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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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XVII Legislatura

XI Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 7 di Mercoledì 3 luglio 2013

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Damiano Cesare , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE MISURE PER FRONTEGGIARE L'EMERGENZA OCCUPAZIONALE, CON PARTICOLARE RIGUARDO ALLA DISOCCUPAZIONE GIOVANILE

Audizione di esperti della materia.
Damiano Cesare , Presidente ... 3 
Raitano Michele , Ricercatore in politica economica presso l'Università di Roma «La Sapienza» ... 3 
Tiraboschi Michele , Professore di diritto del lavoro all'Università di Modena e Reggio Emilia ... 8 
Damiano Cesare , Presidente ... 10 
Rizzetto Walter (M5S)  ... 10 
Tripiedi Davide (M5S)  ... 10 
Damiano Cesare , Presidente ... 10 
Tripiedi Davide (M5S)  ... 10 
Di Salvo Titti (SEL)  ... 10 
Fedriga Massimiliano (LNA)  ... 11 
Baruffi Davide (PD)  ... 11 
Piccolo Giorgio (PD)  ... 12 
Damiano Cesare , Presidente ... 12 
Raitano Michele , Ricercatore in politica economica presso l'Università di Roma «La Sapienza» ... 12 
Tiraboschi Michele , Professore di diritto del lavoro all'Università di Modena e Reggio Emilia ... 15 
Damiano Cesare , Presidente ... 16 
Tinagli Irene (SCPI)  ... 16 
Damiano Cesare , Presidente ... 17 
Raitano Michele , Ricercatore in politica economica presso l'Università di Roma «La Sapienza» ... 17 
Damiano Cesare , Presidente ... 17 

ALLEGATO: Documentazione presentata dagli esperti ... 19

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Fratelli d'Italia: FdI;
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero: Misto-MAIE;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CESARE DAMIANO

  La seduta comincia alle 14,50.

  (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di esperti della materia.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle misure per fronteggiare l'emergenza occupazionale, con particolare riguardo alla disoccupazione giovanile, l'audizione di esperti della materia.
  Sono presenti Michele Raitano, ricercatore in politica economica presso l'Università di Roma «La Sapienza», e Michele Tiraboschi, professore di diritto del lavoro dell'Università di Modena e Reggio Emilia.
  Avverto che gli auditi hanno messo a disposizione della Commissione una documentazione di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).
  Ringrazio i nostri ospiti, ai quali cedo la parola per lo svolgimento delle loro relazioni.

