualcuno, quella famosa maggioranza che avremo reso forte con il diritto alla moschea, il diritto alla preghiera, il diritto ad un ruolo sociale, che potrà dire: «questo è un reato, non si può dire!».

  VALENTINA COLOMBO, ricercatrice di storia dei Paesi islamici presso l'Università europea di Roma. Innanzitutto grazie per l'invito, cercherò anch'io di essere breve e chiara, le mie osservazioni derivano dalla mia esperienza di docente all'Università, ma soprattutto di docente che spesso si reca nelle scuole italiane e incontra ragazzi di religione islamica.
  Innanzitutto credo che sia necessario nel dibattito attuale ricordare che l'Italia, quando si parla di radicalizzazione e di prevenzione della radicalizzazione, affronta problematiche diverse da quelle degli Stati limitrofi, perché rispetto a Francia, Germania, Regno Unito e altri Paesi europei l'Italia si trova in una posizione favorevole, ossia a dover affrontare casi di prevenzione primaria e secondaria più che di prevenzione Pag. 19 di radicalizzazione terziaria, ovvero conclamata, del jihadismo.
  L'Italia si ritrova quindi in una posizione di vantaggio rispetto ad altri Paesi proprio perché può ancora giocare sulla prevenzione, laddove tutto quello che vediamo conclamato in altri Paesi in Italia è in fieri.
  Proprio per questa ragione credo che la parte più interessante da approfondire della proposta di legge sia quella che riguarda l'educazione, perché ritengo che la sfida dell'Italia si svolga nelle scuole, si svolga sulle seconde generazioni e che l'investimento debba essere fatto, come giustamente si dice nella proposta, sull'affiancamento dei docenti da parte di psicologi, ma, come già rilevato, che sia fondamentale investire sulla formazione dei docenti, che devono essere edotti sugli strumenti e sugli studenti che si trovano davanti.
  Se infatti un docente si trova davanti lo studente egiziano, marocchino o pachistano, deve sapere che possono essere etichettati come dei musulmani, ma di fatto hanno un background, una tradizione culturale diversa, con un comune denominatore che è la religione, spesso però vissuta in maniera diversa.
  Credo che la sfida oggi nella scuola sia quella di far capire ai docenti e ai formatori che ci si trova davanti a ragazzi che devono essere inclusi, non etichettati, dei quali debbono essere messi in risalto tutti i connotati nel loro sostrato positivo, quindi la sfida nella scuola (e qui faccio riferimento alla legge) deve essere condotta attraverso psicologi che possono agire, aiutare, individuare dei problemi, ma la sfida fondamentale è quella di aiutare gli educatori e i mediatori a capire cosa accade nelle aule, che può essere anche il ragazzo che si sta radicalizzando, ma la sfida principale è il ragazzo che deve integrarsi e sentirsi parte della scuola e della società.
  Qui sono totalmente d'accordo con chi diceva che la sfida è nella società civile, perché, se vogliamo prevenire la radicalizzazione, la società civile deve essere valorizzata con attività concrete. Credo poco nella funzione di un portale web che dia informazioni, che può essere utile, ma non è assolutamente fondamentale.
  L'altro aspetto che mi preme sottolineare, sempre guardando alla prevenzione della radicalizzazione, riguarda il terreno fertile ideologico che spesso porta alla radicalizzazione. Sappiamo che quando si parla di radicalizzazione non si può parlare di fattori unici, perché esistono fattori sociali, psicologici, ideologici più che religiosi, ma esistono delle visioni dell'Islam, delle interpretazioni dell'Islam. L'Islam politico porta con sé delle ideologie, che non necessariamente sfociano nella radicalizzazione, ma possono creare il terreno fertile per un'eventuale radicalizzazione.
  L'Italia, con questa legge in particolare, deve quindi approfondire tutto ciò che può creare il terreno fertile per la radicalizzazione; rispetto ad altri Paesi il nostro è in vantaggio di una decina d'anni e credo che sia necessario investire notevolmente in prevenzione non a breve termine, con politiche restrittive e facili da attuare come considerare solo la parte dell'Islam praticante escludendo i musulmani laici, atei o semplicemente non ideologizzati e apolitici, per arrivare ad una migliore comprensione di questa realtà che è plurale a livello religioso e a livello sociale.
  Si tratta di una sfida molto più difficile, ma credo che l'Italia abbia una decina d'anni davanti e che questo meriti politiche a lungo termine piuttosto che a breve termine.

  MARIA CHIARA GIORDA, professoressa presso la scuola di lettere e beni culturali dell'Università di Bologna. Ringrazio di questa opportunità e userò il tempo a mia disposizione per fare una riflessione sul titolo, due riflessioni più generali sul testo e due più puntuali su due articoli.
  La prima riflessione sul titolo riguarda quanto già evidenziato sulla terminologia usata. Sappiamo che le parole sono importanti, che c'è un'ambiguità ancora molto spinosa e complessa sui termini che si usano per parlare di certi fenomeni non solo in italiano, ma anche in altre lingue con cui dovremo dialogare; propongo quindi di eliminare l'aggettivo «jihadista» e di introdurre l'aggettivo «violento», perché il Pag. 20radicalismo non è sempre violento, e radicalismo ed estremismo violento rimanda a una letteratura amplissima su fondamentalismi e radicalismi non solo religiosi.
  La prima riflessione generale sul testo riguarda l'inserimento di un altro luogo su cui concentrare la legge e le attività che ne potranno discendere, in quanto vedo citate le carceri, le scuole e i social network ma, se guardiamo la letteratura europea, i documenti e i progetti più d'avanguardia approvati negli ultimi anni, c'è sempre un quarto polo importante, i luoghi di culto, non in una prospettiva di controllo e di monitoraggio soltanto in termini di sicurezza, ma anche in termini di conoscenza, quindi un riferimento più esplicito all'attività, alle persone che circolano e alle cose che si fanno e che vengono dette nei luoghi di culto credo che sia importante alla pari degli altri luoghi.
  La seconda riflessione generale è l'invito a un riferimento più esplicito alle attività di ricerca e di analisi realizzate in Italia negli ultimi anni sul tema dei radicalismi. Lo dico perché ci sono tanti dipartimenti universitari, tanti istituti di ricerca che – non da pochi mesi, ma da alcuni anni – si occupano di temi che potrebbero essere utili non solo per una riflessione intellettuale e teorica, ma anche per un'attività pratica.
  Insieme a questo, un riferimento alle buone pratiche che si fanno localmente sui territori, cioè predisporre una mappatura di queste pratiche. Nella mia città di provenienza, Torino, è in corso l'apertura di un osservatorio molto innovativo sui temi dei radicalismi, ed è importante partire dall'esistente anche per pensare che l'Italia stia producendo non solo parole, ma anche fatti.
  I miei ultimi due commenti specifici sono riferiti all'articolo 4 e all'articolo 6. L'articolo 4: da studiosa guardo con diffidenza ogni volta che si utilizzano termini come «dialogo interculturale» e soprattutto «dialogo interreligioso», non perché sia contraria al dialogo interreligioso, ma perché reputo che ci siano piani diversi e prima di tutto ci sia necessità di ricerca, di analisi, e di utilizzo di discipline che in Italia sono patrimonio di una tradizione universitaria e di ricerca molto radicata, le cosiddette «scienze religiose», discipline come sociologia, storia, antropologia, filosofia, psicologia, teologia che si occupano del fatto religioso e dei fatti religiosi.
  Accanto agli psicologi credo che anche sociologi, storici, tutti coloro che si occupano da anni di indagare in modo scientifico il fatto religioso, di produrre ricerca, formazione ed educazione attraverso quelle discipline siano un patrimonio che viene prima del dialogo interreligioso in termini di formazione, di ricerca e di educazione.
  La seconda riflessione è relativa all'articolo 6: c'è un po'di diffidenza nel leggere il termine «razze» (inviterei a pensare se dobbiamo ancora utilizzare questo termine), qui peraltro quando si cita il portale si parla non solo di gruppi religiosi, ma di gruppi culturali, politici, gruppi gender oriented, quindi altri tipi di radicalismi che sembrano contraddire di nuovo l'aggettivo «jihadista» del titolo.
  In questo articolo 6 propongo di aggiungere (non perché vada di moda, ma visto anche lo studio condotto nell'Istituto di scienze religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento che è all'avanguardia su questi temi, religioni, conflitti e violenza) il tema delle contro-narrative, cioè proporre un linguaggio alternativo, delle parole e dei sistemi sui social network da Twitter a Facebook, nuove piattaforme di propagazione di questo tipo di radicalizzazione, che stanno dimostrandosi davvero efficaci in altri progetti che ho avuto modo di seguire altrove in Europa, pur sapendo che l'Italia è differente da altri Paesi, ma credo che sia importante ragionare, riflettere e apprendere.

  PRESIDENTE. Grazie. È arrivato il presidente al quale cederei volentieri la presidenza, dando la parola al professor Melloni.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
ANDREA MAZZIOTTI DI CELSO

  ALBERTO MELLONI, segretario della fondazione per le scienze religiose di Bologna Pag. 21 e titolare della cattedra Unesco di pluralismo religioso e la pace dell'Università di Bologna. Grazie. Le questioni che questa proposta solleva sono molte e molto complesse, a me continua a venire in mente il fatto che affrontare questo tipo di questioni con qualche illusione securitaria e qualche buona intenzione, qualche illusione socio-educativa non sia la cosa migliore, che il punto sia avere una legge sulla libertà religiosa, all'interno della quale possa anche essere considerata, come il nostro ordinamento ci consente di fare, una forma particolare di futile ed abbietto motivo quello dell'uso degli argumenta di tipo religioso nella perpetrazione di delitti che non hanno bisogno di altro nome per essere definiti.
  Senza questa cornice di libertà, tutte le cose che vengono dette diventano molto facilmente obiettabili. Nel Paese di Marco Pannella dare la patente di radicali ai sanguinari a me sembra un delitto, però, se voi pensate che vada fatto, fatelo pure, siete la sede dell'Autorità legittima per decidere anche di queste cose e credo che nessuno avrebbe il fegato di andare da un emigrato argentino che abita poco distante da qua a dire: «complimenti, lei è un cristiano moderato, io ho paura dei cristiani radicali».
  Questa confusione di linguaggio riguarda anche la definizione del termine jihadismo. È un po’ come dire che esiste un ascetismo violento, che forse esisterà anche, ma è un po'preoccupante come affermazione.
  È una questione sulla quale, come si diceva qualche giorno fa a Bruxelles, si usano linguaggi che, anziché interpretare i processi, semplicemente li ridescrivono, e si ha l'impressione che dietro questa norma che ci avete sottoposto ci sia questo tipo di questione.
  A Bruxelles, lunedì scorso, c'è stata la presentazione della Policy Review sull’aggress in terrorism, nella quale non è stato utilizzato il linguaggio del Dipartimento di Stato americano, che qui è stato auspicato, quello dell'estremismo violento; noi l'abbiamo anche sottoscritto in sede ONU l'anno scorso all'Assemblea generale; è stato usato anche questo linguaggio della radicalizzazione e noto che l'Italia era stata invitata ad ascoltare e non a parlare, nonostante le cose che diceva Maria Chiara Giorda, perché noi da quattro mesi non nominiamo l’attaché scientifico a Bruxelles e dunque andiamo ad ascoltare le cose anziché intervenire!
  Le lacune di linguaggio che emergono da questo testo sono state in parte già notate e si riverberano su tutti gli aspetti interni, e sarebbe sbagliato nascondersi che i problemi con i quali le società europee oggi si misurano sono problemi che creano anche un mercato del sapere, un mercato del dialogo, un mercato delle buone volontà, mentre bisogna stare molto attenti a non creare un mercato, perché, se questo supera certe soglie fisiologiche, indurrà ad atteggiamenti di camuffamento, di ipocrisia, a cose che poi potremmo pagare carissime.
  Mi sembra che venga sottovalutato il fatto che ci sono delle cose già fatte e delle cose fatte malissimo che qui vengono evocate. Questa mattina, alle 11, al Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, il Ministro Giannini ha presentato il programma sulla formazione degli insegnanti, nel quale vengono già previste molte delle cose auspicate, con il piccolo problema però che questa illuminata Repubblica nel decreto del Presidente della Repubblica 19/2016, quello che stabilisce con quali lauree e quanti crediti si possa partecipare al concorso nella scuola, ha espunto in sede di approvazione del decreto del Presidente della Repubblica da 22 classi di concorso su 24 la laurea in Scienza delle religioni, distruggendo nel piccolo di un gesto sbagliato l'idea di fondo che abbiamo bisogno che nel sistema scolastico non vengano introdotti predicatori di buone intenzioni formati da predicatori di predicatori di buone intenzioni, ma abbiamo bisogno di alzare il livello di conoscenza di un insegnante laureato in matematica che entrando in classe la mattina si trova davanti 26 turbanti sikh e si domanda se il pugnalino sia una cosa pericolosa e cosa voglia dire.
  Da questo punto di vista dobbiamo valutare le iniziative che vogliono affrontare, contenere, controllare e reprimere la predicazione terroristica che può esistere dentro Pag. 22 le comunità più diverse, spesso fra persone che hanno della pratica dell'Islam un approccio estremamente superficiale e marginale, che non sono per nulla radicali in un senso proprio del termine, ma che sono dei depressi, con una conoscenza superficiale, ma molto vulnerabili alla pornografia religiosa che passa dal web.
  Se si vuole fare questo, si devono immaginare un'altra cornice e altri strumenti che riguardano un problema che non è solo nostro, ma è un problema europeo: come fare a dare ai 15 milioni di musulmani europei di oggi, che saranno 30 milioni di musulmani europei tra qualche anno, la coscienza dell'appartenenza a una fede, a una cultura, a una civilizzazione che ha dentro elementi di orgoglio molto diversi da questa pattumaglia pseudocoranica che viene spacciata sul web.
  Come si fa a fare in modo che ci sia una Facoltà di Studi islamici in cui si studia algebra, filosofia e storia della scienza, che sono le cose di cui la civilizzazione arabo-musulmana nel Mediterraneo è particolarmente forte?
  Credo che si debba insistere molto sul fatto che il carcere non sia il luogo di una predicazione, e un nostro collega scomparso, Cesare Bori, aveva fatto un lavoro molto interessante facendo traduzioni in carcere dei grandi testi della filosofia morale araba con i detenuti. Mi sembrava un modo non di fare deradicalizzazione, che parte dal presupposto che ho commesso qualcosa di male e qualcuno mi deve tosare, ma che sono portatore di qualcosa che posso portare a beneficio comune.
  Concludo con un'annotazione: pensare a questi problemi al di fuori della cornice e del contesto europeo è un errore già fatto, che può avere mille motivi per essere fatto di nuovo anche questa volta, ma sarebbe gravissimo.
  Per quanto ci riguarda vi invito il 5 dicembre a Bologna, dove faremo l'atto di fondazione della European Academy of Religion che raccoglie gli studiosi di queste materie nella estensione prima indicata da Maria Chiara Giorda, ma ancora più ampia (archeologia, psicologia delle religioni, filologia dell'Europa, del Mediterraneo, del Medio Oriente, del Caucaso e della Russia).
  Ben 540 fra società nazionali di studiosi, dipartimenti e centri di ricerca hanno aderito a questa iniziativa, nella convinzione che abbiamo un solo problema: il terrorismo rende vicinissime la paura e le decisioni, e, se non ci mettiamo in mezzo a qualcosa, finirà che saranno le paure a prendere le decisioni, e noi pensiamo che il sapere sia la cosa che si può mettere in mezzo.

