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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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XVII Legislatura

Commissione parlamentare per le questioni regionali

Resoconto stenografico



Seduta n. 1 di Mercoledì 29 novembre 2017

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'ATTUAZIONE DELL'ARTICOLO 116, TERZO COMMA, DELLA COSTITUZIONE, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLE RECENTI INIZIATIVE DELLE REGIONI LOMBARDIA, VENETO ED EMILIA-ROMAGNA

Audizione dei professori Antonio D'Atena e Stelio Mangiameli.
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 3 
D'Atena Antonio , professore emerito di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Roma «Tor Vergata» ... 3 
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 8 
Mangiameli Stelio , professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Teramo ... 8 
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 16

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
GIANPIERO D'ALIA

  La seduta comincia alle 8.15.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche mediante trasmissione diretta attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso e diretta streaming sperimentale sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione dei professori Antonio D'Atena e Stelio Mangiameli.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione dei professori Antonio D'Atena e Stelio Mangiameli.
  Ringrazio il professor D'Atena e il professor Mangiameli, che già hanno collaborato con noi nelle precedenti indagini, per la loro disponibilità.
  Do quindi la parola al professor Antonio D'Atena per lo svolgimento della relazione.

  ANTONIO D'ATENA, professore emerito di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Roma «Tor Vergata». Grazie, presidente. Risponderò seguendo l'ordine dei quesiti che ci avete sottoposto.
  Il primo quesito è: quali sono i motivi alla base della mancata attuazione fino a questo momento dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione?
  Ritengo che si tratti di motivi di ordine politico: le Regioni che, in passato, si erano rese maggiormente attive con queste richieste, se si prescinde da un'iniziativa lontana della Toscana, sono la Lombardia, il Veneto e il Piemonte. Queste tre Regioni si erano attivate durante il secondo Governo Prodi e hanno abbandonato l'iniziativa, quando c'è stato il passaggio al quarto Governo Berlusconi.
  Suppongo che quest'abbandono dell'iniziativa si leghi alla circostanza che la maggioranza a sostegno di quel Governo non fosse favorevole alla disciplina contenuta nell'ultimo comma dell'articolo 116. Tant'è che, durante la XIV legislatura, la legge costituzionale da essa approvata e bocciata in sede referendaria aveva previsto l'abrogazione puramente e semplicemente del comma in questione. Suppongo, quindi, che la causa dell'abbandono della procedura di cui all'articolo 116, ultimo comma, fosse dovuta a un clima non favorevole.
  La seconda questione è: quali sono le opportunità che offre attualmente l'attuazione dell'articolo 116, terzo comma, e quali, invece, gli eventuali rischi?
  Iniziando dalle opportunità, posso, anzitutto, dire che l'attuazione può rappresentare un utile strumento per attenuare la tensione che sussiste tra le Regioni ad autonomia ordinaria a più alto reddito e le Regioni ad autonomia speciale.
  Un caso emblematico al riguardo è quello della Regione Veneto, la quale confina con due territori regionali speciali, quasi per intero, a parte il tratto di confine con la Lombardia e con l'Emilia-Romagna. I cittadini della Regione Veneto finanziano con i loro redditi una condizione di benessere alla quale non partecipano. Da ciò dipende, tra l'altro, il fenomeno della migrazione dei comuni verso i territori regionali speciali, che ha trovato recentemente espressione nell'iniziativa, coronata da successo, del Comune di Sappada. Quindi, dotare le Regioni ad autonomia ordinaria o alcune tra esse di forme e condizioni particolari di Pag. 4autonomia può contribuire ad allentare questa tensione e ad assicurare una maggiore stabilità ai territori regionali.
  Secondo me, la seconda opportunità offerta dall'attuazione dell'articolo 116, terzo comma, è rappresentata dal fatto che si tratta di un meccanismo premiale per le Regioni ordinarie che funzionino meglio delle altre e che, soprattutto, possano vantare un pareggio di bilancio. Tra l'altro, posso, per inciso, ricordare che la riforma costituzionale Renzi-Boschi, anch'essa, com'è noto, bocciata dal referendum, subordinava a questa condizione l'attivazione del meccanismo di cui all'articolo 116, ultimo comma.