  MICHELE RAITANO, Ricercatore in politica economica presso l'Università di Roma «La Sapienza». Vi ringrazio per l'invito. Vi arriveranno a breve delle fotocopie. Ho preparato delle slide contenenti soprattutto dati che posso tranquillamente illustrare a voce, ma che, ovviamente, possono rimanere anche agli atti.
  Sostanzialmente, vorrei ragionare, per poi arrivare a delle riflessioni di policy (immagino nella fase successiva della discussione insieme), sulle vere dinamiche del mercato del lavoro italiano; sulla base di quello che ci indicano i dati non intendiamo valutare semplicemente quanti sono i lavoratori a termine, i disoccupati, oggi o un anno fa, – ma proveremo a seguire le traiettorie di lavoro degli italiani. In particolare, mi concentrerò sui giovani come l'argomento che di recente è stato maggiormente al centro della discussione, ma vi mostrerò altre informazioni che troverete corredate dei dati anche sui flussi dei lavoratori.
  Nel corso di questa presentazione, vi mostrerò che le dinamiche che emergono sono talmente complesse e multisfaccettate che, purtroppo, non possiamo pensare, come sappiamo tutti, di affrontarle con un'unica misura in grado di risolvere le problematiche che vengono da lungo termine.
  Parlo di lungo termine perché i dati che vi presenterò sono i più aggiornati disponibili e arrivano alla fine del 2009, importante per avere un quadro strutturale che non sia inficiato da aspetti congiunturali e per capire da dove siamo venuti e perché la crisi è stata vissuta con particolari difficoltà in questa situazione.
  Fondamentalmente, ciò di cui vi parlerò in quest'introduzione tende, come amo dire, ad andare un po’ contro la Pag. 4saggezza convenzionale, contro l'idea che abbiamo un mercato del lavoro ultrarigido per alcuni lavoratori e ultramobile per altri, fortemente segmentato.
  Sono partito anni fa con la ricerca per dimostrare che i giovani erano costretti a lavori segmentati e analizzando i dati dell'INPS, in cui vediamo le traiettorie lavorative di tutti i lavoratori italiani, purtroppo, come dicevo, il quadro è risultato ancora più complesso e reca con sé una serie di riflessioni su cui dovremmo fermarci.
  Innanzitutto, vista la sede e a mo’ di preambolo, c’è da chiedersi perché sia così difficile condurre questo tipo di analisi in Italia. Sono stato l'unico ad avere la fortuna di costruire un dataset perché coordinavo un progetto di ricerca con la Fondazione Brodolini, il cui partner era il Ministero dell'economia e delle finanze. Siamo riusciti così a chiedere i dati a INPS e ISTAT benché la legge preveda che tutti dovrebbero poter accedere a questi dati all'interno del SISTAN, all'interno delle amministrazioni pubbliche, e abbiamo ricevuto i dati fino al 2009, mentre nel frattempo avrebbero dovuto essere aggiornati.
  Nonostante una convenzione firmata, l'INPS non ha mai aggiornato questo dataset, per cui non so dirvi cosa succeda durante la crisi non perché non abbiamo avuto voglia di procedere alle analisi, ma in Italia non si conosce la procedura dei dati. Vi invito a capire quale grande vantaggio offrirebbero, soprattutto in un Paese con il grandissimo vantaggio di avere il codice fiscale che, come sapete, sarebbe utilissimo dal punto di vista del controllo dell'evasione, ma anche da quello delle dinamiche di lavoro e dell'aggiornamento dei dati aggiornati; purtroppo si tratta di uno strumento assolutamente non sfruttato.
  Io li ho sfruttati costruendo questo dataset, chiaramente campionario, per cui non abbiamo tutti i lavoratori, ma un campione rappresentativo, per verificare cosa succeda ai giovani nei primi 7-8 anni di attività, quando accedono al lavoro – è vero che l'unica fase difficile è quella di entrata, che, una volta che si stabilizzano, non ci sono più rischi o ce ne sono su varie dimensioni (salari, contratti ed elementi di questo genere) – e riflettere su questi aspetti.
  Nel materiale trovate più dati, ma andrò velocemente su un elemento poco noto, soprattutto ragionando anche sugli interventi che si stanno portando avanti di questi tempi. In Italia, abbiamo un effetto paradossale. Questi dati sono, appunto, gli unici che permettano di distinguere i lavoratori anche per titolo di studio. L'effetto paradossale è che, a inizio carriera, la precarietà riguarda molto più i laureati che le persone con istruzione primaria e secondaria superiore.
  Tale fenomeno è legato al fatto che si tratta di dati pre-riforma. Prima c'era l'accesso all'apprendistato che, essendo vincolato a 24 anni, riguardava soprattutto le persone con bassissimo titolo di studio. A mio modo di vedere, dipende dal fatto che le piccolissime imprese e gli operai tendono ad assumere con qualsiasi forma contrattuale perché, come vedremo, c’è molta mobilità in uscita, ma questo resta un primo quadro importante.
  Dopo 5 anni, il quadro cambia di nuovo. I laureati hanno ottenuto delle posizioni standard con una probabilità maggiore, molti dei diplomati e delle persone con la scuola dell'obbligo hanno perso questo loro standard più o meno tutelato, che come vedete nei grafici, è definito sulla forma contrattuale (dipendente a tempo determinato, a termine, Cococo, autonomo e così via).
  Emerge da questi dati – ho più volte chiesto all'INPS e anche a chi disponeva di altri dati se esistesse una conferma da altre fonti – il quadro impressionante di tantissime persone, oltre il 10-15 per cento, che da un anno all'altro spariscono dagli archivi amministrativi, quindi senza alcun rapporto di lavoro né di sussidio con l'INPS, per tornare, eventualmente, l'anno successivo.
  L'impressione è, quindi, che abbiamo nel mercato del lavoro delle specie di vasi comunicanti tra l'attività e l'inattività, per cui non dobbiamo pensare a uno stock di persone potenzialmente occupabili con la Pag. 5disoccupazione che si muove all'interno di quello stock, ma a uno stock più ampio, che reca però con sé rischi più ampi.
  Dai dati emerge anche che, al di là di quello che è lecito aspettare, molto alti sono i tassi di caduta dei contratti a tempo indeterminato, come vedremo, chiaramente in funzione della dimensione di impresa, ma non solo. Chiaramente, imprese più piccole tendono ad avere molte più cadute, ma questo non riguarda le imprese più piccole.
  Ci sono dei buoni tassi di transizione, di passaggio dei lavoratori a termine (parasubordinati, dipendente a termine) verso forme contrattuali più tutelate o forse più ambite dai ragazzi, ma molto spesso questi passaggi non sono l'evento conclusivo. I lavoratori si stabilizzano, ma nel giro di poco tempo ritornano a una condizione di insicurezza, che preferirei non definire «precarietà» perché non guardiamo solo alla dimensione contrattuale di insicurezza, o a una situazione in cui tendono addirittura a essere in inattività.
  È impressionante, quindi, che da questi dati emerga un quadro di fluidità, quella che in alcuni miei scritti definisco «liquidità» del mercato del lavoro, molto più grossa di quella che potremmo aspettarci. Non abbiamo uno zoccolo di persone più o meno stabili e uno più piccolo di persone incerte e questi zoccoli sono fortemente separati tra di loro. Ovviamente, chi è dipendente a tempo indeterminato nel pubblico o nelle grandi imprese ha altre forme di garanzia. Non abbiamo, tuttavia, un passaggio discreto 0-1, ma una situazione liquida, molto fluida, confermata da tutti i dati che ho accluso.
  Addirittura, un dato che cito sempre, se analizziamo l'intero stock di lavoratori, quindi non soltanto i giovani, ma anche i dipendenti pubblici più standard e persone più anziane, che nel 2003 era occupato e ci chiediamo, in riferimento ai 5 anni successivi, quindi tra il 2004 e il 2008, quanti di loro presentano come più lungo della loro vita un periodo di peggioramento, quindi di tempo determinato, di parasubordinato, di disoccupazione o di inattività, si scopre che un terzo della forza lavoro occupata in un determinato periodo nei 5 anni successivi sperimenta almeno un periodo di disoccupazione, cassa integrazione a zero ore lunga, inattività o cadute contrattuali. Qualunque dato, dunque, qualunque indicatore ci conferma questa situazione in realtà molto fragile.
  I confronti europei sono difficili perché non disponiamo di dati lunghi ma, a partire da quel minimo di evidenza disponibile dal panel europeo, scopriamo che, ad esempio, in Italia il tasso di caduta dei contratti a tempo indeterminato in soli 2 anni, quindi tra il 2005 e il 2007, non è assolutamente più basso che altrove e che, al contrario, in molti casi è anche maggiore.
  Si tratta, come anticipavo, del fatto che, dal punto di vista dell'analista, diventa molto complicata la stessa domanda di ricerca. Siamo sempre portati ad analizzare le difficoltà sul mercato del lavoro in senso di tempo di stabilizzazione, di quanto tempo trascorre dall'ingresso al contratto stabile. Dai dati si evince che un quinto delle persone che, in quei 5 anni, passa da dipendente a termine a dipendente a tempo indeterminato, nello stesso arco di tempo, in alcuni casi in un periodo più breve, ricade indietro, in inattività, in disoccupazione o torna con un contratto precario. La percentuale diventa quasi del 50 per cento tra i parasubordinati.
  Purtroppo, quindi, dal punto di vista dell'analisi e della policy, la stabilizzazione è una condizione necessaria per incrementare la sicurezza dei lavoratori, ma a leggere i dati, nel mercato del lavoro italiano non appare, purtroppo, una condizione sufficiente. Come anticipavo, dunque, bisognerebbe riflettere su più dimensioni.