  KARIMA MOUAL, scrittrice. Grazie per l'invito. Sentendo i precedenti interventi e leggendo i contenuti della proposta di legge recante misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell'estremismo jihadista mi sento più che altro di soffermarmi sull'aspetto della comunicazione anche come giornalista che da sempre ha seguito la comunità musulmana in Italia, e non da esterna, ma anche da dentro, essendo di origine marocchina e di cultura musulmana.
  Come abbiamo potuto constatare, il successo dell'ideologia di Daesh è connesso anche alla sua meticolosa strategia comunicativa; fin dai suoi esordi, infatti, ha studiato nei minimi dettagli come riuscire a conquistare il maggior numero di adepti andandoli a reclutare soprattutto fra i giovani, che sono a mio avviso il futuro di qualsiasi società.
  In questo contesto siamo stati anticipati dagli eventi di questo terrorismo di matrice islamista e anche dalla sua capacità comunicativa e propagandistica. Chi ha studiato bene questo cancro sa quanto sia stato capace di lavorare sulla comunicazione, e questa è la premessa d'obbligo che si deve avere ben chiara in mente se si vuole trovare un antidoto alla sfida che l'organizzazione Daesh ci ha lanciato in questi ultimi anni, una sfida che si combatte su più fronti, ne siamo consapevoli, ma soprattutto sul fronte psicologico, su quello delle crisi sociali che interessano le società globalizzate al sud come al nord, da ovest a est, perché sappiamo che siamo tutti coinvolti. In Marocco, il mio Paese di origine, non c'è settimana o mese in cui la cronaca Pag. 23non ci informi di quante cellule silenziose siano state sgominate.
  Per rispondere a questa sfida ogni Paese sta cercando di portare avanti una propria visione, e il nostro Paese, come dimostrano i dati di cronaca e quelli dell’intelligence, non è immune da questa minaccia, però con alcune differenze che bisogna tenere a mente. Noi non siamo la Francia, non siamo la Gran Bretagna, non siamo la Spagna. I fattori sono molteplici, quindi cercherò di elencarli per punti.
  Innanzitutto, in Italia c'è un'importante presenza musulmana – quasi 2 milioni di persone – rispetto alla quale c'è un vuoto legislativo. Manca un progetto governativo che la inquadri, cosa che indebolisce il monitoraggio e la piena consapevolezza delle luci e delle ombre di questa comunità.
  C'è, poi, una crescita delle conversioni italiane che, a seguito anche di inchieste che ho fatto in prima persona, sembra andare più verso un Islam radicale. C'è, comunque, un basso livello culturale dei migranti musulmani, anche se oggi abbiamo una seconda generazione che ha degli strumenti diversi. Ancora, vi è l'assenza di una rappresentanza forte e credibile che faccia da valido interlocutore con le istituzioni. Inoltre, abbiamo l'interferenza, attraverso finanziamenti, di Stati esterni nel trasferimento della fede, con conseguente indottrinamento non sempre in linea con i valori democratici del nostro Paese. In particolare, parlo di Arabia Saudita e Qatar.
  Vi è anche la tendenza sempre più emergente a un islam più politico che tradizionale, con la presenza di una giovane generazione in pieno processo di formazione di una sua identità, non immune, però, dalla disintegrazione e dalla radicalizzazione, proprio perché non c'è un modello culturale che la accolga, ma solo la visione di un islam ortodosso.
  Infine, abbiamo un'imponente percentuale di detenuti di fede islamica (35 per cento) senza un vero programma di prevenzione della radicalizzazione.
  Questi sono solo alcuni degli elementi più importanti che necessitano di una visione e di una politica pensata ad hoc. Descritto in maniera leggermente pessimistica il quadro dell'approccio italiano alla comunità musulmane e all'islam, credo che risulti sempre più evidente come sia necessario un progetto più lucido e ambizioso, con una strategia a lungo termine, anche per evitare conflitti sociali futuri.
  Tuttavia, reputo che il nostro Paese, rispetto ad altri, abbia un punto di vantaggio perché ci troviamo in una fase iniziale, con la seconda generazione in piena formazione, anche se è molto visibile come il vuoto politico abbia pregiudicato l'integrazione, producendo una generazione più chiusa in se stessa, più velata, più ortodossa, più legata ai simboli di un Islam politico, non aperta alla contaminazione con la società accogliente. Si tratta di una generazione che cresce nutrendosi solo di Islam, senza cultura. È ingabbiata nell'identità islamica, quindi fatica a trovare i numerosi tasselli che possano, invece, costruire un'identità plurale. Si tratta, a mio avviso, di un fattore di rischio.
  Tornando al punto iniziale sulla comunicazione, credo che la nostra sfida come Paese, rispetto ad altri, debba iniziare dall'arma della prevenzione, ovvero proprio dalla comunicazione, costruendo una contronarrativa all'ideologia estremista e jihadista di Daesh. Bisogna assolutamente avviare un progetto ambizioso, sempre in chiave di contronarrativa dell'Islam, inteso non solo come fede, ma anche come cultura, tradizioni e storia plurale. Bisogna sfuggire dalla semplificazione dell'Islam come un blocco monolitico, ovvero iniziare a contare i musulmani come persone con le loro peculiarità.
  Fino ad oggi, nel vuoto politico, è maturato un Islam ortodosso e politico, studiato da Paesi esterni e lontani dai nostri valori. Si è trattato di un processo che ha sacrificato una pluralità di storie, esperienze e culture, favorendo la creazione di una sola visione non certo confortante.
  Se vogliamo davvero combattere la minaccia jihadista e accompagnare la nostra comunità mussulmana ormai perfettamente italiana dobbiamo capire che al centro di questa sfida c'è la comunicazione. Pag. 24
  Non basta solo la creazione di un portale che spieghi cos'è il messaggio jihadista e dica quanto è brutto. Occorre una campagna comunicativa che tocchi diversi strumenti di cui già disponiamo per costruire una vera contronarrativa che possa coinvolgere lo stesso servizio pubblico. Serve un nuovo racconto sui musulmani, che dia voce ai suoi intellettuali, che non conosciamo, ai suoi sapienti, ma anche ai suoi ribelli, ai suoi progressisti, ai laici e ai femministi. Non è possibile che oggi nel servizio pubblico si racconti solo una parte minoritaria di quel mondo.
  Inoltre, serve tradurre testi e saggi importanti dalla lingua araba alla nostra, che possano contribuire alla contronarrativa. Serve dare voce e aiutare quelle realtà associative e culturali che si impegnano nella diffusione della propria cultura. Ciò non significa, però, che debbano per forza avere un'impronta religiosa. Bisogna uscire dalla chiave esclusivamente ortodossa e puntare sulla cultura.
  Occorre iniziare a investire nelle personalità intellettuali di cultura islamica presenti nel panorama italiano e raccoglierle in un'esperienza di tipo think tank per creare un dibattito alto sui temi principali della convivenza e del riformismo islamico.
  Ho detto tutto sinteticamente, ma ho trasmesso anche un documento scritto perché rimanga agli atti. La sfida che ci troviamo davanti è uno sprone non solo per la comunità musulmana, ma anche per quella italiana ed europea perché la minaccia riguarda tutti.

  PRESIDENTE. Grazie. Colgo l'occasione del riferimento allo scritto per dire a tutti gli auditi che è molto gradito che ci lascino eventuali contributi. Do ora la parola a Carlo Panella, scrittore.

