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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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XVII Legislatura

I Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 4 di Giovedì 2 febbraio 2017

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 2 

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME DELLA PROPOSTA DI LEGGE C. 3558  DAMBRUOSO, RECANTE MISURE PER LA PREVENZIONE DELLA RADICALIZZAZIONE E DELL'ESTREMISMO JIHADISTA

Audizione del Ministro della giustizia, Andrea Orlando.
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 2 ,
Orlando Andrea (PD) , Ministro della giustizia ... 2 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 11 ,
Centemero Elena (FI-PdL)  ... 11 ,
Dambruoso Stefano (CI)  ... 11 ,
Pollastrini Barbara (PD)  ... 13 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 13 ,
Orlando Andrea (PD) , Ministro della giustizia ... 13 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 17 ,
Sisto Francesco Paolo (FI-PdL)  ... 17 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 17 ,
Orlando Andrea (PD) , Ministro della giustizia ... 18 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 20

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà- Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare-NCD-Centristi per l'Italia: AP-NCD-CpI;
Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia Libertà: SI-SEL;
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: (LNA);
Scelta civica-ALA per la costituente libera e popolare-MAIE: SC-ALA CLP-MAIE;
Civici e Innovatori: (CI);
Democrazia Solidale-Centro Democratico: (DeS-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera-Possibile: Misto-AL-P;
Misto-Conservatori e Riformisti: Misto-CR;
Misto-USEI-IDEA (Unione Sudamericana Emigrati Italiani): Misto-USEI-IDEA;
Misto-FARE! - Pri: Misto-FARE! - Pri;
Misto-UDC: Misto-UDC.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
ANDREA MAZZIOTTI DI CELSO

  La seduta comincia alle 14.10.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata attraverso la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del Ministro della giustizia, Andrea Orlando.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla proposta di legge C. 3558 Dambruoso, recante misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell'estremismo jihadista, l'audizione del Ministro della giustizia, Andrea Orlando.
  Ringrazio il ministro Orlando e gli do la parola per lo svolgimento della sua relazione.