  Dividendo per titolo di studio, l'evidenza che appare più preoccupante è che in questo quadro di peggioramento, se confrontiamo anche con le generazioni passate, il gap relativo è maggiore per i laureati. Abbiamo chiamato un lavoro recente condotto con dei colleghi «La penalizzazione sulla meglio gioventù». I laureati, infatti, vanno a perderci in termini Pag. 6di carriere, ma soprattutto di salari. Secondo questi grafici, l'ultima coorte di laureati nati tra il 1975 e il 1979 presenta una dinamica salariale, nei primi 10 anni della loro vita, molto più bassa delle altre.
  Queste problematiche non possono essere affrontate, purtroppo, soltanto sulla forma contrattuale. A questo proposito, cito sempre il mio caso personale. Prima di vincere il concorso all'università, per scelta ho sempre avuto contratti di ricerca. Mi erano state offerte un paio di volte delle stabilizzazioni, ma, anche se mi si fosse misurato come precario, in quanto collaboratore sotto varie forme non mi sarei mai sentito tale. Dobbiamo, allora, affiancare altre dimensioni.
  Ho replicato questo stesso lavoro affiancando altre dimensioni di insicurezza, i cosiddetti buchi: il periodo di tempo in cui si lavora durante l'anno. Su un totale di 52 anni, a un'osservazione di 7, un lavoratore con carriera piena dovrebbe aver pagato contributi o, comunque, aver lavorato per 364 settimane. Emerge, invece, che circa un terzo dei lavoratori, effettivamente, per i primi 7 anni di carriera, è sempre occupato.
  Nella distribuzione alla slide 22, vedete una lunga coda a sinistra di persone che hanno meno del 100 per cento delle settimane potenziali. Addirittura, alla 23, ho chiesto quante persone avessero versato, su 7 anni, contributi per meno di 3 anni e mezzo, quindi per meno di 160 settimane: in media, sulla popolazione, si tratta del 30 per cento, o addirittura anche il 25 tra i laureati nonostante in queste analisi su quest'ultima parte abbia escluso artigiani, commercianti, libero professionisti, che hanno problemi più complessi legati all'indagine di redditi di settimane.
  Quello dei parasubordinati è un problema. Spesso, ci si concentra sul fenomeno dei parasubordinati, ma anche qui l'evidenza dei dati cambia un po’ il quadro. In alcuni casi, entra in causa una grossa penalizzazione di tutela del welfare, soprattutto quando le aliquote contributive erano molto basse, di forte penalizzazione in termini di ammortizzatori sociali e salariali. Tuttavia, la persistenza nella periodica dei parasubordinati è bassa e sono molto poche le persone che molto a lungo restano parasubordinate, sia tra gli anziani – parasubordinati forti, amministratori, sindaci e società – sia tra i giovani.
  Se, però, guardiamo ai laureati giovani, una quota non irrilevante, su 7 anni, è parasubordinata per almeno un anno e mezzo, se non di più. In effetti, dunque, si conferma che i giovani laureati sono penalizzati. Peraltro, questa forma contrattuale riguarda esplicitamente loro, anche escludendo dall'analisi correttamente i borsisti di ricerca e dottorandi di ricerca.
  Tutte queste dimensioni di svantaggio (salari, buchi legati a forme contrattuali più o meno instabili), l'assenza di ammortizzatori sociali, aliquote in passato particolarmente basse, si possono accordare in un unico indicatore: quanto nei primi anni di vita di carriera si accumula come montante contributivo. Queste sono tutte generazioni che stanno nel contributivo, all'interno del quale la pensione è specchio di quanto ottengono sul mercato del lavoro.
  Sommando tutti questi elementi, ho indagato sull'entità di contribuzione ottenuta in questi 7 anni rispetto a un lavoratore mediamente sfortunato. Il dipendente mediano è quello che per tutta la vita e nei 7 anni lavora sempre, ma con un salario annuo lordo di 18.000 euro, quindi veramente low profile come dipendente. Nella slide 26, è calcolato, in termini di distribuzione, il rapporto tra il montante accumulato in 7 anni e quello di un dipendente mediano: la distribuzione è tutta a sinistra.
  Ciò significa, nonostante le giovani generazioni siano più istruite, spesso più attaccate al lavoro per effetti di coorte, che hanno accumulato in due terzi meno di quanto avrebbe accumulato un dipendente comunque a basso salario.
  Addirittura, da un calcolo in termini di povertà di contribuzione, chi ha accumulato meno del 60 per cento di quanto ha accumulato questo dipendente, in totale abbiamo, di nuovo, circa un terzo e anche tra i laureati la quota non è indifferente.Pag. 7
  Per concludere e per stimolare la discussione, ritengo che non possiamo pensare che i problemi del mercato del lavoro italiano – chiaramente, non possiedo la bacchetta magica – possano essere affrontati rivolti unicamente a interventi su un unico lato di un unico mercato.
  Il professor Tiraboschi, per sua preparazione, si concentra molto su aspetti giuslavoristi, aspetti molto importanti, ma, come spiegavo, si tratta sicuramente di condizioni necessarie, ma non sufficienti. Emerge, infatti, da tanti indicatori, compresi quelli sull’overeducation dei lavoratori, sulla dinamica dei salari, forti vincoli dal lato della domanda di lavoro, delle imprese, per cui bisogna sempre ragionare bene su come le misure modifichino gli incentivi o i comportamenti sotto quel punto di vista. Bisogna sempre ragionare in termini di strategie.
  Purtroppo, i problemi sono complessi e multisfaccettati, ma le risposte, benché continui a non disporre di una bacchetta magica, devono essere complete e strategiche, dal lungo respiro. Ovviamente, i tempi della politica spesso non permettono il lungo respiro, ma bisognerebbe provare a ragionare in termini di strategia.
  Vi è un ultimo punto su cui invito alla discussione. Abbiamo detto che il mercato del lavoro è molto fragile, pieno di liquidità e di mobilità in ogni senso, soprattutto per i giovani, che si trovano all'interno del sistema contributivo. Quest'ultimo non è altro che uno specchio del mercato del lavoro.
  Ci è stato sempre detto, anche nell'ultima riforma, che quello contributivo è un sistema equo. Io sono uno studioso dei sistemi previdenziali a lungo termine e quello contributivo è un sistema equo in termini attuariali, nel senso che restituisce quello che si è messo da parte. L'equità in termini sostanziali è un concetto di giustizia, dipende da come i versamenti effettuati nel mercato del lavoro nel corso della propria carriera sono giusti o meno, per cui non dobbiamo confondere la neutralità attuariale con l'equità.
  Tante, dunque, sono le problematiche, da questo punto di vista, legate alla mortalità differenziale. Trattandosi di un panel, io seguo anche i dati relativi alle persone che muoiono: se stimo le correlate con la mortalità degli individui, mi accorgo che, chiaramente, tutte le variabili socio-economiche condizionano la mortalità. Pensiamo ai problemi dei lavori usuranti. I coefficienti di trasformazione nel sistema previdenziale sono molto complessi.
  Tornando alle carriere dei giovani, uno dei problemi è rappresentato dai salari, lordi in questo caso. Nei miei dati, ho sempre ragionato in termini di salari lordi. Se spostiamo sul netto, la contribuzione rimane quella in termini di buchi lavorativi o di sussidio in termini di aliquota, che fortunatamente è stato compensato, ma, appunto, rischiamo di trovarci con delle accumulazioni di contributi molto bassi, che incidono sugli attuali giovani e incideranno in futuro.
  Possiamo pensare che l'aumento dell'età pensionabile sicuramente migliorerà le prospettive future anche senza, tuttavia, correggere le iniquità che abbiamo avuto, ma – ancora, non ho la bacchetta magica per sapere se il mercato del lavoro futuro avrà difficoltà a mantenere i giovani ma non ne avrà nessuna a mantenere gli anziani – di nuovo, il messaggio che emerge da questi elementi è che abbiamo un mondo completamente eterogeneo.
  Le policy dovrebbero cercare di rispondere alle eterogeneità delle situazioni, a problematiche, e non soltanto a queste situazioni. Non so se il presidente abbia visto, circolato in vari documenti, un mio lavoro di alcuni anni fa su una misura semplice e coerente con lo schema contributivo, che avrebbe potuto un minimo garantire chi era caratterizzato da bassi salari, bassa carriera. L'avevo definita pensione contributiva di garanzia e aveva il pregio di intervenire solo ex post, quindi senza nessun impatto immediato sul bilancio pubblico, su effettive fragilità. Se si versa il 20 per cento, ma poi si diventa miliardari, non si deve corrispondere un contributo figurativo oggi.
  Quella misura aveva anche il pregio di incentivare l'accumulazione di contributi. In relazione alle nuove norme, soprattutto Pag. 8per i bassi redditi, e all'aver spostato a 69 anni col vincolo di 1,5 volte l'assegno sociale per andare in pensione, ho visto alcune simulazioni realizzate con metodo di microsimulazione dell'università di Bologna: esiste il grosso rischio che non sia più vero che nel contributivo ogni euro di contributo in più darà un euro in più di pensione. Su quelle cifre, infatti, si rischia di arrivare all'assegno sociale che si riceve comunque, e quindi comportare delle forme di disincentivo.
  Spero di essere riuscito a rimanere nei tempi.