  CARLO PANELLA, scrittore. Ho fatto un esame della proposta di legge n. 3558, articolo per articolo, a cominciare da una confusione del titolo che diventa, nomen omen, anche elemento di confusione nel testo. Infatti, un conto è il radicalismo, un altro è il jihadismo. L'espressione «radicalizzazione dell'estremismo jihadista» confonde le idee e questo si riverbera, a mio avviso, anche sul testo.
  La parola «radicalizzazione» porta sempre a una confusione e ciò è accaduto in tutti i dibattiti a cui ho partecipato, anche nel Comitato per l'islam istituito da Palazzo Chigi, di cui faccio parte.
  Il jihadismo è un elemento pericoloso su cui il Parlamento ha già legiferato abbondantemente. Invece, il radicalismo, che è l'anticamera del jihadismo potenziale – non tutti i radicali sono jihadisti, ma tutti i jihadisti sono stati radicali –, è ben altra cosa.
  Vi faccio qualche esempio. È radicalismo islamico, come fanno spesso le convertite europee, mettersi il burqa che, peraltro, non è assolutamente un elemento di cultura islamica. È radicalismo islamico anche un antisemitismo molto diffuso in Francia come in Italia. Il radicalismo è un atteggiamento culturale su cui le istituzioni e il Parlamento in Italia non sanno nulla.
  Abbiamo a disposizione un riferimento molto recente in Francia. Secondo un'indagine, il 25 per cento dei musulmani rifiuta i valori costituzionali francesi. Non so se in Italia è così. Suppongo, però, che l'ordine di grandezza sia simile.
  Credo sia questo l'elemento fondamentale su cui oggi il Parlamento debba deliberare. Questo è il tema sul quale la legge si esprime in maniera, però, confusa. Non ho nulla da dire sul sistema (con la «s» maiuscola) che il Ministero dell'interno chiede di poter attuare per – credo – velocizzare e eliminare le pastoie burocratiche alle informazioni sulla trincea. I prefetti lavorano infatti sulla trincea nel contrasto al jihadismo. Ciò non toglie, però, che il Parlamento, in questo momento, abbia lo strumento per capire, attraverso il Copasir e le audizioni, come è diffuso il radicalismo nel nostro Paese.
  Allora, la mia proposta molto semplice è che il Parlamento si doti di uno strumento in questo senso. Deciderete voi, poi, quale sia. Posso suggerire che sia una commissione, un osservatorio o altro. Personalmente, credo che l'osservatorio sarebbe la cosa più utile. Pag. 25
  Faccio degli esempi. Il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca potrebbe emanare una circolare – da studiare, perché è una cosa complessa – per cui tutti i direttori didattici, i rettori e i presìdi facciano semestralmente una relazione, che deve arrivare all'osservatorio, sugli atti di radicalismo.
  Cremonesi e una sua collega del Corriere della sera rimasero allibiti – fu sulla prima pagina del Corriere – quando andarono in una classe a parlare del Bataclan, dopo il 13 novembre, e videro che c'era un gruppo di studenti islamisti, fondamentalisti e radicali che contestavano tutto quanto avevano detto.
  Negli ospedali, per esempio, ci sono delle manifestazioni di radicalismo islamico estremamente provocanti, che riguardano un elemento molto prezioso. Vi sono, infatti, mariti che intervengono pesantemente, al posto delle donne, affinché vengano curate o meno da maschi. In Francia c'è una quantità enorme di episodi di questo genere.
  Ecco, credo che sia indispensabile che il Parlamento si doti di questa struttura, che deve occuparsi anche di un altro elemento molto forte.
  Sappiamo tutti che cos'è Molenbeek, che è importante non solo perché c'era il nucleo del gruppo del 13 novembre e di Salah, ma anche perché, quando Salah è stato arrestato, è sceso in piazza a difenderlo contro la polizia. Ebbene, pensate che in Italia non ci siano delle Molenbeek? Io credo di sì. Sono di Genova, dove il centro storico della città, in particolare il quartiere San Giovanni di Pré è una potenziale Molenbeek. Leggo che Settimo Torinese è uguale.
  Pertanto, ritengo che questo osservatorio debba occuparsi di avviare un'inchiesta «Jacini», per conoscere la situazione del Paese. Non intendo, però, nominativamente. Non voglio che i presidi facciano i nomi degli studenti, bensì che segnalino se nelle scuole ci sono – come ci sono – questo tipo di attività. Ovviamente, troverete tutto scritto nel documento che consegnerò alla Presidenza.
  La seconda valutazione che faccio riguarda lo stanziamento di 10 milioni più 10 che il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca fa per avviare e consolidare il dialogo interreligioso e interculturale. La cifra è consistente. Tuttavia, il Parlamento non può stabilire di stanziare una cifra del genere in un momento in cui il dialogo interreligioso e interculturale è fallito in tutta Europa (in Francia, Germania, Olanda, Belgio, Spagna e Inghilterra), se non a patto di fare una discussione il più possibile alta su che cosa è il dialogo interculturale e interreligioso.
  Bisogna, dunque, attualizzare la discussione, sapendo soprattutto che i radicali, come i jihadisti, tutto fanno tranne che partecipare a un dibattito interculturale e interreligioso. Rimango, quindi, alla mia valutazione della necessità di un intervento ben diverso nelle scuole.
  Passo a prendere in esame la proposta che mi pare più estemporanea, ovvero la realizzazione di un portale informativo sui temi della radicalizzazione e dell'estremismo affidata alla Presidenza del Consiglio. È, infatti, una proposta molto strana. Insomma, bisogna tradurre in arabo i comunicati di Filippo Sensi?
  È evidente che la Presidenza del Consiglio non ha la possibilità di fare una contronarrazione, come diceva giustamente Karima Moual, che è un compito molto più complesso.
  Mi riallaccio più esplicitamente a quello che ha detto Karima Moual. Da anni propongo alla Rai – la presidente Maggioni è entusiasta – l'istituzione di un portale radio e internet in arabo, in cui si radunino tutte le migliori intelligenze di cui possiamo disporre nel Paese per fare una contronarrazione, che, tra l'altro, ha la caratteristica di rivolgersi al 90 per cento dei musulmani che non frequenta la moschea. Infatti, il 90 per cento dei musulmani, soprattutto giovani, non va in moschea.
  Occorre, quindi, attirarli in un contesto di collaborazione e di integrazione attraverso i due asset fondamentali, il calcio – propongo la radiocronaca delle partite di calcio – e la musica. Pag. 26
  C'è una straordinaria musica araba giovanile, compreso il bip-hop, soprattutto in Marocco, ma anche in Egitto, in Tunisia e via dicendo, che può essere un elemento fondamentale. Se riuscissimo a organizzare un concorso di musica con gruppi musicali interetnici, non divisi per nazionalità, faremmo una cosa molto importante. Propongo, dunque, che il Parlamento decida che venga finanziato e che la RAI lo inserisca nel contratto di servizio pubblico.
  Infine, l'elemento più grave di confusione di questo progetto di legge riguarda le carceri. Chi sono gli Imam che vanno nelle carceri e aiutano il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria non solo a controllare i detenuti jihadisti, ma – siccome per la Costituzione la detenzione non è punitiva e quindi i detenuti devono essere recuperati – anche a reinserirli?
  Ebbene, questo avviene a caso. In questo momento, abbiamo una consistente popolazione carceraria di jihadisti, radicali o comunque di musulmani curata – da un punto di vista complessivo e ancor più religioso – in una maniera del tutto casuale.
  Allora, la mia proposta a riguardo è radicale, come spesso mi accade. Abbiamo un'esperienza straordinaria di detenzione secondo i principi dei diritti umani e di recupero dei jihadisti da parte degli unici due Stati democratici arabi che conosco, la Tunisia e il Marocco. Pertanto, la mia proposta è che il Ministero della giustizia e il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria impostino i loro progetti di sorveglianza nelle carceri e soprattutto di recupero dei detenuti jihadisti utilizzando l'esperienza del Marocco attraverso dei contatti diretti.
  Questa proposta, che è semplicissima, si inserisce in un contesto europeo drammatico. In Francia hanno fatto il primo centro di deradicalizzazione in cui fanno cantare la Marsigliese a questi ragazzi, ma non c'è un imam perché c'è la laicità. Come pensate che sia possibile deradicalizzare, ovvero riportare a un islam di fede e non radicale o jihadista dei giovani senza questo elemento?
  Come detto ho scritto il mio intervento, quindi lo consegno. Tuttavia, per darvi un'idea di come sia complicato convivere in questo Paese, vi voglio consegnare un altro testo che ritengo inquietante. È il testo del Corano in arabo commentato dall'UCOII, Unione delle Comunità Islamiche d'Italia.
  A proposito dell'UCOII, alla galleria Colonna è possibile comprare il Corano in arabo della Newton Compton. Qui ci sono alcuni passaggi, riportati da me, con la citazione delle pagine, del commento sotto il controllo ordinario dell'UCOII. Sono inquietanti perché violano alcuni principi della prima parte della nostra Costituzione, tra cui la possibilità per la donna di divorziare soltanto a fronte del pagamento di un risarcimento economico, una definizione altrettanto inquietante del dovere alla jihad del musulmano per difendere la propria comunità offesa, oltre a una quantità spaventosa di allusioni e frasi di aperto antisemitismo e non di antigiudaismo.
  Dico questo non per accusare l'UCOII di essere un'organizzazione radicale, ma, al contrario, per dar conto alla Commissione, ovvero a chi deve legiferare, di come il terreno sia complesso e di come ci si debba muovere con estrema cautela.

  MOHAMMED KHALID RHAZZALI, assegnista di ricerca-sociologia della politica e sociologia della religione dell'Università di Padova. Ringrazio la Commissione. Cercherò di essere concreto per far filtrare in questa sede alcuni punti degni di essere presi in considerazione.
  Parto da una mia lunga esperienza di ricercatore sul campo. Da una decina d'anni lavoro nelle carceri. Nel 2010, in tempi non sospetti, ho scritto una monografia, L'Islam in carcere. Ho collaborato anche a fianco delle organizzazioni islamiche per montare alcuni progetti di carattere culturale.
  Lavorare su grandi progetti di carattere innovativo richiede molte energie e sinergie. Comincio, quindi, proprio dalla sinergia degli interventi legislativi.
  Sappiamo che esiste un problema di gestione della complessità, quindi aderisco a tutte le critiche. Comprendo la volontà del legislatore di gestire la complessità, ma Pag. 27bisognerebbe, almeno su questo punto, tener conto di alcuni vuoti legislativi.
  Occorre, dunque, tentare di curare la sinergia con altri provvedimenti. Non vorrei parlare dell'intesa su cui qualcuno si è soffermato. Com'è possibile che le organizzazioni islamiche possano organizzare corsi nelle scuole e fare il volontariato nelle carceri, senza avere l'accesso alle risorse? C'è, dunque, un problema di accesso alle risorse.
  Questo provvedimento può provocare positivamente il legislatore per lavorare sulla legge sulla libertà religiosa, in modo da creare la sinergia con un provvedimento che possa finalmente farsi carico della precarietà dei mediatori interculturali che lavorano nelle nostre scuole, carceri e in tutte le istituzioni dove il legislatore vuole intervenire per proporre dei provvedimenti di prevenzione o di contrasto alla radicalizzazione.
  Ho identificato delle ipotesi di intervento, ma vorrei soffermarmi su alcuni criteri che devono avere una ricaduta non solo in questa fase di legge delega, ma anche sui successivi «decreti attuativi».
  Come ha detto qualche collega, bisognerebbe valorizzare la ricerca scientifica, che anche in Italia ha prodotto molto, e promuovere dei progetti, come hanno fatto francesi e tedeschi, finanziando con dei fondi extra dei settori in sofferenza, con cattedre e posti di ricerca sull'islam.
  Questo è legato a tutto il reparto della formazione. Alcuni dei miei colleghi hanno evocato il problema di chi forma chi e di cosa si forma. A questo proposito, vi sono quattro o cinque ipotesi di intervento.
  Innanzitutto, abbiamo la società civile. Se vogliamo considerare anche le organizzazioni islamiche come soggetti della società civile occorre che il legislatore si faccia carico – non so a quale altezza perché non sono giurista – di riconoscere il fatto che oggi in Italia le organizzazioni islamiche stanno svolgendo la loro funzione per la sicurezza dello Stato, cioè stanno collaborando con enti locali e DIGOS locali e nazionali. Questo è, dunque, il primo punto.
  Il secondo è la scuola. Nello specifico dell'insegnamento delle religioni occorre che ci si soffermi sul fatto che mussulmani, quindi non cattolici, invece di imparare qualcosa, nell'ora di religione non hanno accesso alla conoscenza della religione, né hanno un'esperienza di carattere interreligioso.
  Il terzo punto è il carcere. Anche qui avrei voluto che il legislatore si fosse posto la questione di chi fa l'intervento e l'assistenza religiosa. Come sapete, anche i cugini francesi, con il loro laicismo, a un certo punto hanno deciso di finanziare e farsi carico della gestione del reclutamento del sermonneur nelle carceri attraverso una grande partnership con le università che si occupano di queste tematiche, ovvero della formazione in ambito religioso. Mi riferisco, per esempio, all'università di Strasburgo.
  L'ultimo punto, che è stato già presentato da Carlo Panella, è la cooperazione internazionale. In Italia abbiamo una lunga esperienza nel contrasto alle organizzazioni di stampo mafioso. Nel passato abbiamo già prodotto qualche esperienza in termini di contrasto al terrorismo. Potremmo, quindi, collaborare con alcuni Paesi, come il Marocco, che sta lavorando su un aspetto a cui non diamo mai attenzione. Neanche le società islamiche hanno, infatti, dei dispositivi di formazione e di comunicazione per lavorare sull'assistenza religiosa nelle carceri.
  Nello specifico, penso a un dispositivo per convincere chi è nel progetto daeshista di stare da questa parte. Per fare questo ci vogliono, però, delle figure ad hoc. Il Marocco, la Tunisia e qualche altro Paese stanno lavorando nel quadro della valorizzazione della ricerca scientifica nei settori delle scienze sociali e delle scienze giuridiche islamiche, implicando anche le scienze umane, della comunicazione, la psicologia e così via.