  ANDREA ORLANDO, Ministro della giustizia. Grazie, signor presidente, dell'invito a riferire a questa Commissione su un tema così importante, in connessione al provvedimento che ha come primo firmatario l'onorevole Stefano Dambruoso.
  Partirei da una considerazione. Un'efficace risposta istituzionale al fenomeno della radicalizzazione violenta esige una combinazione complessa di elementi innovativi delle politiche di prevenzione e repressione criminale, ma anche una declinazione delle politiche pubbliche di accoglienza e di inclusione sociale. Naturalmente all'uno e all'altro fine è essenziale una corretta definizione dei contorni effettivi della minaccia jihadista in Italia e dei margini di intervento che ha lo Stato.
  Su questo aspetto mi soffermerò molto brevemente, per passare poi a illustrare le attività che sono già state realizzate dal mio dicastero e le strategie che intendiamo assumere per il futuro. Toccherò sia gli aspetti relativi alla normativa interna e internazionale sia le linee di azione di contrasto della radicalizzazione, tanto di quella che avviene sul web quanto di quella che avviene nei luoghi di esecuzione della pena.
  Lo sviluppo del terrorismo internazionale in Italia si è evoluto in una duplice direzione. Da un lato, alcune inchieste hanno rivelato la presenza sul nostro territorio di frammenti di gruppi organizzati attivi in Nord Africa, in Medio Oriente e nel sub-continente indiano. Dall'altro, è stata individuata una scena jihadista autoctona, caratterizzata da elementi di forte eterogeneità sia nei profili demografici sia nelle dinamiche di mobilitazione, che si sono sviluppati in parallelo all'affermarsi del fenomeno dello Stato islamico. A questi profili evolutivi si connettono i rischi maggiori.
  Come è noto, la Relazione sulla politica dell'informazione per la sicurezza presentata al Parlamento nel marzo 2016 conclude ritenendo che l'Italia è sempre più esposta alla minaccia del terrorismo di matrice jihadista, sia come «target potenzialmente privilegiato sotto un profilo politico e simbolico/religioso» che come «terreno di coltura di nuove generazioni di aspiranti mujahiddin, che vivono nel mito del ritorno al califfato e che, aderendo alla campagna offensiva promossa da DAESH, potrebbero decidere di agire entro i nostri confini». Pag. 3
  La serietà e la gravità del rischio di attentati terroristici in Italia è stata più che autorevolmente rimarcata dal capo della polizia.
  Questa valutazione trova, peraltro, riscontro nei dati giudiziari relativi alle più recenti indagini, le quali sembrano confermare la presenza sul nostro territorio di lone actors pronti a usare la violenza in scenari mediorientali o in territorio italiano. Sinora l'azione delle forze di polizia e della magistratura è valsa a scongiurare i più gravi pericoli.
  La condizione di relativa tranquillità di cui ha goduto l'Italia finora potrebbe dunque mutare, come è stato segnalato. Una risposta sempre più adeguata alla radicalizzazione violenta diviene, pertanto, una priorità di carattere politico.
  In quest'ottica, è apprezzabile l'approccio multidisciplinare che è alla base dell'iniziativa legislativa all'esame della Commissione, di cui condivido l'ispirazione generale, che privilegia l'indirizzo delle politiche del Governo verso una dimensione non di mera repressione, ma di prevenzione e recupero umano, sociale, culturale e professionale dell'individuo interessato.
  Le misure presentate nel progetto di legge si inseriscono in un quadro normativo di prevenzione e repressione del fenomeno terroristico che appare già solido e che offre strumenti investigativi e giudiziari adeguati.
  In proposito, vorrei ricordare l'intervento legislativo che dal 2015 ha assicurato il recepimento nel nostro ordinamento delle fattispecie di reato previste dagli strumenti delle Nazioni unite e del Consiglio d'Europa per contrastare questo tipo di minaccia e particolarmente quella dei foreign fighters, e che rafforza gli strumenti di indagine e di prevenzione, anche attraverso azioni offensive in grado di contrastare l'utilizzo del web da parte delle organizzazioni terroristiche.
  Segnalo, inoltre, l'avvenuta ratifica, nel luglio 2016, di cinque strumenti del Consiglio d'Europa e delle Nazioni unite volti a prevenire e contrastare il terrorismo, che ha portato alla penalizzazione degli atti di terrorismo nucleare e ha consentito il pieno adeguamento della normativa nazionale agli standard di contrasto al finanziamento delle condotte con finalità di terrorismo, previsti dalle raccomandazioni del Gruppo d'azione finanziaria internazionale (GAFI).
  Siamo stati tra i primi Paesi al mondo ad adottare tali importanti riforme, com'è stato riconosciuto dalle Nazioni unite nell'ultimo rapporto di valutazione sull'Italia del Comitato antiterrorismo dell'ONU.
  Il rapporto individua quali punti di forza del nostro sistema la trattazione dei casi di terrorismo da parte di magistrati indipendenti, laddove altri Paesi fanno ricorso a giurisdizioni militari o comunque speciali ma dotate di ridotta autonomia.
  Il rapporto sottolinea con favore anche la nostra scelta di attribuire alla Direzione nazionale antimafia le competenze di impulso e coordinamento investigativo anche in materia di terrorismo, colmando una grave lacuna del sistema.
  Viene, infine, lodata l'eccellente cooperazione tra organismi di prevenzione e di contrasto al terrorismo nell'ambito del CASA (Comitato di analisi strategica antiterrorismo), il cui database è collegato con il Sistema di informazione Schengen e con Interpol.
  Ancora più significativo forse è il riconoscimento all'Italia di aver raggiunto, nella lotta al terrorismo, il giusto equilibrio tra esigenze di sicurezza e rispetto dei diritti umani, assicurando la piena tutela in particolare alla presunzione di innocenza e alla libertà di movimento delle persone.
  Sul versante della normativa dell'Unione europea, abbiamo sostenuto con determinazione, nell'ambito del negoziato sulla nuova direttiva antiterrorismo di ormai imminente adozione, un testo ambizioso, in grado davvero di innalzare l'efficacia dell'azione di contrasto alle nuove minacce.
  Abbiamo ottenuto, a seguito dei negoziati con il Parlamento europeo, un buon compromesso tra diverse esigenze su alcune questioni nodali, in particolare sulla criminalizzazione del viaggio con finalità di terrorismo anche all'interno dell'Unione europea, sulla rimozione o il blocco dei contenuti on line che costituiscono una pubblica provocazione a commettere un reato Pag. 4di carattere terroristico e sull'obbligo degli Stati membri di dotarsi delle misure necessarie a garantire un efficace e rapido scambio di informazioni raccolte nel quadro di procedimenti penali collegati a reati terroristici o a fatti comunque rivelatori di fenomeni di radicalizzazione violenta.
  È proprio il profilo della condivisione delle informazioni quello forse più delicato e cruciale. Non possiamo che auspicare, in questa direzione, un maggiore impegno comune e scelte chiare e nette dei singoli Stati.
  Con analogo impegno seguiremo gli ormai prossimi lavori negoziali relativi al pacchetto di strumenti per il rafforzamento delle misure di contrasto al finanziamento del terrorismo, che è stato appena presentato dalla Commissione europea al Consiglio informale dei ministri della giustizia svoltosi a Malta il 27 gennaio scorso, anche nella prospettiva del necessario adeguamento del quadro normativo europeo agli strumenti internazionali introdotti nella più ampia cornice di cooperazione delle Nazioni unite e del GAFI.
  Proprio nella prospettiva della collaborazione fra gli Stati del G7, nell'ambito della presidenza italiana, è stato avviato un lavoro che riguarda terrorismo e contrasto al terrorismo violento e alla radicalizzazione, su cui offriremo il nostro contributo.
  Nel contrasto del terrorismo internazionale, decisivo è il tema dell'armonizzazione delle regole in materia di controllo delle comunicazioni, di accesso ai dati informatici e di utilizzazione processuale degli esiti.
  In tal senso vanno anche le conclusioni del Consiglio dell'Unione europea del giugno 2016, che hanno dato l'avvio a un'approfondita valutazione delle questioni relative alla prova nel cyberspace, con particolare riguardo ai criteri di individuazione della giurisdizione competente e all'acquisizione transfrontaliera della prova stessa.
  Siamo convinti, infatti, che cooperazione, tempestività nello scambio di informazioni e coordinamento dell'attività di indagine siano elementi determinanti per una strategia globale di contrasto del terrorismo.
  Anche per questo, abbiamo sostenuto con ferma convinzione la necessità di non rinunciare alla costruzione di una procura europea forte e con ampi poteri di indagine, una prospettiva sinora frenata dal ripiegamento di molti Stati dell'Unione in una dimensione domestica, restia a passare a forme verticali di collaborazione fra gli Stati membri.
  Nella nostra visione, il futuro ufficio del pubblico ministero europeo dovrebbe godere di forti garanzie di indipendenza ed essere dotato di competenze chiare e poteri investigativi efficaci, al fine di poter essere chiamato a sostenere il suo campo di azione dalla tutela degli interessi finanziari dell'Unione ad altre forme gravi di criminalità con una dimensione transfrontaliera, in primis ai reati di terrorismo e criminalità organizzata, in conformità con quanto previsto dai trattati.
  L'attuale testo di compromesso è inferiore a queste aspettative e per questo non possiamo offrire il nostro sostegno a esso, pur rimanendo l'Italia impegnata in modo costruttivo nei negoziati per la creazione dell'Ufficio.
  Un'Europa timida nel costruire strumenti giurisdizionali comuni dà un segnale di debolezza e di arretramento in una fase che, invece, esige coraggio e fiducia reciproca.
  Anche su scala paneuropea abbiamo registrato passi importanti. Nell'ambito della partecipazione italiana al Consiglio d'Europa, l'Italia ha presieduto nel 2016 un gruppo di lavoro incaricato di aggiornare la Raccomandazione sulle tecniche speciali di indagine in materia di terrorismo.
  Le novità riguardano l'inserimento delle indagini patrimoniali e di quelle informatiche anche on line, nel pieno rispetto dei diritti fondamentali dell'indagato, nonché la previsione della cooperazione con istituti bancari e internet service provider per rendere possibili tali accertamenti.
  Il nuovo testo della raccomandazione è stato approvato dal Comitato di esperti per il terrorismo del Consiglio d'Europa a novembre Pag. 5 2016 e verrà presto adottato dal Comitato dei ministri.
  Siamo, inoltre, impegnati nei lavori del Consiglio d'Europa sui reati relativi ai beni culturali, finalizzati all'adozione di una nuova convenzione che preveda norme penali comuni in materia di traffico illecito di detti beni, anche in considerazione dell'accresciuta rilevanza di tale fenomeno quale fonte di finanziamento del terrorismo.
  Siamo altresì impegnati nei negoziati relativi alle nuove raccomandazioni del Consiglio d'Europa sui lupi solitari, di cui l'Italia presiede il comitato di redazione.
  Il ruolo sempre più operativo dei numerosi fori multilaterali che si occupano della materia nell'attuale fase di recrudescenza del fenomeno terroristico, e la moltiplicazione dei canali e dei programmi di cooperazione multilaterale, se accentuano l'esigenza di coordinamento della collaborazione fra Stati, richiedono notevoli sforzi aggiuntivi anche a livello nazionale.
  L'attenzione in merito si è concretizzata nella creazione, presso il gabinetto del mio dicastero, di un gruppo di analisi strategica, incentrato sullo scambio di valutazioni ed esperienze tra la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (DNA), la procura generale presso la Corte di cassazione, i vertici degli uffici requirenti particolarmente impegnati nell'attività di contrasto, il membro nazionale di Eurojust, i magistrati di collegamento e tutti gli esperti giuridici presso le rappresentanze italiane all'estero.
  Questa metodologia di confronto tende a ottimizzare la risposta giudiziaria al fenomeno del terrorismo internazionale, nonché a coordinare le attività nell'ambito della partecipazione italiana all'Unione europea, al Consiglio d'Europa e alle Nazioni unite.
  Con riferimento a Eurojust, sono state formulate direttive al desk italiano affinché assuma tutte le necessarie iniziative volte a favorire lo scambio proficuo e costante delle informazioni con gli organismi investigativi e di coordinamento competenti ed anzitutto con la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo.
  Nella convinzione della necessità di una più stretta e sistematica collaborazione tra le amministrazioni e le autorità giudiziarie dei vari Stati, all'indomani della strage di Parigi abbiamo ripristinato la figura del magistrato di collegamento in Paesi strategicamente rilevanti per il terrorismo. Sono già operativi il magistrato italiano di collegamento in Francia e in Albania. Per la prima volta nella nostra storia giudiziaria si insedierà un magistrato di collegamento presso il Regno del Marocco.
  Sul piano della cooperazione giudiziaria bilaterale con Stati non appartenenti all'Unione europea, nell'ultimo triennio abbiamo svolto un'intensa attività negoziale tesa a concludere accordi in materia di estradizione, assistenza giudiziaria e trasferimento delle persone condannate, giungendo alla firma di accordi con Costa Rica, Ecuador, Emirati Arabi, Kazakhistan, Kenya, Macedonia, Nigeria, Bosnia e Colombia.
  Altri ne sono stati parafati e predisposti con Kosovo e Serbia, Paese quest'ultimo nel quale mi recherò il 9 febbraio per la sottoscrizione dei trattati in materia di estradizione e assistenza giudiziaria.
  Dovrebbero, inoltre, a breve entrare in vigore gli accordi con Panama e con il Regno del Marocco, la cui ratifica è già stata autorizzata dal Parlamento.
  Ci siamo anche attivati per portare a termine il processo di ratifica degli accordi in materia di estradizione e assistenza giudiziaria con l'Egitto, firmati nel 2011 e rimasti per lungo tempo bloccato a causa di refusi ed errori formali nei testi, soprattutto nella versione francese. Superata questa fase, c'è stata una nuova sospensione dopo l'omicidio Regeni.
  Sono altresì in corso negoziati con Paesi di importanza strategica per la lotta al terrorismo e al crimine organizzato transnazionale, come Guatemala, Senegal, Tunisia, Uruguay, Venezuela, Argentina, Filippine e Capo Verde.
  Inoltre, investiremo nella ricerca di strumenti di collaborazione con gli Stati del Nord Africa che, seppure caratterizzati da situazioni politiche attualmente instabili, costituiscono nondimeno snodi fondamentali Pag. 6 per il contrasto a fenomeni criminali come terrorismo e traffico di migranti.
  A livello nazionale sono state attuate specifiche iniziative ed elaborate precise strategie di intervento, sia sul piano normativo che organizzativo, nella consapevolezza che due luoghi, uno virtuale e uno fisico, hanno negli ultimi tempi assunto una rappresentanza particolare nella diffusione di messaggi volti alla radicalizzazione violenta: il web e le prigioni.
  Inizio dal web. Riguardo alla lotta contro la discriminazione, il razzismo, l'incitamento all'odio e alla violenza che avvengono attraverso la rete, stiamo lavorando all'implementazione nel nostro Paese delle misure previste dal Codice di condotta sull'illecito incitamento all'odio on line, la cui adozione nel maggio 2016 abbiamo con forza sollecitato alla Commissione europea.
  Si tratta di uno strumento innovativo che richiama a un'azione congiunta le grandi piattaforme di internet, le autorità statuali e le organizzazioni della società civile.
  Sono già intervenuto pubblicamente sul tema, per evidenziare che gli strumenti della giurisdizione da soli non riescono a far fronte all'insieme degli illeciti che si realizzano sulla rete, per l'incertezza delle competenze, per l'indeterminatezza degli autori e infine per la velocità con la quale si diffondono a livello virale e permangono sul web.
  È per questa ragione che si è chiesta ed avviata la collaborazione a livello nazionale ed europeo con i principali social network. A livello nazionale, abbiamo istituito con l'Ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali e con il Ministero dell'interno un gruppo di lavoro finalizzato a costruire sinergie tra le amministrazioni dello Stato nel monitoraggio del fenomeno.
  Costante è la tensione tra la prioritaria esigenza di intervenire a tutela dei soggetti vittime di hate speech e la tutela dell'autonomia delle piattaforme.
  Se la rete è ormai uno dei luoghi principali del conflitto e della dialettica democratica, la risposta più efficace, autorevole e tempestiva non può essere quella della criminalizzazione, ma deve passare attraverso la creazione di sinergie tra le amministrazioni pubbliche e la società civile.
  Con l'Ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali e le associazioni che lavorano sul tema, stiamo cercando di creare proprio questa rete di interazione, stimolando la nascita di soggetti non pubblici in grado di monitorare e smentire, ove necessario, ogni input funzionale alla propaganda d'odio, anche al fine di promuovere efficaci messaggi di contro-narrativa.
  Ancor più abbiamo avviato un'intensa attività nelle carceri, con lo scopo di analizzare, neutralizzare e contrastare quella zona grigia di proselitismo dei terroristi di matrice jihadista che fa presa soprattutto sulla seconda generazione di immigrati. È questa la fascia che in altri Paesi ha subìto maggiormente l'influenza delle predicazioni estremiste e che è più esposta al rischio di radicalizzazione.
  Il carcere è un osservatorio in qualche modo privilegiato per cogliere elementi e acquisire notizie sulla radicalizzazione. Un aspetto che perciò deve essere particolarmente curato riguarda la condivisione delle informazioni acquisite. È stato istituito presso il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria un apposito servizio per il coordinamento delle informazioni che giungono dagli istituti penitenziari e per il collegamento con le altre forze di polizia e l'accesso alle banche dati nazionali ed estere.
  Anche la disposizione interna dei detenuti incide sui rischi di proselitismo o di pericolosi sodalizi con le altre consorterie criminali. I detenuti per reati di terrorismo internazionale sono perciò inseriti in un circuito penitenziario che prevede una rigorosa separazione dalla restante popolazione detenuta.
  La guardia, però, non va abbassata neppure nei circuiti cosiddetti «comuni». Per questo motivo annualmente il nucleo investigativo centrale effettua una ricognizione capillare, al fine di rilevare alcuni degli indicatori elaborati a livello europeo per il rischio di radicalizzazione: la pratica religiosa, i cambiamenti fisici, la routine quotidiana, l'organizzazione della stanza detentiva, le modalità di relazione sociale e il Pag. 7commento sugli eventi politici e di attualità.
  I soggetti segnalati sono stati immediatamente sottoposti a monitoraggio e nei loro confronti è stato modificato il tipo di custodia, assumendo modelli detentivi più rigorosi.
  I dati acquisiti mostrano che la situazione in Italia al momento non è così allarmante come quella di altri Paesi europei. Sono complessivamente 393 i detenuti sottoposti ad analisi per rischio di radicalizzazione violenta o proselitismo in carcere, con un diverso grado di pericolosità. La maggioranza è nata in Tunisia (115), Marocco (105), Egitto (27). Vi sono poi 14 soggetti nati in Italia, di cui tre con cognome di origine straniera.
  Per 130 di costoro non sono emersi segnali concreti di radicalizzazione; restano, però, sospettati e sottoposti a osservazione. Ottantotto soggetti, non ancora classificati come radicalizzati, hanno manifestato concreti e ripetuti atteggiamenti, anche in occasione di gravi attentati, che fanno presupporre vicinanza all'ideologia jihadista e, quindi, propensione all'attività di proselitismo e reclutamento. Dei totali 393, tuttavia, 175 sono i detenuti classificati a forte rischio di radicalizzazione, di cui 46 sottoposti al regime detentivo di alta sicurezza, essendo imputati per reati di terrorismo.
  Sulla complessiva popolazione carceraria, pari allo scorso lunedì a 55.381 detenuti, 18.825 sono i detenuti stranieri, pari dunque al 34 per cento. I detenuti che provengono da Paesi con popolazioni tradizionalmente di fede musulmana sono circa 14.680 (oltre la metà da Paesi africani, 3.359 dal Marocco e 2.141 dalla Tunisia).
  Tra di essi, 6.290 hanno dichiarato di essere professanti: circa il 33 per cento della popolazione dei detenuti stranieri e l'11 per cento del totale della popolazione carceraria. Sulla base delle attività di osservazione svolte, i professanti musulmani risultano di fatto circa 7.500 e gli imam 157.
  Per quanto grande sia lo sforzo di esercitare capillarmente una funzione di monitoraggio e controllo, non possiamo permetterci di sottovalutare i segnali di allarme, perché il carcere è un luogo dove si realizzano forme di radicalizzazione rapida e perché si tratta di soggetti potenzialmente vulnerabili.
  Il carcere è un luogo in cui alto è il rischio che si diffondano forme di esclusione e isolamento, condizioni su cui il radicalismo fa leva per alimentare il senso di vendetta e di odio contro la società. Garantire l'esercizio del culto fa parte del rispetto dovuto a un diritto fondamentale delle persone, ma serve anche a non alimentare pericolose sacche di risentimento.
  Stiamo stipulando in particolare protocolli d'intesa con le associazioni religiose disponibili a favorire, nell'ambito del sostegno del diritto al culto, la circolazione di anticorpi in grado di debellare focolai di odio sociale e religioso.
  Per consentire agli agenti di polizia penitenziaria di comprendere più a fondo le realtà che devono fronteggiare, sono stati istituiti corsi di formazione specifici, indirizzati prioritariamente a quanti prestano servizio presso gli istituti penitenziari a più alto rischio di radicalizzazione.
  In generale, l'educazione al pluralismo religioso è un decisivo strumento di prevenzione della radicalizzazione. Occorre la presenza nelle carceri di persone formate che possano fornire a una popolazione islamica che spesso possiede solo rudimentali conoscenze una coscienza più ampia e profonda dell'Islam, anche attraverso la guida della predicazione e della preghiera.
  Allo stesso modo, è indispensabile avere nel sistema carcerario educatori che abbiano conoscenze adeguate dell'Islam e del suo sistema etico e teologico, in grado di educare il personale penitenziario al pluralismo del culto, di svolgere progetti mirati a contrastare con la conoscenza l'analfabetismo religioso presente nella realtà carceraria e di fornire corsi qualificati e testati utili a migliorare l'efficacia del lavoro coi ristretti.
  Nella medesima prospettiva, abbiamo inoltre presentato alla Commissione europea due progetti finalizzati a ottenere sovvenzioni da destinare alle attività di prevenzione Pag. 8 e contrasto della radicalizzazione violenta, non solo in ambito carcerario, ma anche nella fase dell'esecuzione penale esterna.
  In particolare, il progetto RASMORAD (Raising awareness and staff mobility on violent radicalisation), già approvato e finanziato dall'Unione, mira all'elaborazione di un protocollo condiviso sulla valutazione del rischio e alla costruzione di percorsi di deradicalizzazione per i soggetti condannati per reati riconducibili all'estremismo e al terrorismo e in carico ai servizi penitenziari, nonché alla creazione di una rete nazionale di esperti del fenomeno.
  Il progetto TRA in training (Transfer radicalisation approaches in training), invece, è attualmente in fase di valutazione e intende favorire la collaborazione tra tutti i soggetti istituzionali impegnati nelle attività di prevenzione della radicalizzazione violenta, sia attraverso azioni di formazione sia attraverso la costruzione di un sistema di scambio di dati sui soggetti e sulle situazioni da monitorare, funzionale all'elaborazione dei programmi di deradicalizzazione.
  Questi progetti sono stati elaborati anche alla luce delle esperienze acquisite nell'ambito della partecipazione al progetto europeo denominato RAN (Radicalisation awareness network), istituito dalla Commissione europea con lo scopo di creare una rete tra esperti e operatori coinvolti nel contrasto al fenomeno della radicalizzazione violenta.
  La necessità di costruire e aggiornare costantemente un sistema di indicatori del rischio di estremismo violento, in linea con le raccomandazioni del Consiglio di Europa, ci ha spinti a prevedere, nell'ambito dell'accordo quadro nei mesi scorsi sottoscritto con la Conferenza dei rettori delle università italiane, lo sviluppo di azioni comuni, anche al fine di seguire l'evoluzione progressiva delle tecniche di prevenzione della radicalizzazione e del trattamento di soggetti già radicalizzati.
  È stata inoltre fortemente rafforzata la collaborazione con il Comitato di analisi strategica antiterrorismo, cui l'amministrazione penitenziaria trasmette i dati e le analisi della propria azione di monitoraggio, consentendo l'espulsione di soggetti pericolosi – a oggi 44, di cui 18 tunisini e 15 marocchini – o comunque l'avvio di specifiche attività di prevenzione e controllo da parte delle forze di polizia.
  L'efficace attività di prevenzione è dimostrata anche dal recente arresto di un detenuto per il reato di associazione per delinquere con finalità di terrorismo, a seguito di indagini del pubblico ministero di Roma originate proprio dall'attività di osservazione e controllo della polizia penitenziaria.
  In tale ambito di intervento, è oggi a disposizione uno strumento tecnologico che consente l'accesso ai nominativi dei soggetti ritenuti pericolosi e segnalati sotto il profilo terroristico da 80 Paesi del mondo.
  Attraverso questo programma, è possibile stringere le maglie e rilevare, ad esempio, se un soggetto, ristretto per reati comuni, in realtà sia stato segnalato da un altro Paese come pericoloso dal punto di vista terroristico.
  Al fine della rapida individuazione della nazionalità dei detenuti stranieri e della loro identificazione, il Ministero della giustizia e il Ministero dell'interno hanno sottoscritto un protocollo per la costante condivisione dei dati e delle informazioni.
  Sempre sotto il profilo dell'identificazione e della sicurezza, voglio sottolineare l'importanza della banca dati DNA, già prevista dalla legge n. 85 del 2009 di ratifica del trattato di Prum. Il suo regolamento esecutivo è entrato in vigore, dopo una lunga gestazione, il 10 giugno 2016, con l'istituzione presso il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del laboratorio centrale per la banca dati del DNA.
  Il decreto applicativo relativo al trattamento dei dati è stato adottato l'8 novembre 2016 e sarà adottato a breve un secondo decreto relativo alle modalità di cancellazione dei profili del DNA e di distruzione dei campioni biologici.
  L'esperienza sul lavoro di prevenzione maturato in questi anni dimostra quanto sia rilevante, ai fini della riduzione delle aree di rischio, l'approccio complessivo del sistema penitenziario rispetto a questi temi. Pag. 9Quanto più le strutture penitenziarie sono capaci di assicurare il rispetto dei diritti, la dignità degli individui e i percorsi di sostegno, recupero e integrazione, tanto inferiori saranno i rischi per i detenuti di avvicinarsi a chi propone modelli fondati sull'estremismo, sulla contrapposizione e sul fanatismo.
  La strada giusta da percorrere è, pertanto, quella di proseguire verso una crescente umanizzazione delle condizioni detentive, evitando la tentazione di introdurre limitazioni dei diritti dei ristretti, primo tra tutti quello al libero esercizio del culto in carcere.
  Limitare i diritti, impedire in particolare o contenere l'esercizio del culto attraverso l'etero determinazione dei ministri di culto produce soltanto l'illusione di un maggiore controllo e di una maggiore sicurezza delle strutture penitenziarie.
  L'esperienza dimostra come, a fronte di divieti e limitazioni in questa materia, i detenuti si organizzano con modalità differenti, che di per sé si presentano come più rischiose perché meno visibili e sostanzialmente clandestine.
  La significativa presenza nei servizi minorili della giustizia di detenuti minorenni e giovani adulti stranieri ha imposto lo sviluppo di un'azione mirata a contenere i rischi di radicalizzazione derivanti dalla peculiarità delle condizioni familiari, culturali ed economiche di molti di essi.
  Attraverso i social è sempre più facile diffondere tra i giovani musulmani un approccio radicale alla religione, con il conseguente rischio di adesione alla propaganda d'odio posta in essere dalle organizzazioni terroristiche.
  La diversità delle situazioni individuali impedisce di individuare modalità rigide di intervento a carattere generale, dovendosi necessariamente modulare caso per caso le azioni necessarie per prevenire i rischi dell'avvio di percorsi di radicalizzazione o per arginare quelli già in atto.
  Il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità ha da tempo avviato una strategia complessiva diretta a contenere il rischio di radicalizzazione di detenuti minorenni e di giovani adulti, al momento molto contenuto, articolata lungo tre linee direttrici.
  In primo luogo, l'agire dell'amministrazione è orientato all'elaborazione di progetti educativi e trattamentali improntati all'accoglienza, sostegno e integrazione, che valorizzino i diversi patrimoni culturali e promuovano lo sviluppo dei diritti fondamentali, a partire dall'esercizio della libertà di culto.
  In tal modo, viene stemperato il rischio di isolamento ed emarginazione che alimenta spinte e derive terroristiche e che crea anche il contesto necessario alla propaganda e al reclutamento jihadista.
  Su questo versante, al fine di monitorare il messaggio religioso effettivamente veicolato ed evitare lo sviluppo di forme di indottrinamento improvvisate, devianti e pericolose, viene inoltre favorito l'accesso presso gli istituti dei mediatori culturali, tanto più determinanti in un contesto quale quello minorile, in cui maggiori sono i rischi di influenze negative, per la particolare sensibilità e ricettività dei minori rispetto agli adulti.
  Attraverso la collaborazione di tali figure professionali, decisiva anche nel circuito penitenziario per gli adulti, viene assicurata un'attenta attività di osservazione, che consente di esaminare in chiave di prevenzione tutti quegli elementi sintomatici di avvio di percorsi di radicalizzazione.
  In secondo luogo, a progetti trattamentali mirati si accompagna una compiuta attività di monitoraggio e analisi delle informazioni.
  In particolare, sulla scorta delle esperienze di confronto maturate in sede europea, sono stati individuati specifici indicatori, la cui costante rilevazione, anche attraverso il sistema informativo dei servizi minorili, consente di sviluppare forme di vigilanza mirata e di elevare il livello di attenzione.
  All'interno degli istituti penali minorili e nei centri di prima accoglienza l'attività di osservazione e conoscenza demandata agli operatori penitenziari ha lo scopo di condurre in chiave preventiva all'adeguato apprezzamento dei rischi di proselitismo legati Pag. 10 alla diffusione di messaggi distorti ed estremisti dell'islam.
  L'attività di raccolta e analisi dei dati viene garantita da un referente individuato dal direttore, che procede alla tempestiva comunicazione alla direzione generale personale, risorse e per l'attuazione dei provvedimenti del giudice minorile e all'ufficio per l'attività ispettiva e di controllo del Dipartimento. La medesima attività viene garantita da un referente presso gli uffici dei servizi sociali minorili.
  Viene inoltre assicurata la piena circolarità e condivisione di tale patrimonio informativo, non solo tra gli operatori tutti del settore minorile, ma anche con le forze di polizia e con gli organismi istituzionalmente deputati alla prevenzione dei fenomeni di radicalizzazione.
  In questo senso, proficua è la diretta collaborazione del Dipartimento della giustizia minorile con il già ricordato CASA.
  Da ultimo, come già rappresentato, c'è l'investimento nella formazione del personale di polizia penitenziaria.
  Ulteriori prospettive, anche sul fronte minorile, si aprono infine con la proposta di legge che è attualmente in discussione di fronte a questa Commissione, nella parte in cui all'articolo 7 viene prevista l'adozione di un piano nazionale teso a garantire ai soggetti coinvolti in fenomeni di radicalizzazione e di diffusione dell'estremismo a sfondo jihadista, condannati o internati, un trattamento penitenziario finalizzato alla rieducazione e alla deradicalizzazione.
  La connotazione multidisciplinare del piano appare infatti coerente con il ruolo attivo della comunità esterna all'azione rieducativa del detenuto, come previsto dall'articolo 17 dell'ordinamento penale, e consentirà di valorizzare il ruolo dei mediatori culturali, di cui è indispensabile un cospicuo incremento.
  Si auspica, infine, che nella definizione dei criteri diretti a disciplinare l'esercizio del culto, sia con riferimento agli spazi dedicati alla preghiera che in ordine all'individuazione degli imam, il dibattito parlamentare possa orientare alla definizione di criteri elastici e non eccessivamente restrittivi, per evitare rischi di isolamento e forme di aggregazione interna meno visibili.
  Per tutto quanto detto, la sfida più ambiziosa è rappresentata dal ricorso sempre più ampio, anche con riferimento all'ambito di odierno interesse, a sanzioni penali diverse dalla detenzione, attraverso percorsi che, pur mantenendo la fisionomia di sanzione, possano consentire il reinserimento sociale del condannato senza rischi per la comunità, rafforzando al tempo stesso la dimensione riparativa della giustizia penale.
  L'esecuzione penale esterna non va ridotta a mera funzione deflattiva volta a diminuire il numero dei detenuti e la pena scontata sul territorio non va confusa con la concessione di un beneficio privo di effettività.
  Per il prossimo triennio sono già stati assegnati rispettivamente all'esecuzione penale esterna 4, 7 e 11 milioni per anno a partire dal 2017 e altri ancora ne saranno stanziati per rafforzare l'operatività degli uffici di esecuzione penale esterna, con personale sempre più altamente specializzato.
  Costituisce un'assoluta priorità l'individuazione di una metodologia di intervento specifica per i soggetti a rischio, che preveda il coinvolgimento del contesto familiare, sociale e territoriale di appartenenza. Del resto, questa è la direzione di intervento politico che ci indicano le organizzazioni internazionali di cui l'Italia fa parte.
  Il Consiglio dell'Unione europea, nelle conclusioni adottate il 20 novembre 2015, ha invitato gli Stati membri ad adottare un approccio individualizzato nei confronti dei condannati che presentano segni o rischi di radicalizzazione, considerando l'opportunità di applicare misure alternative alla detenzione ove le esigenze di sicurezza lo consentano.
  Al fine di utilizzare tale indirizzo politico, la Commissione europea ha adottato il 14 giugno 2016 una comunicazione finalizzata a sostenere la prevenzione della radicalizzazione che porta all'estremismo violento, in cui evidenzia l'importanza di spezzare Pag. 11 il ciclo vizioso della radicalizzazione nelle carceri.
  Nello stesso senso vanno le raccomandazioni delle Nazioni unite contenute nel Piano d'azione per la prevenzione dell'estremismo violento presentato nel gennaio 2016 e le linee guida adottate dal Consiglio d'Europa nel marzo 2016, dove la detenzione viene indicata come ultima risorsa nella fase di esecuzione della pena per i soggetti esposti a radicalizzazione.
  In quest'ottica, l'amministrazione penitenziaria sta opportunamente approfondendo l'ipotesi di utilizzare in futuro anche le colonie agricole quali possibili luoghi di esecuzione della pena, in un contesto di partecipazione al lavoro che appare idoneo alla prevenzione dei rischi di radicalizzazione.
  Credo che la strada intrapresa dal Governo sia quella giusta. Non si tratta, infatti, di inseguire emergenze con interventi disorganici né puramente declamatori, ma di costruire e rafforzare progressivamente, come ho cercato di mostrare, politiche di sicurezza che siano nutrite di analisi aggiornate, monitoraggi compiuti ed efficaci, interventi coordinati e concreti.
  Vi ringrazio per l'attenzione.

