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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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XVII Legislatura

II Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 1 di Giovedì 29 maggio 2014

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Ferranti Donatella , Presidente ... 2 

INDAGINE CONOSCITIVA IN MERITO ALL'ESAME DELLE PROPOSTE DI LEGGE C. 189  PISICCHIO, C. 276  BRESSA, C. 588  MIGLIORE, C. 979  GOZI, C. 1499  MARAZZITI E C. 2168 , APPROVATA DAL SENATO, RECANTI INTRODUZIONE DEL DELITTO DI TORTURA NELL'ORDINAMENTO ITALIANO

Audizione di Mauro Palma, presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell'esecuzione penale del Consiglio d'Europa, di rappresentanti dell'Associazione Amnesty International Italia e di rappresentanti dell'Associazione Antigone.
Ferranti Donatella , Presidente ... 2 
Palma Mauro , Presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell'esecuzione penale del Consiglio d'Europa ... 2 
Ferranti Donatella , Presidente ... 4 
Palma Mauro , Presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell'esecuzione penale del Consiglio d'Europa ... 4 
Ferranti Donatella , Presidente ... 4 
Marchesi Antonio , Presidente dell'Associazione Amnesty International Italia ... 4 
Ferranti Donatella , Presidente ... 7 
Marchesi Antonio , Presidente dell'Associazione Amnesty International Italia ... 7 
Ferranti Donatella , Presidente ... 7 
Marchesi Antonio , Presidente dell'Associazione Amnesty International Italia ... 7 
Ferranti Donatella , Presidente ... 7 
Gonnella Patrizio , Presidente dell'Associazione Antigone ... 7 
Ferranti Donatella , Presidente ... 8 
Sarti Giulia (M5S)  ... 8 
Ferraresi Vittorio (M5S)  ... 9 
Ferranti Donatella , Presidente ... 9 
Palma Mauro , Presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell'esecuzione penale del Consiglio d'Europa ... 9 
Ferranti Donatella , Presidente ... 10 
Marchesi Antonio , Presidente dell'Associazione Amnesty International Italia ... 10 
Gonnella Patrizio , Presidente dell'Associazione Antigone ... 11 
Ferranti Donatella , Presidente ... 11

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: FI-PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Nuovo Centro-destra: NCD;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Per l'Italia (PI);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DONATELLA FERRANTI

  La seduta comincia alle 13.45.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
  (Così rimane stabilito).

Audizione di Mauro Palma, presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell'esecuzione penale del Consiglio d'Europa, di rappresentanti dell'Associazione Amnesty International Italia e di rappresentanti dell'Associazione Antigone.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva in merito all'esame delle proposte di legge C. 189 Pisicchio, C. 276 Bressa, C. 588 Migliore, C. 979 Gozi, C. 1499 Marazziti e C. 2168, approvata dal Senato, recanti introduzione del delitto di tortura nell'ordinamento italiano, l'audizione di Mauro Palma, presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell'esecuzione penale del Consiglio d'Europa, di rappresentanti dell'Associazione Amnesty International Italia e di rappresentanti dell'Associazione Antigone.
  Oggi cominciamo una serie di audizioni. Sono presenti Mauro Palma, presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell'esecuzione penale del Consiglio d'Europa, Antonio Marchesi, presidente dell'Associazione Amnesty International Italia, accompagnato anche da Laura Renzi, responsabile dell'ufficio lobby ed advocacy, da Leonardo Bellini, coordinatore della campagna diritti umani in Italia, e da Elena Santiemma, relazioni istituzionali, e, infine, Patrizio Gonnella, presidente dell'Associazione Antigone, accompagnato da Susanna Marietti, coordinatrice nazionale, e da Andrea Orlandi, addetto all'ufficio stampa.
  Conterrei gli interventi, se possibile, in dieci minuti o un quarto d'ora, in modo tale da vedere se ci sono domande.
  Do la parola a Mauro Palma.