  MICHELE TIRABOSCHI, Professore di diritto del lavoro all'Università di Modena e Reggio Emilia. Nel tempo a disposizione, voglio rispondere a una sola domanda, che è la domanda principale di cui mi occupo, e cioè se sull'occupazione, in particolare giovanile, siano importanti delle riforme e quali.
  Ho consegnato ampio materiale comparato internazionale e anche un commentario che, col mio gruppo di ricercatori dottorandi, 60 persone, abbiamo realizzato sul decreto-legge approvato mercoledì scorso. Avete, quindi, già un'analisi di 500 pagine di dettaglio, che analizzano punto per punto il provvedimento.
  La domanda a cui voglio rispondere è proprio questa, cioè se le riforme del lavoro aiutino a contrastare l'occupazione giovanile. Credo che la domanda sia importante perché se l’è posta il Governo e ha dato una risposta mercoledì scorso, ma è un tema che ci accompagna da molti anni, con la legge Fornero esattamente lo scorso anno, con vari provvedimenti nelle passate legislature, su tutti, la legge Biagi e la legge Treu.
  Credo che sia paradossale segnalare il fatto che siamo giunti, sul piano degli indicatori del mercato del lavoro, ma anche su quello delle risposte, quasi esattamente alla situazione del 1997, quando fu approvata la legge Treu. Trovo una simmetria incredibile tra le condizioni dei tassi di disoccupazione, dei tassi di occupazione presenti nel 1997 e quello che ci troviamo oggi, quasi una marcia indietro, anziché andare avanti, che l'ultimo decreto dà in risposta all'occupazione giovanile, in particolare rispetto al piano Treu, che si basava su assi sostanzialmente simili.
  Chiaramente, ho poco tempo a disposizione, quindi non potrò che procedere a una sintesi, che nasce da una considerazione molto banale e semplice, se volete, e anche empirica: provate a immaginare l'Europa – il tema dell'occupazione si analizza in chiave europea – colorata con un rosso fuoco dove c’è la situazione più critica e drammatica per l'occupazione, per i giovani e per le donne inoccupate e disoccupate, e verde dove c’è, invece, una situazione positiva, nonostante la crisi internazionale.
  Da giurista, osservo che compare un'Europa con un cuore costituito da Germania, Austria, Olanda e Danimarca, dove la situazione occupazionale è positiva, cresce il tasso di occupazione, non c’è disoccupazione significativa e, soprattutto, non esiste un divario tra l'occupazione dei giovani e degli adulti. I giovani tedeschi e austriaci non sono penalizzati 2, 3, 4 volte, come avviene, invece, in altra parte d'Europa. In Italia, si è penalizzati 4 volte di più se si è giovani.
  Cosa caratterizza questi Paesi ? Rispondo da giurista. Nei Paesi col verde non esiste il problema dell'articolo 18, ma normative molto rigide sui licenziamenti, per cui il tema della flessibilità in uscita dal mercato lavoro non è così decisivo. Esiste un sistema educativo che funziona, eccellenza educativa, eccellenza scolastica, i giovani sono fatti entrare a 15 anni nel mercato del lavoro attraverso percorsi educativi formativi, il loro apprendistato. Quello che per noi è un contratto temporaneo, flessibile, a basso costo, lì è scuola, parte del sistema educativo e di istruzione e formazione.
  In secondo luogo, quando usano questi strumenti, hanno un sistema di relazioni industriali che funziona ed è coerente, partecipativo, cooperativo, senza conflitto. In relazione all'ingresso dei giovani, un apprendista italiano prende il 70 per cento come operatore qualificato, l'apprendista Pag. 9svizzero il 18, l'austriaco il 30, il tedesco il 33. Si tratta di percorsi graduali di insediamento stabile attraverso la formazione.
  In questi Paesi verdi, propositivi, esiste un eccellente sistema di incontro tra domanda e offerta di lavoro anche nelle scuole, nelle università, che da noi manca, non tanto perché servano nuovi attori del collocamento – già esistono le agenzie private e le agenzie pubbliche – ma perché ne esistono che non si limitano a un incontro tra domanda e offerta di lavoro: si presenta un curriculum, non va bene, viene scartato.
  È un incontro dinamico tra domanda e offerta di lavoro. Uffici di collocamento nelle scuole e nelle università progettano i percorsi educativi formativi in funzione delle esigenze del mercato del lavoro, non in maniera supina alle esigenze del mercato, ma in maniera intelligente, anche proiettandosi nel futuro e cercando di capire cosa servirà in questi Paesi tra 5 o 10 anni in termini di competenza e di profili professionali.
  Infine, in questi sistemi, oltre a una buona scuola, un buon sistema educativo, un buon sistema di transizione scuola-lavoro, un sistema cooperativo di relazioni industriali, esiste un quadro normativo chiaro, semplice e semplificato.
  Rispetto a questo, il decreto-legge appena approvato offre delle risposte e gioca su due fronti: delle risposte normative, introducendo un po’ più di flessibilità perché la Fornero ha un po’ irrigidito, e una dotazione di incentivi economici pensando che siano questi una leva importante e significativa per incentivare l'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro.
  Il tema è complesso. Suggerirei, anche per come potrete incidere nel dibattito parlamentare di conversione, su questo punto: cercare di unire le azioni in campo e in atto perché, diversamente, si tratterà di interventi di marketing, di facciata, ma che non incideranno.
  Abbiamo un provvedimento costruito in comparti stagni, dove il piano degli incentivi va per conto suo. Non si capisce se questo piano si applichi, per esempio, anche agli apprendisti, che sono lavoratori a tempo indeterminato, per cui non c’è correlazione tra quel pacchetto enorme di incentivi, quelli attualmente in vigore e le tipologie contrattuali che li accorpano.
  Si parla molto di garanzie per i giovani, ma non esiste alcun raccordo tra queste, di cui parla il decreto, e le misure di incentivazione; non esiste alcun raccordo, sollecitato proprio ieri dal commissario europeo, tra garanzie ai giovani, strumenti di tirocinio e strumenti di apprendistato. La legge Treu prevedeva un piano significativo e cospicuo di tirocini e, addirittura, coperture finanziarie per tirocini curricolari, nel senso che si paga uno studente universitario perché vada in azienda. I programmi esistono, sono già dei percorsi curriculari attivati: se esistono risorse, utilizziamole in favore di chi già è uscito dal mercato del lavoro.
  Servirebbe, dunque, un intervento che dia meno enfasi alle regole e alle norme sul lavoro, che non creano occupazione, ma possono bloccarla, come dimostra in parte la legge Fornero. Si creano molti disincentivi normativi se il quadro normativo è incerto. Non è possibile cambiare ogni anno il quadro normativo di riferimento perché questo spiazza le scelte degli operatori. Oggi, un'impresa che deve assumere, non lo fa perché sta aspettando il decreto-legge, che però non è operativo perché ben l'80 per cento di queste norme non sono attuate, hanno bisogno di provvedimenti normativi secondari, trasferimenti alle regioni, decreti attuativi, circolari interpretative.
  Faccio notare che l'incentivo della legge Fornero dello scorso anno, 28 giugno 2012, per l'uscita graduale degli anziani ha avuto il suo chiarimento interpretativo il 21 giugno di quest'anno e le imprese si bloccano di fronte a questi interventi.
  Altro non ho da aggiungere tranne, appunto, segnalare che, secondo l'analisi internazionale comparata, bisogna portare poca enfasi sul quadro normativo, quanto piuttosto poche azioni di sistema e coerenti. Il nostro Paese non ha la tradizione di costruire su quello che ha: si emanano norme che non vengono attuate e, tendenzialmente, Pag. 10rimangono sulla carta. Non so dire, quindi, se le riforme creino occupazione. È chiaro che quelle che non procedono, che bloccano, che creano disincentivi normativi, bloccano l'attività delle imprese e le opportunità per i nostri ragazzi.

  PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti e do ora la parola ai deputati che intendano porre domande o formulare osservazioni.

  WALTER RIZZETTO. Ringrazio i due relatori. La mia sarà soltanto una breve considerazione, ma spero incisiva. All'inizio, il dottor Raitano ci ha spiegato, se me lo conferma, che all'inizio di carriera i maggiori problemi, perlomeno nei primi 5 anni della carriera lavorativa, sono fondamentalmente dei laureati e non di coloro con un tasso di scolarizzazione più basso rispetto alla laurea. Inoltre, ha sottolineato gli alti tassi di caduta del lavoro a tempo indeterminato.
  Mi fa piacere che confermi questo dato. Rispetto, infatti, all'ultimo decreto del Governo in risposta a tutto questo, il n. 76, pubblicato poche ore fa in Gazzetta Ufficiale, se è vero che i maggiori problemi sono dei laureati entro i primi 5 anni, è anche vero che i contributi di questo decreto beneficeranno coloro che sono privi di impiego regolarmente da almeno 6 mesi, e fin qui ci siamo, coloro che sono privi di un diploma di scuola media superiore o professionale, e qui evidentemente non ci siamo se i maggiori problemi sono quelli dei laureati, e coloro che vivono da soli, con una o più persone a carico. Evidentemente, ci sono due idee piuttosto differenti rispetto alla platea da aiutare.
  Inoltre, il professor Tiraboschi spiegava che, nei Paesi europei con più verde, è ottimo il rapporto anche tra scuola e università. Cito sempre dello stesso decreto che parte di questi fondi, di queste coperture saranno prese nella misura di 7,6 milioni per l'anno 2014 mediante corrispondente riduzione del fondo per il funzionamento ordinario delle università. Anche qui, ci sono due idee piuttosto divergenti.
  Concludo con un'ultima considerazione. Se i tassi di caduta sono più importanti rispetto ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato, le aziende che dovranno prendere questi contributi saranno proprio quelle che dovranno garantire ai lavoratori, dopo i 650 euro mensili, un contratto a tempo indeterminato. È molto probabile, allora, che dopo qualche tempo, se queste statistiche sono confermate, prenderemo il contributo, proporremo un lavoro a tempo indeterminato, che però sarà disatteso entro qualche mese o qualche anno. Vorrei una sua valutazione al riguardo.

  DAVIDE TRIPIEDI. Non ricordo il nome del signore là, il secondo relatore !

  PRESIDENTE. Non si tratta di «un signore là», ma del Professor Tiraboschi !

  DAVIDE TRIPIEDI. Il professor Tiraboschi ha citato l'articolo 18: vorrei sapere cosa c'entra con la disoccupazione giovanile. Ricordo che esiste sempre il giustificato motivo oggettivo e l'operaio può essere licenziato serenamente anche con l'articolo 18, con giusta o senza giusta causa. Sarà l'operaio a impegnarsi per fronteggiare la causa, se ritiene ingiusto il licenziamento.

  TITTI DI SALVO. Vorrei fare due brevi considerazioni, con la premessa del ringraziamento sincero ai due nostri ospiti, al dottor Raitano e al professor Tiraboschi.
  Come era naturale che fosse, le loro considerazioni ci richiamano a un giudizio anche sul decreto Giovannini, invito a cui non accederò perché è un'altra la sede, mentre mi limiterò alle due considerazioni che anticipavo.
  Il dottor Raitano ci parlava di una difficoltà sui dati di lettura dovuta a una mancata messa a disposizione da parte dell'INPS. Sicuramente, questo è un richiamo, presidente, che penso dovremmo avere cura di recepire. Ricordo, mettendolo in relazione anche ad altre riflessioni Pag. 11sulla vita futura dei giovani precari, che sarà un futuro di pensionati poveri. Ciò è talmente vero che anche in questo caso l'INPS ha fatto il gesto di togliere la possibilità che sia letto il calcolo contributivo per persone che sono in quella condizione contributiva. Chiedo, dunque, al presidente un rapporto con l'INPS, che va messo a registro da questo punto di vista.
  Rivolgo la seconda riflessione al professor Tiraboschi, non per avviare un discorso che la Commissione condurrà sul decreto Giovannini, ma per un'unica considerazione: penso che, in questo caso, abbia ragione il Ministro Giovannini quando afferma che il Ministero del lavoro e delle politiche sociali non crea lavoro. Convengo anche con l'accento che lei poneva raccontandoci delle mappe verdi e rosse sul rapporto tra regole e assunzioni, ma il problema principale del nostro Paese è creare lavoro, quindi la domanda di lavoro che si può realizzare attraverso investimenti.
  Oggi, il tema dell'Italia è come si incentivano gli investimenti ai privati, magari anche come l'intervento pubblico possa stimolarli. Mi pare dimostrabile che anche gli incentivi alle assunzioni – pare sia dimostrato e mi fido della serietà dei ricercatori che hanno condotto questi studi – non determinino nuova occupazione, ma si limitino a un generoso sgravio contributivo, pure giusto, a chi comunque avrebbe assunto. Il problema, quindi, non è soltanto come si che crea lavoro, ma come si crea nuovo lavoro.

  MASSIMILIANO FEDRIGA. Ringrazio i nostri ospiti e il professor Tiraboschi perché condivido per il 90 per cento le affermazioni che ha portato in questa Commissione.
  Vorrei limitarmi, però, a porre una questione in relazione all'introduzione del sistema contributivo, che penso sia, soprattutto nel medio e lungo periodo, una di quelle riforme che, purtroppo, penalizzerà di più i giovani.
  Anche in questo caso, condivido che il sistema contributivo non sia equo. Il coefficiente di trasformazione non restituisce quanto si è versato. Siamo, infatti, in un sistema solidaristico. Se si restituisse quanto è stato versato, basterebbe un semplice calcolo di quanto è stato versato dal momento in cui si va in pensione all'aspettativa di vita con gli interessi legali: il risultato diviso per i mesi che si presume si possa sopravvivere sarebbe la cifra spettante.
  Quella che, col contributivo, i lavoratori ricevono quanto versato è una leggenda. Siamo in sistema solidaristico e, appunto, si tengono in considerazione diversi fattori, tra cui le pensioni di reversibilità, che però non restituiscono quanto il lavoratore effettivamente ha versato.
  In un articolo interessante – scusi se colgo l'occasione – su ItaliaOggi, se non sbaglio, dello scorso anno si evidenziava quanto, in media, un lavoratore riceve in meno rispetto a quanto ha versato col sistema contributivo. Vorrei sapere se esista qualche spunto per migliorare il sistema rendendolo, in quel caso, equo anche dal punto di vista sociale e non solamente della tenuta dei conti delle casse previdenziali. Mi sembra che, attualmente, sia quella l'unica equità.

  DAVIDE BARUFFI. Ho interpretato così le parole del dottor Raitano rispetto ai giovani laureati che accedono al mercato del lavoro. Si trovano in una condizione paradossale, se ben capisco, di svantaggio, dal punto di vista della fragilità, soprattutto rispetto alle forme, non tanto dal punto di vista dell'occupabilità in confronto ai loro colleghi con percorsi formativi più brevi, senza nulla togliere alla considerazione e alla disciplina presenti nell'ultimo decreto, di cui avremo modo di entrare nel merito.
  Mi pare, inoltre, di capire che l'indicazione proveniente dalle considerazioni del professor Tiraboschi sia che dovremmo essere scoraggiati dal ricercare delle scorciatoie. Per molto tempo, abbiamo spostato sul tema del mercato del lavoro, sulle regole che vi presiedono, decisamente importanti. Pag. 12Avremmo dovuto ricercare una parte delle risposte nelle politiche industriali o di sistema.
  Il primo suggerimento, quindi, se capisco bene, che viene al legislatore è di provare a garantire un po’ di stabilità a queste regole, tutte perfettibili, tutte migliorabili, ma non sarà per quella strada che creeremo nuovi spazi reali, quanto piuttosto provando, se me lo conferma, a incrociare una serie di altri elementi rintracciabili anche nell'ultimo decreto del lavoro dal punto di vista degli incentivi fiscali o su altre scelte che ci apprestiamo a fare dal punto di vista dell'occupazione giovanile.
  Mi riferisco alle garanzie ai giovani e ad altre leve che saranno a disposizione coi fondi comunitari. Servirebbe implementarle all'interno di quelle scelte, facendole diventare risposte di sistema. Per noi, questo è molto pertinente dal punto di vista della possibile soluzione o il passo in avanti che possiamo compiere come sistema Paese per diventare un po’ più verdi e meno rossi, naturalmente non dal punto di vista politico.