  PRESIDENTE. Grazie, ministro.
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  ELENA CENTEMERO. Ringrazio il Ministro Orlando per i riferimenti che ha voluto fornirci, soprattutto in relazione agli standard internazionali, in particolare, oltre a quelli delle Nazioni unite, a quelli del Consiglio d'Europa, organizzazione di cui, come è noto, io presiedo la Commissione uguaglianza e non discriminazione, che ha al centro del proprio lavoro il contrasto ai discorsi d'odio e al terrorismo, attraverso una campagna internazionale che si chiama «No hate, no fear».
  Condivido in pieno quanto è stato detto in relazione al contrasto di tutte le forme di odio on line e di violenza on line e desidero sottolineare l'importanza della biunivocità. Se da una parte c'è un intervento verso potenziali forme di radicalizzazione in stranieri che vivono e soggiornano nel nostro territorio, dall'altro lato, io credo che sia estremamente importante anche dar vita a delle campagne di educazione verso i nostri ragazzi e le nostre ragazze e gli adulti. Credo, infatti, che nella biunivocità ci sia un aspetto molto importante e molto interessante.
  A questo proposito – l'ho già affermato ieri nel corso dell'audizione della Ministra Fedeli e lo ripeto ancora una volta – il tema dell'ascolto è estremamente importante. Io ricordo sempre – l'ho detto già ieri e mi spiace per i colleghi che mi devono riascoltare – un'audizione che noi abbiamo avuto a Parigi di una famiglia francese che ha avuto un figlio radicalizzato, che poi è andato in Siria, dove è morto, che metteva in luce di non aver avuto nessun punto di riferimento. In molti comuni in Francia sono stati istituiti centri di ascolto e linee gratis in cui poter avere un punto di apporto.
  Ne parlavamo ieri con il primo firmatario della proposta di legge. Io credo che questo sia un punto importante su cui poter lavorare, magari all'inizio in via sperimentale.

