Camera dei deputati

Vai al contenuto

Sezione di navigazione

Menu di ausilio alla navigazione

MENU DI NAVIGAZIONE PRINCIPALE

Vai al contenuto

Per visualizzare il contenuto multimediale è necessario installare il Flash Player Adobe

Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

Vai all'elenco delle sedute >>

XVII Legislatura

XI Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 6 di Martedì 2 luglio 2013

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Damiano Cesare , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE MISURE PER FRONTEGGIARE L'EMERGENZA OCCUPAZIONALE, CON PARTICOLARE RIGUARDO ALLA DISOCCUPAZIONE GIOVANILE

Audizione di rappresentanti dell'Associazione «San Precario».
Damiano Cesare , Presidente ... 3 
Laratro Massimo , Rappresentante dell'Associazione «San Precario» ... 3 
Fumagalli Andrea , Rappresentante dell'Associazione «San Precario» ... 7 
Damiano Cesare , Presidente ... 9 
Cominardi Claudio (M5S)  ... 9 
Gnecchi Marialuisa (PD)  ... 10 
Di Salvo Titti (SEL)  ... 10 
Pesco Daniele (M5S)  ... 11 
Rizzetto Walter (M5S)  ... 11 
Damiano Cesare , Presidente ... 11 
Fumagalli Andrea , Rappresentante dell'Associazione «San Precario» ... 11 
Laratro Massimo , Rappresentante dell'Associazione «San Precario» ... 12 
Damiano Cesare , Presidente ... 12 

Audizione di rappresentanti di Confprofessioni:
Damiano Cesare , Presidente ... 12 
Stella Gaetano , Presidente di Confprofessioni ... 12 
Damiano Cesare , Presidente ... 19 
Gnecchi Marialuisa (PD)  ... 19 
Rizzetto Walter (M5S)  ... 20 
Simoni Elisa (PD)  ... 20 
Damiano Cesare , Presidente ... 20 
Stella Gaetano , Presidente di Confprofessioni ... 20 
Damiano Cesare , Presidente ... 21 

Audizione di rappresentanti del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro:
Damiano Cesare , Presidente ... 22 
Calderone Marina , Presidente del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro ... 22 
Silvestri Vincenzo , Vicepresidente del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro ... 25 
Damiano Cesare , Presidente ... 26 
Gnecchi Marialuisa (PD)  ... 26 
Rostellato Gessica (M5S)  ... 26 
Damiano Cesare , Presidente ... 27 
Calderone Marina , Presidente del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro ... 27 
Damiano Cesare , Presidente ... 29 

Audizione di rappresentanti dell'Alleanza delle cooperative italiane:
Damiano Cesare , Presidente ... 29 
Mannino Vincenzo , Coordinatore Alleanza delle cooperative italiane, segretario generale di Confcooperative ... 29 
Valentini Sabina , Responsabile nazionale delle relazioni industriali e sindacali di Confcooperative ... 30 
Damiano Cesare , Presidente ... 31 

ALLEGATO 1: Documentazione presentata dai rappresentanti del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro. ... 33 

ALLEGATO 2: Documentazione presentata e dai rappresentanti di Alleanza delle cooperative italiane ... 53

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Fratelli d'Italia: FdI;
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero: Misto-MAIE;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CESARE DAMIANO

  La seduta comincia alle 10,40.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti dell'Associazione «San Precario».

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle misure per fronteggiare l'emergenza occupazionale, con particolare riguardo alla disoccupazione giovanile, l'audizione di rappresentanti dell'Associazione «San Precario».
  Sono presenti il professor Andrea Fumagalli e l'avvocato Massimo Laratro.
  Nel ringraziare ancora una volta i nostri ospiti per la loro presenza, do loro la parola.

  MASSIMO LARATRO, Rappresentante dell'Associazione «San Precario». Buongiorno a tutti. Sono Massimo Laratro, avvocato del lavoro a Milano e membro del collettivo «San Precario», che da oltre dieci anni si occupa delle problematiche connesse alla precarietà. Il collettivo è composto, oltre che da professionisti, anche da precari che la precarietà, appunto, vivono quotidianamente.
  Partendo dall'oggetto dell'audizione, abbiamo deciso di invertire gli ordini di intervento: io terrò la prima parte, relativa alla riforma Fornero e alle criticità che essa ha evidenziato nella sua applicazione.
  Prima di entrare nel merito di questi aspetti, mi preme innanzitutto sottolineare che tutte le riforme che sono state introdotte dal legislatore negli ultimi dieci anni hanno sempre avuto un denominatore comune, quello di intervenire in senso riduttivo rispetto ai diritti dei lavoratori. Abbiamo assistito a una progressiva diminuzione e riduzione sia dei diritti che dei meccanismi di tutela degli stessi. I vari provvedimenti, a partire dalla riforma Biagi per passare alla legge n. 183 del 2010, e da ultimo la riforma Fornero hanno avuto come presupposto il principio secondo cui l'aumento della flessibilità in entrata e in uscita dei lavoratori avrebbe comportato un aumento dell'occupazione, nello specifico dell'occupazione giovanile.
  Questo presupposto, ahimè, nell'esperienza degli ultimi dieci anni, è stato sostanzialmente confutato. Non vi è nessun nesso causale, purtroppo – viste le condizioni in cui oggi si trovano i lavoratori, soprattutto i lavoratori precari – tra l'aumento della flessibilità e l'aumento dell'occupazione; anzi, l'aver insistito su questa strada, purtroppo, ha accentuato in modo a dir poco drammatico le condizioni materiali dei lavoratori, che si sono trovati di fronte a una crisi sistemica senza alcuna forma di tutela e con una costante riduzione del loro potere di acquisto.
  È emerso sostanzialmente che ciò che veniva definito e classificato come flessibilità in realtà si è mostrata essere purtroppo Pag. 4precarietà, e in molti casi precarietà esistenziale. Quindi, c’è molta attenzione, non credo soltanto da parte di «San Precario», ma di molti lavoratori, a comprendere se il Governo che si è insediato e tutti gli attori parlamentari oggi hanno effettivamente interesse a intervenire in maniera strutturale, non soltanto con modifiche che riguardano gli aspetti contrattuali, ma anche con una riforma più complessiva che abbracci inevitabilmente anche gli ammortizzatori sociali, o se invece, come purtroppo è avvenuto negli ultimi dieci anni, e soprattutto nel periodo in cui la crisi sistemica si è manifestata con tutte le sue problematiche, la parola «crisi» venga sostanzialmente utilizzata come brand per procedere a una progressiva e ulteriore riduzione di quei pochi diritti che oggi i lavoratori hanno.
  Mi sono permesso di fare questa introduzione perché riguarda lo stato dell'arte in cui si trova oggi il mercato del lavoro. Per quanto riguarda la riforma Fornero, ormai siamo a un anno dalla sua pubblicazione e dalla sua entrata in vigore. Se dovessimo guardare quali erano gli obiettivi di questa riforma, ossia favorire l'instaurazione di rapporti di lavoro stabile, combattere l'utilizzo abusivo delle forme contrattuali atipiche e valorizzare l'apprendistato come forma di ingresso nel mondo del lavoro, possiamo dire che questa riforma è stata completamente fallimentare.
  I motivi del fallimento sono da ricercarsi in vari aspetti. Innanzitutto, è sbagliato il presupposto con cui è stata varata questa legge: come dicevo poc'anzi, essa si basa ancora una volta su quell'assunto che molti sociologi del diritto, molti colleghi, molti esimi professori hanno cercato di portare avanti, ma che in realtà non trova conferma, ovvero su quel nesso causale tra flessibilità e aumento della flessibilità intesa come riduzione dei diritti e aumento dell'occupazione, nello specifico dell'occupazione giovanile.
  In secondo luogo, basta ricordare a riguardo il dibattito politico che si svolse l'anno scorso al momento della pubblicazione della legge. Tutti ricordano che l'allora Ministro Fornero disse sostanzialmente che era necessario modificare l'articolo 18 perché diversamente sarebbe stato un problema per gli investitori stranieri portare i loro denari e le loro strutture in questo Paese. Evidentemente non è stato sufficiente e probabilmente le problematiche sono da ricercarsi altrove, in particolare nei modelli produttivi che questo Paese e le imprese hanno adottato – o meglio, non hanno adottato – negli ultimi vent'anni.
  La riforma Fornero, sotto certi aspetti, è un po’ «cerchiobottista» – perdonatemi il termine – perché da una parte cerca di accontentare i falchi che vorrebbero eliminare dall'ordinamento l'articolo 18 e rendere estremamente flessibile il mercato del lavoro e dall'altra quelli che in qualche modo cercano ancora di tenere qualche garanzia per i lavoratori. Purtroppo, in entrambi i casi non si vede nessun orizzonte favorevole per i soggetti chiamati in causa: parlo dei lavoratori e dei precari.
  La modifica dell'articolo 18 è stata fallimentare ed è bene che si sappia. È stata fallimentare innanzitutto per l'aspetto procedurale. Ci sono molti tribunali in questo Paese che, dal punto di vista della procedura del codice, applicano la riforma in maniera diversa, quindi si stanno creando prassi distinte. Ad esempio, a Firenze vi è una prassi completamente diversa da quella in uso attualmente al tribunale di Milano. Se l'obiettivo del Ministro Fornero e comunque del Governo Monti era quello, attraverso la riforma, di dare certezza alle imprese, credo che l'obiettivo sia lungi dall'essere stato raggiunto.
  Nello specifico, l'articolo che riguarda la modifica dell'articolo 18 è scritto malissimo; ci sono problemi di formulazione, di incomprensibilità e di inadattabilità della riforma al sistema previgente. L'AGI (Associazione giuslavoristi italiani) è intervenuta più volte a chiedere la riforma di questo articolo, che risulta incomprensibile. Si voleva togliere discrezionalità al giudice nell'ambito del processo del lavoro relativamente all'interpretazione e all'applicazione dell'articolo 18, ma la cosa piuttosto grottesca è che in realtà oggi il giudice ha molto più potere discrezionale di quanto non ne avesse prima, con maggiori incertezze nell'ambito Pag. 5della definizione di questi processi. I problemi, dunque, ci sono e sono gravi.
  L'altro aspetto che è stato introdotto dalla riforma Fornero riguarda i contratti a tempo determinato, che sono – vorrei ricordarlo – il principale strumento attraverso il quale le aziende cercano di gestire la loro flessibilità in entrata e in uscita. I contratti a progetto, come tutti sanno, sono disciplinati da un decreto legislativo n. 368 del 2001 che, a sua volta, è attuativo di una direttiva CE del 1999 con la quale si è disciplinato in maniera organica questo tipo di contratto.
  I vari Governi che si sono succeduti negli anni hanno cercato di demolire l'impianto normativo. Per fortuna non ci sono riusciti totalmente. La riforma Fornero, tuttavia, all'articolo 1-bis introduce un'ipotesi contrattuale cosiddetta «acausale»: sostanzialmente si cerca di liberalizzare questa forma contrattuale, quindi svincolarla da quello che il dettato originario prevedeva, ossia l'inserimento da parte del datore di lavoro di causali specifiche, di carattere tecnico, organizzativo, produttivo. Ogni datore di lavoro che vuole stipulare un contratto a tempo determinato dovrebbe giustificare il motivo per il quale appone il termine; diversamente il termine sarebbe illegittimo e come conseguenza il lavoratore avrebbe diritto a essere assunto a tempo indeterminato.
  Proprio per venire incontro ai lavoratori precari – almeno questo era l’incipit iniziale con il quale si è cercato di sponsorizzare questa legge – con la riforma Fornero si è cercato di allargare questo tipo di forma contrattuale ancora di più di quanto si sia cercato di fare negli ultimi anni. Anche in questo caso l'articolo 1-bis si inserisce in maniera maldestra all'interno dell'ordinamento e non è di facile interpretazione, perché potrebbe porsi in contrasto con quello che prevede la direttiva che ha introdotto nel nostro ordinamento il contratto a tempo determinato.
  Vi è poi un problema legato anche, probabilmente, alle esperienze che sono state assunte in passato. Vedo che qui si richiama la legge Hartz, cioè i quattro provvedimenti assunti dal 2003 al 2005 in Germania; a me fa un po’ paura che si cerchi di emulare tale legge, anche perché purtroppo in questo Paese, dal 2003 ad oggi, sono state introdotte diverse fattispecie atipiche, senza introdurre i cosiddetti «anticorpi sociali» per poter sostenere tali contratti; non è mai stata fatta una riforma del welfare compatibile con tali forme contrattuali, quindi molti lavoratori atipici, quando sono a casa tra un contratto e l'altro, non hanno alcuna forma di sostegno e di tutela al reddito, il che li pone in una condizione di povertà materiale che, come stiamo vedendo tutti, in una situazione di crisi sistemica come quella che stiamo affrontando, può raggiungere livelli assai preoccupanti di frustrazione sociale e di rabbia.
  Tornando al discorso che facevo prima, l'introduzione dell'articolo 1-bis cerca, in qualche modo, di allargare le maglie. In Germania, come dicevo, all'inizio del 2000 si introdusse un contratto a tempo determinato acausale per i disoccupati, ma la Corte di giustizia europea evidenziò che tale fattispecie era sì legittima, tuttavia andava letta nell'ambito di un processo di inserimento di lavoratori disoccupati e doveva essere limitata a particolari situazioni.
  A me sembra, invece, che questi interventi cerchino di smontare quelle poche tutele che oggi sono rimaste ai lavoratori. Bisogna stare sempre molto attenti quando si recepiscono fattispecie da altri ordinamenti, soprattutto quando si hanno ordinamenti molto confusi – perdonatemi il termine – e quando non si hanno quegli anticorpi sociali e istituzionali in grado di controbilanciare le condizioni di precarietà in cui vivono i lavoratori.
  L'altra modifica che è stata introdotta è quella relativa ai contratti a progetto e alla presunzione di subordinazione; devo dire che è una modifica positiva e spero che venga mantenuta, anche se il Governo Letta sembrerebbe volerla togliere. Sappiamo che i contratti a progetto nel nostro ordinamento sono dei rapporti di lavoro parasubordinati e perché siano legittimi occorre un progetto non generico ma specifico, che non corrisponda alle mansioni indicate ad esempio nei contratti collettivi né coincida Pag. 6con l'oggetto sociale dell'impresa. Sarebbe difficile ipotizzare che FERROVIENORD stipuli un contratto a progetto per il guidatore del treno, posto che l'oggetto sociale è la circolazione dei treni. Tale contratto sarebbe evidentemente illegittimo.
  Purtroppo, questo tipo di contratto è ampiamente utilizzato in maniera abusiva dalle imprese, soprattutto nel terziario avanzato, quindi parliamo di professionalità medio-alte che si affacciano al mondo del lavoro.
  La riforma Fornero è intervenuta sussumendo all'interno del testo un orientamento giurisprudenziale che ormai era già ampiamente diffuso in questo Paese, ovvero questa presunzione di subordinazione in base alla quale se il progetto fosse stato eccessivamente generico il giudice avrebbe potuto automaticamente trasformare il contratto a progetto in un contratto di lavoro subordinato, tutelando in questo modo il lavoratore. Questo è uno dei pochi aspetti positivi della riforma Fornero e si spera venga mantenuto.
  Un altro punto importante è quello delle partite IVA. Anche in questo caso la riforma ha cercato di creare una presunzione, pur non essendo chiaro il tipo, perché la norma è di difficile comprensione, che è relativa alle partite IVA monocommittenti. Su questo aspetto mi piacerebbe evidenziare un punto. Nel nostro ordinamento la qualificazione del rapporto di lavoro non è disponibile per le parti, nel senso che datore di lavoro e lavoratore non possono ex ante, quindi in anticipo, definire una volta per tutte la qualificazione del rapporto. Questo si va a determinare in base alla sua effettiva esecuzione nel corso del tempo, quindi anche le partite IVA monocommittenti prima della riforma Fornero avrebbero potuto rivolgersi al giudice e chiedere l'assunzione, ossia la trasformazione del loro rapporto in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ove si fossero dimostrate la monocommittenza e l'assenza di rischio, che sono proprie di questo tipo di partite IVA, laddove si tratta sostanzialmente di lavoratori subordinati che vengono gestiti dall'azienda in maniera atipica.
  L'altro aspetto della riforma riguarda l'apprendistato. L'articolo 1 della riforma Fornero specifica che l'obiettivo della legge è utilizzare queste forme contrattuali come principali forme di inserimento nel mondo del lavoro dei giovani o comunque degli under 29. Ad oggi, l'utilizzo di questi contratti è assai limitato e tale limitazione si spiega con ragioni di natura non prettamente giuridica ma politico-sociale: oggi, in base alla nostra esperienza, purtroppo è molto difficile trovare imprese che investono effettivamente sulla formazione dei lavoratori. Investire sulla formazione dei lavoratori significa affrontare dei costi, che non devono essere visti soltanto in senso negativo, ma come promozione e sviluppo dell'impresa stessa.
  Pertanto, questa forma contrattuale viene utilizzata difficilmente, perché crea un vincolo più ampio rispetto a quello del contratto a tempo determinato, il cosiddetto «usa e getta», che potrebbe essere il contratto a tempo determinato o il contratto a progetto, che rimangono i contratti prevalenti attraverso i quali le società introducono i lavoratori nel mondo del lavoro, utilizzandoli per sei, otto mesi, un anno, con un ricambio continuo di questa forza lavoro, che non riesce ad avere continuità di reddito e sicurezza lavorativa. Questo incide negativamente sulla professionalità del lavoratore, perché è evidente che la discontinuità lavorativa incide anche sulla qualità dell'erogazione della prestazione da parte del lavoratore.
  Questi sono gli aspetti critici e problematici che non riguardano solamente la riforma Fornero, ma tutte le riforme introdotte dal legislatore negli ultimi dieci anni nel nostro Paese.
  A me premerebbe evidenziare come non siano gli strumenti in sé a poter risolvere la questione dell'occupazione giovanile o dell'occupazione in genere. In questo Paese, purtroppo, le imprese hanno utilizzato da sempre le forme contrattuali atipiche in maniera illegittima e abusiva, violando il dettato normativo, disattendendo la ratio legis di queste disposizioni, e continueranno a farlo. Non è riducendo i cosiddetti costi del lavoro – che si traducono in una Pag. 7riduzione delle tutele e della capacità di reddito dei lavoratori – che si crea occupazione. Al contrario, si crea una classe cosiddetta di «working poor». Basta leggere i dati ISTAT del primo trimestre, dai quali emerge che l'unica forma contrattuale in aumento è il contratto part-time involontario: i datori di lavoro hanno tre soggetti che svolgono la stessa prestazione e che rimangono vincolati a quel rapporto di lavoro, essendo sottopagati.
  Pertanto, se si deciderà di continuare in questa direzione – spero che ciò non avvenga – ovvero in un continuo e progressivo abbassamento delle tutele, convinti che questo possa giovare alle imprese e all'occupazione, si arrecherà un grandissimo danno, difficilmente recuperabile nel tempo.
  Al contrario, ciò di cui si ha bisogno è una riforma strutturale. Non è, infatti, attraverso lo sviluppo del contratto di apprendistato che si aumentano magicamente i posti di lavoro. È ridicolo ciò che ha affermato il Governo relativamente ai bonus di 650 euro che verrebbero versati a favore delle aziende per l'assunzione di disoccupati di lungo termine: pensare che questa manovra da sola sia in grado di creare 200.000 posti di lavoro – così come è stato dichiarato – è una barzelletta. I problemi insiti nell'occupazione e nella difficoltà di reperire lavoro non sono connessi allo strumento, ma a scelte di politica economica e di modelli produttivi che, purtroppo, in questo Paese non sono state assunte.
  Il lavoro non si crea attraverso un nuovo tipo di contratto; semmai, abbassando le tutele – e lo ribadisco – si crea povertà, la cosiddetta classe di «working poor», così come è successo in altri Paesi. Inviterei, pertanto, gli onorevoli a guardare gli altri ordinamenti prima di introdurre nel nostro nuove fattispecie, per vedere come e se fattispecie analoghe hanno funzionato e si sono sviluppate, e se sono state introdotte perché si inserivano in forme di welfare molto più complete di quelle che abbiamo in questo Paese.