  GIORGIO PICCOLO. Il dottor Raitano ha condotto un ragionamento sul contributivo e sull'equità. Posso condividere in linea di principio, ma vorrei sapere se esista uno studio credibile sul rischio che chi va in pensione con il contributivo potrebbe addirittura ricevere un ammontare ridotto rispetto all'assegno sociale. Si dovrebbe intervenire con forza. Rischieremmo sicuramente di avere dei problemi non solo con l'equilibrio del sistema pensione, ma complessivamente anche per l'evasione.
  Ovviamente, non condivido, dal punto di vista culturale, per la mia esperienza, quanto il professor Tiraboschi sosteneva sulle misure sul mercato del lavoro e la presenza di regole rigide. In merito all'articolo 18, inoltre, non so se abbiate condotto uno studio. L'ex Ministro Fornero ha, in qualche modo, garantito la possibilità del licenziamento per motivi economici: non so se esista una differenza. Credo, invece, si tratti di un tema che non c'entra proprio niente col problema che abbiamo affrontato. Non vedo, infatti, una rigidità e gli stessi imprenditori, da questo punto di vista, ne stanno dando atto. È più ideologica che una questione che veramente incida sulla possibilità di nuova occupazione.
  Quanto al tema degli apprendisti, non credo lei lo ponesse come un auspicio di differenza con gli altri Paesi. Personalmente, sono stato apprendista e posso affermare che facevo più di molti altri. Era un'evasione, da questo punto di vista. L'apprendista dovrebbe essere un momento di formazione legato anche alla scuola: in quel caso, si potrebbe parlare anche di quel 17-20 per cento. Gran parte dell'apprendistato, però, di fatto è un lavoro a tutti gli effetti.
  Quanto a una maggiore incisività sull'elemento della formazione, non credo che potremmo immaginare, almeno per il modo in cui l'apprendistato è normato oggi, salari al 17 o al 20 per cento. Saremmo vicini al lavoro nero.

  PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospite per la replica.

  MICHELE RAITANO, Ricercatore in politica economica presso l'Università di Roma «La Sapienza». Vi ringrazio per le tante domande e per i tanti spunti. Ho preso un po’ di appunti. Spero di riuscire a essere esaustivo, altrimenti potremo continuare, eventualmente, per altri chiarimenti.
  A proposito di quanto diceva l'onorevole Rizzetto, la domanda che dovremmo porci proprio rispetto alla problematica dei laureati e che è tornata in varie discussioni, riprendendo un po’ il mio discorso, devo sottolineare che sono un economista e mi occupo di diseguaglianze, di welfare e di mercato del lavoro. Non sono, quindi, un macroeconomista, ma devo comunque ammettere che il mio senso di priorità va sempre nella direzione dell'importanza del sistema produttivo e della domanda di lavoro.
  Con una battuta, anche in linea con quanto spiegava il professor Tiraboschi, se Pag. 13realizzassimo lo stesso grafico a colori con indicatori di innovatività delle imprese, che sono quelli che causano la domanda di lavoro qualificata e i lavori stabili – una volta formato un lavoratore, l'azienda non se ne priva e il caso della Danimarca è straordinario da questo punto di vista – probabilmente, ne uscirebbe una mappa coi colori di verde e rosso analogamente a prima. Chiaramente, bisogna decidere sempre se sia nato prima l'uovo o la gallina.
  Sono perfettamente d'accordo che dovremmo avere una strategia in cui, a un certo punto, si cerca di incidere su aspetti veramente profondi, mentre sul quadro normativo bisognerebbe intervenire sulle fragilità più gravi.
  Ho studiato in passato il caso della Danimarca. Secondo gli economisti danesi, la flexsecurity, il modello danese, funziona, ma perché quel Paese ha sempre avuto un sistema flessibile, con altri ammortizzatori sociali. Il sistema funziona bene perché è strumentale rispetto alle caratteristiche del sistema produttivo del Paese.
  In Danimarca – parlo del pre-crisi, ma le cose possono essere cambiate relativamente poco – è un Paese di piccole imprese, quindi senza la possibilità di finanziarsi la formazione, che però vogliono competere sulla produttività, non sul costo del lavoro. Hanno, quindi, bisogno continuamente di riconvertire la manodopera anche attraverso periodi di disoccupazione e che l'operatore pubblico paghi in qualche modo le politiche attive con politiche di formazione molto diffuse.
  Sono perfettamente d'accordo con Tiraboschi che in Danimarca esista un alto livello di concertazione, condizioni complementari. Purtroppo, non possiamo pensare di inserire un arto in un corpo. Quando il 99 per cento è quello di un altro corpo, si rischia una crisi di rigetto. Dovremo valutare sempre le considerazioni complementari.
  Sul caso danese, mi rifaccio anche al testo redatto dal presidente insieme al Ministro Treu e a Palo Borioni anni fa e che metteva proprio in evidenza che la specificità danese non risiedeva nelle leggi del lavoro, ma nel tipo di sistema produttivo e nell'aver creato leggi ottime rispetto al quel tipo di sistema.
  Secondo i più importanti economisti del lavoro europeo, il tipo di legislazione sul lavoro è una risposta ottima al capitale sociale del Paese, quindi alla quantità di fiducia e di concertazione, e al tipo di sistema produttivo. Si mostrava, ad esempio, che per non tutti i Paesi i sistemi più flessibili sono migliori di sistemi meno flessibili.
  Quanto agli incentivi e con la premessa che in questi dati c’è poca interpretazione, poca analisi, soprattutto in quelli che vi ho illustrato, che sono una fotografia che avrebbe potuto scattare chiunque altro li avesse avuti a disposizione, una delle indagini – parliamo di vecchio apprendistato, pre-Fornero – verteva sulla questione se l'apprendistato servisse a una stabilizzazione.
  Se utilizzato non per risparmiare sui costi, ma per formare, dovremmo aspettarci che chi si è stabilizzato passando per l'apprendistato sia più forte, che, in presenza di una crisi, sia quello che perde il lavoro, come si dice in gergo, in termini di flexibility, ovvero ha una maggiore occupabilità, una maggiore employability.
  Emergeva dai dati che, confrontando i vari contratti di ingresso più o meno instabili, gli apprendisti si stabilizzano più di chi è a gestione separata o un po’ più di chi ha un contratto a termine. Una volta, però, stabilizzati, gli apprendisti sono quelli che perdono più facilmente il lavoro. Questo ci fa capire che il vincolo sta dal punto di vista che, evidentemente, quel tipo di formazione non serviva.
  Allora, bisogna sempre creare incentivi che si muovano non solo sul lato del costo, ma su quello della produttività, che è quella che veramente ci spinge. Diversamente, avremo sempre una misura di breve periodo. So che è complicatissimo. Non consideratemi come il solito ricercatore universitario che parla di misure complicatissime da realizzare, è su queste dimensioni che bisogna ragionare.
  A proposito delle domande degli onorevoli Fedriga e Piccolo sul sistema contributivo, Pag. 14parto da un presupposto. Il sistema contributivo è, a mio avviso, una cornice assolutamente da mantenere perché è di chiarezza del sistema, ha delle sue caratteristiche. Al suo interno, bisogna, però, capire che, appunto, non è un sistema equo, ma neutrale in media. Le donne, giustamente, visto che sono penalizzate sul mercato del lavoro, hanno lo stesso coefficiente di trasformazione degli uomini, ma vivono in media più a lungo; le persone più ricche vivono molto più a lungo delle persone più povere, però, e hanno lo stesso coefficiente di trasformazione.
  I coefficienti di trasformazione – rispondo specificamente alla sua domanda – anche se è un po’ una scatola nera, a proposito della quale si discusse tanto, all'epoca del protocollo sul welfare, di rivederla, di renderli trasparenti – sono calcolati sull'aspettativa di vita attesa, calcolando un tasso di crescita del PIL predefinito che incorpora la probabilità di lasciare un erede. Le forme di differenziali in media sono neutrali, ma alcuni trasferimenti vanno da chi vive meno a lungo verso chi vive più a lungo, e spesso sono i più avvantaggiati quelli che vivono più a lungo, e dai single o dalle coppie di fatto verso gli sposati. In media, il sistema non va in deficit, ma ha delle forme di distribuzione.
  Il punto è che, a mio avviso, bisogna sempre renderle trasparenti. Reputo, ad esempio, che sia assolutamente giusto avere lo stesso coefficiente per uomini e donne, ma anche un elemento che possa tutelare l'aspettativa di vita più bassa di alcune categorie di lavoratori o la circostanza per cui si è lavorato, non per nostra volontà, da parasubordinati e si sono, quindi, versati 11 mesi di contribuzione all'anno anziché 13 (perché licenziati a luglio con aliquote più basse e via discorrendo).
  Il mio messaggio è che bisogna prevedere mettere dei meccanismi di trasparenza. La cornice va benissimo, ma non vuol dire che non debba contenere meccanismi interni. Si ricorda sempre che la Svezia è ultracontributiva, ma il fatto è che ha uno zoccolo di base elevatissimo, per cui, di fatto, la pensione contributiva si calcola dai salari medio-alti in poi. Non sono per negare uno zoccolo, ma eventualmente vi lascerò del materiale per una riflessione su quest'aspetto.
  Onorevole Piccolo, non esiste il rischio che si riceva di pensione meno dell'assegno sociale, ma quello, con le nuove norme, che non si vada in pensione prima del raggiungimento di una certa situazione: il paradosso è che a 69 anni, per le coorti del contributivo, si riceve l'assegno sociale, mentre si riceve la pensione a 73 se è sotto 1,5. Questo significa che l'incentivo a versare i contributi si abbatte tantissimo, soprattutto in età avanzata, perché c’è una misura poco più grande.
  Dato che i livelli salariali si sono abbassati, i rischi di carriere che potessero arrivare a questo – un tempo era 1,2, quindi c'era comunque un po’ di cumulabilità ancora più alta – non erano previsti. Con queste dinamiche di carriera – ho delle stime – per cui basta lavorare tutta la vita da dipendente, ma part-time, quindi con metà salario, e quindi metà contribuzione, che nel contributivo si rischia di uscire a 73 anni perché non si arriva a 1,5 volte l'assegno sociale.
  Capirete che non è vero che un euro di contributi corrisponde a un euro di pensione. In quel caso, ogni euro di contributo sarà 0,33 per cento di pensione perché avrei ricevuto l'assegno sociale comunque. Questo è un aspetto su cui bisogna attentamente ragionare.
  A proposito di quanto diceva l'onorevole Baruffi, il problema che emerge rispetto agli altri per le giovani generazioni è che, in termini relativi, stanno peggiorando. Chiaramente, fortunatamente le giovani generazioni, in termini salariali, su più dimensioni, tendono a stare meglio di chi non ha studiato. Un rendimento del capitale umano c’è sempre, ma è fortemente diminuito. Dobbiamo chiederci perché.
  Fondamentalmente, possiamo darci due spiegazioni: l'offerta di laureati è aumentata e la domanda non ha seguìto oppure è peggiorata la qualità dei laureati, ma qua Pag. 15non possiamo ragionarne perché dovrebbe essere peggiorata pure la qualità dei diplomati, della scuola elementare, o possiamo pensare che la domanda di lavoro non riesca a muoversi di pari passo.
  Secondo tanta letteratura, le diseguaglianze nel mondo sono cresciute perché è aumentata la domanda di lavoro rivolta ai laureati, il cosiddetto progresso tecnico a favore degli alti skill: in Italia, osserviamo il contrario e questo può essere legato al fatto che la domanda di lavoro è diminuita. Se continuamente si cambia datore, si continua a lavorare, ma l'anzianità di servizio nell'impresa, che è quella che fa avere spesso gli scatti, rimane bassa, per cui si rimane su una curva più bassa. Se non si riesce a incontrare una domanda di lavoro sufficiente, si rischia di essere sotto inquadrati, nel qual caso si verifica una perdita salariale. Anche qui, allora, purtroppo, bisogna indagare attentamente tutti e due i lati.
  È chiaro che al lato dell'offerta si può pensare con un decreto immediato, ma per la domanda è diverso. In ogni caso, sono necessari degli incentivi anche quando si interviene sull'offerta, delle norme che non disincentivino una buona domanda, che incentivino la produttività piuttosto che il risparmio dei costi.