  STEFANO DAMBRUOSO. Grazie, ministro per la sua esauriente relazione, che ha coperto tutti gli aspetti che noi avevamo immaginato di prospettare in una proposta di legge che ha un contenuto più da linee guida, proprio perché, avendo un contenuto multidisciplinare, presenta già di per sé qualche difficoltà di sistemazione normativa in un'unica legge, dovendo abbracciare l'intervento di più ministeri.
  La sua relazione, invece, mi ha confortato e ha confermato l'assoluta importanza e primarietà dell'argomento, che è considerato tale anche dal ministero che lei dirige in questo periodo. Lei mi conferma, cioè, che anche per il Ministero della giustizia oggi il contrasto al terrorismo non significa soltanto repressione, cosa peraltro già ampiamente e con intelligenza adottata nel decreto antiterrorismo, ma significa anche parlare di radicalizzazione e, quindi, di deradicalizzazione. Peraltro, ciò è in linea con una Pag. 12tematica ormai considerata assolutamente prioritaria nei vari organismi internazionali con cui voi avete contatti, nei quali questi temi vengono sviluppati.
  Pertanto, sono davvero felice, prima ancora che grato, per la completa relazione che conferma che questa è la linea che deve essere adottata e sviluppata al meglio, così come stiamo cercando di fare anche con l'audizione dei ministri interessati. Lei è l'ultimo dei ministri interessati che ascoltiamo e oggi ci ha dato la possibilità di vederci confortati del suo contributo.
  Mi piacerebbe soprattutto che dall'importanza della sua valutazione derivasse anche il senso dell'assenza di ulteriori spazi di tempo da utilizzare. Ormai siamo in una dirittura d'arrivo che io ritengo ottimale, quella di chiudere almeno alla Camera il progetto legislativo che potrà mettere l'Italia finalmente in linea con le altre iniziative già adottate nei Paesi maggiormente interessati dal contrasto al terrorismo.
  Fra le varie cose che lei ha detto, ministro, ce ne sono due che mi piace rammentare e soprattutto risollecitare, perché si tratta di passaggi importanti che meritano di essere sottolineati.
  Mi riferisco in primo luogo all'importanza delle università e dei rapporti con queste ultime. Lei ha fatto riferimento a degli accordi e a dei contatti presi con i maggiori rettori universitari o comunque con il circuito universitario.
  Mi permetto di sottolineare che questo è un elemento che, nella difficoltà dovuta all'ampiezza del tema e degli argomenti da trattare, non può e non deve essere sottovalutato.
  Infatti, questa è una proposta di legge che guarda ai prossimi 10-15 anni, non al prossimo voto. È una proposta di legge che ha l'ambizione di essere una di quelle poche proposte di legge in linea con i grandi statisti che vi hanno e ci hanno preceduto, che non guardavano con miopia al voto dell'anno successivo, ma guardavano al voto dei dieci anni successivi.
  Nei prossimi dieci anni, a causa di un'immigrazione epocale che stiamo cercando di gestire, avremo intere comunità di musulmani, che avranno le seconde e le terze generazioni sempre più numerose nel nostro Paese, con figli che andranno nelle università e nelle scuole. Le comunità scolastiche saranno sempre più interessate dallo sviluppo del dialogo interreligioso.
  Per questo, ieri abbiamo sentito la Ministra Fedeli e abbiamo risollecitato una particolare attenzione nella formazione dei professori sul tema del dialogo interculturale e interreligioso, che va migliorato e rafforzato, proprio perché questo è un tema nuovo o comunque che presenta degli elementi di novità.
  Fra le varie cose che lei ha detto, mi piace ricordare la difficoltà rappresentata dal tentativo di sviluppare quella contronarrazione sul web che sembra uno strumento di minore percezione dal punto di vista della prevenzione, ma che invece è davvero importante e che auspico sarà sviluppata con l'adeguata intelligenza istituzionale o dai ministeri interessati, come il Ministro della giustizia, o dalla Presidenza del Consiglio.
  Per quanto riguarda lo spazio direttamente gestito dal Ministero della giustizia, mi interessa farle una domanda. Vorrei sapere se quelle intese legate a una maggiore attenzione e a un monitoraggio sulla presenza degli imam nelle carceri hanno già portato a sviluppare o potrebbero portare a sviluppare un diretto coinvolgimento di intelligenti e brillanti direttori di istituti di pena che il Ministero della giustizia in Italia fortunatamente possiede in tentativi d'intesa con le comunità musulmane locali o con i loro rappresentanti. Mi riferisco soprattutto alle città dove queste comunità hanno una loro minima organizzazione e una loro minima rappresentanza.
  Si potrebbero in tal modo selezionare degli imam ritenuti affidabili per tutti, a partire dalle istituzioni che dovranno aprire le porte per far accedere nelle carceri predicatori che non siano né improvvisati, come è stato detto, né incontrollabili prima del loro ingresso.
  Comunque, grazie davvero per la completezza della relazione e per la conferma che il tema è ritenuto prioritario anche dal Ministero della giustizia sotto il profilo della prevenzione.