  ANDREA FUMAGALLI, Rappresentante dell'Associazione «San Precario». Signor presidente, se mi consente di intervenire per cinque minuti vorrei fare due riflessioni che sono complementari a quanto è stato fino adesso esposto dall'avvocato Laratro. Sebbene adesso non ci sia il tempo di svolgere un'analisi approfondita con il supporto di dati e di statistiche – peraltro, questo è il mio lavoro, insegnando all'università – vorrei svolgere alcune riflessioni per quanto riguarda la logica e la ratio delle scelte che sono state intraprese ai fini di promuovere l'occupazione tout court e l'occupazione giovanile in particolare, per quanto riguarda non soltanto le ultime disposizioni del Governo attuale, ma anche una certa logica di intervento che risale ormai a un quarto di secolo, circa una trentina d'anni fa.
  Finora i nostri legislatori e i membri del Parlamento di diverso orientamento politico hanno sempre seguito una logica basata sulla separatezza, sulla distanza o sulla non complementarietà diretta tra politiche sociali e politiche attive del lavoro, finalizzate a creare un maggiore grado di occupabilità attraverso interventi sul giuslavorismo e sui contratti di lavoro, sulla contrattazione collettiva, sugli accordi sul costo del lavoro, sulla riforma dei centri per l'impiego e via dicendo, insomma quell'ambito di interventi volto a favorire l'incontro fra domanda e offerta di lavoro, quelle che vengono normalmente definite in economia del lavoro le politiche attive del lavoro. Questo è stato l'intervento principale che ha caratterizzato l'evoluzione del mercato del lavoro italiano negli ultimi trent'anni, tenendo separate le politiche attive del lavoro dalle politiche sociali, dalle politiche di welfare, come se i due ambiti fossero tra loro non comunicanti.
  Noi crediamo che questa distinzione – e lo vediamo attraverso la pratica politica, le analisi e le inchieste che facciamo quotidianamente nell'ambito della precarietà – sia totalmente inadeguata, distorsiva e completamente da superare. Oggi qualsiasi intervento di politica sociale è un intervento di Pag. 8politica sul mercato del lavoro e qualunque intervento di politica sul mercato lavoro è un intervento di politica sociale.
  Non ripeterò il discorso che mi ero prefissato riguardo a come la prestazione lavorativa si sia modificata, per cui la distinzione tra le politiche sociali, che dovevano intervenire sulla vita e sui tempi di non lavoro, e le politiche del lavoro, che dovevano intervenire sul tempo di lavoro e sull'organizzazione del lavoro, è del tutto caduta, tanto che non si capisce bene la differenza fra lavoro e non lavoro. Anche dal punto di vista statistico gli indicatori tradizionali del mercato del lavoro, come tasso di attività e tasso di inattività, risultano inadeguati a cogliere quella crescente fascia grigia rappresentata dalla forza lavoro potenzialmente attiva, che si colloca fra livelli di attività e livelli di inattività, fra persone che hanno il tempo di lavoro certificato come tale e persone che, in quanto lavoratori autonomi o parasubordinati, e grazie alle nuove fattispecie lavorative, hanno un tempo di lavoro che sfugge a qualsiasi controllo e a qualsiasi misura. Questa zona grigia ci porta a cambiare mentalità.
  La conclusione a cui voglio arrivare – lo dico brutalmente per carenza di tempo – è che è più opportuno intervenire sulle politiche sociali per favorire l'occupazione, soprattutto l'occupazione giovanile, piuttosto che intervenire, come si è tradizionalmente fatto, sulle politiche attive del lavoro, cioè dal lato dell'offerta produttiva, dal lato della domanda di lavoro da parte dell'impresa, attraverso incentivi, sgravi fiscali e contributivi, bonus e via elencando, ed è enorme l'elenco degli interventi attivati negli ultimi trent'anni con i risultati che sono stati illustrati precedentemente.
  Credo che ormai si debba prendere atto che le politiche di sostegno all'occupazione che intervengono solo dal lato delle politiche attive del lavoro, quindi dal lato dell'offerta produttiva, incentivando le imprese o chiedendo loro di essere disponibili ad assumere volontariamente dei giovani perché gli vengono date garanzie di costi inferiori, non funzionano. Un'impresa, anche se ha la possibilità di assumere un giovane a costo zero, perché il salario e i contributi vengono pagati dallo Stato, se non ha prospettive di domande, di crescita e di fatturato non assume neanche a costo zero.
  Le politiche sociali, da questo punto di vista, sono essenzialmente politiche di domanda. Si tratta di politiche che attraverso incrementi salariali, attraverso il recupero della contrattazione collettiva e di categoria, che introduca forme di salario minimo (cosa che manca in Italia), attraverso politiche sociali di welfare che portano ad aumentare il grado di continuità di reddito (e qui si pone la tematica del reddito di base), hanno due obiettivi che possono incidere favorevolmente sul livello occupazionale: da un lato, creano domanda e quindi aspettative di ripresa della produzione delle imprese, portando le imprese ad avere più chance di garantire occupazione o di assumere; dall'altro lato, hanno una funzione soprattutto per le caratteristiche che il lavoro ha assunto negli ultimi trent'anni, essendo un lavoro spesso di carattere più cognitivo, a più alta formazione, dove le economie di scala che stanno alla base dell'efficienza e della produttività del sistema produttivo italiano, soprattutto a livello terziario più che manifatturiero, sono le economie di apprendimento e le economie di rete. Tali economie possono essere sfruttate al massimo solo se viene garantita una certa continuità e stabilità del processo lavorativo, del processo di formazione e del processo di attività relazionale che l'ambito lavorativo oggi necessita.
  È chiaro che in una situazione in cui, invece, si attuano politiche solo dal lato del mercato del lavoro, in nome di una flessibilità esclusiva del mercato del lavoro, che si sono trasformate in precarizzazione del lavoro, si generano effetti negativi sull'efficienza delle imprese e sulla produttività del sistema economico italiano, proprio perché tali politiche non consentono, soprattutto ai giovani assunti a più alta formazione e a più alta scolarizzazione, di poter sfruttare al meglio le economie di apprendimento e le economie di rete.
  Mi fermo qui, anche perché il presidente mi guarda in un certo modo, però vorrei Pag. 9aggiungere un'osservazione, dato che una parte di questa indagine riguardava anche interventi di carattere fiscale, con particolare riferimento al cuneo fiscale. Credo che sarebbe interessante che in questo Paese, come già avviene in altri Paesi e così come era stato stabilito già dalla riforma Dini sul sistema previdenziale del 1996, si sancisse in maniera definitiva la differenza tra assistenza e previdenza, per riordinare quel sistema di ammortizzazione sociale, che sono politiche sociali di welfare, magari da ripensare – questo è un tema che esula dalla discussione che stiamo facendo oggi, ma che è strettamente connaturato – in maniera tale da garantire che tutte le forme di sostegno al reddito diretto e indiretto siano a carico della fiscalità generale e non a carico della previdenza e della contribuzione sociale.
  Dobbiamo ricordare che la contribuzione sociale è salario dei lavoratori e contributi delle imprese. I 320.000 miliardi di contributi sociali che oggi vengono versati nelle casse dello Stato sono questo, e non c’è nessuna ratio – almeno c'era, ma oggi non c’è più in seguito alle mutate condizioni lavorative e di accumulazione di produzione – per la quale siano i contributi delle imprese e dei lavoratori a pagare le forme di ammortizzatori sociali. Tutte le forme di ammortizzatori sociali dovrebbero andare a carico della fiscalità. Questo richiederebbe un intervento sul piano delle entrate e delle uscite fiscali – qui si entrerebbe in un altro campo – ma questo avrebbe, oltre al vantaggio della trasparenza e della chiarezza, anche il vantaggio di poter ridurre quello che oggi viene chiamato il cuneo fiscale, perché buona parte di questi contributi sociali che oggi vengono utilizzati per forme di politica sociale di sostegno al reddito non verrebbero più pagati da questa voce, ma dalla fiscalità generale, e questo consentirebbe di ridurre il livello di questi contributi e il cuneo fiscale, a vantaggio del costo del lavoro delle imprese ma soprattutto della busta paga netta dei lavoratori, che è uno dei problemi principali dal punto di vista socio-economico.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professore Fumagalli, anche per l'acutezza con la quale ha osservato il comportamento del mio occhio, ma devo garantirle, professore, che il mio è un comportamento equanime nei confronti di tutti gli auditi, quindi non ho assolutamente atteggiamenti di preferenza o di vessazione nei confronti di alcuno. La mia preoccupazione è solo di mantenere un calendario, consentire le domande e le risposte. È chiaro che tanto più si parla all'inizio tanto meno si possono fare domande e dare risposte.
  Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  CLAUDIO COMINARDI. Non vorrei fare polemica, però proprio oggi rilevo una diffusa distrazione e non riesco a capire perché. Ringrazio i relatori perché finalmente hanno portato in questa sede una discussione anche di carattere sociologico, che secondo me è fondamentale.
  Vorrei farvi alcune domande. I dati ISTAT, come dicevate poc'anzi, danno in aumento i contratti di tipo part-time. Questo mi porta a fare un ragionamento che ho già espresso in questa sede, ma a volte mi guardano come fossi un marziano. Con l'aumento, in questi ultimi decenni, della produttività pro capite data dall'aumento delle tecnologie, quindi dall'automazione all'interno del settore industriale, è successo che si produce molto di più o che l'apporto dell'uomo all'interno dell'azienda diminuisce. Era stato promesso – ricordo che se ne parlava spesso anche in ambito politico – che un aumento della produttività, dell'industrializzazione, dell'automazione e della tecnologia avrebbe portato a ridurre l'apporto dell'uomo al lavoro, quindi a una riduzione fisiologica dell'orario di lavoro. In Francia, per citare un esempio, hanno per contratto le 35 ore settimanali e non mi pare che la loro economia vada molto peggio della nostra. Questo potrebbe portare, dal mio punto di vista, anche a una diminuzione della disoccupazione.Pag. 10
  Un'altra riflessione riguarda l'eventuale introduzione di un reddito di base. Chiedo come questo potrebbe incidere nel mercato del lavoro. Nel momento in cui un lavoratore sente di avere queste coperture, intese come acquisizione di un diritto così forte, lo sfruttamento dei lavoratori che in questi anni abbiamo visto dovrebbe venire in qualche modo meno.