  YAHYA PALLAVICINI, presidente della Comunità religiosa islamica italiana COREIS. Vi ringrazio di questa occasione di confronto. Parto da due considerazioni.
  La prima è sul titolo perché nell'analisi che abbiamo cercato di fare, sia con il nostro Dipartimento educazione, sia in ambiti più legati all'antiradicalismo al nostro Pag. 28interno, abbiamo apprezzato che ci siano riferimenti distinti al radicalismo e all'estremismo, che vediamo come due problemi che vanno affrontati in termini di prevenzione. Invece, troppo spesso il radicalismo viene confuso con l'estremismo e viceversa.
  Da quello che abbiamo visto nell'articolato, però, non mi sembra che ci siano misure di prevenzione del radicalismo che si distinguano da quelle di prevenzione dell'estremismo. Invece, credo che questo sia importante perché, essendo due cose a volte collegate e a volte dissociate, le misure di prevenzione del radicalismo devono avere delle competenze e delle metodologie di lavoro che vanno distinte da quelle per l'estremismo.
  Ancora, rispetto al titolo, condivido la problematica sulla concentrazione esclusiva sul jihadismo. Se si trattasse soltanto di una prevenzione della radicalizzazione dell'estremismo potrebbe essere vago, ma mi sembra che ci sia interesse a fare una prevenzione della radicalizzazione e dell'estremismo di matrice religiosa.
  Allora, questo avrebbe un orientamento preciso, ma anche non mirato a un'esclusiva confessione e identità religiosa, anche se ci sono delle proporzioni differenti. È indiscutibile che i danni della radicalizzazione islamista e del jihadismo siano più rilevanti in termini di attenzione alla prevenzione. Tuttavia, non possiamo escludere che vi siano altre forme di radicalizzazione e di estremismo o di terrorismo che non hanno a che fare con una matrice islamica o religiosa.
  La radicalizzazione ideologica mafiosa o l'estremismo mafioso non rientrano all'interno di questa legge, mentre potrebbero rientrarvi i processi di radicalizzazione di alcuni gruppi cinesi che sono discriminanti nei confronti del movimento del Dalai Lama o anche alcuni movimenti antisemiti o che abbiano a che fare con una radicalizzazione nei confronti dell'identità ebraica. Insomma, qualsiasi radicalizzazione che strumentalizzi un'ideologia contro un'identità religiosa potrebbe essere oggetto di questa legge.
  Sull'estremismo, avevo pensato anch'io a di sostituire «jihadista» con «violento» o «estremismo violento» con «terrorismo».
  Passo agli articoli. Siamo molto convinti che l'articolo 2 («Formazione specialistica per le forze di polizia») sia effettivamente molto rilevante. Anche qui, con riferimento alle modifiche sul titolo, consideriamo molto importante distinguere l'abuso della religione rispetto all'identità religiosa autentica. Il fatto che le forze di polizia abbiano una coscienza di quali sono le identità o le matrici religiose vere rispetto alla loro degenerazione o manipolazione è rilevante.
  Anche qui faccio espresso riferimento ad antisemitismo e islamofobia e al perverso utilizzo dell'ideologia contro un'identità religiosa, con la volontà di sdoganare statuti giuridici speciali o società parallele.
  Quello ancora più interessante per noi è l'articolo 4 («Interventi preventivi in ambito scolastico») proprio perché, in termini di prevenzione, bisognerebbe investire alcune forze soltanto nel campo dell'educazione.
  Come hanno detto alcuni intervenuti che mi hanno preceduto, ci sembra che ci sia un ruolo eccessivo attribuito alla presenza costante degli psicologi. Sono convinto che la matrice perversa dell'estremismo e del radicalismo abbia a che fare anche con delle patologie di carattere mentale, ma la prevenzione dovrebbe prendere in considerazione in misura più limitata l'uso dello psicologo e invece in forma più accentuata l'uso di esperti e rappresentanti delle varie realtà religiose.
  Non stiamo parlando, infatti, come ho detto, soltanto dell'islam, ma di ideologia radicale nel complesso fenomeno del pluralismo religioso. In questo senso, mi sembra sia stato appena detto che l'invito a rappresentanti o esperti delle confessioni religiose dovrebbe prendere in considerazione una formazione anche interna.
  Non è sufficiente che venga invitata una confessione religiosa in maniera semplicistica perché ciò di cui abbiamo bisogno è un rappresentante di quella confessione religiosa che abbia delle competenze specifiche nel tradurre la counternarrative rispetto all'abuso che si è fatto della propria Pag. 29dottrina religiosa. Altrimenti, rischiamo di avere dei rappresentanti molto dignitosi ma inefficaci relativamente alla finalità che ci perseguiamo.
  Vi sono due commi importanti nell'articolo 4. Uno riguarda l'Osservatorio nazionale per l'integrazione degli alunni stranieri e per l'intercultura. Anche qui ci sembrerebbe interessante partecipare direttamente con rappresentanze religiose accanto agli esperti, ripristinando l'esperienza della Commissione nazionale per l'educazione interculturale del 1998.
  Per quanto riguarda il comma 5, c'è il rischio di confondere lo straniero con il musulmano. Ho l'impressione che ci sia il rischio di confondere le altre nazionalità con una particolare identità religiosa. Invece, stiamo parlando di garantire la libertà e la dignità del pluralismo religioso a tutti i cittadini che vivono nel nostro Paese, senza confondere il musulmano con lo straniero.
  Finisco con l'articolo 5, sulla questione delle politiche del lavoro, che ci sembra un intervento molto valido e necessario. Il portale informativo, invece, può essere sì uno strumento, ma oso dire che sarebbe opportuno – come è già stato detto – che vengano garantite e disciplinate delle norme in termini di libertà religiosa delle singole confessioni perché non possiamo essere accreditati soltanto alla luce della bontà di un portale che dia un'informazione a 360 gradi su tutte le caratteristiche identitarie delle comunità religiose.
  In altre parole, come è stato detto, un rapporto sano, costruttivo e ufficiale di riconoscimento della dignità e della libertà di organizzarsi delle singole confessioni andrebbe a vantaggio di una distinzione tra islam italiano, per esempio, e jihadismo antitaliano e antislamico.
  L'ultima questione è nel senso di rendere effettive le qualificazioni delle rappresentanze interreligiose nell'ambito dell'articolo 7, ovvero rispetto al piano relativo alle carceri. Anche su questo a Milano stiamo vivendo esperienze di partecipazione di rappresentanti religiosi con competenze di educazione alla prevenzione che potrebbero essere valide anche a livello nazionale.

  ABDELLAH REDOUANE, Segretario generale del Centro islamico culturale d'Italia. Grazie per l'invito e per l'opportunità di poter condividere con voi qualche elemento di riflessione a proposito di questa proposta di legge.
  Sono particolarmente apprezzabili lo spirito e l'intento che animano la proposta di legge, ovvero la volontà di conciliare politiche di contrasto, prevenzione, misure di recupero e reinserimento sociale dei soggetti coinvolti in attività jihadiste, unitamente a uno spirito di collaborazione con le comunità di riferimento.
  Si permette, così, di evitare quel rischio di ulteriore sentimento di esclusione di individui o di gruppi già marginalizzati cui fa riferimento la proposta di legge e che, con tutta plausibilità, ha concorso all'incremento della radicalizzazione sfociata anche in attentati ed episodi di criminalità cruenta.
  È importante anche la netta distinzione tra criminalizzazione di ideologie aberranti e volontà di recupero e reinserimento di soggetti già coinvolti in fenomeni di radicalizzazione, volontà che si fa portatrice di una logica non esclusivamente punitiva, ma soprattutto formativa e inclusiva.
  È pienamente condivisibile, in riferimento all'articolo 4, la necessità di predisporre misure inidonee a prevenire episodi di radicalizzazione fra i giovanissimi in ambito scolastico, ricordando tuttavia la necessità di andare oltre la distinzione tra alunni stranieri e italiani, atteso che sovente i soggetti coinvolti sono cittadini naturalizzati, quando non autoctoni.
  Il Centro islamico culturale d'Italia ha un'esperienza consolidata e approfondita in materia di dialogo interculturale e interreligioso nel mondo della scuola in ogni suo ordine e grado ed è ben disponibile a mettere a disposizione il suo know-how.
  Insisto sulla questione dei giovani perché se io o Carlo Panella facciamo riferimento alla ricerca fatta in Francia su «Radicalisation et terrorisme: une recherche ignorée des politiques» è perché effettivamente vi troviamo dati molto inquietanti. Pag. 30
  Il 64 per cento degli alunni adottano posizioni più o meno radicali; vuol dire che il seme del radicalismo si diffonde già a livello della scuola, per cui la legge ha fatto bene a insistere su questo punto di partenza, che è il futuro.
  Parimenti, il Centro islamico culturale d'Italia è disponibile a mettere a disposizione la sua esperienza maturata negli anni, sia integrandosi con vari istituti del sistema penitenziario nel favorire i processi di rieducazione di cui all'articolo 7 della proposta di legge, sia attraverso l'impiego di propri qualificati esponenti, sia contribuendo alla formazione dei soggetti individuati al medesimo articolo.
  Vorrei concludere brevemente sul fatto che, dal momento che si tratta di una legge che genererà sicuramente decreti attuativi, penso sarebbe utile aprirsi ad altre esperienze che hanno avviato questo percorso di deradicalizzazione o sradicalizzazione.
  Penso alla Danimarca, alla Gran Bretagna, ma anche alla Germania che hanno effettivamente intrapreso percorsi molto interessanti. Per esempio, a Berlino hanno iniziato un programma che hanno chiamato «Hayat», che in arabo e in turco vuol dire «vita» e che viene adottato dal Ministero anche a livello federale.
  Guardando a queste esperienze europee risparmieremmo molto tempo, poiché nel comprendere i punti di debolezza e di criticità dei questi programmi, potremmo poi attuarli e applicarli in Italia, invece di cominciare da zero. Come hanno sottolineato anche i docenti intervenuti, ci sono delle ricerche molto interessanti a livello accademico, che, però, rimangono ricerche dell'università, mentre avrebbero bisogno di essere attuate e applicate sul terreno.

  FOSCA NOMIS, rappresentante di Save the Children Italia. Ringrazio per l'invito e per l'opportunità di contribuire con le nostre riflessioni. Mi avvantaggio di intervenire come ultima perché molte cose sono già state dette in maniera puntuale e precisa.
  Ci tengo a ritornare, però, sul tema del titolo per sostenere il fatto, evidenziato quasi da tutti, che, forse, sarebbe necessaria una revisione al fine di non dare una caratterizzazione con il termine «jihadista». Sostengo la necessità, invece, di inserire la parola «violento» perché la radicalizzazione, ovvero un pensiero radicale, non è di per sé sbagliato.
  Come dico sempre, anche il voto alle donne era considerato un pensiero radicale in altri tempi. Nello specifico, invece, ci si riferisce a quando la radicalizzazione e l'estremismo si trasformano in atti violenti. Quindi, senza voler snaturare la legge, penso che la proposta indichi un aspetto importante.
  Voglio cogliere, poi, la trama della prevenzione, quindi affrontare il tema non solo in modo securitario per cercare di intervenire prima e in particolare, ovviamente, con i ragazzi e i giovani, di cui ci occupiamo, sapendo che là dove ci sono situazioni di marginalità o di difficoltà ci può essere terreno fertile per forme di estremismo che possono assumere caratteristiche diverse. Lo abbiamo visto in altre parti d'Europa e forse possono arrivare anche da noi, sebbene con un po’ di ritardo.
  È, quindi, positiva la questione della prevenzione educativa, che ha una dimensione importante nel rapporto di fiducia – lo voglio sottolineare – ovvero in quel meccanismo di fiducia, appunto, che si riesce a creare fra i giovani, le famiglie, la scuola e le comunità che poi consente effettivamente di far emergere anche situazioni di difficoltà.
  Non dobbiamo immaginare modelli che abbiamo visto non funzionare in altri Paesi, modelli in cui la famiglia, per esempio, si deve rivolgere alla polizia quando il proprio figlio o la propria figlia si comporta in maniera diversa dal solito. Ecco, questo modello non ha funzionato. Allora, possiamo imparare da quei luoghi dove non hanno funzionato, immaginando i modelli diversi in cui, come veniva detto, anche la società civile può giocare un ruolo di amalgama fra soggetti e realtà diverse.
  Vediamo la scuola in questo contesto. Il fatto che «gli uffici scolastici regionali possono segnalare alle questure soggetti che possano essere ricondotti al fenomeno di cui alla presente legge anche al di fuori di Pag. 31rischi concreti di commissione di reato» ci preoccupa e probabilmente non funzionerà perché è difficile che ci siano delle denunce da parte di familiari o degli insegnanti di situazioni che si rivelano di criticità.
  Forse è più opportuno che siano altri i soggetti a cui rivolgersi, come i servizi sociali o anche il tribunale dei minori, nel caso in cui si rilevi, appunto, una situazione di criticità.
  Insomma, come si diceva poc'anzi, bisogna provare a immaginare un approccio – soprattutto quando non siamo ancora nella fase securitaria, ma ancora in quella preventiva – con un sistema di relazioni e meccanismi di condivisione delle responsabilità sul territorio che in altri contesti già funzionano.
  Nel nord Europa, per esempio, ci sono dei meccanismi per cui si ha un sistema di coordinamento che vede insieme non solo le forze dell'ordine, ma anche i servizi sociali, le scuole e le associazioni del territorio, per cui nel momento in cui si rilevano situazioni di criticità per i ragazzi, queste vengono segnalate in maniera interdisciplinare e si affronta il caso, che spesso non riguarda solo i ragazzi, ma anche la famiglia e il contesto, dato che è un fenomeno più ampio, cercando di trovare delle risposte adeguate da diversi punti di vista.
  L'ultimo tema che ci tengo a sottolineare è stato già ripreso ed è quello delle contronarrative prodotte dai giovani. Si tratta, cioè, di valorizzare la comunicazione, con un ruolo proattivo e di protagonismo dei giovani su questi temi, immaginandoli non solo destinatari e beneficiari di iniziative di supporto all'intervento sociale. Bisogna, viceversa, immaginare che i giovani possano essere coinvolti attivamente a 360 gradi ed essere promotori di contronarrative, di iniziative e di riflessioni per essere loro stessi parte di un cambiamento che tutti auspichiamo.

  PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che desiderino intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  BARBARA POLLASTRINI. Avrei una considerazione da fare più che porre una domanda. Innanzitutto, vorrei ringraziare molto gli studiosi, gli scrittori e esponenti delle comunità e delle associazioni che ci hanno regalato questa ora di apprendimento.
  A questo proposito avrei una richiesta. Nei limiti del possibile, vorrei chiedere ai nostri interlocutori di farci avere anche soltanto degli appunti, per chi non avesse scritto per intero la propria relazione.
  In questo caso, intervengo, più che per farvi delle domande, per confessarvi pubblicamente che sono la relatrice di questo provvedimento e che ho accettato questo onere molto in punta di piedi e con l'umiltà del caso, sapendo che si tratta – come mi sembra abbiano dimostrato i vostri interventi, con le loro evidenti differenze, che è anche il bello della questione – di una materia che, almeno da parte mia, meriterà un serio approfondimento.
  Devo ai nostri interlocutori un'opinione pubblica in questa sede, quindi dico che penso che la proposta di legge a prima firma Dambruoso sia un'occasione molto importante che ci viene offerta per arrivare a un traguardo che mi auguro il più possibile condiviso in Parlamento – lavorerò per questo – per mettere un tassello, ovvero uno spicchio dell'arancia, di un tema che non è, come lo definiscono alcuni, un fenomeno.
  Secondo me, non è, appunto, un fenomeno bensì la condizione in cui siamo immersi in un mondo nuovo, in un passaggio d'epoca. Dobbiamo, dunque, capire come si costruiscono, anche con una o più proposte legislative – poi vengo al punto, che è anche una domanda – da parte del Parlamento, le regole (perché di questo si tratta) per un rispetto condiviso della legalità.
  Ad alcuni non è piaciuto – come si diceva in un intervento precedente – il tema del dialogo. Lo diceva anche il professor Melloni in altre maniere. Si tratta di vedere come si costruisce una condivisione in una società attraversata da molte differenze, in cui una differenza può diventare non più tale, bensì un pensiero radicale che va oltre e che contrasta con la possibilità Pag. 32stessa della condivisione e della convivenza.
  Non devo dirvelo io che non è un tema facile o banale. Da quello che ho capito, avendola letta e avendo ascoltato voi e altri preziosissimi interlocutori prima di voi, la proposta di legge Dambruoso si propone di compiere un passo in avanti, che però non può essere l'unico.
  Secondo me, avendovi ascoltato oggi, avrà molto senso se nell'orizzonte dei compiti del Parlamento – che, purtroppo, è ravvicinato – la proposta si inserisca in un impegno più ampio.
  So che il richiamo del professor Melloni alla legge sulla libertà religiosa non è condiviso da tutti come il primo degli impegni, ma io lo ritengo, invece, decisivo o quantomeno ritengo che quella sia una delle inadempienze più grandi di questo Parlamento. Oggi, infatti, leggendo il tempo in cui viviamo, la sua rimozione ci appare in tutta la sua gravità.
  Detto questo, mentre ci si avvicina all'obiettivo ambizioso e in un certo senso tardivo del Parlamento, voglio proporre un tema che nessuno di voi ha proposto. Con tutte le correzioni – ho sentito molte criticità e saremmo cattivi legislatori se non le ascoltassimo per migliorare le cose – e benché io sia per la libertà religiosa, nelle condizioni date, in questo testo di legge si potrebbe prevedere la costruzione di intese con quelle parti del mondo e delle comunità già disponibili a intraprenderle. Diversamente, ogni proposta legislativa che possiamo fare è sempre a metà, sempre parziale e si ferma un momento prima.
  Sono d'accordo che tutto sia migliorabile. Mi ha colpito, ad esempio, l'osservazione di Carlo Panella, che altri hanno proposto anche nella precedente audizione in altro modo, che propone di distinguere nella nostra proposta legislativa in modo più netto i compiti che deve avere un osservatorio (lo chiamo così: se è questo che voleva dire, sono d'accordo), che dovrebbe fare, appunto, prevenzione, ma non burocraticamente o perché non si renda conto che è necessaria sempre una visione di insieme e cooperativa nell'agire.
  Si dovrebbe, cioè, distinguere in modo più scientifico, attingendo anche alle discipline, alle esperienze delle università e dei centri di ricerca migliori, alle buone pratiche e così via, come si manifesta – se esiste questo dato in Italia – questo fenomeno e con quali specificità.
  Si dovrebbe anche capire se esiste davvero e non perché lo leggiamo in un articolo ogni tanto, anche rispetto ad altri Paesi europei, quindi cosa c'è di comune con altri Paesi europei e cosa che c'è di specifico in Italia. Penso, in particolare, alle condizioni del carcere in Italia, che ha, appunto, delle sue peculiarità e una sua storia, come anche in altri Paesi.
  Occorrerebbe vedere cosa c'è in Italia, anche per come è urbanizzata, quindi quali sono le potenziali banlieue italiane e qual è la prevenzione. Insomma, andiamo a vedere davvero dove può esserci questo rischio, senza dare un'interpretazione mediatico-giornalistica à la carte, a seconda del momento.
  Dobbiamo anche vedere qual è la formazione e cosa prevedono le discipline universitarie e scolastiche italiane. Si chiede tantissimo agli insegnanti, ma contemporaneamente non si riconoscono alcune discipline basilari per intraprendere la strada del mondo nuovo in cui siamo immessi.
  Presidente, sarebbe interessante avere un ritorno con gli auditi ora presenti e con gli altri esperti ascoltati.
  Stamani, gli esperti che abbiamo ascoltato, essenziali per la loro collocazione nelle grandi istituzioni italiane (forze dell'ordine, ministeri), chiedevano il massimo della cooperazione, lo sguardo il più possibile interdisciplinare e sollecitavano di accelerare su questa proposta di legge seppur correggendone delle criticità e così via.
  Oggi, da personalità altrettanto importanti per noi, ci viene la richiesta di approfondire alcuni temi, a partire dal titolo. Come ci insegnerebbe De Mauro, il titolo, ovvero il linguaggio, è in sé una rappresentazione di come vediamo la società italiana, quindi la correzione sul titolo o la riflessione sul linguaggio non sono una banalità.
  Come avete capito la mia è una disponibilità a un grande ascolto e la richiesta al Pag. 33vostro sapere e alla vostra esperienza affinché ci sia la massima collaborazione quando entreremo sempre più da vicino nella materia, che è complicata.
  Obiettivamente, è solo un tassello all'interno di quello che dovrebbe essere un programma preventivo e d'azione molto più grande. Non va bene, infatti, fare una legge se non è coerente con altri provvedimenti. Tuttavia, allo stesso tempo non va bene – lo voglio dire – fermarci se non si ha innanzi a noi l'intera coerenza.
  Per quanto mi riguarda, già nelle passate legislature avrei ritenuto utilissimo avere la legge sulla libertà religiosa, quindi chiedo a voi se non sia possibile procedere anche prevedendo delle intese in questa legge.
  Noi stessi dobbiamo rivolgerci al Governo e ai ministeri perché chiariscano maggiormente quali possono essere i compiti e le funzioni di un osservatorio e dei tavoli aperti presso il Ministero dell'interno, nonché i compiti e le osservazioni delle responsabilità legate alla prevenzione e alla sicurezza. È evidente, del resto, che si tratta di una materia interdisciplinare. Parliamo di carceri, di giustizia, di scuola, di università e di ricerca, di internet e controcampagne positive, tutte cose che riguardano le competenze diversi ministeri.
  Per quello che mi riguarda vi ringrazio molto e vi chiedo, proprio per ascoltarvi ancora meglio, se è possibile che ci consegniate qualcosa di scritto. La riflessione dovrà essere molto seria, ma non per questo non accelerata nei suoi tempi.

  MARILENA FABBRI. Anch'io ringrazio per le relazioni di questa mattina, particolarmente interessanti e significative. Faccio mie tutte le osservazioni e considerazioni della collega Pollastrini.
  Approfitto, invece, della vostra presenza per porre una questione. Oggi si diceva che questo è un settore nel quale si interviene con una proposta di legge in cui si danno ulteriori strumenti. Insomma, è uno dei tanti mezzi attraverso i quali agire per prevenire il radicalismo e l'estremismo in questo caso religiosi. Vi chiedo, quindi, se riteniate che tra gli strumenti che potrebbero intervenire positivamente, e quindi agevolare la prevenzione, vi sia anche la nuova legge sulla cittadinanza.
  Senza chiedervi di dilungarvi, perché sarebbe un altro grosso tema, vi chiedo se l'agevolare l'acquisizione della cittadinanza delle nuove generazioni possa agire positivamente su un'integrazione e una prevenzione anche del radicalismo, o sarebbe comunque un elemento neutro, considerato che, come abbiamo visto, molti degli atti terroristici che abbiamo registrato in Europa sono stati compiuti da cittadini europei.
  Sapendo perfettamente che i fattori sono tanti, mi chiedo se questo potrebbe agire positivamente o, invece, giocherebbe in modo neutro perché, appunto, i fattori sono ben altri e ben più complessi.

  PRESIDENTE. Vorrei aggiungere un altro paio di domande. La prima riguarda le intese.
  È un tema che abbiamo discusso molte volte. Personalmente, ho promosso uno specifico convegno sul tema delle intese con l'islam, proprio perché la legge sulla libertà religiosa – che sarebbe il passo fondamentale per risolvere una serie di problemi – si è dimostrata un tema molto complesso politicamente. Da un punto di vista non di mio gusto ma pragmatico, credo, dunque, che sia forse un tema troppo complesso e difficile da raggiungere rispetto alla possibilità di arrivare a gestire quello delle intese, anche per alcuni posizionamenti all'interno del Parlamento.
  È, pertanto, un tema strettamente politico. Condivido quello che è stato detto, cioè che sarebbe un passaggio fondamentale, ma penso anche che ci debbano essere le condizioni e che oggi, politicamente, sia molto complesso arrivarci. Questo è il problema fondamentale del momento.
  Ora, anche ricollegandomi a quello che ha chiesto la relatrice Pollastrini, è evidente che in astratto sono possibili intese parziali. Per esempio, quest'anno abbiamo concluso una seconda intesa con una confessione buddista e ne era stata conclusa un'altra precedentemente. Insomma, in astratto, è sicuramente possibile concludere intese distinte, anche con diversi mondi. Pag. 34
  La difficoltà sulla quale mi piacerebbe avere un commento è, invece, questa. Oggi, esiste un tema sociale e politico in questo Paese e in Europa, quello del collegamento tra islam e fondamentalismo, nella testa di alcune persone e di una serie di movimenti politici, con molte semplificazioni. Ecco, non si ritiene che fare delle intese con alcuni e non con altri potrebbe portare immediatamente a distinguere tra i bravi e i «fuorilegge»?
  Ovviamente, un Paese organizzato, attraverso la pubblica sicurezza, deve distinguere i bravi dai pericolosi, ma probabilmente non sulla base del fatto che abbiano o meno concluso un accordo con lo Stato in cui si trovano.
  La mia difficoltà su un tema di questo tipo, su cui mi piacerebbe un commento, è che se una delle confessioni raggiunge un accordo e l'altra no si rischia di avere l'effetto opposto sulla radicalizzazione, per cui chi non ha concluso l'intesa, per qualsiasi motivo, si veda immediatamente qualificato come il soggetto pericoloso e magari allontanato.
  La seconda domanda è rivolta specificamente a chi rappresenta le comunità islamiche. A questo proposito, Carlo Panella citava l'esempio francese del riconoscimento dei valori costituzionali in Francia. Ora, è evidente che affinché si arrivi, in primo luogo, all'intesa e poi anche a un'integrazione reale, dal punto di vista italiano non c'è trattativa sui valori costituzionali, ovvero quelli della prima parte della nostra Costituzione, che fissano i diritti fondamentali. Non può esistere un negoziato sull'intesa. Sono princìpi consolidati nella Costituzione, sui quali non esiste – ripeto – possibilità di transigere.
  Mi interesserebbe sapere se nella vostra esperienza o nella vostra opinione esiste un problema nel sottoscrivere intese così drastiche. Il tema si è posto e si pone continuamente nelle discussioni pubbliche. È chiaro, quindi, che è il punto chiave per arrivare a un'intesa.
  Per concludere, è ovvio che abbiamo – come diceva Carlo Panella – delle esternazioni estremamente brutali sul tema del divorzio o su altri diritti da parte di rappresentanti di altre confessioni, compresa quella cattolica. Aggiungerei che il divorzio non è riconosciuto direttamente dalla Costituzione. Ci è voluta una lunga battaglia politica e un percorso per arrivarci. È evidente, però, che l'accettazione delle intese per lo Stato passa per un'assenza di incertezze su questo. Siccome in passato si sono posti dei temi in questo senso, mi interessa avere un quadro di come vedete le cose adesso.
  Do la parola ai nostri ospiti per la loro replica, a partire dall'avvocato Luca Bauccio.