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  BARBARA POLLASTRINI. Desidero anch'io ringraziare il ministro per la qualità della sua relazione e soprattutto per lo sguardo ampio con cui ha saputo affrontare la materia.
  Come ha detto l'onorevole Dambruoso, con lei, signor ministro, concludiamo oggi le audizioni. Con la sua relazione viene confermato il senso della proposta di legge di cui ho il piacere di essere la relatrice: aggiungere un tassello in più a un programma preventivo indispensabile per vincere una battaglia globale.
  Il senso, confermato dalle audizioni che abbiamo svolto, non solo con i rappresentanti del Governo, ma anche con studiosi e rappresentanti delle comunità islamiche, è proprio quello di rafforzare quello che lei stesso ha sottolineato oggi, cioè un forte coordinamento a livello europeo e nel nostro Paese a livello interministeriale, naturalmente con le forze dell'ordine, le agenzie e le associazioni umanitarie, ma anche in rapporto col territorio. Volevo semplicemente fare questa sottolineatura.
  Lei naturalmente conosce – lo intuisco avendola ascoltata con grande attenzione – gli esiti che ha dato la Commissione Vidino e sa meglio di me che anche quest'ultima ritiene utile, per svolgere pienamente l'opera di coordinamento, rafforzare il rapporto con i referenti territoriali e individua in questo caso – ma tutto si può discutere, com'è evidente – il livello regionale come quello migliore.
  Io non so se il migliore sia questo o un altro livello. Quello che so, vivendo in una città particolare da questo punto di vista, anche in senso molto positivo, come Milano, è che ogni iniziativa di monitoraggio e di prevenzione non si cala nella realtà se il rapporto col territorio non è molto solido.
  In secondo luogo, ieri pomeriggio ho visto su qualche agenzia una notizia a cui purtroppo l'informazione ha dato poco rilievo e che invece a me sembra significativa. Si sarebbe concluso un patto fra il Ministero degli interni, in particolare il Ministro Minniti, e il tavolo dell'islam. Non ho ancora visto il materiale, ma il collega Dambruoso sicuramente ne è a conoscenza.
  Io non la ritengo una cosa di poco conto. Il fatto che questa notizia sia stata ignorata dai media la dice lunga – ma questo è un altro tema – sulle classi dirigenti di questo Paese. Non la ritengo una cosa di poco conto, alla luce di quello che lei stesso oggi ci ha illustrato, cioè della possibilità – lei, ministro, ne saprà più di me, io adesso reperirò i materiali – di avanzare nella costruzione di un rapporto cooperativo positivo col mondo islamico disponibile a isolare le tendenze radicalizzanti e a collaborare in modo attivo e pieno in quel coordinamento che lei ci ha proposto.
  Lei già indicava gli interventi nelle carceri. Io so delle sperimentazioni molto positive che si stanno portando avanti con il suo ministero. Vorrei sapere se è già al corrente di questo patto e che seguito può avere un patto così importante nell'implementare tutte le iniziative che ci stiamo proponendo anche con questa proposta di legge.
  Da questo punto di vista, con questa proposta, se passerà alla Camera e poi al Senato e diventerà legge, potremmo costruire un tassello in più nella prevenzione. Tuttavia, lei sa che, come ci hanno detto gli studiosi che abbiamo audito, manca ancora una base fondamentale nel nostro Paese, su cui c'è un ritardo enorme, che è la legge sulla libertà religiosa.
  Nel ragionamento che stiamo facendo con il collega Dambruoso e gli altri commissari si diceva che si potrebbe procedere almeno alle intese con le comunità islamiche disponibili. Anche questa è una cosa che sottopongo alla sua attenzione.
  Ritengo che, se dal Governo venisse un impulso a percorrere finalmente in Italia la via maestra, che è quella di una legge sulla libertà religiosa, sarebbe un fatto enorme. Ne capite tutti la ragione.