  MARIALUISA GNECCHI. In primo luogo, mi auguro che il collega Cominardi intendesse sottolineare la distrazione di coloro che non ci sono. Non siamo disponibili ad essere offesi in continuazione; siamo presenti a tutte le audizioni e non tolleriamo di essere offesi, ma vogliamo essere rispettati.
  Per quanto riguarda le due relazioni, vorrei sottolineare che, soprattutto con riferimento al concetto dei tempi di lavoro e di non lavoro, mi sembra che varrebbe la pena almeno di citare la legge n. 53 del 2000, che è stata una legge specifica della legislatura 1996-2001, nella quale si sono sottolineati i valori addirittura dei tempi della città, del riconoscimento del rapporto della maternità fuori dal tempo di lavoro.
  Si tratta quindi di un'impostazione reale rispetto a questa valutazione, che è fondamentale considerando anche finanziamenti legati alla conciliabilità lavoro-famiglia per uomini e donne, cosa non da poco, perché spesso la conciliabilità viene banalizzata e riferita solo ed esclusivamente alle donne.
  Pertanto, dire che – lo sottolineo anche rispetto alla prima relazione – negli ultimi vent'anni è stato tutto uguale mi sembra un po’ riduttivo. Anche se pensiamo alle iniziative rispetto alla legislazione legata al mercato del lavoro, quelli 2006-2008 sono stati due anni molto particolari, rispetto al precariato ed altro. Mi sembra che potrebbe essere utile un confronto sui periodi e sugli interventi diversi, e soprattutto sugli effetti che questi hanno avuto. Se riguardo alla manovra Fornero su molte cose possiamo essere d'accordo – non le dico quanto sarei d'accordo sull'idea che la manovra sulle pensioni è stata una manovra sbagliata, fatta in tempi assolutamente sbagliati – tuttavia, nella sostanza, anche rispetto agli interventi sul lavoro, sottolineare le differenze e gli effetti dei vari provvedimenti mi sembrerebbe comunque importante.

  TITTI DI SALVO. Signor presidente, farò alcune brevi considerazioni, con una piccola premessa. Non penso che su argomenti così delicati valga la regola del ben altro, ma ringrazio i relatori per aver sottolineato, in modo del tutto concreto e anche scientificamente dimostrabile, come le politiche di creazione del lavoro fin qui realizzate non abbiano prodotto gli effetti attesi. Dico questo perché ci accomuna la volontà e il bisogno di scegliere le misure e le idee politiche più giuste per creare il lavoro che serve.
  Fatta la premessa, la prima considerazione è che, a mio avviso, anche le ultime scelte del «decreto lavoro» di cui tra poco parleremo in Parlamento, così come il finanziamento alla Garanzia Giovani, che arriva dall'Europa, sono certamente un gesto da considerare, ma il punto è che anche la scelta che ci arriva dall'Europa di rafforzare i servizi agli impieghi, che è una scelta che può essere utile, lo è soltanto se ci si ferma a riflettere su un punto. Il punto fondamentale non è soltanto far incontrare la domanda e l'offerta di lavoro, per la quale è opportuno che i servizi funzionino bene, è importante che ci siano risorse per farli funzionare (e in Italia ce ne sono pochissime), ma è la domanda di lavoro. Torniamo dunque alla questione iniziale del ragionamento: i servizi servono a far incontrare la domanda e l'offerta di lavoro, ma il punto è che la domanda di lavoro bisogna crearla.
  Vengo all'ultima considerazione. In primo luogo, credo che occorra un serio e cospicuo intervento pubblico in economia per creare lavoro, direttamente e attraverso lo stimolo a investimenti privati, messa in sicurezza del territorio, delle scuole, del paesaggio, quindi un intervento pubblico che può essere finanziato attraverso un ruolo diverso della Cassa depositi e prestiti e tante altre cose di cui abbiamo parlato (aumento della rendita finanziaria, tagli agli sprechi e via discorrendo). Inoltre, penso che occorrano anche risorse pubbliche Pag. 11per finanziare il reddito minimo, che diventa una scelta di sostegno all'autonomia delle persone e non uno strumento semplicemente di intervento sulle povertà, scelta sicuramente molto seria, ma cosa diversa dall'idea di intervento di reddito minimo. Sull'idea di reddito minimo, peraltro, in Parlamento all'inizio della legislatura si è creata una condivisione di contenuti, un terreno utile su cui discutere. Penso che partendo da qui possiamo andare avanti per cercare di far procedere questa riflessione.

  DANIELE PESCO. Il professor Fumagalli ha detto – e condivido – che per favorire l'occupazione in Italia ha più senso agire nel sostenere le persone, quindi, se ho capito bene, lasciare più soldi in tasca alla gente, piuttosto che intervenire con politiche attive del lavoro, cioè incentivare le aziende ad assumere, penso in un'ottica di rilancio dei consumi, si spera di consumi sostenibili.
  Personalmente la penso come voi, però un imprenditore che ha diverse sedi in tutto il mondo, al quale ho posto la stessa domanda, mi ha risposto che preferisce le politiche attive del lavoro, quindi incentivi sulle assunzioni, in quanto tali politiche gli permettono di assumere più gente in Italia che in altre parti del mondo. Sono solo le multinazionali a poter approfittare di politiche attive del mondo del lavoro e a trarne giovamento, oppure possono essere anche altri soggetti ?

  WALTER RIZZETTO. Molto velocemente porrò una domanda e farò un cappello introduttivo. È evidente che il mondo del lavoro sta cambiando. Se trent'anni fa i nostri padri e i nostri nonni cercavano di entrare da dipendenti in un'azienda, ove passare quarant'anni della propria vita prima di andare in pensione, attualmente i giovani di 18, 20, 25 anni, che comunque non possono fare conto ad esempio sui centri per l'impiego, ricordati prima dalla collega, cercano comunque di andare a «parare» verso altri tipi di lavoro.
  Da qui deriva la mia domanda. Sono in aumento, come lei ricordava – ma non so se ho colto bene – le partite IVA, nel senso che un giovane che vuole trovare un posto di lavoro può anche impegnarsi con una partita IVA. Vorrei chiedere all'avvocato Laratro cosa intendesse rispetto a quella specifica partita IVA che forse confondo con la monomandataria, ma probabilmente non era la stessa cosa.
  Questa è la mia domanda: vorrei capire esattamente quello che lei intende con quel tipo di partita IVA e perché c’è questo invito verso queste partite IVA, come a dire che, a un certo punto della propria carriera lavorativa, si diventa un dipendente a tempo indeterminato. Forse non ho capito, pur essendo attento.

  PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

  ANDREA FUMAGALLI, Rappresentante dell'Associazione «San Precario». Avendo un minuto a disposizione è difficile riuscire a dare risposte esaustive, quindi mi limito a dare alcuni flash, richiamandomi non tanto alla mia visione di questi problemi quanto all'esperienza concreta dove abbiamo messo mani, piedi e cervello nella «pasta dura della precarietà».
  C’è un problema dell'orario di lavoro. Non ho citato una serie di dispositivi per carenza di tempo, ma personalmente ho apprezzato moltissimo quella legge che l'onorevole citava fatta durante il Governo Prodi. L'unico problema è che essa difficilmente risulta applicabile. Si può scrivere una legge ben fatta dal punto di vista, ad esempio, del criterio di equità (sarebbe già un buon risultato, perché altre leggi non sono così ben fatte), ma il problema è che si deve verificare anche la possibilità che sia attuabile.
  Il problema dell'orario di lavoro, della conciliazione, della riproduzione sociale e di tutti questi aspetti è che oggi in moltissime attività l'orario di lavoro non è certificabile. L'unica possibilità è che sia lo stesso lavoratore in grado di poter certificare il proprio lavoro. Per poterlo fare, quindi per potersi permettere una politica di conciliazione, nel caso maschile o femminile, è necessario che il lavoratore abbia gli strumenti Pag. 12per poter intervenire attivamente sul proprio orario di lavoro. Se, però, il lavoratore si trova in una condizione di incertezza di reddito, intermittenza lavorativa, condizioni di ricattabilità, è chiaro che qualunque legge anche bellissima va a cozzare contro una situazione del genere.
  Sul reddito ci sarebbe qualcos'altro da dire. Sono convinto – abbiamo fatto anche degli studi pubblicati nella nostra rivista, i Quaderni di San Precario – che, come anche esperienze di altri Paesi ci confermano, una politica di garanzia e di sostegno al reddito ha due effetti, soprattutto se garantisce continuità di reddito: da un lato, incrementa la domanda (ovviamente deve essere un certo tipo di domanda, e qui mi fermo) ma soprattutto, e questo non viene mai preso in considerazione, pone una rigidità sull'offerta di lavoro. Intendo dire, con riferimento a una serie di lavori mal pagati, pesanti, in nero, semi-illegali, grigi, che nel momento stesso in cui la persona, godendo di una quota di reddito, si sente meno ricattabile, è in grado di mettere una «zeppa» sull'accettazione di certi tipi di lavoro, obbligando di conseguenza o a un aumento del pagamento per questi lavori o a un'innovazione tecnologica in grado di superarli.
  Una continuità di reddito – questo è un altro effetto – garantisce anche una maggiore efficienza e qualità della prestazione lavorativa. Noi abbiamo in Italia un problema di produttività che non è dovuto al fatto che la gente non lavora. L'orario medio di lavoro del lavoratore medio italiano è di 1.810 ore all'anno, il secondo in Europa. Si lavora tanto, il lavoro è mal pagato e soprattutto si lavora male.
  Una garanzia di reddito aiuta a lavorare meglio e aiuta anche le imprese. Se poi le imprese scelgono la strategia che comunque per loro è meglio avere il profitto a breve termine, quindi attraverso politiche di riduzione di costo, è un altro discorso.

  MASSIMO LARATRO, Rappresentante dell'Associazione «San Precario». Per quanto riguarda le partite IVA, mi riferivo alle partite IVA monocommittenti, che sono lo strumento attraverso il quale molto spesso le imprese esternalizzano il rischio della loro attività caricandolo su questi soggetti che di fatto non hanno alcun potere decisionale sull'organizzazione della loro attività, ma vengono trattati come piccole imprese.
  Fondamentalmente ci troviamo di fronte a una vera e propria esternalizzazione del rischio, che crea un impoverimento di questi soggetti, perché non hanno nessun potere contrattuale rispetto al committente, che è la grossa azienda. Peraltro, si tratta di prestazioni ad alto livello; stiamo parlando di editoria, di pubblicità, insomma di una classe creativa che ha degli ottimi mezzi a disposizione e in realtà è costretta a soggiacere a tale ricatto altrimenti fatica a lavorare.

  PRESIDENTE. Ringrazio l'avvocato Laratro e il professor Fumagalli per il contributo, di cui terremo sicuramente conto al termine della nostra indagine.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti di Confprofessioni.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle misure per fronteggiare l'emergenza occupazionale, con particolare riguardo alla disoccupazione giovanile, l'audizione di rappresentanti di Confprofessioni.
  Sono presenti il dottor Gaetano Stella, presidente, il dottor Ennio Bucci, responsabile area diritto e giustizia, il dottor Francesco Monticelli, responsabile area lavoro, la dottoressa Lucilla De Leo, consulente legislativo rapporti istituzionali di Confprofessioni.
  Nel ringraziare ancora una volta i nostri ospiti per la presenza, do loro la parola. Mi auguro che le audizioni non siano a compartimenti stagni, per cui si assiste semplicemente alle proprie: si dovrebbe, al contrario, assistere a tutte !