  MAURO PALMA, Presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell'esecuzione penale del Consiglio d'Europa. Grazie, presidente. Ringrazio la Commissione. Ci siamo visti anche nel passato su altri provvedimenti e, quindi, ringrazio i membri della Commissione e la presidenza per l'apprezzamento al minimo contributo che io posso portare.
  Come alcuni di cui voi sanno, io attualmente presiedo il Consiglio europeo per la cooperazione nell'esecuzione penale, ma per molti anni ho presieduto il Comitato europeo per la prevenzione della tortura. È, quindi, più facendo riferimento a questa mia passata funzione che a quella odierna che intervengo oggi e che cerco di citare un minimo di riferimento alle previsioni di altri Paesi in Europa, lasciando poi magari ad altri la possibilità più specifica di fare una valutazione di come sia stato tortuoso il percorso italiano per arrivare a questo provvedimento.
  Parto dal fatto che, in linea generale, anche nell'ambito del Comitato per la prevenzione della tortura, noi caratterizziamo la tortura con tre connotazioni.Pag. 3
  La prima è il livello di gravità del maltrattamento inflitto. Noi siamo sempre stati contrari a una confusione tra tortura e semplice maltrattamento. Per la Corte di Strasburgo esiste una soglia minima di gravità che deve essere raggiunta.
  La seconda caratteristica che distingue la tortura dai trattamenti inumani e degradanti è la volontà di infliggerla, di permetterla o il non aver controllato il fatto che sia permessa.
  La terza caratteristica è quella di una finalizzazione. Non sempre la finalizzazione è di tipo informativo, per una confessione o per avere informazioni. A volte la finalizzazione può essere anche quella di non credere nelle punizioni legali e, quindi, di voler infliggere una punizione extralegale perché non si crede nelle punizioni legali. «Te la do io una lezione», per esprimersi in termini un po’ banali. Ci sono poi anche motivi etnici e razziali o questioni di questo genere.
  Osservando il provvedimento che la Camera sta esaminando in questo periodo, e che comunque noi salutiamo con favore, due aspetti ci hanno colpito.
  Il primo è quello di un certo depotenziamento della fattispecie nel momento in cui si tratta di una fattispecie di ordine generale e non di una fattispecie tipizzata. Vero è che c’è l'aggravante per il pubblico ufficiale, ma è altrettanto vero che, in genere, la tortura è un reato specifico del pubblico ufficiale. Capisco benissimo che ci sono sensibilità diverse nei diversi Paesi, ragion per cui questa può essere una modalità su cui si è raggiunto un punto di equilibrio nel nostro Paese e che sarebbe comunque accolta positivamente a livello internazionale.
  A questo proposito io ho un paio di esempi. Per esempio, in Spagna la tortura è reato tipizzato e, quindi, specifico. Tenete presente che il Codice penale spagnolo è stato introdotto immediatamente dopo il ritorno alla democrazia e che, quindi, ha assunto al suo interno tutta una serie di connotazioni che erano dense della storia precedente. Invece in altri Paesi, come nella Francia stessa, la tortura non è un reato tipizzato, ma un reato generico.
  Teniamo presente che prevedere un reato è metà del cammino. Poi c’è il fatto che il reato sia utilizzato. Non è detto che sia stata più positiva la scelta spagnola rispetto alla scelta francese nella pratica dell'effettività di ciò che si era previsto. Questo della tipizzazione o non tipizzazione è un aspetto che consideriamo, ma che non riteniamo dirimente per affermare che questo provvedimento di legge vada o non vada bene.
  Quello che, invece, mi lascia qualche perplessità in più è la mancanza di qualunque finalizzazione, il che rende questo un reato direi di «iperviolenza», ma non, in un certo senso, un reato commesso per un dato fine.
  A proposito di questo aspetto, ossia della mancanza di finalizzazione, io non so come sia stato il percorso legislativo in Senato che ha portato al testo attuale. Ho visto che questo elemento c'era all'inizio e che poi non c’è stato più. In un certo senso, questo può far sfumare quel limite tra maltrattamenti e tortura che, invece, gli organismi di controllo hanno sempre tenuto ben chiaro. La tortura deve essere qualcosa che ha un'esplicitazione, un perché, un elemento.
  L'altra questione che mi colpisce è la sua diversità rispetto alla definizione. È sostanzialmente accolta la definizione delle Nazioni Unite, ma a volte contano alcuni piccoli cambiamenti. Nella definizione della Nazioni Unite si usa un singolare: «Chiunque con violenza o minaccia», mentre nella versione nostrana si usa un plurale.
  Non vorrei che questo particolare aprisse la questione della reiterazione. Non vorrei che l'uso del plurale aprisse una vecchia e annosa questione. Voi sapete bene che, quando un reato è commesso da un soggetto appartenente a una collettività, diventa molto semplice non applicare mai a nessuno quell’«ha reiterato». Oggi lo posso aver fatto io, poi lui, poi lei e poi ancora lei, appartenendo a una collettività. Su questo tema vedo in sala anche altri Pag. 4molto più esperti di me sul piano della congruenza col diritto internazionale, che, quindi, potranno dire qualcosa.
  Per la mia esperienza posso dire che c’è un rischio, ogni volta che io vedo utilizzati i plurali all'interno di un reato commesso da un soggetto che appartiene a un gruppo collettivo, perché il soggetto può essere sempre mutato e, quindi, si può non avere mai un individuo che abbia soddisfatto la condizione della pluralità dei comportamenti. Non so se è chiaro il modo in cui vedo la questione.
  Questi sono gli aspetti che mi hanno colpito, pur salutando io positivamente il percorso fatto e vedendolo come un traguardo in cui probabilmente – voi siete maestri in questo – i provvedimenti devono tener presente un bilanciamento di diverse esigenze. Mi sembra che questo sia un bilanciamento sostanzialmente in linea con quanto internazionalmente viene richiesto.

  PRESIDENTE. La ringrazio, anche per la puntualità dell'intervento.