  PRESIDENTE. Do la parola al Ministro Orlando per la replica.

  ANDREA ORLANDO, Ministro della giustizia. Grazie degli apprezzamenti e delle sottolineature. Sono molto d'accordo con l'onorevole Dambruoso: noi stiamo costruendo Pag. 14 uno strumento che deve avere una capacità di lungimiranza, perché questo è un fenomeno di cui non conosciamo esattamente tutti i potenziali sviluppi e che nel nostro Paese si è manifestato in modo aurorale in questa fase. Non siamo ancora alle dimensioni che hanno riguardato altri Paesi europei.
  A questo proposito è giusto chiedersi perché i numeri sono ancora relativamente contenuti, anche se non trascurabili. Le risposte sono difficili, anche perché non è chiaro neanche perché i numeri siano importanti negli altri Paesi.
  Se, però, proviamo a dare una risposta intuitiva, seguendo la riflessione su questo tema, emergono due fattori importanti. Da un lato, c'è il dato della composizione e della distribuzione delle comunità sul territorio, nel senso che probabilmente – è giusto essere molto cauti – il livello di segregazione delle comunità e il livello di integrazione delle nostre comunità sono diversi da quelli di altri Paesi. Le nostre periferie non sono le periferie di altri Paesi, per tutta una serie di ragioni storiche e urbanistiche e per il fatto che siamo stati un Paese soltanto marginalmente coloniale. Questo sicuramente ha inciso.
  L'altro aspetto riguarda un fatto meramente cronologico, che ci deve lasciare meno tranquilli, cioè il fatto che le generazioni che sono state più soggette a radicalizzazione negli altri Paesi sono state le seconde e le terze. Il relativo ritardo con cui si è manifestato il fenomeno migratorio nel nostro Paese fa sì che le seconde generazioni oggi siano più giovani di quelle di altri Paesi europei e, quindi, probabilmente questo fenomeno, che può ancora manifestarsi, non si è manifestato nelle dimensioni e con la forza con cui è avvenuto in altri Paesi europei.
  La strategia che abbiamo cercato di mettere in campo è assolutamente sovrapponibile con l'impostazione anche culturale che caratterizza il provvedimento che è in discussione, cioè quella di un approccio multidisciplinare e multifattoriale. È il tentativo di guardare tanto al fenomeno della radicalizzazione quanto al fenomeno della deradicalizzazione, cioè non soltanto a come si coglie la patologia, ma anche a come si cerca in qualche modo di gestirla verso un superamento di questa specifica condizione.
  È evidente che in quest'ambito l'aspetto che riguarda il culto ha una grandissima rilevanza. Anche su questo, osservando la fenomenologia di altri Paesi, emerge che la protesta contro la negazione del culto e la difficoltà dell'accesso al culto sono tra gli elementi che hanno creato più proselitismo.
  Nel carcere questo aspetto ha una grandissima rilevanza. In una dimensione di restrizione della libertà, qualunque ulteriore privazione in termini di diritti della persona assume un significato del tutto diverso rispetto a quello che assume nella vita quotidiana. Da questo punto di vista, noi abbiamo cercato di assicurare costantemente la possibilità dell'accesso al culto.
  L'onorevole Pollastrini mi poneva una domanda molto giusta e molto interessante, a cui io rispondo in termini specifici, poiché in termini generali ci sarebbe da fare una discussione che porterebbe via molto tempo. Mi chiedeva che cosa ci può dare in termini specifici la conclusione dell'accordo tra il Ministero degli interni e il tavolo dell'islam.
  Ci può dare un quadro di riferimento più chiaro, perché noi nelle convenzioni che fino a qui abbiamo stipulato ci siamo mossi a livello di tentativi. Noi stiamo procedendo a un confronto con le diverse e variegate entità del mondo islamico, per cercare di coinvolgerle in questa organizzazione della predicazione all'interno delle carceri. Tuttavia, si tratta di realtà tra loro molto differenti, anche con impostazioni molto differenti. Pur non essendo necessariamente in alcun modo vicino all'impostazione jihadista, anche quello che noi chiamiamo islam non radicalizzato o moderato è in realtà molte cose diverse tra loro.
  L'ulteriore difficoltà che si presenta è che si tratta di una galassia che non si organizza attorno a una gerarchia, perché l'islam non conosce la gerarchizzazione e la strutturazione che conoscono altre religioni. Pag. 15
  Questo accordo quadro che è stato siglato dal Ministero dell'interno, pertanto, costituisce sicuramente una cornice molto importante nella quale ci si può muovere.
  Io insisto su un concetto che ho già espresso e vorrei farlo in modo ancora più «brutale», giacché ne ho occasione. Molti ci dicono: «Voi dovete avere una sorta di bollinatura dei predicatori, perché dovete essere certi che non vadano a fare proselitismo all'interno delle carceri». Questo mi sembra assolutamente un dato di buonsenso.
  Bisogna stare attenti a non farli apparire agli occhi di coloro che partecipano al culto come una sorta di agenti dello Stato o di promanazione diretta dell'amministrazione penitenziaria, perché allora avrebbero un ruolo del tutto inutile, nel senso che non sarebbero riconosciuti come soggetti abilitati alla predicazione.
  La conseguenza non sarebbe quella di avere una predicazione «più controllata», ma quella di avere una predicazione parallela, che in qualche modo anche dal punto di vista della sicurezza rischia di diventare meno «conveniente e utile» per la stessa amministrazione penitenziaria.
  Pertanto, dobbiamo mantenere una certa elasticità nell'individuazione di questi soggetti e dei criteri – che naturalmente non significa indifferenza – e un'attenzione a non invadere un campo che non può essere risolto dall'autorità pubblica.
  Credo che valga un po’ il ragionamento che dovremmo fare e che cerchiamo di fare anche fuori dal carcere. È meglio avere un culto che si realizza all'interno delle moschee che un culto che si realizza all'interno dei garage, perché è in questo secondo contesto che si rischia di realizzare una situazione incontrollata e incontrollabile, nella quale tra l'altro il messaggio radicale rischia di avere più forza e più capacità di persuasione, oltre che di potersi mostrare in modo assolutamente esplicito, senza nessun tipo di censura, di autocensura, di condizionamento.
  Sempre l'onorevole Dambruoso mi poneva la questione di un'interlocuzione diretta tra chi dirige gli istituti e comunità locali. Noi, devo dire la verità, stiamo ancora lavorando alla prima fase, cioè quella di accordi nazionali che in qualche modo consentano di costruire questa rete; non escludiamo questa seconda fase. Naturalmente l'accordo tra tavolo dell'Islam e Ministero dell'interno rende più semplice anche questo tipo di interlocuzione, che è assolutamente fondamentale.
  Un'ultima riflessione vorrei farla su una questione che riguarda il web. Si è aperta una discussione che attiene quasi ai massimi sistemi su come si interviene sul web, su quali sono gli strumenti attraverso i quali si può contrastare la propaganda d'odio sul web. Vorrei limitarmi a questa considerazione: non sono arrivato alle determinazioni che ho proposto alla Commissione sulla base di riflessioni che in generale si possono sviluppare sulle potenzialità, sulla bellezza, sui limiti della rete; le mie riflessioni sono il frutto di un confronto che c'è stato a livello dei Ministri della giustizia europea, che partiva da una presa d'atto molto semplice, cioè che gli strumenti di cui dispone oggi la giurisdizione non sono adeguati ad intervenire per contrastare la propaganda d'odio sul web, per una serie di ragioni anche intuitive.
  Una è il difetto di competenza dal punto di vista giurisdizionale. Spesso chi scrive è di un Paese ma usa uno strumento che ha sede in un altro Paese ancora e colpisce una persona che vive in un altro Paese ancora. Quindi, qual è l'autorità competente che deve intervenire? Soltanto questa è una domanda non banale.
  La potenza di fuoco che il messaggio sul web ha è diversa dalla scritta sul muro o dal volantino di propaganda, è molto diversa e l'impatto è molto più forte. Il tema della tempestività è assolutamente fondamentale. La giurisdizione si muove inevitabilmente secondo meccanismi che riescono a incidere molto tempo dopo il momento in cui si è realizzato il fatto reato. E quando il fatto reato si è prodotto sul web il meccanismo della viralità produce una serie di effetti che non sono controllabili.
  Inoltre, assume rilievo il fatto stesso che è impossibile che la giurisdizione sia nelle condizioni di controllare tutti i contenuti che in qualche modo siano in conflitto con Pag. 16l'ordinamento di riferimento o con l'insieme degli ordinamenti che sono coinvolti.
  Questo insieme di considerazioni ci ha fatto sostanzialmente chiedere alle piattaforme una cooperazione finalizzata alla rimozione in tempi tempestivi dei materiali che in qualche modo siano caratterizzati da contenuti di propaganda d'odio. Questo lavoro è iniziato nel maggio del 2016; il protocollo è stato sottoposto, io credo molto opportunamente, a un monitoraggio delle associazioni, di molte organizzazioni non governative (ONG), perché è importante che non sia lo Stato a verificare questo tipo di attività, ma siano soggetti che in qualche modo sono caratterizzati per indipendenza e sono lontani dall'idea di una sorta di censura o di paracensura svolta dallo Stato. I risultati, però, non sono soddisfacenti, perché le piattaforme rimuovono i contenuti con molto ritardo e non sempre rimuovono i contenuti.
  Tra l'altro, quello che viene considerato propaganda d'odio dalle ONG che si occupano di questo non equivale a ciò che è considerato propaganda d'odio dalle piattaforme. Questo determina ancora una serie di maglie nelle quali questo tipo di fenomeno rischia di muoversi e di alimentare un sentimento del quale si nutre la propaganda jihadista. Quest'ultima tra le altre, perché lo stesso ragionamento si può fare per il razzismo, per la xenofobia, per l'omofobia, per l'antisemitismo.
  Ultima considerazione. C'è un punto specifico che abbiamo provato ad affrontare in quel tavolo e che stiamo provando ad affrontare anche a livello nazionale, che riguarda non in generale tutte le fake news, o tutte le bufale previste – perché credo sia impossibile contrastarle, oppure se c'è un modo o esiste un algoritmo forse lo scoprirà qualcuno, ma forse è più inquietante pensare che ci sia un algoritmo di questo tipo che le bufale stesse – ma quali sono gli strumenti attraverso i quali si riescono a contrastare le cosiddette «bufale» quando alimentano delle leggende nere che riguardano etnie, religioni, orientamenti sessuali.
  Si tratta di false notizie che non hanno semplicemente lo scopo di attrarre in qualche modo l'attenzione di chi naviga sulla rete, ma di creare un clima nel quale poi si realizza la propaganda d'odio. Abbiamo letto spesso notizie che riguardano il comportamento di un aderente a una religione o di un appartenente ad un'etnia che ha compiuto un fatto particolarmente grave che poi abbiamo scoperto non essere vero. Queste notizie vengono veicolate per creare quel clima che è il presupposto della propaganda d'odio. Non si contano sulla rete le notizie che riguardano la connessione tra l'ebraismo, i complotti internazionali e la crisi finanziaria internazionale. Cito soltanto questo come esempio.
  Come si contrasta questo tipo di fenomeno? Noi abbiamo provato a seguire questa strada. Abbiamo chiamato tutte le associazioni che tutelano le minoranze e abbiamo provato a costruire una rete che in qualche modo svolga una funzione di monitoraggio e di contronarrazione, utilizzando esattamente gli stessi strumenti che usa chi veicola la bufala, cioè la rete stessa. Siamo a un primo stadio; abbiamo messo insieme questi soggetti e adesso vorremmo che si costituissero con una vera e propria piattaforma che svolge questa funzione. Naturalmente, anche in questo caso è assolutamente fondamentale il fatto che, nel momento in cui parte questo soggetto, lo Stato e qualunque soggetto pubblico si ritraggano.
  È chiaro che non c'è niente di peggio dell'idea che in qualche modo ci sia una sorta di ministero o di agenzia della verità. Io ho guardato anche con una certa perplessità alcune proposte che sono emerse che volevano assegnare ad alcune agenzie la verifica della veridicità dei testi. In una dimensione che è inevitabilmente dialettica, se esiste una verità o comunque se esiste una palese menzogna, quest'ultima si raggiunge e si sconfigge attraverso un contrasto tra opinioni e notizie diverse. Però abbiamo il dovere – questo è il compito che stiamo cercando di svolgere – di riequilibrare la sperequazione che si determina tra chi subisce questo tipo di campagne di persecuzione attraverso notizie e chi le mette in campo.
  C'è una sperequazione, che non è la stessa, al contrario di quello che si è detto, Pag. 17che succede anche sui giornali. Non è la stessa cosa, perché il giornale è soggetto a una disciplina molto più stringente e perché comunque la viralità che ha una notizia di quel genere, quando viene veicolata sulla rete, ha una forza superiore a quella che viene pubblicata su un giornale, che è sottoposto poi alla disciplina della rettifica, della smentita eccetera eccetera.
  Questo tentativo che stiamo portando avanti secondo me è molto interessante, perché è il tentativo di creare sulla rete degli anticorpi che utilizzano gli stessi strumenti della rete. Devo dire che abbiamo avuto una larghissima adesione da parte di tutte le associazioni che in qualche modo tutelano minoranze discriminate. Credo che questo passaggio possa individuare anche un salto di qualità nelle modalità di concepire la democrazia e il confronto democratico sulla rete.