  GAETANO STELLA, Presidente di Confprofessioni. Desidero innanzitutto esprimere il ringraziamento personale e di Confprofessioni per l'attenzione che il presidente Pag. 13Cesare Damiano e i componenti della Commissione lavoro della Camera dei deputati ci riservano, offrendoci l'opportunità di esporre la posizione dei professionisti italiani sull'emergenza occupazionale, con particolare riguardo alla disoccupazione giovanile.
  Questa indagine viene effettuata in un momento molto particolare della legislazione in corso. Da pochi giorni, infatti, è stato adottato un pacchetto di misure – decreto-legge n. 76 del 2013 – che vanno a incidere in maniera rilevante sulle politiche occupazionali e su determinati istituti contrattuali.
  Naturalmente è necessario attendere qualche tempo per comprendere a pieno quali saranno gli effetti delle misure introdotte, ma possiamo comunque, anche in relazione agli argomenti oggetto dell'odierna indagine, sviluppare alcune considerazioni.
  Ci troviamo a ragionare, quindi, sugli stimoli posti dalla Commissione in relazione ad alcuni punti che sono stati oggetto di recentissime modifiche da parte del Governo nella legge n. 92 del 2012. Ebbene, non è passato un anno dall'adozione della riforma Fornero, ma conosciamo gli effetti che ha prodotto sul mercato del lavoro e sulle dinamiche occupazionali nel comparto professionale. Non ripeteremo dati che sono stati già oggetto di analisi e valutazioni nel corso di precedenti audizioni presso le Commissioni parlamentari; tuttavia, dobbiamo comunque esprimere la nostra preoccupazione per un periodo di crisi non solo occupazionale che sembra non avere termine.
  Si stima che la grave situazione occupazionale, tra disoccupati e inattivi, riguardi circa 6 milioni di persone e che i tempi di ripresa non siano certo brevi.
  Tutto questo, come liberi professionisti, ci preoccupa, per la molteplicità di ruoli che ricopriamo all'interno dell'economia del Paese. In primo luogo, siamo datori di lavoro, che danno occupazione a quasi 1,5 milioni di dipendenti e collaboratori di studio. Al tempo stesso, assistiamo le imprese nell'applicazione delle norme e ci adoperiamo per la realizzazione di infrastrutture, per la salute dei cittadini e per la tutela del territorio.
  Risulta di tutta evidenza, dunque, come il nostro sia un punto di osservazione privilegiato, dal quale possiamo fornire informazioni, spunti e un supporto importante al decisore pubblico. Con questo spirito, desideriamo portare alla vostra attenzione alcune considerazioni che nascono dalla nostra esperienza sul campo.
  Come è noto, in un quadro economico che continua a essere recessivo e sposta ancora una volta in avanti la crescita del PIL, non ci sono margini per una significativa creazione immediata di posti di lavoro veri.
  Anche i recenti provvedimenti governativi, che fanno leva sull'incentivo alla conversione di rapporti di lavoro precari o a termine in rapporti a tempo indeterminato, rischiano di interessare solo una minima parte dei datori.
  Anche coloro che vedono i loro fatturati in crescita sono attenti alle prospettive incerte e alla questione dei costi, e preferiscono accelerare sul fronte organizzativo e tecnologico, cioè laddove l'Italia ha perso buona parte della sua competitività. Ciò, come è noto, comprime l'occupazione.
  In materia di mercato del lavoro, Confprofessioni, la Confederazione italiana delle libere professioni, ha sempre operato proposte caratterizzate da un approccio moderno e innovativo alle tradizionali tematiche giuslavoristiche. Molto probabilmente tale inclinazione discende dalle profonde trasformazioni in atto nel settore delle libere professioni, che, anche sulla spinta del dettato comunitario, rappresenta un formidabile laboratorio di innovazione, capace di intercettare nuovi fabbisogni in modo professionale, che non ha eguali in altri settori produttivi.
  Queste trasformazioni, come si diceva, incidono direttamente sulle dinamiche occupazionali degli studi, e vengono regolarmente assecondate e recepite all'interno del contratto di settore sottoscritto dalla nostra organizzazione e dalle organizzazioni del comparto. Abbiamo lasciato alla Commissione alcune copie del contratto collettivo.Pag. 14
  Infatti, la complessità del mondo rappresentato e la convivenza storica e strutturale, nell'ambito degli studi professionali, di varie forme di lavoro (lavoro subordinato, collaborazioni coordinate e continuative, partite IVA, praticantato e tirocinio) hanno spesso portato la Confederazione a studiare soluzioni differenti rispetto a quelle di contesti produttivi generalmente considerati dai Governi.
  Da questo punto di vista, la riforma Fornero è esemplare. La legge n. 92 del 2012 nasce infatti con una visione tranchant che ruota sul convincimento di poter vincolare le molteplici realtà dei nuovi modelli organizzativi del lavoro, prendendo come unico riferimento il lavoro subordinato a tempo indeterminato, e ponendo una serie di divieti assoluti sui cosiddetti «lavori atipici». Si pensi agli interventi previsti sul lavoro coordinato e continuativo, sulle partite Iva in regime di monocommittenza, sul lavoro a termine, sul part-time e su altre forme di lavoro che avevano la finalità di fare emergere lavoro sommerso e irregolare.
  Abbiamo sempre ritenuto che, anziché prevedere interventi basati su meccanismi volti a ricondurre il lavoro ad un unico tipo legale, si dovrebbe operare in maniera più razionale, utilizzando e valorizzando quegli strumenti che mirano a dare certezza alla qualificazione dei rapporti di lavoro, come la certificazione dei contratti di lavoro.
  In questo senso, abbiamo anche ragionato su una possibile rivisitazione delle fattispecie di riferimento nel diritto del lavoro, che prevede una revisione delle categorie tradizionali, solo a condizione che tale operazione non implichi alcun incremento delle rigidità esistenti in materia di rapporti di lavoro e si concentri invece esclusivamente sulla previsione e sullo sviluppo di alcune tutele di carattere universale operanti sul mercato del lavoro (incontro domanda-offerta di lavoro, formazione continua, tutele antidiscriminatorie, assistenza e previdenza).
  I professionisti italiani riuniti in Confprofessioni si sono sempre adoperati per conseguire un modello di eccellenza nell'ambito delle relazioni di lavoro e garantire una risposta concreta alle esigenze di un settore che si caratterizza per una serie di fattori peculiari.
  La rilevante presenza di giovani (70 per cento di età inferiore ai 40 anni), e in particolare di donne (oltre l'88 per cento della forza lavoro), le esigenze di flessibilità legate alle dimensioni piccole e medie degli studi professionali e la significativa presenza di altri lavoratori autonomi hanno d'altronde sempre portato, come detto, ad elaborare proposte atte a superare le problematiche e le rigidità di una regolamentazione che non sempre è riuscita a tener conto delle specificità del nostro mercato del lavoro, che ricordiamo essere in continua espansione.
  Da questo punto di vista, il contratto collettivo stipulato il 29 novembre 2011 ha lavorato per estendere molte delle tutele in esso previste a tutte le figure che ruotano nell'ambito delle strutture professionali.
  La cassa di assistenza sanitaria integrativa Cadiprof eroga prestazioni anche a favore dei collaboratori e dei praticanti. Le parti firmatarie del contratto stanno valutando l'estensione di ulteriori istituti anche ai lavoratori non dipendenti.
  Riteniamo necessario che si operi secondo una duplice linea di azione. Da una parte siamo d'accordo sull'intervenire in maniera immediata su alcune disposizioni contenute nella legge Fornero, al fine di semplificare le procedure relative alla flessibilità in entrata, con la finalità di favorire l'occupazione da parte di aziende e professionisti. In secondo luogo, occorre però preparare interventi strutturali, che possono anche provocare una scossa in termini sociali e di costi, ma su cui dobbiamo riflettere per poter incidere sulla necessaria ripresa dell'economia.
  Passo ora alla proposta di modifica alla legge Fornero. Le ipotesi di modifica che abbiamo già da tempo ipotizzato sono prevalentemente misure a costo zero, in grado di alleviare il carico regolatorio che opprime alcune tipologie contrattuali, e che gli studi professionali avvertono come particolarmente pesante. Il decreto-legge sul Pag. 15lavoro ha intervenuto su alcuni punti importanti, ma potrebbe essere utile provvedere a alcune ulteriori modifiche.
  È stato ripetutamente detto e ribadito che la riforma Fornero realizza un equilibrio complessivo, costituito dallo scambio tra una minore rigidità in uscita e una minore flessibilità in entrata. Orbene, è evidente che quest'equilibrio può al limite essere ipotizzabile in relazione alle imprese destinatarie delle disposizioni volte a rimodulare la disciplina dell'articolo 18 della legge n. 300 del 1970. Tuttavia, quell'equilibrio è per tabulas inesistente in relazione alle imprese di piccole dimensioni, come quelle che compongono il comparto degli studi professionali, che occupano mediamente 2,7 dipendenti ciascuna, e di conseguenza non sono in alcun modo destinatarie dirette delle modifiche introdotte alla disciplina della reintegrazione del rapporto di lavoro.
  Per il settore degli studi professionali, la riforma del mercato del lavoro costituita dalla legge 92 del 2012 non ha alcun equilibrio, in quanto prevede soltanto una maggiore rigidità nell'utilizzo di lavori flessibili ed un aggravio dei relativi costi, non solo sul piano normativo, ma anche su quello strettamente economico.
  Occorre sottolineare oltretutto che la maggiore rigidità nell'utilizzo di lavori flessibili è stata imposta proprio in una fase di gravissima crisi economica e occupazionale, nella quale non appare ragionevole fare molto affidamento sulla crescita delle opportunità di lavoro stabile.
  Veniamo nello specifico ai punti ben precisi, iniziando con il lavoro a termine. Valutiamo positivamente gli interventi contenuti nel recente pacchetto del Governo. La riduzione degli intervalli dello stop and go è un intervento importante.
  Avevamo proposto recentemente una duplice linea d'azione: l'azzeramento totale dello stop and go e l'eliminazione della cosiddetta «prosecuzione di fatto». Tale intervento potrebbe portare la possibilità di attivare, in caso di cessazione di un contratto di lavoro a termine, un nuovo rapporto con lo stesso lavoratore senza controproducenti interruzioni per entrambe le parti in rapporto. Non avrebbe di conseguenza più ragione di esistere la prosecuzione di fatto del rapporto di lavoro a termine dopo la sua scadenza, in quanto il datore di lavoro potrebbe riassumere nuovamente, senza necessità di aspettare il decorso dei termini per la riattivazione.
  Se a questo si aggiungesse la possibilità di prevedere più proroghe, la semplificazione sarebbe notevole. Valutiamo comunque positivamente, in linea con la nostra impostazione, la possibilità di intervento della contrattazione collettiva sullo stop and go, operata dal decreto-legge sul lavoro.
  In diverse occasioni abbiamo sollecitato altresì un innalzamento del limite massimo per i rapporti a tempo determinato in somministrazione a 48 mesi, come già previsto dal provvedimento per le start-up. Oltre tale termine, l'eventuale prosecuzione del rapporto di lavoro potrebbe considerarsi a tempo indeterminato. Nel rispetto di tale limite, il rapporto dovrebbe, come detto, prevedere più proroghe, fino a un massimo di quattro.
  Per quanto riguarda la possibilità di stipulare il primo contratto di lavoro a termine senza causale, avevamo suggerito che il termine fosse innalzato a 24 mesi. Ora il decreto-legge sul lavoro è intervenuto sul punto, mantenendo il limite di 12 mesi, ma consentendo la possibilità di proroghe, rinviando alla contrattazione collettiva, in maniera più ampia rispetto al passato, l'individuazione di ulteriori ipotesi di acausalità.
  Come parte sociale siamo chiamati a un ruolo importante che eserciteremo con grande attenzione.
  Passo ora all'apprendistato. In relazione a tale istituto contrattuale, specialmente per quanto riguarda l'apprendistato professionalizzante, siamo sempre stati convinti assertori della necessità di semplificare in maniera sostanziale gli obblighi formativi. In questo senso, dovrebbe darsi ampio risalto alle competenze che possono essere trasmesse direttamente sul luogo di lavoro, mediante una formazione on the job. Nel contratto con studi professionali questa possibilità è prevista esplicitamente per la formazione tecnico-professionale. Al fine di evitare che gli obblighi formativi vengano Pag. 16elusi, e per rendere effettiva la formazione, stiamo studiando strumenti per permettere al datore di lavoro di essere assistito negli adempimenti connessi al contratto di apprendistato. In questo senso, un ruolo importante è attribuito alla bilateralità.
  Valutiamo positivamente l'intervento sulla formazione trasversale di competenza regionale operato dal decreto-legge sul lavoro. Il mancato decollo dell'apprendistato quale unico canale per l'accesso dei giovani sul mercato lavoro dipende, tra i vari fattori, anche dalla difficoltà di seguire le regole differenti presenti nei singoli territori. La diversità di comportamento, i tempi di azione e le problematiche poste alle iniziative regionali sono un'autentica barriera all'assunzione di apprendisti.
  Vengo ora al lavoro a chiamata. In relazione a tale tipologia contrattuale, riteniamo utile una reintroduzione, seppure con adeguamenti, della disciplina originaria, con la possibilità che sia utilizzabile in tutti i settori produttivi, esclusivamente per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente, senza limiti di età. Puntare sul lavoro intermittente sarebbe anche un elemento di semplificazione. Troppe sono infatti le modalità e gli istituti di cui servirsi per il lavoro di un giorno o di pochi giorni.
  Per quanto riguarda il lavoro autonomo e le collaborazioni, permangono ancora perplessità di carattere generale sui meccanismi presuntivi previsti dalla legge Fornero in relazione allo svolgimento di attività autonome in regime di monocommittenza e su alcune disposizioni relative alle collaborazioni a progetto.
  Consideriamo positive alcune novità introdotte dal decreto-legge sul lavoro, ma è evidente l'avvicendamento delle regole del lavoro subordinato a forme di lavoro effettivamente autonome, con oneri burocratici ulteriori.
  Sull'occupazione giovanile e sull'accesso alle professioni, uno dei temi di primaria importanza nell'attuale dibattito sull'occupazione, a cui giustamente anche voi dell'XI Commissione, con l'attuale indagine, ponete grande attenzione, dobbiamo necessariamente aggiungere alcune ulteriori considerazioni.
  La disoccupazione giovanile è sicuramente una piaga del nostro Paese, come lo è di molti altri nostri partner europei. Anche su questo punto, esiste un'Europa a due velocità: da una parte Germania, Austria e i Paesi del Nord Europa; dall'altra parte l'Italia e le nazioni del sud del continente. I fattori di questo squilibrio sono storici e strutturali, e non è questa la sede per analizzarli compiutamente.
  Tuttavia, appare opportuno sottolineare che la comparazione della situazione italiana con quella di nazioni che hanno background culturali e lavorativi totalmente differenti, nel momento in cui viene utilizzata per trarne politiche occupazionali, potrebbe portare a scelte controproducenti. La Germania e i Paesi del Nord hanno sistemi di alternanza e percorsi di transizione scuola-lavoro efficaci, che giustamente devono essere presi come modello a livello europeo per la definizione di programmi e per la destinazione di risorse. Nella fase attuativa, gli Stati dovrebbero però poter adottare meccanismi che tengano in considerazione le specificità nazionali.
  Da anni Confprofessioni si è fatta promotrice di un sistema di incontro tra domanda e offerta di lavoro, che ruota intorno alla valorizzazione del ruolo delle parte sociali e della bilateralità, alternativo, o comunque complementare, ai centri per l'impiego.
  Siamo sicuri che gli obiettivi della Youth Guarantee, che si basano sulla creazione della garanzia che tutti i giovani cittadini dell'UE, residenti legali fino all'età di 25 anni, nonché i giovani laureati con meno di 30 anni, ricevano un'offerta di buona qualità di impiego, oppure di proseguimento di studio o tirocinio entro quattro mesi dall'inizio del periodo di disoccupazione o dal termine dell'istruzione, possano essere in tal modo conseguiti.
  Lo sviluppo di una moderna e privata rete di sedi di incontro tra domanda e offerta di lavoro a gestione delle parti sociali deve essere un obiettivo primario.Pag. 17
  Su questa linea, vorremmo portare alla vostra attenzione una tematica che ci interessa particolarmente: l'accesso alla libera professione. In relazione a questo specifico aspetto, considerando anche l'oggetto dell'indagine odierna, dobbiamo porre alcune questioni importanti.
  L'accesso alla professione si realizza, per numerose categorie professionali, mediante lo svolgimento di un periodo di pratica o tirocinio presso un professionista, in cui i giovani aspiranti professionisti si ritrovano senza benefici e senza orientamento.
  Il praticantato è finalizzato a consentire l'acquisizione di fondamentali teorici, pratici e deontologici della professione, ed è generalmente richiesto quale requisito per l'ammissione all'esame di abilitazione all'esercizio della professione stessa. Il praticantato, quindi, ha un contenuto e delle finalità peculiari, di fondamentale importanza per il futuro delle libere professioni, ma che ne rendono difficile l'inquadramento giuridico.
  Si distingue dal lavoro subordinato, dal lavoro autonomo e da qualsiasi altra forma di collaborazione contemplata dall'ordinamento. È evidente come queste figure non abbiano mai potuto beneficiare degli strumenti posti dall'ordinamento a vantaggio dei giovani per l'inserimento lavorativo.
  Recentemente il decreto legislativo n. 167 del 2011, riformando l'istituto dell'apprendistato, ha introdotto la possibilità di assumere con contratto di apprendistato i soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni, al fine di consentire lo svolgimento del praticantato per l'accesso alle professioni ordinistiche o per altre esperienze professionali.
  Si tratta di un segno di attenzione notevole, al quale abbiamo anche dato attuazione nel nostro contratto collettivo, ma che non esaurisce il problema della necessaria considerazione che dovrebbe essere posta su tale istituto, per il rilievo strategico che ha nella formazione dei futuri professionisti.
  Come parti sociali, ci stiamo muovendo per definire un quadro di regole che diano tutele a favore dei praticanti. Chiediamo però che alcuni strumenti, magari quelli individuati nell'ambito di programmi europei di finanziamento alla mobilità transnazionale e alla formazione, possano essere rivolti anche al settore delle professioni in Italia.
  Per esempio, uno strumento sicuramente utile sarebbe l'Erasmus, allargato anche a coloro i quali vogliono fare i professionisti, cioè ai praticanti. È stato fatto per le imprese a livello europeo, ma sarebbe giusto allargarlo anche alle categorie professionali.
  Vengo ora alle riflessioni sulle modifiche strutturali. Al di là di qualsiasi considerazione sulle politiche occupazionali, va primamente detto che la crescita economica deve essere il primo obiettivo da perseguire.
  Anche Confprofessioni e i professionisti vogliono dare il loro contributo a un grande piano di rilancio dell'economia, sia per il bene del Paese sia perché le professioni, al pari delle imprese, non hanno né presente né futuro, senza incremento del prodotto interno lordo e della competitività.
  Gli interventi in materia di lavoro non possono da soli risolvere il problema, ma, se inappropriati, possono invece ostacolarne la soluzione. Come ho già detto, abbiamo sicuramente la necessità di rimuovere una serie di ostacoli alla flessibilità. Gli interventi da porre in campo non devono essere però solo la legge n. 92 del 2012 o qualsiasi altra disciplina degli istituti contrattuali, ma anche idee che cambino il volto sociale del Paese.
  Sicuramente sono importanti gli incentivi alle assunzioni o alla stabilizzazione, ma senza interventi a regime è difficile che si possa dare una svolta reale alla situazione del Paese.
  D'altronde, abbiamo evidenza del fatto che nel corso degli anni sono state ingenti le risorse che lo Stato ha inteso mettere a disposizione delle imprese, con l'effetto di un forte utilizzo immediato delle stesse, che ha prodotto risultati importanti, ma sul lungo periodo non ha impedito licenziamenti e un calo generalizzato dell'occupazione.
  Va infatti rilevato che, essendo il meccanismo dell'incentivo limitato nel tempo e diretto solamente a determinate categorie Pag. 18di lavoratori, occorre che coloro che ne beneficiano abbiano la possibilità, una volta esaurito il periodo di copertura, di non trovarsi a sostenere gli elevati costi del lavoro esistenti. Le conseguenze potrebbero essere deleterie, con un evidente spreco di denaro pubblico.
  Ben vengano, comunque, le misure del Governo, che nell'immediato possono portare una boccata d'ossigeno ai datori di lavoro alle prese con costi di lavoro altrimenti difficilmente sostenibili, e permettere l'accesso al mercato di categorie di potenziali lavoratori che sono senza opportunità.
  Sarà necessario però che la disciplina attuativa tenga in adeguata considerazione gli ostacoli che fino ad oggi hanno contraddistinto iniziative analoghe. Infatti, agevolazioni che consentono di assumere o stabilizzare alcune tipologie di lavoratori esistono già, ma le difficoltà per i datori di lavoro che ne vogliono beneficiare sono notevoli, per mancanza di chiarezza, se non proprio di disposizioni operative.
  Ne segnaliamo alcune, a titolo esemplificativo. Il blocco degli sgravi derivanti dall'assunzione di lavoratori iscritti alla piccola mobilità, licenziati per giustificato motivo oggettivo da aziende con meno di 15 dipendenti, che a causa della Legge di stabilità 2013 non possono essere utilizzati per la mancata proroga della possibilità di iscrizione, ha determinato lo stallo anche degli incentivi ai contratti instaurati prima del 2013. Attendiamo ancora indicazioni operative, per capire come muoverci.
  I fondi stanziati a ottobre 2012 per la stabilizzazione di giovani e donne devono ancora essere assegnati dall'INPS.
  I contratti di inserimento delle donne realizzati tra il 2009 e il 2012 sono stati agevolati con ritardo, e il decreto ministeriale non è stato ancora pubblicato.
  I bonus per ricerca e sviluppo sono fermi. Ricordiamo che l'intervento, assai interessante, consiste in un credito d'imposta pari al 35 per cento dei costi sostenuti dal datore di lavoro, fino a un massimo di 200.000 euro l'anno, per l'assunzione a tempo indeterminato di soggetti in possesso di un dottorato di ricerca universitario o di una laurea magistrale in materie legate a ricerca e sviluppo. Siamo in attesa della pubblicazione del decreto interministeriale di attuazione, mentre mancano ancora un provvedimento del MISE con i contenuti della domanda di accesso, le istruzioni operative e i necessari chiarimenti dell'Agenzia delle entrate, con tanto di codici tributo.
  Tutto ciò non può che determinare incertezza tra coloro, professionisti inclusi, che devono applicare le norme. Auspichiamo che le misure adottate dal Governo trovino pronta attuazione. Nell'attesa, diamo immediata disponibilità a effettuare un'opera di ricognizione delle norme esistenti in materia, per ridurre a sistema la vasta congerie di normative.
  Ci prime sottolineare che il mondo delle professioni sconta una difficoltà in più nel beneficiare di qualsiasi incentivo, non solamente in tema di lavoro. Molto spesso le norme che vengono introdotte nell'ordinamento limitano i benefici alle imprese, con conseguente difficoltà di accesso per i professionisti. È necessario mettere da subito in cantiere nuove proposte strutturali, per accompagnare il pacchetto di misure di recente varato.
  La riduzione del cuneo fiscale è possibile ? Il Ministro del lavoro e delle politiche sociali Enrico Giovannini e il Presidente del Consiglio Enrico Letta hanno più volte sottolineato che le risorse a disposizione sono scarse e che si potrà iniziare a ragionare solo nella seconda parte dell'anno.
  Varie fonti affermano che per effettuare un intervento radicale sul mercato occorrono almeno 8 miliardi di euro. Non sappiamo se si tratta di cifre corrette, ma occorrono sicuramente molte risorse, anche perché il taglio del costo del lavoro voluto dal Governo Prodi mobilitò 5 miliardi di euro senza sortire gli effetti sperati.
  Riteniamo che al momento le proposte utili potrebbero essere due. La prima è il rilancio della produttività, mediante lo sgravio della parte del salario legata a incrementi di produttività e efficienza, con un'attenzione particolare alle voci premiali della retribuzione. È sicuramente un intervento oneroso ma doveroso, in un'ottica d'integrazione tra politiche del lavoro e politiche economiche. L'impatto che questa Pag. 19misura, definita a un livello strutturale, può avere sul potere di acquisto dei lavoratori è evidente, soprattutto a fronte della difficoltà oggettiva, di cui si è detto, a intervenire in termini generali sul costo del lavoro.
  Per la medesima finalità, in alternativa, si potrebbe operare per l'applicazione di un'imposta agevolativa, finora prevista per i salari di produttività, alle mensilità aggiuntive della retribuzione del lavoratore. Le tempistiche non rendono possibile un intervento immediato sulla quattordicesima mensilità, ma si potrebbe riflettere su un'operazione sulla tredicesima alla fine dell'anno.
  Vengo ora al rilancio dell'imprenditoria giovanile e allo start-up di nuove imprese. Abbiamo bisogno di valorizzare le nuove capacità, ma è evidente il rischio che in un momento di grave difficoltà economica le start-up possano nascere e morire rapidamente. Per questa ragione, non può essere sostenuta soltanto la fase di lancio, ma va anche supportata la vita stessa della nuova struttura.
  Come proposta innovativa e di forte impatto in termini di fiducia, si è pensato a un azzeramento totale del costo del lavoro per un certo periodo di tempo, per giovani imprenditori e professionisti che assumano giovani lavoratori. In questo senso, si propone un progetto «giovani per i giovani»: un neoimprenditore e professionista sotto i 40 anni, che assume un lavoratore sotto i 25 anni, dovrebbe pagare solamente l'importo netto della busta paga, cioè, in buona sostanza, non dovrebbe pagare i contributi.
  È comunque giunta l'ora di pensare anche alle start-up professionali, estendendo a queste tutte le recenti facilitazioni, non ultima quella recentemente approvata, che prevede l'inclusione delle start-up nelle coperture delle operazioni di finanziamento da parte del Fondo centrale di garanzia, che finanzia l'80 per cento. Si tratterebbe di un vero e proprio sostegno al mettersi in proprio da professionista, al pari di quanto oggi previsto per l'avvio di un'impresa.
  Allo stesso modo, è tempo di estendere anche ai professionisti la possibilità di partecipare allo strumento delle reti di imprese, particolarmente adatto alle professioni, alla luce di quanto per loro recentemente previsto in tema di società e cooperazione.
  Permetteteci infine di segnalare una criticità dei recenti interventi del Governo. Parliamo del rifinanziamento degli ammortizzatori sociali in deroga. Si tratta di un'operazione di importanza fondamentale. Tuttavia, la scelta di utilizzare le risorse destinate alla formazione continua è segno di scarsa attenzione per il ruolo che le parti sociali, attraverso i fondi interprofessionali, possono avere nella realizzazione di politiche attive destinate alla ricollocazione di lavoratori in situazione di difficoltà.
  Auspichiamo una riconsiderazione di tale impostazione. Grazie.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il dottor Gaetano Stella per questa relazione estremamente puntuale.
  Do la parola ai deputati che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  MARIALUISA GNECCHI. Vi ringraziamo per la relazione. Avete detto tutto, quindi ci è difficile porre domande. Siete stati molto esaustivi.
  L'unica cosa che vorremmo riuscire a capire, motivo per cui stiamo cercando di fare quest'indagine, è come riuscire a intervenire positivamente. Chiaramente, come ha affermato il Governo, il lavoro è la priorità. Ne siamo assolutamente convinti. In questa sede, stiamo cercando di capire come agire rispetto all'occupazione giovanile, ma esiste anche un problema relativo agli over 40 o agli over 50, a seconda delle sensibilità.
  Il problema vero, per noi, è riuscire a capire in che modo tutti gli esperti, come voi, l'ISTAT o altri – tra l'altro il Ministro Giovannini viene dall'ISTAT – possano diventare interlocutori autorevoli, che diano suggerimenti utili al legislatore. La situazione è veramente drammatica. Quindi, chiaramente, capire come riuscire a intervenire per migliorare la situazione, anche in un periodo di crisi così violenta, è importante.Pag. 20
  Io normalmente mi occupo di pensioni, più che di lavoro giovanile. Devo dire che la manovra Fornero, unita alla crisi attuale, sta veramente creando situazioni di drammaticità familiare che interessano tutte le generazioni. Prendiamo atto di questo e cerchiamo di lavorare in positivo, anche se vediamo che le prospettive non sono proprio rosee, nonostante tutti i vostri splendidi contributi, che apprezziamo.