  MAURO PALMA, Presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell'esecuzione penale del Consiglio d'Europa. Se volete alcuni piccoli riferimenti, per esempio l'articolo 212, comma 1 del Codice penale francese può essere uno, con riferimento poi, a sua volta, agli articoli 222 e 223 sempre del Codice penale francese. Per il Regno Unito il riferimento è l'articolo 134 del Criminal Act, che è da tener presente. Per la Spagna è il 174, poi ripreso dal 176 del Codice penale.
  Per la Germania, invece, la questione è diversa, perché la Germania considera la tortura come un reato che attenta alla dignità della persona e, poiché l'articolo 1 della Costituzione federale di Bonn, la Costituzione del 1949, dice che la dignità della persona è l'elemento costitutivo della Federazione stessa, ciò significa che la tortura attenta alla ratio della Federazione stessa. È vista come un reato che attenta alla Costituzione, in un certo senso.

  PRESIDENTE. La ringrazio.
  Do ora la parola ad Antonio Marchesi, presidente dell'associazione Amnesty International Italia.

  ANTONIO MARCHESI, Presidente dell'Associazione Amnesty International Italia. Grazie. Innanzitutto io ringrazio la presidente e i membri della Commissione di averci voluto ascoltare, peraltro così tempestivamente, sul tema dell'introduzione del reato di tortura.
  Prima di affrontare il tema specifico mi permetto di dire due parole soltanto sulla nuova campagna internazionale di Amnesty contro la tortura. A scanso di equivoci sull'accostamento fra la campagna mondiale di Amnesty e la questione legislativa di cui si parla, voglio chiarire che Amnesty non stila classifiche e che non ritiene affatto che le situazioni dei circa 140 Stati in cui ci risulta che siano state praticate torture negli ultimi cinque anni siano tutte uguali. Si va dal caso isolato alla pratica sistematica.
  Non c’è, quindi, alcuna intenzione di fare di ogni erba un fascio. Lo scopo di questa campagna è proprio quello di ottenere la piena attuazione ovunque della Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite, della quale, peraltro, nel 2014 ricorre il trentesimo anniversario.
  Già nel 1984 la Comunità internazionale prendeva atto dell'esistenza di un diritto assoluto a non subire torture e, quindi, di un divieto inderogabile di praticare la tortura e imponeva agli Stati tutta una serie di obblighi piuttosto precisi di prevenzione e di repressione del fenomeno. Era questo lo scopo della Convenzione, non quello di proibire la tortura, che già all'epoca era un risultato acquisito. Questo per eliminare nei fatti ciò che era ormai universalmente ripudiato a parole.
  Pertanto, è un po’ disarmante che trent'anni dopo si sia sostanzialmente in una situazione molto simile a quella del 1984. Il ripudio continua a esserci, ma l'obiettivo di sradicare effettivamente la tortura non è stato ancora raggiunto.
  Tra gli obblighi previsti da questa Convenzione, che l'Italia ha ratificato venticinque anni fa, tra l'altro – nel 1988, se Pag. 5non erro, c’è stata la legge di autorizzazione alla ratifica e nel 1989 il deposito della ratifica – ve n’è uno importante, che è proprio quello di cui all'articolo 4, ossia quello di assicurare che tutti gli atti di tortura, così come definiti nella Convenzione, siano previsti come reato nel diritto penale dello Stato parte.
  Ci sono essenzialmente due interpretazioni, almeno teoricamente, di quest'obbligo. Negli ultimi anni soprattutto si è assistito a un rafforzamento dell'interpretazione verso cui sono ormai decisamente orientati tutti gli organi internazionali di controllo sul rispetto dei diritti umani, ma anche buona parte degli Stati, secondo cui, per adempiere a quest'obbligo, sarebbe necessario prevedere un reato specifico e autonomo di tortura.
  Esiste, però, anche un'interpretazione «minimalista», che un tempo aveva un certo seguito e che riteneva compatibile con la Convenzione quella che, in sostanza, è la situazione italiana attuale, ossia la copertura dell'insieme dei fatti costituenti tortura secondo la Convenzione con un insieme di reati generici. Questa, però, è un'interpretazione che, soprattutto negli ultimi dieci anni, ha perso moltissimo terreno.
  Peraltro, l'interpretazione che chiede che vi sia una fattispecie specifica e, quindi, per dirla banalmente, che la tortura sia chiamata con il suo nome è più idonea, secondo le Nazioni Unite e gli organi di controllo, a contrastare una tendenza molto diffusa, ossia quella a restringere la portata del divieto assoluto di tortura attraverso una sottovalutazione della gravità del fenomeno. Lo scopo della Convenzione è proprio quello di assicurare un'azione molto energica e di sottrarre la tortura a quella che potremmo definire l'ordinaria amministrazione. La copertura mediante un insieme di reati generici è difficilmente conciliabile con questo, che è l'obiettivo principale della Convenzione.
  C’è poi, però, anche un motivo molto più specifico, ovvero che il funzionamento concreto di molti degli altri obblighi previsti dalla Convenzione non è semplicemente possibile se non c’è la fattispecie specifica. Tra questi segnalo, in particolare, quello di prevedere sanzioni adeguate alla gravità del comportamento, che è un altro degli obblighi importanti di questa convenzione.
  Voi sapete benissimo che da moltissimi anni, credo dai primi anni Novanta e, quindi, da poco dopo la ratifica italiana, vengono regolarmente presentati dei disegni di legge per introdurre il reato specifico nel nostro ordinamento e che questo obiettivo non è mai stato raggiunto.