  PRESIDENTE. Ha chiesto di intervenire l'onorevole Sisto per porre una domanda.

  FRANCESCO PAOLO SISTO. Vorrei fare una domanda brevissima.
  Mi interessa il passaggio della giustizia minorile, che non è affatto un argomento minore. Poiché ho visto che le terapie che sono individuate sono delle terapie in parte già esistenti e altre da sviluppare, volevo chiedergli se tutti questi riferimenti sia alla fase preventiva, ma soprattutto alla fase esecutiva, quindi una disciplina sia del procedimento che del processo, quindi la sua fase esecutiva, possano andare in qualche modo in rotta di collisione con l'ipotizzata razionalizzazione – io la chiamo normalizzazione – dei tribunali per i minorenni.
  Io non sono favorevole in genere ai giudici specializzati. Penso che tutto quello che è specializzato in qualche modo crei un diritto speciale, quindi come tale si corre il rischio di una sorta di decentramento di princìpi, giustificato sulla scorta di binari plurimi che non fanno certamente bene alla lettura equilibrata del sistema. Tuttavia, il diritto minorile secondo me è un'eccezione, non solo perché si tratta di un diritto con una minore resistenza alla giustizia, ma soprattutto perché, in tanti anni di tradizione, una sorta di specializzazione maturatasi nel tempo esiste.
  Volevo allora chiedere al ministro se queste ricognizione e programmazione, con riferimento a questo specifico capitolo, andassero in qualche modo in rotta di collisione o meno – altrimenti, meglio così — con quello che si ipotizza sulla reductio ad unum dei tribunali per i minorenni.