  WALTER RIZZETTO. Sono d'accordo con la collega Gnecchi, siete stati piuttosto precisi nell'esposizione.
  Vorrei fare soltanto una sottolineatura rispetto all'ultimo punto del documento che ci avete presentato. Mentre la collega Gnecchi è particolarmente affezionata all'affare pensioni, io sono particolarmente affezionato alle imprese e ai giovani che vogliono fare impresa, e che, anche in questo caso, in Italia trovano parecchie difficoltà.
  Personalmente, io sono piuttosto d'accordo con quanto da voi scritto e denunciato poco fa. Tuttavia, immagino che per mettere in campo le agevolazioni per gli imprenditori o prossimi imprenditori under 40 di cui parlate, bisogna trovare una copertura. Per permettere, ad esempio, all'imprenditore che ha già fatto impresa e che assume degli under 40 di pagare soltanto il costo netto della busta paga, andrebbe sicuramente ricercata una copertura. Immagino infatti che le casse dello Stato si basino abbastanza o molto su queste entrate.
  Ricordo che all'epoca, quando ho iniziato a fare impresa con una partita IVA, Tremonti aveva messo in piedi delle agevolazioni per i primi tre anni. Forse qualche collega più esperto del sottoscritto me lo può confermare.
  Va trovata comunque la copertura. Ben vengano, quindi, queste proposte, ma se ci deste una mano a capire dove trovare i soldi, sarebbe cosa buona e giusta.

  ELISA SIMONI. Anch'io vi ringrazio per la quantità di informazioni che ci avete dato. Condivido l'ultima osservazione del collega riguardo al tema delle risorse, che ovviamente è fondamentale. Ci siamo detti più di una volta che tutte le misure messe in campo non hanno una grande capacità di incidenza, se non si agisce sulla domanda. Tuttavia, è altrettanto vero che per agire sulla domanda, servono risorse ingenti.
  Per quanto riguarda più specificatamente le risorse umane, voi osservavate che se qualche imprenditore investe, più che sulle risorse umane, tende a farlo sul lato dell'innovazione, ossia sulla capacità competitiva. Qualche anno fa dicevamo che vi era una scarsa sensibilità a considerare le risorse umane come un elemento di competitività. Oggi, ovviamente, non possiamo fare un'osservazione analoga.
  Certamente noi scontiamo, e probabilmente sconteremo ancora, un problema molto grande. Qualora tutto questo finisse e ci fosse una ripresa, tra qualche anno avremmo comunque una perdita di professionalità in un ampio strato della popolazione, che è quella che dovrebbe tirare avanti le imprese. Questo è preoccupante.
  Condivido la vostra osservazione sull'apprendistato, che potrebbe essere un elemento molto importante su cui agire, con un'operazione che omogeneizzi quest'istituto a livello nazionale. Non ci dimentichiamo che i limiti dell'apprendistato italiano sono così pesanti, non solo per la struttura e per il bisogno di omogeneizzazione, ma anche perché abbiamo un sistema educativo e formativo che non è adeguato ad accompagnare un apprendistato che funzioni.
  Evidentemente, bisogna anche capire in che modo si può evitare di perdere professionalità. Qualora noi riuscissimo a riprenderci, questa mancanza di professionalità potrebbe essere veramente un freno alla nostra capacità competitiva dei prossimi anni. Grazie per la precisione.

  PRESIDENTE. Do la parola al dottor Stella per la replica.