  Non è il caso adesso di fare la cronistoria, è meglio guardare avanti, però, di fronte a questa situazione, ci sono state ormai da tanti anni e in maniera regolare osservazioni molto critiche da parte del Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite, ma anche di altri organi internazionali e anche europei di controllo sul rispetto dei diritti umani.
  I Governi italiani che si sono succeduti hanno alternato due spiegazioni. Da una parte, hanno detto che valeva l'interpretazione minimalista, dicendo che i fatti di tortura da noi comunque sono puniti, ma questo è ormai un argomento poco convincente. Dall'altra, si sono limitati a dire che il Parlamento era in procinto di introdurre la fattispecie. Questo, però, evidentemente si può fare per un anno, due o tre, ma vent'anni dopo è quasi imbarazzante ripetere questa spiegazione.
  Nel frattempo – forse questa è la cosa più importante da dire – ci sono state numerose vicende giudiziarie nel nostro Paese relative a episodi di maltrattamento. Si tratta poi di vedere se ogni volta fossero anche casi di tortura oppure no, ma si tratta di fatti accertati dai giudici. Tali fatti si sono conclusi con un nulla di fatto o quasi, a dimostrazione dell'inadeguatezza degli strumenti di reazione attuali, quelli che il nostro ordinamento mette a disposizione attualmente di fronte a questa violazione dei diritti umani.
  Non passo in rassegna questi casi. Ne cito uno soltanto, a dimostrazione degli effetti concreti che la mancata previsione del reato di tortura può riprodurre, che Pag. 6riguarda il carcere di Asti. È una vicenda giudiziaria che si è conclusa nel 2012 in Cassazione.
  Due detenuti sono stati presi di mira da un gruppo di agenti e maltrattati in modo sistematico. Uno dei due è stato spogliato, condotto in una cella di isolamento priva di vetri, di materasso, di lavandino e di sedia ed è rimasto lì per circa due mesi, per i primi giorni completamente nudo. Gli è stato razionato il cibo, per alcuni giorni ha ricevuto solo pane e acqua, ed è stato picchiato con calci, pugni e schiaffi per tutto il corpo. All'altro detenuto è stato riservato un trattamento abbastanza simile.
  Il tribunale di Asti, che ha ricostruito i fatti che vi ho riferito, parla di una prassi di maltrattamenti posti in essere in modo sistematico, aggiungendo – cito dalla sentenza – che «i fatti in esame potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura, se l'Italia non avesse omesso di dare attuazione alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 10 dicembre del 1984».
  In questo caso le indagini ci sono state e sono state approfondite, sono stati accertati i fatti e sono stati identificati i responsabili, ma la punizione non c’è stata perché, nel momento in cui si sono concluse le indagini, non c'era alcuna figura di reato che non portasse inevitabilmente, per via della pena lieve prevista, alla prescrizione.
  Questo è stato sostanzialmente confermato dalla Cassazione. La pubblica accusa si è rivolta alla Cassazione chiedendo che i fatti fossero qualificati in una maniera differente, come maltrattamenti aggravati e non come abuso di autorità contro arrestati o detenuti. La Cassazione ha respinto il ricorso dicendo che ciò non avrebbe fatto alcuna differenza pratica, dal momento che neppure la diversa qualificazione giuridica dei fatti avrebbe, a quel punto, portato alla punizione dei responsabili.
  In sostanza, la Suprema Corte ha riportato il passaggio del tribunale che qualifica i fatti come tortura, ammesso che ci fosse questa ipotesi di reato, e poi ha confermato che non c'era modo di punirli.
  Questo è un esempio di come questa lacuna legislativa, che si spera venga colmata presto, porti a una violazione della Convenzione contro la tortura. La copertura generica normalmente comporta che ci siano reati poco gravi puniti in maniera lieve. Questa già di per sé è una violazione dell'obbligo di punire in maniera adeguata la gravità del reato. Se in più il processo dura a lungo e si arriva alla prescrizione, c’è l'impunità, e questa è una violazione più grave della Convenzione.
  Vengo molto brevemente, prima di concludere, alla questione della definizione, su cui si è soffermato Mauro Palma e, in particolare, all'alternativa tra reato comune e reato proprio, a cui si aggiunge questa sorta di terza via, su cui è stato raggiunto un consenso del Senato, quella del reato comune aggravato se il fatto è commesso dal pubblico ufficiale.
  Io devo dire che è vero che la Convenzione delle Nazioni Unite definisce la tortura come reato proprio, ma, allo stesso tempo, chiarisce in modo espresso di non voler escludere definizioni più ampie, più comprensive, come sarebbe quella su cui si è espresso favorevolmente il Senato. Il vero problema, dal nostro punto di vista, è di non scivolare verso una definizione che sia troppo generica e che porti a non caratterizzare abbastanza la tortura e a farla somigliare a quei reati generici da cui, invece, è importante che venga tenuta distinta.
  A noi sembra che la soluzione accolta dal Senato rappresenti comunque, rispetto alla situazione attuale, un notevolissimo passo avanti, perché si passa dalla copertura generica al reato specifico di tortura. Dal punto di vista di Amnesty International, dopo oltre vent'anni, la priorità assoluta – ve lo dico in tutta sincerità – è quella di non concludere anche questa legislatura con un nulla di fatto. Questa sarebbe, secondo noi, la situazione più grave.
  A questo punto migliorare il testo si potrebbe. Il rischio che ciò comporti poi una paralisi della discussione in Senato, Pag. 7uno stallo o un nulla di fatto per noi evidentemente è un problema da non sottovalutare.
  In merito io non so interpretare questo plurale o questo singolare. Ho la sensazione che forse l'espressione «violenze e minacce» non sia l'equivalente del «più atti di» o «minacce e violenze reiterate».