  PRESIDENTE. Vorrei aggiungere un passaggio perché il ministro ha toccato un tema che mi interessa moltissimo, quello del rapporto tra bufale, propaganda d'odio e anche rapporti costituzionali e diritti costituzionali, che diventa molto complicato.
  Anche io sono totalmente contrario al concetto delle autorità che controllano, come qualcuno ha ipotizzato, il contenuto delle news. Però lei ha detto una cosa che, secondo me, è il punto fondamentale, cioè che la grande differenza del web rispetto ai giornali sta anche nella fonte. Bene o male, se leggo una cosa su un giornale so chi l'ha scritta, so cosa pensa e la prendo con beneficio di inventario a seconda del soggetto che l'ha scritta. Sul web questo tema non c'è; non solo, ci sono i fake, ci sono i profili finti, ci sono cose che si chiamano giornali e non sono dei giornali.
  Mi domandavo se in questo osservatorio e in questa contropropaganda – è brutto il termine, però la sostanza è quella — ci sia una valutazione di due aspetti: uno, se concentrare molto l'attività non solo sui contenuti falsi o non falsi, ma su chi li mette in giro, perché spesso ci sono «testate» che sono finte e testate online, dopodiché non sono testate ma sono uno magari iscritto a un gruppo razzista o altro; l'altro – so che lei e in generale a livello governativo si stanno tenendo dei rapporti con le piattaforme, con gli operatori del web eccetera – se non si debba fare un lavoro non dico per imporre ma comunque sollecitare una riduzione dell'anonimato e una identificazione di quelli che sono i profili falsi. Una delle cose sconvolgenti emerse con la campagna, ad esempio, sulle elezioni americane, è che un terzo dei messaggi delle due parti circolati su Twitter era fatto da un algoritmo al computer che Pag. 18li generava automaticamente, e per di più che Facebook, se sono messaggi generati automaticamente, per una ragione tecnica li diffonde e li viralizza ancora di più.
  Allora, nel momento in cui poi chi utilizza questi sistemi è per l'appunto l'iscritto al club nazista o cose di questo tipo, credo che lì non sarebbe una lesione costituzionale cercare di dire a questi soggetti o di promuovere con questi soggetti degli strumenti di riduzione dell'anonimato.
  È chiaro che in alcuni Paesi magari a bassa democrazia la rete ha una sua funzione, ma perlomeno degli interventi di questo tipo sull'identificazione di chi mette in giro i messaggi sarebbero del tutto rispondenti ai nostri princìpi costituzionali – non entrerei nel merito del contenuto – e sicuramente si potrebbero depotenziare cose che magari sono pubblicate come notizie giornalistiche e invece vengono da gruppi di interesse che magari hanno una finalità esclusivamente di propagandare odio o notizie false.
  Do nuovamente la parola al ministro Orlando.

  ANDREA ORLANDO, Ministro della giustizia. Signor presidente, come ho detto esponendo la relazione e anche in queste ultime considerazioni, non mi sono posto l'obiettivo di affrontare complessivamente il fenomeno, perché forse non sono in grado, ma soprattutto perché quell'obiettivo avrebbe la necessità di un approccio che coinvolge più ministeri e soprattutto dovrebbe realizzarsi in una dimensione sovranazionale.
  Anche rispetto alle mirate questioni che sottoponevo alla vostra attenzione, noi abbiamo fatto un tentativo di un confronto a livello nazionale. Devo dire che le piattaforme si sono sottratte e abbiamo iniziato ad incidere nella questione, a proposito di importanza dell'Europa, soltanto quando il tema è stato assunto dalla Commissione europea, su istanza nostra e della Germania, perché fino a quel momento c'è stata disponibilità a campagne di informazione, disponibilità a campagne di educazione nelle scuole, ma impegni veri e propri nella gestione dei contenuti non sono emersi. Una cosa come questa imporrebbe una capacità contrattuale almeno a livello europeo, perché credo che sia difficile pensare che si crei per il nostro Paese una disciplina diversa, rispetto alle identità sulla rete, da quella di altri Paesi europei. Quindi, confesso il fatto che, forse per scarsa ambizione, non ho affrontato con questa dimensione il fenomeno, anche se mi sono fatto delle opinioni che sicuramente sono assai vicine alle sue.
  Sulla questione dei minori, onorevole Sisto, la ringrazio della domanda, perché intanto mi consente di dire una cosa che vorrei esprimere in modo lapidario: se il nostro sistema penitenziario per gli adulti fosse come quello che attualmente funziona nel nostro Paese per i minori, io non vedrei nessun pericolo di radicalizzazione. Intendo dire che il sistema penitenziario dei minori non soltanto è un'eccellenza a livello europeo, ma ha realizzato, anche per i numeri – ormai sono meno di mille i minorenni, i giovani adulti reclusi — una individualizzazione del trattamento che è esattamente l'antidoto alle derive di radicalizzazione. In questo senso, ritengo che quello sia un modello che va difeso e che andrebbe semmai esteso. Noi in qualche misura lo abbiamo fatto quando abbiamo portato istituti che erano nati nell'ambito minorile, come la messa alla prova o l'utilizzo più intenso di pene alternative, nell'ambito degli adulti.
  Naturalmente non ce la facciamo dal punto di vista delle prassi organizzative perché il numero dei detenuti adulti è un numero molto più grande. La gestione degli adulti e il rapporto anche tra operatori e detenuti non è quello che si realizza tra i minori e via dicendo.
  Per quanto riguarda la domanda sulla questione dei diversi tribunali, intanto non devo spiegare a lei – mi scuso se lo faccio, soprattutto per me stesso – che noi non abbiamo proposto nessun tipo di attenuazione della distinzione del diritto sostanziale che riguarda i maggiori e gli adulti, anzi devo dire che semmai da me sono state respinte istanze che andavano in altra direzione, come quella che continua a ritenere una soluzione l'abbassamento dell'età per la punibilità, che mi fa piacere Pag. 19notare, almeno se colgo bene nelle sue parole, non è posizione condivisa.
  Per quanto riguarda la questione della scelta che noi stiamo facendo, qual è l'oggetto del contendere? Sono anni che si chiede una struttura che si occupi non soltanto del minore, ma che metta il minore in relazione alla patologia che si realizza nella famiglia e che affronti complessivamente i problemi che riguardano la persona. Quindi, non un mondo a parte, pur mantenendo un ordinamento distinto dal punto di vista penitenziario, pur mantenendo un diritto sostanziale diverso, però una giurisdizione che sia in grado di avere uno sguardo più largo e che metta insieme fenomeni diversi, perché sempre più spesso abbiamo visto che dimensione penale e dimensione civile spesso si tengono, che problemi della famiglia e problemi del minore spesso sono profondamente intrecciati, quindi la possibilità di dare a questo soggetto della giurisdizione uno sguardo a 360 gradi, anche alla luce del fatto che, dopo gli interventi normativi che si sono realizzati, si è determinata una forte frammentazione delle competenze e una forte diminuzione delle competenze dei tribunali dei minori.
  Perché si parla oggi di soppressione dei tribunali dei minori da parte delle stesse persone che hanno posto la questione della costruzione di un tribunale della famiglia? Perché anziché essere un tribunale della famiglia con un suo presidente si ipotizza una sezione del tribunale che si occupi di famiglia. Il problema è che allora la specificità della cultura minorilista sopravvive se c'è un presidente in più? Se questo è il problema lo risolviamo subito. Mi pare più un'istanza tesa a tutelare uno status quo che non ad affrontare una specificità, a meno che non mi si dica che quello che abbiamo detto nel corso di questi anni non è vero e i temi dei minori vanno trattati al di fuori del contesto della famiglia. Allora quella è una scelta che però ribalta completamente tutta la discussione che si è sviluppata nel corso di questi anni su questo tema.
  Io sono convinto del fatto che se il problema è individuare una struttura maggiormente autonoma dal tribunale ordinario ne possiamo discutere, però di questo stiamo parlando, non stiamo parlando del fatto che il tribunale della famiglia in qualche modo è la negazione dell'esperienza minorilista; anzi, il tribunale della famiglia, nella mia visione, è l'occasione di costruire un tribunale della famiglia che sia informato alle esperienze della giurisdizione che ha riguardato i minori nel corso di questi anni, con tanto di capacità di coinvolgere competenze extragiuridiche e con tanto di capacità di operare secondo un criterio che tenga più fortemente conto dell'impatto che la norma ha sulla persona di quanto non sia realizzato nel resto della giurisdizione civile.
  Questo è lo scopo. Che, se c'è un posto di presidente o meno, si cambi questo segno, non lo credo sinceramente, ma siccome sono disponibile a discuterne ne discuterò e ne terrò conto. Diversa è la questione delle procure dei minori, perché in questo caso c'è una preoccupazione che io vorrei in qualche modo risolvere ed affrontare, ossia che le cosiddette «procurine» collocate dentro le procure ordinarie siano assorbite e in qualche modo fagocitate. Questo è un rischio che esiste e dobbiamo trovare a livello normativo la possibilità di evitarlo. Non dobbiamo – questo sì – mantenere dei compartimenti stagni, perché io risponderei al tema della radicale diminuzione dell'età media di chi commette reati anche molto gravi non cambiando l'ordinamento. Secondo me – questa è la mia valutazione – un minore deve essere considerato con un grado di responsabilità diverso da una persona che ha raggiunto la maggiore età, ma è importante il coordinamento che si può determinare su chi svolge attività di carattere investigativo.
  Come abbiamo visto purtroppo in molte realtà – la cosa riguarda la criminalità organizzata ma anche il terrorismo – i grandi utilizzano i minori. Questo non significa che noi dobbiamo applicare la legge dei grandi ai minori, ma sicuramente creare delle strutture che abbiano una capacità di tenere insieme indagini che riguardano i grandi con quelle che riguardano i minori è secondo me la risposta che dobbiamo Pag. 20 realizzare, stando attenti ad evitare che ci sia una sorta di dissoluzione dell'esperienza delle procure dei minori all'interno delle procure più grandi.
  Mi pare che questo sia il punto fondamentale.

  PRESIDENTE. Ringrazio anche a nome della Commissione il ministro per il tempo che ci ha dedicato.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.35.