  GAETANO STELLA, Presidente di Confprofessioni. Mi è stato chiesto cosa si può fare per i giovani. Ci rendiamo conto che sicuramente la situazione è difficile. Noi, come parti sociali, stiamo lavorando molto per cercare di trovare delle misure di Pag. 21intervento. Per esempio, bisogna incrociare la domanda con l'offerta. Stiamo quindi cercando di creare una sorta di portale, con l'aiuto delle parti sociali, in modo tale da intercettare chi cerca lavoro e chi invece lo offre. Evidentemente, mi riferisco a quello che c’è in circolazione.
  Stiamo inoltre lavorando sul discorso del praticantato. A questo proposito, rispondo anche all'ultima domanda. Nonostante ci sia un dato significativo, negli ultimi anni c’è stato anche un calo di iscrizioni agli ordini professionali, che si aggira sul 10-20 per cento, dopo un decennio in cui addirittura sono raddoppiate le iscrizione agli ordini. Questo è un'ulteriore testimonianza del fatto che i giovani non hanno uno sbocco lavorativo, neanche in un'attività professionale, perché c’è un'inflazione. Di fronte a un mercato del lavoro che non dà possibilità da un punto di vista economico, tanti non ritengono di sostenere quei costi minimi per poter avviare un'attività professionale in proprio.
  Di conseguenza, il rischio che le competenze professionali verranno meno è purtroppo un fatto da tenere in considerazione.
  Stiamo cercando di capire come dare una risposta a tutta questa massa di giovani laureati o che si stanno laureando, per avvicinarli di più al mercato del lavoro, magari offrendo loro delle tutele sotto il profilo sociale, che potrebbero essere di supporto, in attesa di essere collocati nel mercato del lavoro vero e proprio.
  Si dovrebbe favorire il loro ingresso nel mercato del lavoro attraverso degli strumenti adeguati. Per esempio, nel corso dell'ultimo anno di studi, si potrebbero firmare degli accordi con le università per favorire i contatti. Stiamo lavorando su quest'ipotesi con le parti sociali. Sicuramente questo è importante.
  Per quanto riguarda il programma, di cui parlavamo prima, «giovani per i giovani», questo è volto a dare una continuità, perché la start-up non diventi un fatto episodico, relativo soltanto ai due o tre anni in cui si ricevono i contributi. Se invece si crea un'organizzazione strutturata della start-up, anche con l'assunzione di personale dipendente, c’è anche una maggiore previsione di continuità. Tuttavia, è chiaro quest'organizzazione va favorita. Allora, piuttosto che elargire incentivi a pioggia, come si sta facendo adesso, è meglio calarli nella realtà specifica.
  Si parlava di un incentivo di 650 euro. Si potrebbe prevedere la possibilità di dare un netto in busta paga, senza pagare i contributi, in modo tale da poter favorire l'assunzione di giovani nelle start-up.
  Per quanto riguarda l'apprendistato, sicuramente c’è stato il problema delle formazioni a livello regionale. Ogni regione è andata per conto suo e chiaramente ciò non ha favorito il decollo di uno strumento come questo. Limitare, come si sta dicendo, per un certo periodo di tempo (due o tre anni) la formazione presso il datore di lavoro potrebbe aiutare a superare questa difficoltà dell'apprendistato che non decolla, e che potrebbe effettivamente essere uno strumento utile per iniziare a collocare i giovani nel mercato del lavoro.
  Per i meno giovani, sicuramente i contratti di inserimento rappresentano un'opportunità che non si può abbandonare.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il presidente Stella.
  Rilevo anch'io che il tema della continuità è molto importante. Infatti, i meccanismi di incentivo limitati nel tempo possono avere degli effetti controproducenti. Per questo, noi attribuiamo molta importanza alla seconda fase dell'azione di governo, durante la quale si discuterà sulla legge di stabilità e su interventi di incentivo che non siano congiunturali, ma strutturali.
  È anche molto importante, e lo faccio rilevare a tutti i colleghi, il fatto che purtroppo si evidenzia che molte leggi esistenti rimangono inattuate, per mancanza di disposizioni operative. Ad esempio, è stato stilato un elenco di fondi stanziati per la stabilizzazione di giovani e di donne che devono ancora essere assegnati dall'INPS.
  Poiché il decreto è all'esame del Senato, potremmo suggerire ai nostri colleghi del Senato di presentare delle mozioni e delle risoluzioni che spingano il Governo a rendere operative norme già esistenti. Questo Pag. 22vale anche per quanto riguarda la cosiddetta «staffetta generazionale». Ricordo ancora una volta che ci sono quattro leggi mai attuate e ci preoccupiamo di fare la quinta. Spero che si tragga in qualche modo profitto da quello che è successo precedentemente. La prima di queste leggi è del 1981, quando c'era l'allora Ministro De Michelis.
  Ringrazio il dottor Stella, presidente della Confprofessioni, e tutti i suoi collaboratori.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle misure per fronteggiare l'emergenza occupazionale, con particolare riguardo alla disoccupazione giovanile, l'audizione di rappresentanti del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro.
  Nel ringraziarli ancora una volta per la loro presenza, do loro la parola. Avverto, altresì, che gli auditi hanno messo a disposizione della Commissione una documentazione, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato 1).

  MARINA CALDERONE, Presidente del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro. Grazie, signor presidente. Buongiorno a lei e a tutti i componenti della Commissione. Innanzitutto vi ringrazio per aver consentito l'audizione del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro.
  Quello oggi trattato è certamente un tema molto caro alla categoria, e su cui noi, come ha detto il presidente, abbiamo prodotto un documento che abbiamo ritenuto di mettere a disposizione della Commissione. Chiederò il permesso di non leggerlo e di soffermarmi invece su alcuni aspetti che a nostro avviso sono assolutamente importanti.
  Prima di tutto faremo una riflessione di sistema. Credo che tutti quanti voi conosciate le dimensioni del fenomeno della disoccupazione giovanile in Italia, che per noi sta diventando sempre più preoccupante, soprattutto se collegato al grande tema dell'occupazione. Noi oggi abbiamo il 40 per cento di disoccupati nella fascia di età che va dai 15 ai 24 anni. Sappiamo che i dati sono ancora più preoccupanti se andiamo ad esaminare quello che succede all'interno del mercato del lavoro femminile. In questo caso, si sale al 52 per cento.
  È proprio vero che in Italia non si trova lavoro ? Noi riteniamo che esistano una serie di situazioni e anche di precondizioni che dovrebbero essere prese in esame. Sicuramente si dovrebbe ragionare sul necessario coordinamento tra il mondo dell'istruzione, fase in cui si acquisiscono le competenze, e il mondo del lavoro.
  Dobbiamo dire che ciò che oggi non funziona è proprio il travaso di informazioni tra gli operatori del mondo del lavoro e il mondo dell'istruzione. Ecco perché noi abbiamo un disallineamento rispetto ai dati legati alle richieste occupazionali e all'inserimento lavorativo relativamente ad alcune tipologie di lavoratori.
  Sicuramente, qualcuno potrebbe definire l'affermazione «laureati e disoccupati» eccessivamente pesante. Tuttavia, esaminando i dati, secondo cui il 34 per cento dei laureati in storia e conservazione del patrimonio artistico e letterario dopo un anno dalla laurea non ha ancora trovato un'opportunità occupazionale, riusciamo a capire cosa voglia dire per un operatore del mercato del lavoro o per un consulente del lavoro avere difficoltà a collocare le risorse umane a disposizione.
  Noi abbiamo sicuramente una difficoltà a far incrociare la domanda e l'offerta di lavoro e questo causa un problema nel definire le funzioni oggi disponibili. Oggi in Italia abbiamo circa 156.000 posti vacanti che non vengono coperti. Certamente, non si tratta soltanto di professionalità high skill, ma anche di quelle professionalità tecniche che qualcuno potrebbe definire «lavori manuali», che però richiedono livelli di specializzazione.
  Noi riteniamo di poter dire che purtroppo, per quel che riguarda la nostra Pag. 23funzione di soggetti che operano all'interno del mercato del lavoro, ci rendiamo conto che in Italia si programma poco e male. Infatti, tutte le attività di monitoraggio, previste anche da recenti norme in materia di mercato del lavoro, avvengono a posteriori. Nel momento in cui la norma entra in vigore, allora si pensa a fare il monitoraggio sulla ricaduta della stessa. Credo invece che sarebbe opportuno che noi ci abituassimo a spostare il tempo del monitoraggio alla fase propedeutica all'emanazione di una norma. Solo così riusciremmo a ragionare su quella che potrebbe essere la ricaduta dei fenomeni.
  Quello che a noi preme mettere in evidenza in questo momento è che certamente dobbiamo intervenire per favorire l'occupazione giovanile, mettendo in campo delle attività e delle politiche attive per il lavoro che consentano di accompagnare i giovani al lavoro, e soprattutto, laddove dovessero perderlo, perché magari interessati da spezzoni lavorativi di entità ridotta nel tempo, di trovare un'altra collocazione.
  Sappiamo perfettamente che non è più il tempo del posto fisso per tutta la vita, però il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di far funzionare il mercato del lavoro e i sistemi di orientamento, coinvolgendo in questo anche gli operatori del mercato e i soggetti privati previsti dalla legge Biagi, tra cui certamente anche il Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro, che dovrebbero avere il compito di accompagnarci.
  Al di là del della considerazione che voi trovate, anche in termini numerici, all'interno della nostra relazione, su quelli che noi consideriamo i lavori dimenticati, cioè le professionalità richieste che in questo momento noi non copriamo, se non attingendo dall'estero per alcuni mestieri, credo che sarebbe opportuno che in questa sede riflettessimo sui recenti provvedimenti in materia di mercato del lavoro, se il presidente me lo consente.
  Vorrei anche sottolineare che certamente non è un mistero che il Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro, a suo tempo, ha espresso perplessità in fase di emanazione e di prima applicazione della legge n. 92 del 2012, nota anche come legge Fornero.
  A nostro avviso, la premessa di quella legge, cioè ridare flessibilità al mercato del lavoro, non trovava una declinazione coerente nelle norme della legge stessa. Credo che gli effetti che si sono prodotti, ossia l'incremento del tasso di disoccupazione, e quindi l'assenza di un'inversione di tendenza, non facciano altro che ribadire che non possiamo guardare al mercato del lavoro solo ed esclusivamente in un'ottica di classificazione della flessibilità come precariato, e soprattutto in un tentativo di ingenerare un'attenzione particolare sugli aspetti documentali, cioè su quegli adempimenti di natura assolutamente contenutistica che diventano adempimenti formali che generano sanzioni e oneri aggiuntivi per le aziende e per i professionisti.
  Mi riferisco a tutti quegli adempimenti che in seguito alla legge Fornero hanno reso maggiormente difficile l'utilizzo di tutte quelle forme di lavoro flessibile che erano state introdotte con la legge Biagi.
  Con questo non vogliamo dire che la flessibilità non debba essere opportunamente normata. Questo non è certamente il nostro obiettivo. Il nostro obiettivo è che si comprenda che la flessibilità non significa necessariamente precarietà. Non vorremmo che ci fosse sempre e comunque l'equivalenza tra questi due concetti, che invece in sé hanno delle caratteristiche assolutamente differenti.
  Noi avevamo sollevato delle perplessità in ordine ad alcuni istituti della legge n. 92 del 2012, che a nostro avviso avrebbero complicato ulteriormente le già difficili condizioni in cui versava soprattutto il segmento giovanile del mondo del lavoro. Mi riferisco al tempo determinato e all'apprendistato.
  Per quanto concerne l'apprendistato, signori onorevoli, c’è un imbarazzante condominio tra lo Stato e le regioni. Credo che questo vada assolutamente sottolineato e che se ne debba prendere atto. Infatti, laddove uno strumento così importante, che costituisce l'unico contratto a finalità formativa oggi rimasto nel nostro ordinamento, Pag. 24diventa un elemento di freno, perché le regioni non legiferano oppure legiferano in modo assolutamente difforme tra di loro, questo ci mette nelle condizioni di dire che esistono un'Italia di serie A, una di serie B e una di serie C e che abbiamo venti mercati del lavoro diversi.
  Oggi non esiste un mercato del lavoro in Italia. Esistono venti mercati del lavoro regionali e settoriali, tanti quante sono le regioni e tanti quante sono le velocità. Noi abbiamo venti normative sull'apprendistato; venti sulla cassa integrazione in deroga; venti sui tirocini formativi.
  Pensare a un mercato del lavoro globale e all'applicazione di norme in Italia che possano essere comparate a un mercato del lavoro transnazionale e europeo, in queste condizioni, credo che sia estremamente difficile. Per questo noi avevamo chiesto una razionalizzazione delle norme in materia di apprendistato, andando forse anche un po’ controcorrente, dicendo che in questo caso probabilmente è necessario avere un po’ più di Stato e meno deregolamentazione, nel momento in cui lo Stato deve salvaguardare il diritto dei cittadini a vedersi applicati e riconosciuti medesimi diritti e medesime condizioni.
  Il decreto-legge n. 76 del 2013, recentemente varato dal Governo, merita, a nostro avviso, un passaggio in questo contesto, anche se probabilmente la Commissione farà un'indagine specifica su quel provvedimento. Non si può parlare di disoccupazione giovanile e di iniziative a sostegno dell'occupazione giovanile senza guardare ai recenti provvedimenti.
  Questi provvedimenti, a nostro avviso, vanno certamente nella direzione di un tentativo di ripristinare delle situazioni di maggior inclusione lavorativa. Tuttavia, le risorse sono veramente poche. Non possiamo non dire che sulla conversione del contratto a tempo determinato e sulle nuove assunzioni ci sono delle risorse estremamente limitate.
  Se valutiamo gli incentivi previsti e i fondi messi a disposizione, dividendoli per le teste, vediamo che stiamo parlando di poche decine di migliaia di lavoratori. Capiamo il momento e la difficoltà di reperire le risorse, però, dato che abbiamo sicuramente bisogno di incrementare l'occupazione, necessitiamo anche di importanti risorse da collocare sullo sviluppo, e non solo sul finanziamento dell'occupazione. Se le aziende non hanno la possibilità di guardare in prospettiva a investimenti di medio e lungo periodo, certamente non si accontenteranno soltanto delle risorse limitate che possono essere messe in campo sull'occupazione.
  Ci piace segnalare una nostra perplessità legata, anche in questo caso, agli adempimenti di natura formale per quanto riguarda le dimissioni degli associati in partecipazione e dei collaboratori a progetto, tipologie di lavoratori che certamente non sono assimilabili ai lavoratori dipendenti. Ci sembra ancora una volta di ritrovare, in un testo di legge che invece si propone di individuare misure di sviluppo, un'attenzione per quelli che, a nostro avviso, sono degli oneri impropri, che ricadono sulle aziende e sui lavoratori.
  Per quanto riguarda invece il contratto a tempo determinato, il fatto che sia stata eliminata la clausola di impossibilità di proroga del contratto acausale, a nostro avviso, potrebbe essere utile nel momento in cui venga eliminata la previsione di un assoggettamento del contratto acausale alle percentuali previste dai contratti collettivi. Il contratto senza causale è il contratto che deve servire alle aziende per poter incontrare i lavoratori, per provarli e inserirli all'interno del circuito produttivo e, soprattutto in un momento di difficoltà, per valutare in che modo farli restare all'interno delle aziende.
  Noi avremmo sicuramente salutato con favore un'incentivazione maggiore alla trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, anche prima della scadenza del termine. Questo avrebbe dimostrato che la volontà del legislatore è quella di cercare di rendere stabile quel rapporto di lavoro all'interno di un contesto produttivo. Invece, il limitarlo facendolo rientrare all'interno delle percentuali previste dai contratti collettivi per Pag. 25le altre tipologie di contratto a tempo determinato, a nostro avviso, è un elemento che potrebbe essere penalizzante.
  Penalizzante è anche il fatto che le risorse a disposizione saranno effettivamente spendibili solo nel momento in cui interverranno gli atti di riprogrammazione, e le assunzioni beneficiare degli interventi saranno quelle attivate successivamente agli atti di riprogrammazione.
  Io credo che su tutte le altre misure che sono stante introdotte con il decreto-legge n. 76 del 2013 potrebbe intervenire il vicepresidente, in modo da permettervi di sentire le due voci – non dissonanti, perché non è consentito nell'ambito di un intervento del Consiglio nazionale – della nostra categoria.
  A nostro avviso è importante che si possa realmente parlare di un mercato del lavoro inclusivo, in cui non si fanno degli interventi spot, perché ovviamente la ricaduta in termini di mancata percezione dei risultati sarebbe devastante. È importante che si cominci a parlare di integrazione tra scuola e lavoro, soprattutto di coinvolgimento effettivo di quegli operatori del mercato del lavoro che potrebbero andare oltre il collocamento pubblico, e rendere effettivo l'incontro tra domanda e offerta di lavoro nel mercato italiano, fermo restando che, a nostro avviso, se vogliamo veramente parlare di politiche di inclusione lavorativa per i giovani, e anche per i meno giovani, va risolto il problema dell'eccessiva frammentazione del nostro mercato del lavoro.