  PRESIDENTE. Io penso di sì, invece.

  ANTONIO MARCHESI, Presidente dell'Associazione Amnesty International Italia. Lei ritiene di sì.

  PRESIDENTE. Non io. È una mera interpretazione letterale. È ovvio che si fa riferimento alla pluralità.

  ANTONIO MARCHESI, Presidente dell'Associazione Amnesty International Italia. Se fosse così, effettivamente questa sarebbe una definizione più restrittiva dell'articolo 1 della Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite e, quindi, si arriverebbe a introdurre una norma che non è conforme con l'atto internazionale che ci si propone di attuare.
  In conclusione, noi riteniamo che sia fondamentale che la tortura sia prevista come reato specifico, che sia chiamata col suo nome, che ci sia la parola «tortura», perché la tortura purtroppo esiste e non si può rimuovere, che sia definita in maniera compatibile con l'articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite e che la pena prevista sia adeguata alla gravità del reato.
  Se ci fossero dei miglioramenti da introdurre, sarebbe opportuno introdurli, ma la nostra preoccupazione è che alla fine di questa legislatura il reato di tortura in Italia ci sia.
  Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie.
  Do la parola a Patrizio Gonnella dell'Associazione Antigone.

  PATRIZIO GONNELLA, Presidente dell'Associazione Antigone. Buongiorno e grazie al presidente e agli altri componenti della Commissione giustizia. Non aggiungo molto, perché concordo perfettamente con quanto detto dal professor Palma e da Antonio Marchesi.
  Aggiungo un paio di dati in più su questo tema. Ricordo che ci sono tantissime organizzazioni della società civile, del mondo laico e del mondo cattolico, che nell'ultimo anno, a partire proprio da gennaio 2013, hanno costruito una campagna insieme. Sono organizzazioni che vanno da Antigone ad Amnesty International, ai sindacati, ma anche alla Caritas, al Gruppo Abele e all'Unione delle camere penali. Tutti abbiamo proposto, e questo è il punto di partenza, un testo che ricalca fedelmente l'articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite del 1984. Noi riteniamo che meno ci si discosta da quel testo e meglio è, perché è un punto di riferimento che offre una chiara definizione del delitto di tortura.
  Il delitto di tortura parte da un ragionamento, che riguarda l'asimmetria del rapporto fra custode e custodito. Il delitto di tortura non è pensato nella storia del diritto internazionale come un delitto che riguarda fatti fra privati. Nasce nel diritto internazionale umanitario pensando a un altro tipo di storia, a un altro tipo di rapporto fra la persona torturata e il torturatore.
  Detto questo, ovviamente concordo con tutte le osservazioni fatte finora da Antonio Marchesi e aggiungo un altro paio di considerazioni.
  L'unica volta in cui la nostra Carta costituzionale usa il verbo «punire» lo fa all'articolo 13, proprio in riferimento a chi ha compiti di custodia. È l'unica volta. Autorevoli giuristi ci dicono che, in realtà, questo sarebbe l'unico reato per cui ci sia una chiara indicazione costituzionale, perché l'unica volta in cui la Costituzione cita la parola «punizione» lo fa riferendosi a questo tipo di rapporto fra la persona custodita e la persona che l'ha in custodia.
  Illustro ora due argomenti che non funzionano e che abbiamo visto in questa campagna.
  Fra le prime proposte di legge ne ricordo una a cui lavorammo, proprio con Antonio Marchesi nel 1996-97. Furono Pag. 8raccolte quasi 80 firme in Senato di tutti i Gruppi parlamentari e di tutti i senatori a vita. Tuttavia, a un certo punto – non so se ricordi, Antonio – facemmo un convegno e uno dei vertici delle forze di sicurezza, che vi partecipò, disse: «In Italia, però, non c’è il rischio di tortura».
  Questo non è un argomento. Seppure fosse che noi ne fossimo totalmente immuni – peraltro, quel convegno avveniva prima di alcuni fatti epocali, come, per esempio, Genova 2001 – questo non sarebbe un argomento. Anzi, le democrazie si immunizzano con la codificazione di crimini di questo tipo.
  L'altro argomento che potrebbe ritornare in queste audizioni e nella vostra discussione è quello che questa sarebbe una norma penalizzante per chi svolge compiti di polizia. No, non è una norma penalizzante. Chi, come noi, fa questa campagna pensa a questa come a una norma di tutela per chi svolge compiti di polizia. Noi crediamo nella legalità fino in fondo e crediamo in un compito di polizia che non travalichi mai la legalità interna e la legalità internazionale.