  LUCA BAUCCIO, avvocato. Presidente, la prima volta che ho visto la bozza di intesa tra la comunità musulmana e lo Stato italiano era il 1997, poi nel 1998, nel 1999 e così via, ma siamo arrivati ad oggi e non c'è un'intesa. Nel frattempo, tantissime confessioni religiose hanno siglato l'intesa.
  Penso che questa sia un'urgenza per il nostro Paese e, ovviamente, per la comunità di riferimento. Negli anni, visti i ripetuti fallimenti, mi sono convinto che il modo migliore per evitare questo stallo fosse quello di abbandonare l'idea di un'intesa e di affrontare, una volta per tutte, la questione di una legge sulle libertà religiose. In questo modo, infatti, lo statuto del credente musulmano in Italia verrà definito con delle regole generali e si supera il problema.
  A parte tutte le vicende che hanno complicato enormemente la percezione della presenza musulmana in Italia e in Europa, cioè le Torri Gemelle e così via, il problema principale – almeno quello formalmente utilizzato – è che la comunità musulmana non abbia un referente unitario.
  Credo, però, che questa osservazione non sia niente di più che la constatazione di una peculiarità. Come giuristi, come parlamentari e come legislatori ci dobbiamo porre di fronte a questo dato di fatto intrinseco alla natura della religione musulmana, ovvero che non ha un papa, né delle gerarchie, né un ordine ecclesiastico. Possiamo, dunque, prenderne atto e trovare una soluzione. La più semplice è quella che lo Stato italiano scelga ed elegga un Pag. 35proprio interlocutore, cosa che può fare discrezionalmente, utilizzando dei parametri ragionevoli: le organizzazioni più antiche, quelle più accreditate, quelle più radicate, quelle più riconosciute. Ecco, questi diventano interlocutori dello Stato italiano e si fa l'intesa con quella o quelle associazioni.
  Altrimenti, ripetere continuamente che non c'è un papa o un ordine rischia di diventare un alibi sterile. Sappiamo che l'islam è fatto così. Se non vogliamo affrontare questo problema, allora dobbiamo scavalcarlo del tutto, pensando a una legge sulle libertà religiose.
  Personalmente – concludo – ho sempre creduto che, in un Paese che sigla, com'è giusto che sia, accordi con le confessioni più disparate, a volte minoritarie, non è una bella performance non riuscire a siglare un'intesa con la più grande comunità religiosa di minoranza di questo stesso Paese.
  La soluzione al problema dichiarato c'è, ed è anche molto semplice. Lo Stato sceglie il proprio o i propri interlocutori, detta delle condizioni, si dà dei tempi e sigla l'intesa. La bozza, peraltro, esiste già. Quest'intesa permetterebbe di affrontare e risolvere tante questioni, a cominciare da quella che trovo più scandalosa, ovvero l'assenza in gran parte del nostro Paese di luoghi di culto per i musulmani. Il nord Italia è praticamente privo di luoghi di culto, tranne casi minimi, che si contano sulle dita di una mano. Ecco, questo non è accettabile.
  Manca un orientamento, quindi i comuni sono di fronte alla difficoltà di affrontare da soli la questione, anche perché hanno delle opinioni pubbliche che, ovviamente, seguono la tendenza del momento. Non è facile per un amministratore imporre, da solo, un linguaggio nuovo. Diverso sarebbe se questo discendesse, invece, da un'intesa o da una legge.

  VALENTINA COLOMBO, ricercatrice di storia dei Paesi islamici presso l'Università europea di Roma. Riprendo anch'io la tematica dell'intesa, che mi sta molto a cuore. Condivido il fatto che, quando si parla di islam, si può parlare solo di intese – non di singola intesa – per quanto detto precedentemente.
  Nel momento in cui si parla di intese, ci deve essere, però, la consapevolezza che non andiamo a siglare intese con il cosiddetto islam organizzato – che sia UCOII, COREIS o altro – bensì andiamo a dialogare e ad avere come referente o referenti istituzionali delle realtà che rappresentano un certo tipo di percorso e quindi di islam.
  A me, però, preme – proprio perché gli argomenti di cui parliamo oggi sono radicalizzazione, inclusione e non marginalizzazione – sottolineare che dobbiamo essere consapevoli che le intese non sono di certo «la» soluzione, o comunque l'unica soluzione, alla radicalizzazione. Infatti, siglando un'intesa o delle intese creiamo, ovviamente, degli esclusi. Dunque, siglando delle intese con l'islam organizzato, escludiamo la gran parte dei musulmani che non sono praticanti o non si riconoscono nelle suddette organizzazioni.
  Se oggi il discorso chiave – questa mattina questi termini sono ricorsi molto spesso – è includere, non marginalizzare e così via, credo che la sfida sia proprio quella di avere uno Stato che, forse non attraverso il Ministero dell'interno, bensì tramite il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca o altre istituzioni, coinvolga e abbia sempre più come referente la società civile che fa riferimento a questo mondo e che è ricchissima di associazioni sul territorio.
  Occorre, quindi, siglare delle intese al plurale, ma anche includere quella grande fetta di popolazione musulmana che risiede nel nostro Paese e che si riconosce in associazioni culturali o semplicemente in altro, affinché si senta parte e si senta ascoltata dalle istituzioni.

  MARIA CHIARA GIORDA, professoressa presso la scuola di lettere e beni culturali dell'Università di Bologna. Anch'io ho una riflessione da fare sull'intesa (o le intese) e sulla legge sulla libertà religiosa (o sulle libertà religiose). Non credo, infatti, che si debbano mettere in relazione di aut aut, ma ritengo che ci sia un rapporto intrinseco tra i due processi. Credo, comunque, siano percorsi estremamente complicati. Pag. 36
  L'avvocato Bauccio citava tutte le volte in cui, a partire dagli anni Novanta, ha visto che si stavano per firmare delle intese. Lo stesso si potrebbe dire dei testi delle leggi sulla libertà religiosa che sono stati via via presentati, discussi e mai approvati.
  Anch'io, dunque, sono dell'idea che la battaglia per una legge sulla libertà religiosa non debba affatto essere abbandonata e debba essere frutto del nostro lavoro, di pari passo con quello sull'intesa.
  Mi permetto di aggiungere che, purtroppo, in questo senso la Costituzione purtroppo non ci aiuta. Credo che l'ambiguità di fondo degli articoli 7 e 8, nel loro combinato e nel loro aver creato delle velocità differenti rispetto al rapporto delle religioni con lo Stato, non sia agevolante per questo lavoro.
  Rispetto all'intesa o alle intese, che lascio ancora nel dubbio, in particolare con l'islam, vorrei citare un caso che reputo potrebbe non dico diventare di ispirazione perché trasportabile sul livello nazionale, ma aiutarci a riflettere sui temi di cui siamo discutendo oggi. Mi riferisco al caso di Torino.
  Torino è una città che quasi un anno fa ha messo assieme, con grande difficoltà, tutti i rappresentanti delle associazioni – sono 17 quelle islamiche della città, solo di culto – per un processo di dialogo con l'istituzione della città per arrivare a far firmare un patto di cittadinanza a tutti i rappresentanti.
  Ora, è chiaro che l'Italia non è Torino e che i numeri sono molto diversi. Tuttavia, credo che, sempre nella prospettiva di cui parlavo, ovvero di conoscenza delle pratiche del territorio e locali, questo potrebbe essere un punto di partenza, quindi un modello vincente.
  Vi assicuro che è un esempio virtuoso che va analizzato e studiato quello di vedere confrontarsi certi rappresentanti di istituzioni abituati non solo a discutere, ma anche a litigare con violenza.

  ALBERTO MELLONI, segretario della fondazione per le scienze religiose di Bologna e titolare della cattedra Unesco di pluralismo religioso e la pace dell'Università di Bologna. Ho poche osservazioni sulla tematica delle intese.
  Qualche mese fa, al Senato, alla presenza del Capo dello Stato mi sono permesso di «sparare a palle incatenate» sull'idea che l'unico modo di esprimere la libertà sia quello di fare delle intese, («che Pantalone cacci del denaro, dei diritti e qualche tonaca di qualche foggia o colore diverso, se li piglia»).
  Insomma, dobbiamo uscire da quest'idea che l'unica forma di libertà sia l'intesa, altrimenti finiremo per cadere in circoli viziosi pazzeschi. Del resto, i cristiani hanno moltissime intese. Nessuno, però, ha mai detto al papa, prima di fare un concordato, che avrebbe dovuto baciare una pastora valdese. Nessuno ha mai detto alla chiesa ortodossa, prima di fare un'intesa, che avrebbero dovuto diventare tutti anabattisti. Nessuno ha mai pensato cose di questo genere.
  L'articolo 8 – difesa d'ufficio di Giuseppe Dossetti – ha un simpatico plurale che abbiamo sempre sottovalutato: «le relative rappresentanze». Non domanda a nessuno di accertare il fatto che la sua rappresentanza sia onnicomprensiva, totalitaria e così via. Altrimenti, faremmo il concordato con i monoteisti e avremmo chiuso la partita una volta per tutte: facciamo un bel concordato nel nome di Abramo e chi s'è visto, s'è visto.
  Alla fine, un concordato in nome di Abramo è la legge sulla libertà religiosa, ovvero quella che definisce lo spazio di libertà. Da questo punto di vista, nel concreto, non ci vedrei nulla di male se un provvedimento di questo genere (nell'articolo 1, in preambolo o nel posto che pensate) dicesse che questo è un Paese nel quale nessuno ha paura di nessuna fede e nel quale a nessuna fede si domanda quello che non viene e non deve essere domandato alle fedi.
  Non c'è nessuna buona ragione al mondo per cui si chieda a Yahya Pallavicini di dissociarsi dai delitti compiuti da alcuni suoi correligionari, mentre al parroco del suo quartiere non si domanda di dissociarsi dai delitti compiuti dai suoi correligionari. Questa logica di discriminazione sottile e alla fine pelosa è quella che, secondo Pag. 37 me, mette in discussione anche iniziative come i patti di cittadinanza o le carte dei valori.
  Ci sono intere tifoserie calcistiche a cui domanderei di sottoscrivere i valori costituzionali perché non li vedo particolarmente rispettati e applicati. Non si vede, allora, perché debba prendere un'esperienza di fede come una ragione per domandare a qualcuno cose che non domando a un altro.
  La logica repubblicana, secondo l'articolo 3, è quella di rimuovere gli ostacoli che di fatto – come diceva Teresa Mattei – si frappongono. Ecco, sappiamo che ci sono degli ostacoli che, di fatto, oggi si frappongono in certe circostanze.
  Ebbene, questi ostacoli sono uno dei fattori che spinge ragazzini e ragazzine dentro il tunnel del fondamentalismo religioso, esattamente come li spinge in altri tipi di tunnel, non meno nocivi per loro, che sono quelli della cocaina o di qualsiasi altro aggeggio che ci possa essere.
  Da questo punto di vista, lo Stato deciderà se, quando e come vuole fare le intese, e con chi, quando e come vuole, ma ciò non toglie che ci sono esigenze di libertà, anche perché, ma non vorrei mettervi sull'avviso su questo, io – come si dice dalle mie parti, sono reggiano – mangio un rospo se la Chiesa cattolica romana non si mette di traverso rispetto alla logica di domandare delle cose ai musulmani che lei giustamente teme che poi verranno chieste a lei da qualche altra parte.
  La difesa della libertà religiosa che ha fatto il cattolicesimo romano quando ha capito che non era un cattivo affare, è stata una difesa con quella cosa formidabile che Casaroli chiamava il «cinismo lungimirante», cioè sapere che quello che fai da una parte poi te lo fanno a te da un'altra. Allora, è meglio essere tranquilli e cauti.
  Gli strumenti che noi abbiamo oggi per favorire i princìpi costituzionali di tutela delle libertà religiose non sono strumenti di tipo vessatorio e di tipo securitario. Lo Stato italiano ha fatto un concordato con la Chiesa cattolica, senza domandare che venissero fatte vescovo le donne. Non riteniamo il fatto che questo livello di regolazione interna della comunità violi un principio che pone invece un principio fondamentale e sacrosanto che terremo in discussione.
  Allo stesso modo, rispetto a quelle che sono le altre comunità di fede, dobbiamo fare delle cose su questo. E su questo mi raccomanderei rispetto all'attuale wording della proposta di legge: ci sono molti strumenti e molte cose che sono già in attività e che vengono già fatte.
  Io continuo a insistere sulla questione del decreto del Presidente della Repubblica n. 19 del 2016 perché mi sembra una cosa enorme. Noi abbiamo stabilito, con un decreto del Presidente della Repubblica di questo Paese, che un laureato in ebraistica, a parità di crediti, venga discriminato nell'insegnare lettere rispetto a un laureato in antropologia o un laureato in lettere classiche. Se voi ci mettete l'ebraistica vi rendete conto che la cosa ha un saporino trentottesco terribile e nauseabondo. Però, rispetto a questo non siamo riusciti ad ottenere nessun tipo di reazione, e questo dice qualcosa sul fatto che l'ostacolo che abbiamo è quello di una scarsezza di conoscenze e di strumenti. Ci sono strumenti ordinari del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca che possono essere favorevolmente applicati in questo contesto. Lì c'è un problema, rispetto a quello che diceva prima l'onorevole Barbara Pollastrini, di equilibrio delle cose.
  Noi abbiamo, come è ovvio che sia, delle concorrenze fra le amministrazioni. Guai al mondo se questo diventasse un problema prima di tutto della polizia o che si tenti di trasformare gli uffici scolastici regionali in subordinate dei poliziotti. Su questo – e finisco subito – l'anno prossimo, in occasione del G7 (ci saranno due G7, un G7 Education e un G7 Science), uno dei side event del G7 Education sarà sulla questione del secondo miglio, del dialogo fra le fedi e della pace fra le culture, che sono le due cose che noi mettiamo normalmente in mezzo a questo aspetto dell'interculturale, multiculturale, pluriculturale in cui facciamo un grande frullato di genericità.