  VINCENZO SILVESTRI, Vicepresidente del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro. Integro soltanto la relazione della presidente su un paio di punti tecnici, in ordine al recente decreto n. 76 del 2013.
  Se mi consentite, esprimo una valutazione di carattere generale in ordine al possibile impatto di questo decreto sull'occupazione giovanile: è come se a un malato che ha la febbre dessimo la borsa del ghiaccio. Sicuramente allevieremmo le sue sofferenze, ma evidentemente non interverremmo sulle reali cause che hanno provocato la malattia. Credo che questo discorso possa essere chiaro a tutti.
  Nello specifico, si intravedono due direttrici: gli incentivi e alcune riforme, soprattutto della legge n. 92, cioè la cosiddetta «legge Fornero». Come ha detto la presidente, si tratta di riforme al chiaroscuro, perché da un lato c’è l'acceleratore e dall'altro c’è il freno. Infatti, se da un lato si liberalizza sul contratto a termine, nello stesso tempo si inseriscono degli ulteriori laccioli. Mi riferisco ad esempio alla convalida preventiva delle dimissioni per alcune fattispecie, che in sé è difficile riuscire a comprendere. Un ulteriore lacciolo è costituito dal limite di 400 giornate per il contratto a intermittenza, che ci può stare, ma in questo momento significa introdurre un ennesimo elemento di possibile contenzioso, in quanto bisognerà aspettare l'ennesima circolare per capire come conteggiare le 400 giornate.
  Visto che si era parlato di un momento particolarmente di emergenza e di una legislazione quasi emergenziale, non si comprende perché si sia pensato di introdurre ulteriori elementi di rigidità e laccioli che impediscono alle imprese di operare in maniera più flessibile.
  Infine, per quanto riguarda gli incentivi, la cosa che suona un po’ strana è che abbiamo un incentivo sotto forma di credito contributivo che copre la stessa identica fascia d'età dell'apprendistato (dai 18 ai 29 anni). Da un lato si dice che l'apprendistato deve rappresentare l'unico strumento di incentivazione all'occupazione giovanile; dall'altro, con una vera e propria operazione cannibale, si introduce in un biennio uno strumento che va a coprire esattamente la stessa fascia di età.
  L'esperienza ci insegna che cannibalizzare gli strumenti significa sprecare risorse. È chiaro che uno dei due non funzionerà. Se uno dei due non funziona, significa che si stanno sprecando risorse. Perché non lasciare invece l'apprendistato, con queste ulteriori modifiche che sono state inserite ?
  Noi tecnici, in maniera profonda e chirurgica, comprendiamo forse qual è l'intenzione che ha spinto il legislatore alla modifica dell'apprendistato, cioè lasciare liberi tutti sul contratto, e impedire, in buona sostanza, alle regioni di creare quel problema Pag. 26di cui parlava poco fa la presidente. Tuttavia, anche per questa modifica contenuta in questo decreto occorrerà l'ennesima circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, per chiarire una volta per tutte che cosa si vuole intendere con l'obbligo formativo limitato all’on the job e non alla formazione trasversale.
  Per rimanere sull'argomento, se introduciamo un credito contributivo per la stessa fascia d'età dell'apprendistato, non capisco perché, a questo punto, non lo si applichi alla fascia che va dai 29 ai 40 anni. Con gli indici di disoccupazione attuali, si potrebbe fare.
  Peraltro, si fa riferimento al regolamento comunitario, dove non ci sono requisiti di età, bensì requisiti quali la disoccupazione e l'essere single. Secondo me, si poteva quindi fare di più. Se deve diventare uno strumento il più inclusivo possibile, utilizziamo l'apprendistato per la fascia di età che vai 18 ai 29 anni e usiamo un credito contributivo per incentivare le assunzioni di un'altra fascia di età.
  Da ultimo, sempre sul credito contributivo, vi dico subito che, facendo un po’ di analisi e di conti, come diceva giustamente la presidente, emerge che alla fine, dividendo la dote del finanziamento per le teste, avremmo un incremento di qualche decina di migliaia di assunzioni, peraltro con una gestione piuttosto controversa e complessa del regolamento comunitario, che prevede un meccanismo di medie, di incrementi e di dimostrazioni di incrementi occupazionali, che, da tecnico, vi dico essere uno strumento di difficile gestione.
  Vi dico, con molta sincerità, che ho il terrore che tutto questo venga trasferito in circolari incomprensibili da parte dell'istituto che dovrà gestire, e che si arrogherà il diritto di interpretare la norma in una maniera piuttosto che in un'altra, con un ulteriore contenzioso.

  PRESIDENTE. Do la parola ai deputati che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  MARIALUISA GNECCHI. Vi ringraziamo per la relazione. Ovviamente capiamo che in questo periodo il lavoro del Consiglio nazionale dell'ordine dei consulenti del lavoro sia veramente complicato. Immaginiamo che anche suggerire che tipo di contratto o di rapporto di lavoro sia idoneo per chi vi presenta la propria situazione sia veramente difficile.
  A noi interessa in particolare una riflessione rispetto al concetto delle partite IVA che noi definiamo «spintanee». Mi riferisco sia alla monocommittenza che al fatto che molte partite IVA sono aperte da giovani, ma anche da meno giovani, per riuscire a sopravvivere. Oggettivamente, sia rispetto al contributo previdenziale, che rispetto ai minimali e ai vari studi di settore, questo può essere stato un problema notevole.
  Abbiamo visto che nella vostra relazione voi avete dichiarato di aver suggerito la cancellazione dei requisiti che individuano le vere partite IVA e l'incremento a 8.000 euro del limite economico annuo per lavoro accessorio. A posteriori, dopo la legge n. 92 del 2012, avete altri suggerimenti che possano veramente essere utili rispetto a questo tema, visto che il decreto-legge sul lavoro adesso parte, anche se non da noi, ma dal Senato ?

  GESSICA ROSTELLATO. Anch'io ringrazio la presidente e il vicepresidente del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro.
  Vorrei solo chiedere alcune delucidazioni. Sono pienamente d'accordo sul fatto che manca il collegamento scuola-lavoro, e che quindi effettivamente abbiamo parecchi giovani che si laureano o si diplomano in ambiti in cui poi non riescono a essere inseriti.
  Immagino che abbiate pensato a una soluzione eventuale, come può essere una collaborazione delle aziende con le università, o anche con le scuole superiori o medie, per spingere gli studenti a intraprendere determinati studi, oppure ad avvicinarsi a determinate attività, anche manuali. Si parlava prima dei lavori dimenticati. Magari ogni regione può trovare una serie di lavori, soprattutto manuali, verso cui cercare di spingere i giovani, cosa che attualmente Pag. 27non esiste. Vorrei sapere se avete già qualche idea su come potrebbe funzionare questa cosa.
  Relativamente al problema, di cui parlava la presidente, dell'eccessiva frammentazione del mercato del lavoro, vorrei sapere secondo voi quali sarebbero le forme di contratto che dovrebbero essere mantenute – immagino si riferisse a questo – e cosa invece potrebbe essere eventualmente lasciato da parte come contrattualistica.
  Inoltre, sono d'accordo sul fatto che per l'Expo sono stati messi troppi blocchi e troppe limitazioni in questo decreto sul lavoro. Come la collega, vorrei chiedervi se avete qualche spunto da darci per rendere un po’ più facile la messa in pratica di questo decreto. Vorrei sentire anche la vostra opinione. Io credo che sia difficile che questo decreto serva effettivamente allo scopo per cui è stato creato. Vorrei sapere se uno snellimento del decreto stesso potrebbe aiutare.
  Anch'io ho notato che gli incentivi riguardano proprio la fascia dell'apprendistato, e in effetti mi sono chiesta la ragione di questa sovrapposizione che non ha senso di esistere, a meno che non si voglia permettere a quei giovani che hanno già svolto un apprendistato, e che quindi non possono più accedervi, di entrare nel mondo del lavoro tramite questi incentivi. Questo però non è previsto nel decreto. Anche secondo me, queste risorse, che sono quanto limitate, potevano forse essere utilizzate meglio.

  PRESIDENTE. Faccio anch'io un'osservazione. È molto interessante il tema dei lavori dimenticati, a cui faceva riferimento la presidente. Capisco l'idea, che qui è stata sottolineata, della sovrapposizione con la fascia dell'apprendistato. Effettivamente noi abbiamo una sofferenza nel mercato del lavoro nella fascia immediatamente superiore ai 29 anni. Si tratta di una fascia di persone che conosce una crescente disoccupazione, lavori precari e anche carichi di famiglia, data l'età. Questo è sicuramente un problema di cui bisogna farsi carico.
  Do la parola alla presidente Calderone per la replica.

  MARINA CALDERONE, Presidente del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro. Grazie, signor presidente. Cercherò di rispondere brevemente ai quesiti degli onorevoli.
  Mi piace sottolineare quest'ultimo passaggio fatto dal presidente Damiano sulla sovrapposizione degli incentivi. Io credo invece che in tempi di risorse scarse si debba cercare di accompagnare all'interno del mercato del lavoro il maggior numero di soggetti. Per questa ragione, se noi abbiamo un contratto di apprendistato che copre la fascia d'età fino a 29 anni e viene incentivato in modo importante, noi dobbiamo certamente far sì che questo diventi il contratto di ingresso nel mercato del lavoro.
  Ciò diventa difficile nel momento in cui quel contratto, per effetto della potestà concorrente Stato-regioni, e quindi della ripartizione delle competenze tra più soggetti, risulta in taluni casi inapplicabile. Il tema dei temi è il fatto che l'apprendistato diventi uno strumento di facile utilizzo e unico elemento a disposizione delle aziende per far entrare all'interno del mercato del lavoro i giovani nella fascia di età che va dai 18 ai 29 anni. Se l'apprendistato non funziona, ovviamente le aziende si riposizionano su altri contratti di lavoro, come i contratti a tempo determinato, o le partite IVA, di cui parlava l'onorevole.
  La nostra posizione in ordine alle partite IVA, e in particolare alle partite IVA in regime di monocommittenza, è simile a quella che ho espresso nella premessa iniziale: noi non siamo certamente favorevoli all'utilizzo in modo non conforme alla norma delle varie previsioni contrattuali. Laddove la norma viene stressata, è evidente che i consulenti del lavoro non hanno una posizione favorevole.
  Tuttavia, vi invito a leggere la normativa in materia di partite IVA contenuta all'interno della legge n. 92 del 2012. Io ho vissuto la formulazione di quella norma anche nell'ambito delle audizioni in Parlamento in fase di conversione, e quindi so perfettamente che leggendola troviamo le mani di Pag. 28molti estensori, che non si sono messi d'accordo tra di loro. Di conseguenza, i vari pezzi di quell'articolo non sono collegati e coerenti, tanto da rendere estremamente difficile poter definire qual è una partita IVA in regime di monocommittenza, che potrebbe avere le caratteristiche di un lavoro subordinato mascherato, e quale invece una partita IVA genuina.
  Su questo, mi consentirete di parlare anche da presidente del Comitato unitario delle professioni, l'organismo che raccoglie gli ordini professionali italiani. Nell'ambito di quel contesto, ci sono anche le collaborazioni dei giovani professionisti che vengono rese all'interno degli studi professionali di altri colleghi, e che nella maggioranza dei casi sono assolutamente genuine e importanti, soprattutto per acquisire quel bagaglio di competenze tecnico-professionali aggiuntive, rispetto a quelle che invece si formano con il superamento dell'esame di Stato. Il rischio della massificazione di tutte queste tipologie di rapporti rende estremamente difficile attivare un'azione di controllo e di repressione su quei fenomeni che sono invece distorsivi.
  Io credo che sia importante puntare su un mercato del lavoro in cui ci sia un effettivo incontro tra la domanda e l'offerta, e soprattutto in cui ci sia un'importante riprogrammazione dei flussi d'ingresso nel mercato del lavoro. Il presidente sottolineava l'espressione «lavori dimenticati». Quelli sono lavori dimenticati a causa di un cambiamento di cultura e di mentalità nelle famiglie italiane. Non ci dimentichiamo che per un certo periodo l'idea del figlio laureato a tutti i costi piaceva a molte famiglie. Soprattutto, sono lavori dimenticati a causa degli errori nella programmazione della formazione tecnica superiore, che invece potrebbe essere una costola importante del nostro mercato del lavoro, e che in alcuni Paesi europei è stata recentemente recuperata e valorizzata. Noi non abbiamo la fascia della formazione tecnica. Prevalgono nuovamente i licei.
  Non abbiamo neanche la formazione tecnica superiore, che dovrebbe essere il canale che viene attivato e scelto in luogo degli studi universitari tradizionali. In Germania la formazione tecnica superiore funziona, ed è un canale alternativo che consente eventualmente a chi lo vuole di poter concludere il periodo di studi universitari. In questo modo si formano quelle professionalità tecniche necessarie al mondo dell'industria e dei servizi, che noi invece in questo momento importiamo dall'estero, perché non sono presenti nel nostro mercato del lavoro.
  Un altro elemento che noi riteniamo importante è certamente il coinvolgimento degli attori del mercato del lavoro, e quindi anche dei soggetti che per delega della legge Biagi devono occuparsi del collocamento privato. Operare il collocamento privato vuol dire anche avere delle strutture che possano sentirsi investite della responsabilità di fare orientamento, anche nell'ambito delle scuole secondarie e di secondo grado, che vuol dire far scoprire i mestieri necessari all'interno del mercato del lavoro.
  I giovani spesso arrivano alla scelta universitaria un po’ sull'onda emotiva del convincimento familiare e un po’ anche per le sollecitazioni che gli arrivano dal mondo esterno, senza fare un'esatta valutazione dei talenti dei singoli e degli sbocchi professionali di quel segmento di mercato.
  È importante fare orientamento, però è anche importante che ragioniamo su una riforma universitaria che non continui a proporci 6.800 percorsi di laurea triennale, che molto spesso portano ad un'eccessiva frammentazione ad e un'incomprensione sulle spendibilità di quei titoli nel nostro contesto.
  Per quanto riguarda invece le forme di rapporto di lavoro, noi concordiamo sul fatto che questo sia un periodo particolare e di emergenza. L'emergenza non è nata oggi, e neppure nel momento in cui è stata emanata la legge Fornero. Io credo che sia ingeneroso affermare che quella norma era nata per un mercato del lavoro che funzionava. Il nostro mercato del lavoro ha subìto la crisi già dal 2009-2010. Quindi sappiamo perfettamente che si trovava in un contesto di criticità grave almeno quanto quello attuale, se non di più.
  Io concordo sul fatto che si possa individuare un elemento, come l'Expo, come momento di chiusura di un percorso straordinario, Pag. 29che in seguito dovrebbe però portarci a individuare degli strumenti e dei contratti di lavoro che diventino la regola per il futuro. Può essere un momento di sperimentazione, che potremmo chiamare «Expo». Sarà difficile spiegare nelle province della mia Sardegna che facciamo i contratti legati all'Expo. Tuttavia, credo che questa possa essere comunque una sollecitazione a dire che fino al 2016 sperimentiamo.
  Ecco perché noi sicuramente non siamo contrari a un contratto di lavoro a termine che per 36 mesi possa non avere causale, ma che invece venga fortemente incentivato in fase di conversione del rapporto. Togliamo le ragioni di carattere tecnico, produttivo e organizzativo, se vogliamo dire che in questo momento c’è invece bisogno di ridare fiducia alle aziende, affinché investano in occupazione, però vincoliamo ciò a una trasformazione che possa essere opportunamente incentivata.
  Certamente, fare questo solo sulla fascia che va dai 18 ai 29 anni vuol dire tagliare fuori da tutte queste nostre riflessioni le altre persone, non solo fino a 35 anni, ma anche gli over 45 e gli over 50, che in questo momento hanno necessità di ricevere un'offerta di lavoro e quindi di rientrare al lavoro, perché sono ancora – ahimè – troppo lontane dalla pensione per potersi considerare parcheggiati, in attesa di un futuro migliore.