  È questa la ragione per la quale il percorso contemplato da tale disposizione consente alle Regioni «virtuose» di realizzare appieno le proprie potenzialità, massimizzando, in termini di efficienza, il proprio valore aggiunto e realizzando la propria specifica vocazione.
  I rischi si legano al contenuto della norma, perché l'elenco di materie su cui le Regioni ad autonomia ordinaria possono ottenere forme e condizioni particolari di autonomia è notevolmente esteso. Ci sono in esso alcune voci di competenza legislativa esclusiva dello Stato, tra cui particolarmente rilevante è quella denominata «norme generali sull'istruzione», la quale, in combinato disposto con l'acquisizione da parte della Regione dell'intera materia «istruzione» di cui al terzo comma dell'articolo 117, potrebbe privare lo Stato, in un ambito così strategico, di qualsiasi competenza.
  Inoltre, non va dimenticato che l'elenco delle materie di competenza concorrente comprende anche ambiti di indiscutibile rilievo nazionale, il cui inserimento, come ho sostenuto in sede scientifica e ripeto anche qui, in certi casi è da attribuire a errori materiali. Quando, ad esempio, si prevede che l'energia nazionale sia materia di competenza concorrente, il mio sospetto è che ci sia stato un errore di videoscrittura. Ritengo, in particolare, verosimile che, nel momento in cui si è deciso che tale materia passasse dall'elenco degli oggetti di competenza esclusiva dello Stato a quello delle materie di competenza concorrente, l'operatore incaricato dell'operazione non sia stato reso edotto del fatto che, coerentemente con la nuova allocazione, l'aggettivo «nazionale» dovesse cadere. Di qui, una disposizione, la cui incongruenza è stata immediatamente segnalata in sede dottrinale.
  Per tutte queste ragioni, è mia convinzione che un elenco così esteso possa favorire soluzioni squilibrate.
  È vero che gli artefici della riforma costituzionale del 2001 hanno introdotto due elementi di bilanciamento – la necessità dell'intesa e l'intervento legislativo del Parlamento –, affidando ad essi il compito di contenere eventuali richieste eccessive da parte della Regione. Non sfugge, tuttavia, che, in questo modo, il discorso diventa tutto politico e dipende dai numeri della politica.
  C'è, in proposito, un caso che fa scuola: il primo Governo Zapatero in Spagna dipendeva dall'appoggio determinante degli esponenti catalani. Ciò spiega per quale ragione la maggioranza nel Parlamento spagnolo sia stata abbastanza favorevole alle richieste della comunità catalana, peraltro successivamente bocciate da parte del tribunale costituzionale. Il che è anche alla radice degli eventi che la Spagna sta vivendo in questi giorni.
  La terza domanda è: quali conseguenze comporterebbe l'attuazione dell'articolo 116, terzo comma, in caso di attribuzione alle Regioni di competenze legislative e in caso di attribuzione di competenze amministrative? Inoltre, si chiede: come si dovrebbe procedere, nel caso in cui si ritenga necessario tornare indietro, rispetto all'attribuzione di maggiore autonomia?
  L'articolo 116, terzo comma, non fa riferimento espresso ed esclusivo alle competenze legislative. La Regione ordinaria, quindi, sulle materie ad essa attribuite per questa via, può divenire titolare, oltre che delle competenze legislative, delle competenze amministrative, secondo il modello del parallelismo delle funzioni, che trova applicazione negli Statuti regionali speciali.
  Quale situazione si determinerebbe? Si determinerebbe una situazione simile a Pag. 5quella che sussiste attualmente per le Regioni ad autonomia speciale, sia pure con una prospettiva rovesciata. Oggi, la Regione ad autonomia speciale è anche una Regione ad autonomia ordinaria, per effetto delle ulteriori competenze acquisite in virtù della clausola di equiparazione o di maggior favore di cui all'articolo 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001. In conseguenza di ciò, parte delle competenze sono regolate dallo Statuto e competenze ulteriori, in deroga rispetto allo Statuto, provengono dall'applicazione dell'articolo 10 appena citato.
  Nel nostro caso, la Regione ordinaria resta tale, ma acquisisce una forma di specialità, per effetto delle nuove competenze derogatorie rispetto allo ius commune di cui al Titolo V ad essa conferite in virtù dell'articolo 116, ultimo comma.
  Come si può tornare indietro?
  A stretto rigore, dovrebbe trovare applicazione la regola del parallelismo delle forme: una nuova legge ordinaria previa intesa consentirebbe, pertanto, di tornare indietro. Certo, l'applicazione di questa regola renderebbe la disciplina estremamente rigida, essendo ragionevole supporre che la Regione che abbia acquisito certe competenze sia poco disponibile a concedere il suo assenso alla riduzione delle stesse.