  MICHELE TIRABOSCHI, Professore di diritto del lavoro all'Università di Modena e Reggio Emilia. Anch'io ringrazio per le sollecitazioni e le domande. Sono un po’ a disagio, nel senso che forse non mi sono spiegato a sufficienza. Chiaramente, il tempo a disposizione è poco.
  Sostenevo proprio esattamente il contrario rispetto a quanto qualcuno di voi ha voluto evidenziare. Forse qualcuno di voi è giovane, ma dalla legge Treu in avanti si discute se il tappo all'occupazione in Italia, giovanile in particolare, sia o non sia l'articolo 18: ho risposto che non lo è.
  Ho affermato che esiste un confronto comparato che ci porta a rilevare come Paesi come la Germania, che ha un sistema fortissimo di rigidità in uscita, non abbia problemi occupazionali, crei occupazione, i giovani trovino lavoro. Non è un problema di regole, di rigidità. Stavo sostenendo, appunto, esattamente il contrario.
  Questi Paesi – il tema dell'innovazione può essere aggiunto – sono molto più forti e hanno migliori indicatori sul mercato del lavoro perché hanno fatto altri investimenti sulla qualità del sistema educativo, sulla transizione scuola-lavoro, hanno un sistema di relazioni industriali partecipativo, non litigano in continuazione sulle regole e le norme senza attuarle mai.
  Il suggerimento molto pratico e umile era quello di andare nella direzione di non cercare ancora una volta scorciatoie, l'ennesima riforma normativa del lavoro, già fatta con la Fornero, con l'articolo 8, che delega a un'azione collettiva, col pacchetto welfare nel 2007, con la legge Treu, con la legge Biagi e via dicendo. Il problema non sono le scorciatoie o le norme, ma costruire un sistema. Si trattava di un piccolo contributo che potrebbe aiutarvi nel percorso di implementazione del decreto-legge appena approvato, cercando di evitare la singola frammentazione normativa e per costruire una visione che metta assieme i pezzi.
  Nel decreto n. 76 manca una visione d'insieme. Non è possibile – ripeto che si tratta di un'intuizione molto banale – che, all'articolo 1, il Governo voglia promuovere l'occupazione stabile dei giovani che hanno meno di 29 anni con incentivi economici se fino a ieri ci si diceva che l'occupazione degli under 29 è incentivata economicamente e normativamente con l'apprendistato.
  L'articolo 1 del decreto non è compatibile con l'apprendistato. Stiamo buttando via l'apprendistato ? Un imprenditore oggi, per assumere un under 29, userà l'apprendistato che abbiamo provato a ricostruire dalla legge Treu in avanti o questi nuovi incentivi che non richiedono alcun vincolo formativo e alcun onere burocratico ? Questo era il tema.
  Lo stesso vale per i tirocini, che rischiano di cannibalizzare nuovamente l'apprendistato. Evidentemente, un imprenditore preferirà ricorrere a un tirocinante a 300 euro visto che, in base alle Pag. 16nuove linee guida della legge Fornero, il tirocinio può durare fino a un anno. Non capisco perché prendere un apprendista, che costerebbe il triplo.
  Nel decreto, sui tirocini si compie un nuovo passo indietro. Secondo la scadenza di fine luglio, tutte le regioni devono conformarsi alle linee guida Fornero, ma alle regioni che non fanno nulla non succede nulla, si applica la legge Treu con durate diverse, senza obbligo di pagare il congruo compenso e via dicendo.
  Lo stesso discorso vale per il provvedimento indicato prima, che toglie 7,6 milioni di euro più 3 milioni al fondo di finanziamento ordinario dell'università per pagare i tirocini curriculari, laddove, per il Ministro Fornero, le zone di criticità sono sui tirocini non curricolari, cioè non il tirocinio fatto mentre si è studenti. Nessuno dubita che quello sia il tirocinio genuino di una scuola che manda uno studente a formarsi 3 mesi in azienda. La criticità esiste quando, invece, terminata la scuola o l'università, si sta cercando un lavoro e al diplomato o al laureato non è offerto un lavoro o un contratto, ma un tirocinio.
  Oggi, 11 milioni di euro, le poche risorse di cui disponiamo, sono destinati a erogare 300 euro a uno studente universitario anziché erogarli per la costruzione di un servizio di placement universitario, che oggi non esiste. L'idea era quella di mettere assieme i pezzi.
  La Youth guarantee tanto pubblicizzata rischia di fare la brutta fine della flexsecurity, una parola vuota in cui mettiamo quello che vogliamo. Potrebbe rappresentare una grandissima occasione per mettere assieme i frammenti normativi e ricondurli a un sistema, dare un senso al sistema, appoggiarli su tutti i servizi di impiego, come quelli che incontrano le offerte di lavoro presenti nelle scuole e nelle università. Bisognerebbe ricondurre allo Youth guarantee le misure previste nel pacchetto lavoro sul tirocinio o sull'apprendistato.
  Non voglio farvi perdere molto tempo, ma l'intervento sull'apprendistato, all'articolo 2 del decreto, va per conto suo rispetto all'articolo 1. Ciò che non funziona dell'apprendistato, per cui anche le comparazioni con gli altri Paesi non reggono, è che da noi l'apprendista, secondo l'ISFOL, quindi l'Agenzia tecnica del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, non riceve quasi mai una formazione. Non si può parlare, allora, di apprendistato tedesco perché, in realtà, il nostro è un contratto temporaneo, flessibile, che piace perché abbatte il costo del lavoro, cosa che probabilmente da domani sarà più difficile perché ha la concorrenza dei tirocini a 300 euro e del piano di incentivi del Governo. Il tema è costruire il sistema della formazione per l'apprendistato, non cambiare tre o quattro norme sull'apprendistato.
  L'ultimo riferimento era proprio alla lezione tedesca, che molti oggi stanno pubblicizzando, e questo è un punto concreto, non ideologico. Dire che un apprendista austriaco o svizzero o tedesco prende una retribuzione pari al 30 per cento del lavoratore qualificato non equivale a equipararlo al lavoro nero o allo sfruttamento, ma quello strumento non è un contratto di lavoro, è scuola, non è offerto, come da noi, a ragazzi che hanno 20, 25, 29 anni, ma a ragazzi di 15, che vanno due giorni a scuola e tre a lavoro, laddove si parla di lavoro con una parte teorica e una pratica.
  Il suggerimento che volevo, appunto, offrire era quello di non smontare nuovamente un edificio che faticosamente si sta costruendo, di non cercare scorciatoie, di garantire un quadro di stabilità normativa. Gli attori del sistema delle relazioni industriali, gli operatori del mercato del lavoro, le imprese, i sindacati, gli stessi lavoratori possono, in questo modo, costruire su questo edificio. Se cambiate ancora delle pietre angolari – quelle sono in gioco e di vari edifici importanti – è chiaro che non si costruisce nulla.