  Chiudo qui dicendo che la vicenda di Asti che Antonio Marchesi ha raccontato è una vicenda che noi abbiamo seguito, in quanto eravamo parte civile nel procedimento. Ci avevano contattato i detenuti lì presenti.
  A questo punto, però, possiamo dirci anche un'altra cosa in merito all'argomento per cui in Italia la tortura non esiste. In realtà, nella nostra storia di lavoro – soprattutto noi seguiamo tantissime storie che ci arrivano dalle carceri – non si può dire che questo sia un Paese in cui c’è la tortura sistematica. Sarebbe assolutamente non corretto dire questo. Nella maggior parte degli istituti penitenziari non c’è un uso della violenza pensato e strutturato, quale è l'ipotesi di tortura.
  Concordo con Mauro Palma che il reato debba essere finalizzato. Deve essere finalizzato perché la tortura vive di quella intenzionalità, che può essere o un'intenzionalità di tipo estorsivo, per estorcere confessioni, oppure di tipo vessatorio, per esaltare il potere di punizione. Questo ci deve essere, ma non è fuori dal nostro sistema.
  Quella sentenza – io sono molto contento che Antonio Marchesi l'abbia citata – ripercorre cosa sia un episodio di tortura all'interno del sistema penitenziario. La sentenza andrebbe acquisita, e io vi chiederei di acquisirla, come elemento fondativo di una discussione, perché racconta come avviene un sistema di tortura. Lo racconta il giudice spiegando che è un sistema. C'era una finalizzazione.
  Per finire su Asti noi ora ci stiamo per costituire una seconda volta in giudizio ad Asti. Dopo fatti così gravi, ma finiti più o meno in quel modo, quattro o cinque anni dopo, si è ricostruito un sistema di violenza organizzato, sempre nello stesso posto, ragion per cui ora c’è una richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di alcuni operatori penitenziari, sempre di quell'istituto, per fatti paragonabili. In questo caso si trattava di un detenuto di fede islamica che veniva vessato brutalmente.
  La tortura, quindi, non è sistematica, è rara, ma esiste.
  Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie.
  Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  GIULIA SARTI. Grazie, presidente. Ovviamente ringrazio tutti per il prezioso contributo che ci state fornendo. Non mi soffermo più di tanto sulle differenze tra reato comune e reato proprio, perché ci avete già ben chiarito come e perché le Nazioni Unite nel 1984 pensarono di configurare questo reato come reato proprio.
  Pongo, invece, una domanda. Vorrei che ci spiegaste dal vostro punto di vista quali sono stati gli ostacoli, in questi vent'anni, nel nostro Paese e perché non si è riusciti mai ad arrivare al termine, all'approvazione definitiva di questa fattispecie di reato. Questa Commissione deve avere chiari, secondo me, quali sono stati i motivi e gli ostacoli, proprio per non ripetere gli errori del passato.Pag. 9
  Mi soffermo anche su un altro punto, ossia sulla punibilità. Nel testo approvato dal Senato la punibilità va dai tre ai dieci anni, mentre nella proposta di legge d'iniziativa popolare partita, come ricordava prima il dottor Gonnella, da Antigone e da tante altre associazioni ed esponenti della società civile la punibilità era da quattro a dieci anni.
  Chiedo solo una nota per capire se, a vostro parere, debba essere alzata la soglia di punibilità per il reato di tortura da cinque a dieci anni oppure se anche da tre a dieci anni potrebbe andare bene comunque e se non ci siano particolari danni, a vostro giudizio.
  Per ora basta così. Grazie mille.

  VITTORIO FERRARESI. Vorrei solo chiedere un parere per quanto riguarda la seconda parte. Preso atto della necessità di introdurre una finalità, osservo che la parte che recita «privata della libertà personale o affidata alla sua custodia», ossia sulla specificazione della condizione del soggetto che viene sottoposto a torture, se ci fosse il reato proprio, secondo me, si potrebbe escludere.
  Se ci fosse un reato proprio e, quindi, se fosse identificato l'autore del reato come pubblico ufficiale o autorità della forza pubblica, si potrebbe eventualmente togliere l'espressione «privata della libertà personale o affidata alla sua custodia», ossia tutte queste specificazioni che renderebbero più difficile l'applicazione del reato ?
  Grazie.

  PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

  MAURO PALMA, Presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell'esecuzione penale del Consiglio d'Europa. Rispondo ad alcuni dei quesiti. Ferma restando la questione sulla finalità, parto dalla questione dei tanti anni trascorsi.
  Quello che più colpisce è che il combinato disposto tra l'assenza del reato e la ragionevole durata dei procedimenti faccia sì che, per esempio, per una delle due persone di Asti che venivano citate prima, rispetto alle quali c'era stato anche, a seguito della chiusura del caso, il provvedimento disciplinare che prevedeva la cessazione dal servizio, per difetto di notifica del provvedimento iniziale, a dieci anni di distanza tale persona sia ancora in servizio nello stesso istituto.
  Non mi stupisco troppo, quindi, se le culture, come si diceva prima, si mantengono, perché questi sono – mi dispiace dirlo – sostanzialmente dei messaggi di impunità. Quando si accerta un fatto e poi a questo non consegue un elemento punitivo, il messaggio che viene trasmesso al singolo è un messaggio di sostanziale impunità.
  Perché per molti anni ? Io credo per un'errata concezione di tutela, per esempio delle persone delle forze dell'ordine. Parlo di errata concezione perché io credo che gli elementi di trasparenza siano il miglior modo di difesa degli agenti di polizia e che, anzi, l'avere un reato specifico sia la migliore possibilità per escludere delle generalizzazioni sui comportamenti in senso negativo.
  Io posso assicurare, per gli anni della mia esperienza in Europa, che la tortura esiste, ma contemporaneamente posso anche assicurare che il percorso di democratizzazione delle forze dell'ordine in Europa in senso generale è un percorso innegabile e che, quindi, un elemento che consenta di levare ogni opacità aiuti a costruire questo tipo di cultura. Chi difende diminuendo la trasparenza implicitamente non sta difendendo. Questa è la mia valutazione del perché il percorso si sia protratto nei vari anni.
  Mi pare che l'onorevole Sarti avesse fatto una seconda domanda. La pena è in linea con quella che è stata introdotta negli altri Paesi.
  Quanto alla questione che il reato specifico possa togliere la connotazione della privazione della libertà, occorre fare una profonda distinzione tra le forze dell'ordine che agiscono in piazza per contenere una situazione, nel qual caso va posto un problema di proporzionalità tra forza impiegata e pericolo da affrontare, e le forze Pag. 10dell'ordine che, invece, agiscono quando una persona è già stata riportata sotto controllo e, quindi, privata della libertà, qualunque sia il luogo di privazione della libertà. La tortura è un elemento che agisce su persone private della libertà da parte di un'autorità pubblica, qualunque sia la forma di privazione della libertà, dopo che la persona è stata riportata sotto controllo.
  Io manterrei, anzi aggiungerei, nel caso di reato tipizzato, «da parte di un'autorità pubblica», laddove si dice «privata della libertà». Vi faccio solo un esempio. C’è molta difficoltà a intervenire su elementi di tortura e di inflizione di sofferenze, magari su quelli non strettamente finalizzati e anche su quelli di trattamento. Per esempio, in alcuni Paesi europei ci sono delle leggi che permettono una contenzione manicomiale prolungata. In quel caso siamo comunque ugualmente in una privazione della libertà da parte di un'autorità pubblica.
  Nel nostro caso va incluso il TSO. Noi abbiamo indagato sul caso di Sala Consilina, relativo a una persona che è morta durante un TSO prolungato, mentre era tenuta in contenzione. A livello di qualificazione noi abbiamo detto che, poiché il prolungamento della contenzione era finalizzato a permettere al personale di avere maggiore libertà durante il weekend, c'era un'impropria finalizzazione. Abbiamo qualificato il reato come tortura in quel caso, perché c'era una finalizzazione di deresponsabilizzazione del personale.
  È importante il fatto che anche il reato tipizzato copra tutte le forme di privazione della libertà da parte di un'autorità pubblica, non soltanto il carcere e la stazione di polizia, ma anche le strutture un po’ più larghe, perché può capitare, per esempio, nei centri di detenzione temporanea per immigrati irregolari, laddove la libertà personale è privata da un'autorità pubblica.
  Nel caso di Diaz e Bolzaneto, nel momento in cui le persone sono portate in una struttura, sono private della libertà. Diversa è la questione del giudizio da esprimere, per esempio, sul tipo di comportamento delle forze in piazza nel momento in cui contrastano.
  Per fare un esempio, viene chiamata già privazione di libertà da parte dell'autorità pubblica quando la persona è in un cellulare o anche quando è ammanettata al suolo, perché da quel momento è privata della libertà.

  PRESIDENTE. Volete aggiungere qualche cosa anche voi ? Prego.

  ANTONIO MARCHESI, Presidente dell'Associazione Amnesty International Italia. Molto brevemente, intervengo non su quest'ultimo punto, perché Marco Palma è stato molto esauriente, ma sulle pene. Normalmente, Amnesty International non si esprime sulle pene, ma ci sembrano adeguate quelle che sono previste.
  Sul perché si arrivi così tardi a risolvere, si spera, questa questione credo ci siano vari equivoci importanti. Il primo, che è molto diffuso nel nostro Paese, è che il ratificare un trattato internazionale sia un punto d'arrivo e non, invece, un punto di partenza. Non è un mettersi in regola, è un prendere un impegno e, quindi, nel momento in cui si ratifica la Convenzione contro la tortura, deve partire un percorso relativo alla sua attuazione, che invece è rimasto in Italia incompiuto.
  Un secondo punto è che il problema del controllo internazionale sul rispetto dei diritti umani non sarebbe un problema italiano, ma un problema di Paesi meno evoluti o meno sviluppati del nostro. Come diceva giustamente Patrizio Gonnella, anche se nei prossimi cinque o dieci anni non ci fosse un solo caso di tortura o di maltrattamento in Italia, il problema di essere soggetti a controlli internazionali rimarrebbe comunque un problema fondamentale.
  La terza questione è che questo non sarebbe nell'interesse delle forze di polizia. Io non mi capacito del fatto che si possa pensare che sia nell'interesse delle forze di polizia, in uno Stato di diritto, non avere il reato di tortura. È innanzitutto nel loro interesse che le persone che Pag. 11al proprio interno compiono gravi violazioni dei diritti umani siano punite per la loro responsabilità individuale. La previsione del reato di tortura non può e non deve essere intesa come una criminalizzazione delle forze di polizia in quanto tali. Questa è una grave deformazione, secondo me, dei fatti.