  KARIMA MOUAL, scrittrice. Mi sento di aggiungere poco per quanto riguarda il Pag. 38tema delle intese. Sicuramente andare oltre alla proposta di fare un'intesa con chi, quando e come sarebbe di certo opportuno, perché i tempi sono più che maturi.
  Quello che mi sento di approfondire è la questione della domanda sulla cittadinanza, dunque ritorno al tema di questo nostro incontro, la radicalizzazione. La Francia, come abbiamo detto anche prima, non è l'Italia. Che ci siano dei ragazzi giovani votati alla jihad con cittadinanza e passaporto francese non significa nulla.
  Non può essere oggi un ostacolo la legge sulla cittadinanza per quanto riguarda il nostro Paese, proprio perché le seconde generazioni in questo Paese hanno una storia tutta diversa da quella francese. Provengono dal Marocco, con un'emigrazione diversa, e forse proprio il fatto che la legge sulla cittadinanza non viene ancora portata a termine è un vero e proprio ostacolo all'integrazione, senza andare a parlare di radicalizzazione. È tuttavia evidente che tutti questi giovani ancora non riconosciuti come parte integrante di questo Paese non è che da grandi abbiano un bel rapporto con questo Paese.
  Quindi, è un dato di rischio e io lo valuterei attentamente anche per quanto riguarda un tipo di alienazione e un tipo di sentimento non buono per quanto riguarda la convivenza e l'integrazione in questo Paese.

  CARLO PANELLA, scrittore. Vorrei riportare all'occasione di questa discussione, altrimenti ci perdiamo. Qui c'è un'emergenza. Noi non saremmo qui a discutere di cose che mi interessano molto e che seguo dal 1978 se non avessimo uno stimolo che ci viene da questa legge perché c'è un'emergenza, ed è un'emergenza jihadista. Non c'è un'emergenza della Zengakuren giapponese o dei cinesi o dei terribili induisti, che sono spaventosi! Non c'è quello. Siate veramente attenti, perché quanto fa il legislatore in questo momento ha una conseguenza politica spaventosa.
  Se non mettiamo il termine «jihadismo» in questa legge, noi lavoriamo per un populismo xenofobo. Questo è nella percezione di tutti: c'è un pericolo jihadista e io definisco «jihadismo» – accetto qualsiasi discussione – una prassi di violenza progettata, attuata per perseguire obiettivi strategici per imporre il governo islamico. Questo è il jihadismo. Il jihadismo non è una violenza islamica. Il jihadismo è questo: lottare per il governo islamico utilizzando delle forme di violenza, in particolare la Shahada e il martirio kamikaze. Questo è il jihadismo.

  GIOVANNI CUPERLO. La lettura occidentale è questa.

  CARLO PANELLA, scrittore. No, loro. Quello che loro teorizzano. Tutti i loro ideologi fanno una proposta di lotta violenta, armata, contro il governo del faraone, contro il governo illegittimo, per imporre il governo dell'Islam. Poi si passa attraverso quello che secondo me è un secondo scisma, che è quello del martirio, cioè non più del martirio subito, ma del martirio suicida, peraltro proibito da larga parte dell'Islam, ma che ormai oggi, invece, violando i princìpi dell'Islam, è diventato una prassi costante. Non più il martire che, figurarsi, è comune a tutti. Noi non abbiamo i martiri di fronte; abbiamo i martiri kamikaze, cioè i martiri suicidi che peraltro violano – e vi posso citare molti grandi studiosi, compreso Fadlallah, fino al 1935 – un principio fondamentale dell'Islam.
  È condannato il martirio kamikaze, per esempio, da al-Albani – e lo dice chiaramente – perché passa volutamente e scientemente attraverso il suicidio. Quindi, guai a Dio per favore nel togliere questa definizione, soprattutto per motivi di opportunità politica. Quanto fa questa Commissione o quanto fa questo Parlamento, in questo momento, è estremamente sensibile nel Paese.
  Detto questo, è evidente – e mi ha fatto piacere constatarlo, perché è la mia attività, ormai il giornalismo non c'è più perché non abbiamo più giornali, quindi non vi è più il complemento oggetto – che qui si parla di una cosa fondamentale di cui devono essere coscienti questa Commissione e questo Parlamento: il lavoro attorno a questa legge è un lavoro fondamentale per la formazione dell'Islam italiano. Pag. 39Come al solito succede in Italia, attraverso un'emergenza, cioè difenderci dai cattivi, dal jihadismo eccetera, si arriva poi a capire che c'è una enorme questione politica, cioè la formazione di un Islam in Italia, come si deve favorire la formazione di un Islam italiano che sia un Islam che congiunga le tradizioni nostre, culturali eccetera, alle tradizioni di larga parte dei musulmani ospiti del nostro Paese, ma anche a una tradizione islamica naturale, come ad esempio rappresenta largamente il CO.RE.IS.
  Quindi, l'apertura del discorso delle intese. Su questo voglio essere estremamente chiaro, dando per scontato che – figurarsi – perché se ci sono, come diceva adesso Melloni, sette intese con le Chiese cristiane, due intese con i buddisti (ditemi quanti sono i buddisti praticanti in Italia, per favore), non si possono fare due o tre intese con i musulmani? È una scusa del Ministero dell'interno, che però passa da un elemento: la prima intesa salta perché l'UCOII pretendeva che venisse inserita nell'intesa la citazione dei princìpi del diritto shariatico. Per questo salta l'intesa tentata da Pisanu nel 2006.
  La Carta dei valori tentata per aggirare questo strumento dell'intesa dal Ministro dell'interno Giuliano Amato salta perché l'UCOII si rifiuta di firmarla. E perché succede questo? Non mi interessa la polemica con l'UCOII e per questo vi ho portato i testi dell'UCOII. Succede questo perché l'UCOII rappresenta l'Islam politico; perché l'UCOII è un'organizzazione che apertamente – in televisione non lo si capisce, ma leggetevi questo Corano, leggetevi questi miei appunti – confonde e fonde (e non è strano all'interno dell'Islam) la fede e la politica.
  Ad esempio, la Confederazione islamica, che è molto più grande dell'UCOII e che in questi giorni sta preparando le carte per l'intesa, fa una distinzione nettissima tra la fede e la politica. La COREIS si guarda bene dal confondere i due elementi.
  Ma quando io leggo (scusate, ma la cosa è interessante) la condizione dei cittadini non musulmani in uno Stato retto dalla legge islamica – per cui lotta l'UCOII legittimamente – è quella di dhimmi, «protetti», essendo esentati dalla zakat, la decima, essi sono sottoposti alla jizya, l'imposta di protezione: quando io leggo questo, devo capire, quando l'UCOII mi chiederà di fare l'intesa, come Stato che cosa rispondere.
  E non c'entra, presidente, il diritto del divorzio. Nella frase che ho citato prima, è ben diverso. Se la moglie non si sentisse di continuare la convivenza matrimoniale, può ottenere il divorzio – è ovvio, è scontato – offrendo al marito una compensazione materiale: è una liberta!
  Allora, io non intervengo su questo. Sono molto favorevole al fatto che si faccia un'intesa separata con l'UCOII. Un'intesa separata con l'UCOII vuol dire una cosa molto semplice: l'8 per mille. Vuol dire l'8 per mille! Se si fa un'intesa separata con l'UCOII, questa Commissione deve prendere il Corano della Newton Compton. Io do delle indicazioni: leggete il commento di Hamza Piccardo sotto la sorveglianza dottrinale dell'UCOII stessa.
  Detto questo, aggiungo una cosa che mi ero dimenticato di dire. Ho fatto un lungo papello, un lungo documento. All'interno della mia visione le cose si tengono: io sono favorevole ad un'intesa, sono favorevole che si faccia un rapporto diretto con Tunisia e con Marocco per la cura dei detenuti, e naturalmente anche con la Danimarca e con altri, ma chi meglio della Tunisia e del Marocco sta lavorando su questo e ci dà questa occasione? Sono favorevole – e ho bisogno dell'aiuto del Parlamento – perché si metta dentro la convenzione con la RAI il fatto che si faccia questo portale in arabo, che utilizzi i migliori. Vi do una notizia, che forse qualcuno di voi conosce già: sto lavorando per fondare in Italia una Facoltà di scienze islamiche, insieme all'amico Redouane e ad altri.
  Sto facendo questo perché sono convinto che gli Imam debbano essere formati in Italia. Sono convinto, però, di nuovo all'interno di una dimensione per cui io non ho in Italia gli insegnanti per fare gli Imam, quindi mi organizzo, insieme ad alcune persone e con l'aiuto naturalmente di autorità del Governo, per fare la stessa Pag. 40cosa che voglio fare con le carceri (ma è la stessa cosa che io farei anche a Milano in questo momento per la grande moschea di Milano), cioè per prendere la più grande e più antica università islamica del mondo, che è quella di Fes – paese democratico, arabo, islamico – che è stata fondata nell'856, Al Qarawiyyin, e mettere in raccordo il Governo italiano, il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca italiano con Al Qarawiyyin e fare di questa università di fatto un centro per l'Islam italiano, non soltanto per gli Imam, ma soprattutto per le predicatrici, elemento non secondario dell'Islam marocchino.
  Il valore dell'Imam, cioè di colui che recita la preghiera, esattamente come nel cristianesimo e nell'ebraismo, è quello del recitare il rito, ed è maschile, ahimè, ma il centro fondamentale della vita della moschea, sia nella catechesi, sia nella spiegazione del Corano, viene affidato paritariamente a uomini e donne. Questo l'ho inserito nella mia proposta in cui vi faccio anche delle proposte specifiche.