  PRESIDENTE. Ringraziamo la dottoressa Calderone, presidente del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro, e tutti i collaboratori presenti per quest'audizione.
  Terremo conto delle vostre osservazioni in un primo documento che predisporremo in relazione al complesso delle audizioni.
  Dichiaro chiusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti dell'Alleanza delle cooperative italiane.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle misure per fronteggiare l'emergenza occupazionale, con particolare riguardo alla disoccupazione giovanile, l'audizione di rappresentanti dell'Alleanza delle cooperative italiane.
  Sono presenti il dottor Vincenzo Mannino, coordinatore dell'Alleanza, il dottor Giuseppe Gizzi, responsabile relazioni industriali di AGCI, la dottoressa Sabina Valentini, responsabile relazioni industriali e sindacali di Confcooperative, e il dottor Carlo Marignani, responsabile politiche del lavoro, relazioni industriali e previdenza della Legacoop.
  Avverto che gli auditi hanno messo a disposizione della Commissione una documentazione, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato 2).
  Nel ringraziarli ancora una volta per la loro presenza, do loro la parola.

  VINCENZO MANNINO, Coordinatore Alleanza delle cooperative italiane, segretario generale di Confcooperative. Faccio una breve premessa. In seguito la dottoressa Valentini entrerà rapidamente nel merito dei problemi.
  La premessa è innanzitutto di ringraziamento verso la presidenza e tutti i componenti della Commissione per questo invito, e di apprezzamento per quest'indagine.
  L'impostazione di un mese fa rimane ovviamente attuale nella sostanza. Purtroppo l'emergenza occupazione non sparisce in pochi giorni. Come sappiamo, la rappresentazione politica è mutevole, e anche i provvedimenti che vengono assunti fanno aggiornare le valutazioni. Questo ci porta a dire che nelle prossime settimane, nel tempo di durata dell'indagine, probabilmente noi ci permetteremo di aggiungere ulteriori contributi.
  Vorrei aggiungere a questa premessa due sole considerazioni. Innanzitutto, come credo sia noto, tutte le cooperative italiane nel quinquennio della crisi 2008-2012 hanno incrementato l'occupazione dell'8 per cento, utilizzando solo la gestione dei lavoratori dipendenti dell'INPS. Quindi quest'8 per cento è al netto di quello che può essere stato un incremento relativo ad Pag. 30altre forme contrattuali di lavoro non dipendente. Solo con il lavoro dipendente, abbiamo dunque un +8 per cento.
  Non siamo in grado di fare miracoli. Abbiamo pagato questo tentativo di mettere in atto la funzione sociale che ci riconosce la Costituzione accettando una pesante diminuzione di redditività, il che pone problemi per le imprese, relativamente alla possibilità di investire in futuro, e a livello generale, per una politica cooperativa più moderna, che solleciteremo e che ovviamente non posso qui articolare.
  Noi vogliamo continuare quest'azione di creazione di occupazione nei prossimi anni. Penso quindi che nei prossimi mesi, presidente Damiano, ci faremo vivi con il Governo, ma soprattutto con il Parlamento, per proporre qualche evoluzione dell'apparato normativo di cui disponiamo, che ci consenta, senza incidenza sulla spesa pubblica e senza operazioni lassiste o deregulation che tolgano protezione ai lavoratori, di continuare quest'opera di creazione di occupazione. Pensiamo a un futuro in cui ci saranno sempre più cooperative di lavoratori nelle nuove tecnologie, in nuovi settori, nuove professioni, nuovi mestieri e start-up ad alta produttività, cooperative di aggregazione di piccole imprese, o di artigiani (un problema non risolto).
  Speriamo che si prevenga sempre di più l'abuso della forma cooperativa, che purtroppo in qualche caso abbiamo rilevato. Guardo il presidente Damiano perché, insieme a lui e ad altri, abbiamo fatto un lavoro durante una sua esperienza ministeriale.
  La seconda premessa mi viene da un'esperienza di pochi minuti fa. Prima di venire qui, sono passato all'assemblea dell'ANIA e il presidente Minucci mi ha detto che «il nostro è l'unico settore dell'economia italiana che dal 2008 non ha visto ridurre il numero degli addetti». Sono diversi gli esponenti dell'economia che in questi mesi dicono che il nostro è l'unico settore che non ha ridotto, ma anzi ha aumentato.
  Io vorrei poter dire che hanno tutti ragione, però noi siamo abituati a vedere i saldi, dell'ISTAT o di altre autorità pubbliche, e a ragionare politicamente per saldi. Forse sarebbe utile – lo dico innanzitutto a noi stessi – se imparassimo a ragionare per saldi settoriali, e ad analizzare un po’ più a fondo cosa è accaduto non solo nelle generazioni, ma anche nei diversi settori e nelle diverse tipologie d'impresa, per capire anche cosa presumibilmente ci aspetta nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Forse anche su questo lavoro, dal nostro osservatorio, piccolo rispetto all'insieme del Paese, noi proveremo a dare contributo nel tempo di lavoro attivo dell'indagine che è davanti a noi.

  SABINA VALENTINI, Responsabile nazionale delle relazioni industriali e sindacali di Confcooperative. Abbiamo depositato un breve documento tecnico, che lasciamo all'attenzione della Commissione. Siamo pronti ad approfondirlo e a spiegarlo, qualora gli onorevoli fossero interessati a capire meglio alcuni passaggi.
  Mettiamo in evidenza solo alcuni elementi su temi che sono contenuti all'interno del documento. Ovviamente ci siamo tenuti sui due binari principali dell'indagine conoscitiva che avete deliberato l'11 giugno e abbiamo cercato di rimanere in quei solchi.
  Relativamente al cuneo fiscale e contributivo, segnaliamo a questa spettabile Commissione che la sofferenza delle nostre imprese per l'IRAP è ancora molto alta e molto forte. Il sistema cooperativo è un sistema ad alta densità occupazionale. Più c’è densità occupazionale, più c’è sofferenza su questo problema dell'IRAP. Noi continuiamo a segnalarlo. Gli impegni dei Governi si sono succeduti nel tempo, ma ad oggi il problema è ancora sul tavolo. Non va sottovalutato, quando si parla di cuneo fiscale e contributivo.
  Se si riuscisse ad abbassare di qualche punto percentuale il cuneo, mantenendo l'IRAP allo stato attuale, si rischierebbe di annullare l'effetto.
  Sempre in relazione all'incentivazione, vi segnaliamo che il meccanismo del credito di imposta, che peraltro in questi giorni viene previsto dai nuovi provvedimenti, è assolutamente richiesto dalle imprese. Le Pag. 31imprese ci indicano sistematicamente il credito di imposta e le compensazioni come sistema su cui intervenire.
  Riguardo invece all'altro binario che viene focalizzato, dedicato alla riforma del mercato del lavoro, stiamo ancora valutando questi primi passaggi contenuti all'interno del decreto-legge lavoro in relazione alla legge n. 92 del 2012, ma continuiamo a mantenere una forte preoccupazione su quest'addizionale dell'1,4 per cento dell'Aspi sui rapporti a tempo determinato.
  Pur essendo convinti da sempre e da subito che in altri tempi il costo maggiore di un rapporto di lavoro più flessibile sia una cosa sana, pur avendo sempre dichiarato pubblicamente che riteniamo giusto pagare un po’ di più il lavoro che abbia delle flessibilità, in questa situazione contingente, riteniamo che bisognerebbe trovare un equilibrio per tenere insieme le cose. Quest'addizionale dell'1,4 per cento costituisce ancora un fortissimo deterrente per molte aziende che potrebbero e vorrebbero aumentare la loro occupazione. Comunque, il tema è trattato dettagliatamente nel documento.
  Sull'apprendistato, dal testo unico in avanti qualche miglioramento si è visto. Tuttavia, l'apprendistato va ancora sostenuto. Siamo convinti che il disaccordo tra regione e regione sia uno degli ostacoli più grandi che le aziende vivono, perché le nostre imprese ci continuano a chiedere certezza del diritto e certezza dell'operato.
  Noi continuiamo a dire che l'apprendistato fino a 29 anni, in un Paese come l'Italia, ci sembra anacronistico. Oggi ve lo risegnaliamo. In alcuni Paesi europei questo vincolo di età così stringente non c’è. Probabilmente andrebbe fatta una riflessione anche su questo.
  Sulle specificità delle cooperative, visto che l'impresa cooperativa per sua natura non delocalizza, ma è radicata nel territorio e produce buona e stabile occupazione, ci permettiamo di segnalare che noi abbiamo l'esigenza costante di rappresentare la buona impresa cooperativa e il buon sistema cooperativo. Oggi in Italia continuiamo ad assistere a un abuso della formula cooperativa. Da anni combattiamo il dumping contrattuale e sociale e la cooperazione spuria, che ancora esiste. Ci sarebbero ulteriori strumenti per combattere questo tipo di abusi. Continuiamo a chiedere l'applicazione di protocolli di intesa che non sono stati attuati integralmente.
  Il sistema cooperativo è l'unica tipologia d'impresa soggetta a una revisione obbligatoria per legge. Noi continuiamo a dire che il sistema della revisione è un buon sistema, se viene utilizzato, ad esempio, per gli appalti pubblici e privati. Vi abbiamo tracciato qualche proposta nel documento. Nel momento in cui un'impresa cooperativa è aggiudicataria di un appalto, per garantire la bontà dell'impresa e del livello occupazionale che comporta, avere il certificato di revisione potrebbe essere un'idea. In realtà, già dal 2007 si ragiona su questo tema. Noi continuiamo a riproporlo.
  In questo momento ci sono altri passaggi delicati che riguardano le imprese cooperative, come ad esempio il fatto che molti piccoli artigiani non ce la fanno a rimanere sul mercato in questa difficilissima crisi, e ci chiedono di riunirsi in cooperativa per meglio sostenere il mercato. Abbiamo però delle interpretazioni non univoche a livello sia legislativo che amministrativo. Abbiamo già proposto questo tema a questa spettabile Commissione. Ve lo riproponiamo, perché abbiamo molta richiesta per creare imprese cooperative artigiane, che riuniscano tutti questi piccoli artigiani che non ce la fanno. Loro chiedono di mantenere la previdenza artigiana. Ci sono delle situazioni a macchia di leopardo. Può sembrare un dettaglio, ma in realtà svilupperebbe moltissime nuove imprese su questo filone.
  Mi fermo qui, rimandando al documento.

  PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Mannino e la dottoressa Valentini per la loro esposizione. Non ci sono domande, evidentemente le relazioni sono state soddisfacenti.
  Per quello che mi riguarda, faccio solo un'osservazione. Sono profondamente convinto che su un punto, quello relativo alla lotta contro l'abuso della forma cooperativa, Pag. 32si tratti di continuare. Avevamo iniziato a suo tempo un esame delle cooperative spurie, per un ridimensionamento e un'eliminazione attraverso il criterio della revisione. È evidente che anche in questa circostanza, fare delle normative che prevedono degli strumenti, se gli strumenti rimangono inerti, è perfettamente inutile. Purtroppo noi siamo carenti da questo punto di vista. Abbiamo un'abbondanza di leggi, ma abbiamo una carenza di dispositivi che le rendano concretamente applicabili.
  Credo inoltre che la questione della formazione di cooperative di lavoratori artigiani sia un argomento di grande interesse, che terremo in considerazione nella redazione di questo primo documento che deriva dalle audizioni.
  Questa era l'ultima audizione di questa prima fase. Faremo un punto della situazione durante l'Ufficio di presidenza, per proseguire poi nell'indagine, anche perché vogliamo giustamente interferire con la discussione sul decreto che verrà presentato al Senato, che ha per oggetto il tema dell'occupazione, e in particolare dell'occupazione giovanile.
  Ciò detto, vi ringrazio. Ci rivedremo in un prossimo appuntamento.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 13,10.

Pag. 33

ALLEGATO 1

Pag. 34

Pag. 35

Pag. 36

Pag. 37

Pag. 38

Pag. 39

Pag. 40

Pag. 41

Pag. 42

Pag. 43

Pag. 44

Pag. 45

Pag. 46

Pag. 47

Pag. 48

Pag. 49

Pag. 50

Pag. 51

Pag. 52

Pag. 53

ALLEGATO 2

Pag. 54

Pag. 55

Pag. 56

Pag. 57

Pag. 58

Pag. 59

Pag. 60