  PRESIDENTE. Ha chiesto la parola l'onorevole Tinagli, alla quale la concediamo in via del tutto eccezionale.

  IRENE TINAGLI. Con la sua domanda al dottor Raitano, il collega Rizzetto si Pag. 17preoccupava del fatto che, secondo i dati che ci ha mostrato, sono grossi i disagi per i laureati, per cui, a suo avviso, le misure del decreto che, invece, guardano a chi non ha diploma, sono completamente fuori strada.
  Mi sembra, però, che si tratti di due questioni non confrontabili. Credo di capire, infatti – ho perso le prime slide su come è stato impostato lo studio – che si indaghi su chi è entrato nel mercato del lavoro. Si guarda alla probabilità condizionata di aver già trovato lavoro. Con questa condizione, per i primi 5 anni la fragilità è quella della condizione lavorativa, non della probabilità di trovare lavoro. Il collega Rizzetto, invece, si riferiva alla probabilità a trovare lavoro. Forse il legislatore si preoccupava di questo nella legge, cioè cercare di dare lavoro a chi non ha proprio probabilità nemmeno di trovarlo.
  Sulla base della sua esperienza e dei suoi studi, se, anziché sulla condizione lavorativa nei primi 5 anni, quindi legata alla probabilità condizionata a trovar lavoro, dovesse concentrarsi sulla proprietà secca di essere occupato o disoccupato nel medio periodo, saprebbe dirci se il titolo di studio penalizzi o meno rispetto a non averlo ? Vorremmo capire anche nell'ottica di un quadro più grande.

  PRESIDENTE. Do la parola al dottor Raitano per la replica.

  MICHELE RAITANO, Ricercatore in politica economica presso l'Università di Roma «La Sapienza». Il titolo di studio non penalizza rispetto a chi ha la licenza elementare, ma, in termini relativi, il peggioramento nei confronti di chi ha il titolo di studio è molto forte. Guardare, quindi, soltanto a quel pezzetto di mercato del lavoro – correttissima l'interpretazione metodologica dell'onorevole Tinagli – ci dice comunque già qualcosa, soprattutto che la forma contrattuale di ingresso anche attraverso l'apprendistato vecchio, di chi aveva un titolo di studio basso, era il tempo indeterminato. Significava, infatti, che comunque esisteva un canale ultraagevolato dal punto di vista contributivo, dei costi, che permetteva di entrare.
  Di nuovo, con l'intervento nel breve periodo non si osserva una difficoltà a entrare tanto più alta per chi ha un titolo più basso o per chi ha la laurea. Si osserva una differenza grossa, in realtà, sul tipo di contratto. Una volta entrati, c’è molta più difficoltà a mantenere il lavoro per chi ha un titolo basso che per i laureati, ma la difficoltà a mantenerlo è consistente anche per i laureati. Una differenza enorme non si osserva.

  PRESIDENTE. Ringraziamo i nostri ospiti.
  Abbiamo concluso il primo ciclo di audizioni. Cercheremo di predisporre un documento sulla base di questa prima fase di audizioni molto importanti per la nostra discussione.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15,55.

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