  MOHAMMED KHALID RHAZZALI, assegnista di ricerca-sociologia della politica e sociologia della religione dell'Università di Padova. Approfittando di questo intervento, che ha come centro la domanda se valga la pena lavorare sull'intesa o no, provo ad andare più in là e ad analizzare l'ultimo periodo in cui si è tentato di lavorare sull'intesa, per poi individuare qualche zona di intervento che possa farci uscire dalle trappole.
  Con l'amico Carlo Panella su tante cose non siamo d'accordo, ma siamo d'accordo sul punto essenziale del suo ultimo intervento: siamo in una fase di emergenza; se si tratta di emanare qualche legge è per le istituzioni italiane e non per le presenze musulmane.
  Abbiamo sempre di più dei musulmani che sono in uscita, stanno emigrando verso il Belgio e la Francia. Abbiamo problemi di tipo demografico, abbiamo tantissimi problemi. Da questo punto di vista, se la facciamo o non la facciamo, ormai siamo in una situazione di crisi, di crisi economica ma anche culturale. La crisi culturale si riflette su come ci stiamo comportando, come stiamo reagendo rispetto a questo fenomeno Vorrei trasmettere la mia esperienza anche in quanto figlio di migranti, cresciuto all'inizio degli anni Novanta. Ho aspettato la cittadinanza e l'ho avuta per decreto, per ricorso al Tribunale amministrativo regionale del Lazio. Abbiamo avuto una serie di problemi dal punto di vista del riconoscimento di cose che sono banali. Ora non vorrei soffermarmi troppo su questo, ma vorrei solo far capire come forse ragiona quel radicalizzando per cui si tenta di costruire un intervento.
  L'intesa potrebbe avere un suo effetto sul piano simbolico, perché si prende l'impegno di conoscere un po’ la realtà musulmana. Non è possibile oggi parlare di religioni senza cultura, senza conoscenza. Cito Olivier Roy. A questo punto, abbiamo da una parte le istituzioni che hanno bisogno di strumenti di intervento e abbiamo anche, dall'altra parte, le nuove generazioni che sono in una netta rottura con i sistemi di trasmissione della cultura islamica. Parlo come ricercatore di campo. Abbiamo famiglie che ci dicono «non basta più quello che io so dell'Islam». Non è una questione solo di una parte, è una questione abbastanza generale per il fatto che oggi all'interno dei processi di globalizzazione, di attualità e tutto il resto, sempre di più il registro teologico religioso è marginale.
  Provo un attimo a raccontarvi una storia che mi è capitata come docente universitario, come formatore. In reazione agli attentati di Bruxelles sono stato contattato da un'agenzia che fa formazione per coprire la parte degli indicatori della radicalizzazione violenta in una occasione molto importante per me. Erano una cinquantina di commissari, direttori di carceri e qualche generale dei carabinieri nella scuola italo-americana di Vicenza. Ho detto che avrei provato a lavorare sugli indicatori; li conoscevo prima e li avevo abbandonati. Concretamente mi sono trovato davanti a un'aula che mi chiedeva di fare una formazione sull'indicatore della radicalizzazione. In quel caso, preparandomi ovviamente prima, ho provato a dire che forse avremmo dovuto insieme lavorare sugli indicatori Pag. 41 della radicalizzazione, riconoscendo il fatto che qui o si fa ricerca e si implica la ricerca scientifica e l'accademia in questi processi, oppure si tenta di inserirsi in alcuni ambiti senza avere molti risultati.
  Insomma, alla fine di queste due giornate ho tentato con i direttori delle carceri di far partire la loro esperienza e lavorare insieme sulla tematica della radicalizzazione violenta. È uscito, come risultato dei due giorni di laboratorio, che c'è bisogno di assistenti religiosi nelle carceri e mediatori interculturali. Ora, al di là dell'intesa, oggi è possibile riconoscere a un ministro di culto lo statuto di ministro di culto. Oggi è possibile lavorare sulla mediazione interculturale. Qual è il problema, allora? Il problema è l'accesso alle risorse. Le organizzazioni islamiche militano per poter intervenire e risolvere il problema con i responsabili delle carceri.
  Se noi andiamo negli ospedali avremo il reparto di fine vita e avremo gli obiettori, sono molto frequentati dagli Imam. Questi Imam avrebbero bisogno di accesso alle risorse o no? Facendoci questo interrogativo potremmo subito arrivare a dire «da dove arrivano i soldi, chi finanzia chi» e poi ricadiamo di nuovo nelle solite teorie. Concretamente le istituzioni dello Stato hanno bisogno di risorse per poter fare un intervento concreto, che riconosca il pluralismo religioso e che possa aiutare le istituzioni a gestire la complessità religiosa.

  YAHYA PALLAVICINI, presidente della Comunità religiosa islamica italiana COREIS. Rispondo brevemente all'onorevole Fabbri, circa la questione della legge sulla cittadinanza, se possiamo integrare qualche cosa. La risposta, dal mio punto di vista, è sì, senza dubbio anche la legge sulla cittadinanza può essere d'aiuto, ma oso dire – credo che ci arriviamo anche in termini di buonsenso – che non è mai, purtroppo, una garanzia.
  Purtroppo, l'essere cittadino di qualsiasi paese non è stata una garanzia del fatto che quel cittadino di quel paese non abbia scelto di essere anarchico o di essere un criminale. Quindi, è un aiuto sicuramente, perché viviamo da decenni un processo di integrazione del pluralismo di culture e sensibilità, anche di carattere religioso, e il fatto di essere o sentirsi pienamente tutelato, sia come diritto che come identità, come cittadino italiano, anche in quanto seconda generazione di un Paese o di un altro tipo di identità religiosa, è senz'altro d'aiuto. Però non è una garanzia.
  Questo mi permette di cercare di rispondere alla domanda del presidente: l'intesa, come la legge sulla cittadinanza, senz'altro può essere d'aiuto. È indiscutibile, secondo me, perché avrebbe come vantaggio almeno l'emersione in termini di riconoscimento e rispetto di una identità di una comunità islamica organizzata che non viene confusa o discriminata in virtù della eversione jihadista (così è contento l'amico Panella, al quale comunque risponderò). Quindi, intesa sì.
  Ora, mi sembra che lei, presidente, anche in virtù della precedente iniziativa che aveva organizzato sul tema, dica di fare una simulazione: se organizziamo un'intesa con alcuni e non con altri, quelli che dovessero essere esclusi per validi motivi potrebbero essere in qualche misura invitati a una radicalizzazione, mi sembra di capire; se un gruppo non è stato riconosciuto allora di fatto si pone come opposizione islamica al sistema. Questa mi sembra che fosse una simulazione che il presidente presentava.
  Questo sì, però la mia obiezione a questa simulazione è che l'intesa non ha come finalità unica o principale la soluzione del radicalismo; l'intesa ha come finalità principale il riconoscimento di una dignità e di un interlocutore e di un'organizzazione del culto che possa essere di pari dignità delle altre confessioni religiose. Allora, qui sviluppiamo la simulazione: si potrebbe chiedere alle organizzazioni islamiche di sottoscrivere, come è successo da una dichiarazione del Ministro dell'interno, un patto di cittadinanza, una specie di impegno che assicuri la mia lealtà nei confronti della Costituzione italiana («io giuro che non la tradirò mai»).
  A difesa di questa ipotesi, viene già l'intervento per me dell'amico professor Melloni: ma perché chiediamo soltanto ai musulmani questo giuramento che io ho Pag. 42già fatto da ufficiale dell'esercito? Perché i musulmani sarebbero oggetto di una diffidenza rispetto ad altri praticanti o altri membri di altre confessioni religiose, tale da avere una ipernecessità di garantire la propria lealtà nei confronti dello Stato? Ci sarebbe comunque, secondo me, un problema oggettivo.
  Però, io parlo qui come COREIS, dunque facciamo la simulazione. Ammettiamo che questa sia la precondizione imprescindibile, per quanto discriminatoria, per ottenere finalmente una dignità dell'Islam italiano anche in termini di intesa. Ecco, ci sarebbero due problemi: uno, abbiamo avuto un trattamento speciale; due, bisognerebbe effettivamente verificare come reagiscono le varie organizzazioni. Secondo me, al massimo ce ne sono quattro: l'unico ente riconosciuto, la moschea di Roma, la COREIS italiana, l'UCOII e la Confederazione islamica d'Italia.
  Ecco, ammettiamo che questi quattro venissero convocati da un rappresentante dello Stato per dire se sono d'accordo. Qui ci sono due casi. Un caso è che troviamo tutti quanti un accordo di responsabilità, però si ricade ancora sulla questione della legge sulla cittadinanza, perché alcuni secondo me, – mi spiace – aderirebbero per convenienza, ma più che altro per ipocrisia, nel senso che tecnicamente il fondamentalista, per dare un'immagine, è disposto a tutto pur di essere riconosciuto e legittimato. Nel momento in cui ha ottenuto il suo riconoscimento, anche accanto ad altri, ha ottenuto la sua funzione, perché il fondamentalista radicale tendenzialmente è chi abusa di un'identità religiosa per cavalcare un gioco di potere. Quindi, il problema si porrà anche tra di noi, perché forse noi saremo imbarazzati di dover condividere con alcuni altri una stessa piattaforma. Dunque, la simulazione va un po’ in questa direzione.
  Tendenzialmente l'idea è che si può tentare. Come diceva l'avvocato Bauccio, tendenzialmente ci sono dei criteri, che sono quelli di un riconoscimento giuridico che per esempio la moschea di Roma ha già ottenuto. Bisogna dimostrare di poter essere un interlocutore affidabile relativamente alla rappresentanza del culto.
  In secondo luogo, bisognerà anche, per l'intesa, dimostrare di poter essere garanti e capaci di gestire un patrimonio e l'organizzazione del culto sul territorio. Qui l'interazione tra alcune organizzazioni islamiche potrebbe risolvere il problema.
  Ultimo punto. Io insisto sulla questione «jihadista no» e lo dico anche sulla base della controreplica di Carlo Panella. «Kamikaze» – mia madre è giapponese – è un termine che non è islamico, ma deriva dallo shintoismo, dove alcuni, secondo la loro dottrina, potevano persino suicidarsi per difendere la patria e l'onore dell'imperatore, che era l'incarnazione dell'autorità spirituale.
  Il problema è che noi non possiamo cavalcare o sdoganare l'uso promiscuo e sbagliato da parte di alcuni criminali persino di alcuni termini che invece fanno parte in maniera sana della nostra dottrina. È vero che è una semplificazione, però io tendenzialmente spererei di non cavalcare questo uso blasfemo dei termini teologici della nostra dottrina o anche della dottrina buddista, e di non creare un caso particolare dove di fatto stiamo facendo un caso speciale sui musulmani, fossero anche jihadisti, rispetto a tutti gli altri rappresentanti religiosi.

  ABDELLAH REDOUANE, Segretario generale del Centro islamico culturale d'Italia. I due temi da discutere sono la libertà religiosa e l'intesa.
  La prima audizione alla quale ho partecipato quando sono arrivato in Italia era sulla libertà religiosa, al Ministero dell'interno, nel 1999. Siamo nel 2016 e questa proposta di legge o disegno di legge, cambiato tante volte, sta sempre sugli scaffali del Parlamento. Penso che sia una questione politica – non dobbiamo nasconderla – che ha sempre impedito di andare avanti fino ad approvare questo disegno di legge, perché si diceva che darà più libertà ai musulmani eccetera.
  Penso che questa sia una posizione sbagliata, perché non aiuta per niente l'integrazione di questa componente, che conta comunque più di 1 milione 600 mila persone. Pag. 43 La libertà religiosa è fondamentale, utile, ma non è sufficiente, secondo me. Non può sostituire un'intesa con la comunità. Una delle definizioni – entro nel merito della questione e della relazione fra radicalismo e intesa – del radicalismo è giustamente la rottura del radicale con la sua società. Invece, con l'intesa c'è un accordo tra una comunità, con tutte le sue componenti, o almeno la parte che aderisce a questa intesa, per stabilire un rapporto chiaro e netto tra la comunità e lo Stato dove i diritti e i doveri delle due parti sono chiaramente stipulati in clausole chiare.
  Vi è la questione delle peculiarità dell'Islam, e penso al divorzio eccetera. Quando ho iniziato a lavorare su questo tema, la prima intesa che mi ha ispirato è quella delle comunità ebraiche, perché, a livello del dogma, siamo molto simili agli ebrei. Per esempio, noi abbiamo l'Halal, loro hanno il Kosher. Poi c'è la questione del divorzio e altre questioni, come la circoncisione. Dunque, ci sono tante pratiche e già sono adottate dal 1984 – penso alla prima intesa con gli ebrei – e non vedo come un problema che oggi queste peculiarità possano essere inserite nell'ordinamento giuridico italiano.
  Detto questo, vengo alla questione dell'interlocutore. Yahia Pallavicini ha fatto bene a ricordare che già un interlocutore riconosciuto c'è, ed è il Centro islamico culturale d'Italia. Ma, a parte essere invitato ad alcune occasioni nazionali, simboliche, come la festa nazionale al Quirinale o al Parlamento, questo interlocutore non è mai stato in qualche modo valorizzato, non dalle istituzioni, perché si è sempre nascosto che ci sono tanti interlocutori (effettivamente nell'Islam non c'è una gerarchia, l'hanno detto altri prima di me), ma questo non vuol dire che non possiamo prendere un'iniziativa tramite il Centro culturale.
  Posso rivelare, se me lo consente l'amico Yahia Pallavicini, che stamattina avevamo una riunione su questo tema al Centro islamico, dove stiamo noi come comunità. L'iniziativa è aperta agli altri, quelli che vogliono aderire saranno un valore aggiunto alla nostra iniziativa, ma l'interlocutore in qualche modo ufficiale c'è, è riconosciuto dal 1974. Bisogna soltanto avere la volontà politica. Il Parlamento fa la sua parte, ma la politica deve in qualche modo rispondere positivamente per superare questi ostacoli.

  PRESIDENTE. Grazie a tutti, perché credo che sia stato un dibattito, per noi quanto meno, molto utile e interessante, del quale ovviamente cercheremo di tener conto, e soprattutto la relatrice avrà l'arduo compito di tenerne conto nel resto del suo lavoro. Grazie.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 16.10.

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