  PATRIZIO GONNELLA, Presidente dell'Associazione Antigone. Aggiungo proprio due parole solo per dire che, avendo seguito i lavori parlamentari dal 1997 su questo tema, io penso che ci sia stata nel tempo anche una cattiva interpretazione da parte di alcune forze politiche nella storia passata di quello che avrebbero potuto pensare e dire i responsabili delle forze dell'ordine. Penso a una sorta di captatio benevolentiae non richiesta.
  Se può servire a togliere i dubbi, io penso che si potrebbe sentire il capo dell'amministrazione penitenziaria. È favorevole, è contrario ? Non c’è in questo momento. Oppure si potrebbe audire il capo della polizia. Noi vorremmo sapere che cosa pensano, per togliere di mezzo quest'ambiguità in cui ci si immedesima e in cui si fa questa captatio benevolentiae, che non è detto che sia neanche richiesta.
  Aggiungo una cosa sola. In ottobre ci sarà la sessione autunnale dello Human Rights Council. L'Italia è sotto revisione periodica. Da ottobre, se ancora una volta l'Italia non avrà il delitto di tortura nel Codice penale, questo tema sarà sollevato. Noi, e immagino anche Amnesty International, l'abbiamo già segnalato a tutti i Paesi che giudicheranno l'Italia.
  L'altra volta, nel 2009, nella scorsa revisione periodica, questo è stato uno dei temi sollevati dalla Comunità internazionale nei confronti dell'Italia. Tale tema è rimasto in piedi dopo cinque anni. Siamo nel 2014.

  PRESIDENTE. Purtroppo, siamo noi a essere qui in questo periodo e abbiamo tanti punti di urgenza da dover affrontare. Tuttavia, non ci siamo tirati indietro finora, mi pare, e non ci tireremo indietro nemmeno adesso.
  Ovviamente, però, gli approfondimenti sono necessari. Capisco il problema. Alcune volte anche noi abbiamo detto, o abbiamo tentato di dire, per evitare di rimettere in discussione una questione: «Prendiamo il testo che c’è». Poiché, però, si introduce una fattispecie penale, è bene che questa fattispecie penale sia a regola d'arte. Su questo tema c’è un bicameralismo perfetto, finché c’è. È intenzione della Camera verificare e, se possibile, migliorare alcuni punti critici che già oggi sono emersi.
  Io distribuirò ai colleghi un intervento sul diritto penale contemporaneo pubblicato da una rivista online che ha una diffusione nazionale, in cui ci sono già le luci e ombre di questo testo. Francamente, sì, potremmo anche dire così. All'esito di queste audizioni noi decideremo che fare, se lasciarlo così, oppure se tentare di migliorarlo, senza avere timori di forzature del Senato. Se dobbiamo soggiacere a eventuali forzature del Senato e, quindi, fare una cosa che non va bene, francamente io credo che non saremmo d'accordo.
  L'impegno di questa legislatura c’è e oggi ne abbiamo dato prova, ma non solo oggi, anche con la questione del divorzio breve. Erano varie legislature che non andava avanti. Oggi è stata approvata dalla Camera. Certo, abbiamo un problema di ulteriore approvazione del Senato, ma, se la legislatura non si interrompe immediatamente, ce la possiamo fare. Siamo appena all'inizio.
  Vorrei solo dire, ma questo è veramente un mio pensiero personale, a proposito della sentenza che avete menzionato, che lascia veramente molto addolorati il fatto che la carenza di un reato specifico abbia potuto provocare questa situazione. C’è anche, però, un'altra questione che viene in ballo, ossia la prescrizione. Noi abbiamo iniziato anche a rivedere questa, perché in realtà lì le contestazioni ci sono state.
  C’è anche un altro problema che è unico a livello europeo: una prescrizione che corre per tre gradi di giudizio. Questo è un altro punto molto importante. Devo Pag. 12dire, però, che in questa legislatura, con tutte le difficoltà che ci sono, che ci sono state e che ci saranno, le Commissioni giustizia, sia della Camera, sia del Senato, si stanno facendo carico di una serie di problematiche che non sono state risolte per anni.
  L'impegno, quindi, c’è. L'aver cercato un approfondimento non è per allungare i tempi, ma per cercare possibilmente entro l'estate di approvare un testo alla Camera che sia o definitivo o quasi definitivo. Sul 416-ter abbiamo fatto tre passaggi, ma l'abbiamo approvato.
  Ringraziando i nostri ospiti, dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 14.40.