  La possibile alternativa potrebbe essere rappresentata o da una disciplina a termine (dieci o quindici anni), la cui permanenza dopo la scadenza del termine sia subordinata a una nuova legge previa intesa, oppure dalla previsione che, entro un certo termine, vi sarà una revisione della precedente disciplina.
  Questa doppia soluzione è prevista da uno schema di disegno di legge governativo approvato il 21 dicembre 2007 dal Governo Prodi, il quale disciplinava il procedimento di cui all'articolo 116, ultimo comma, e, secondo me, lo faceva anche bene, prevedendo una doppia possibilità: o una disciplina a termine subordinata a una conferma, scaduto il termine, oppure la possibilità che le parti dopo 10 anni sottopongano a nuovo esame il contenuto dell'intesa.
  Tra l'altro, segnalo che la seconda formula si trova normalmente nelle intese tra lo Stato e le confessioni religiose diverse dalla cattolica.
  Come si vede, entrambe le soluzioni tendono a conferire carattere sperimentale alla disciplina dettata dalla legge previa intesa, scongiurando così il rischio che la stessa si irrigidisca, dando vita ad un regime ancora più forte di quello di cui godono le Regioni ad autonomia speciale.
  A me sorprende, per esempio, la richiesta, da parte di un Presidente regionale, che alla sua Regione sia riconosciuto lo status di Regione ad autonomia speciale. Non deve, infatti, dimenticarsi che la legge costituzionale di approvazione dello statuto speciale è un atto disponibile unilateralmente dello Stato, nel procedimento formativo del quale alla Regione è riconosciuta soltanto una funzione consultiva. La legge previa intesa di cui all'articolo 116, terzo comma, invece, è sottratta alla unilaterale disponibilità dello Stato. Pertanto, se essa non viene munita di un termine di decadenza, detta una disciplina modificabile soltanto con il consenso della Regione.
  La quarta domanda è la seguente: da un punto di vista procedurale, come deve articolarsi il procedimento?
  La risposta non è semplice, perché la norma non chiarisce in che senso fa uso dell'espressione «su iniziativa della Regione interessata». Come vedremo, infatti, se l'espressione viene intesa in una delle accezioni possibili, essa pone qualche problema di coordinamento con l'intesa che deve intercorrere tra la Regione e lo Stato.
  La prima ipotesi è che la locuzione faccia riferimento ad un'iniziativa legislativa in senso tecnico. Le Regioni, com'è noto, possono avanzare proposte di legge al Parlamento attraverso i loro Consigli regionali, in virtù dell'articolo 121, secondo comma, della Costituzione. Ora, se si ritenesse che questa sia la lettura da accogliere, dovrebbe dirsi che si tratti di un caso d'iniziativa legislativa riservata.
  La seconda ipotesi è che la disposizione non contempli l'iniziativa legislativa in senso tecnico, ma intenda riferirsi ad un atto d'impulso della Regione, concretantesi in Pag. 6una richiesta di intesa al Governo nazionale. In questa linea si muoveva la riforma Renzi-Boschi. Si tratta, del resto, della soluzione accolta in materia di rapporti con le confessioni religiose diverse dalla cattolica, i quali, come noto, vanno regolati da leggi sulla base di intese. È questo l'altro caso di legge previa intesa forte previsto dalla Costituzione. Esso, quindi, per certi aspetti, potrebbe costituire un modello.
  La prima lettura è stata, come noto, accolta dalla regione Veneto, che ha elaborato una proposta di legge. La seconda lettura è stata accolta dall'Emilia-Romagna e dalla Lombardia.
  La prima lettura, come si è anticipato, pone il problema del coordinamento con l'intesa. C'è, infatti, da chiedersi come realizzare un'intesa previa, una volta che il procedimento legislativo si incardini su iniziativa della Regione.
  Un'ipotesi potrebbe essere quella che la Commissione in sede referente sospenda i lavori in attesa dell'intesa.
  L'altra ipotesi, più farraginosa, potrebbe essere modellata sulla soluzione che la «riforma Berlusconi» – la chiamo così per semplicità – ha previsto per la modifica degli Statuti delle regioni speciali. Tale riforma prevedeva un'intesa da realizzare, mediante la sottoposizione del testo approvato in prima lettura dalle due Camere alla Regione interessata, la quale avrebbe avuto un termine per esprimere il proprio eventuale diniego a maggioranza qualificata. In difetto di tale diniego, l'intesa si sarebbe considerata raggiunta, secondo la logica del silenzio assenso. In questa ipotesi – come si vede – l'intesa si sarebbe realizzata a livello di assemblee rappresentative: tra il Parlamento nazionale e il Consiglio regionale.
  Applicando questo modello al caso che ci interessa, si potrebbe ipotizzare che il testo predisposto dalla Commissione per l'esame in prima lettura da parte dell'Assemblea venga sottoposto preventivamente alla Regione interessata, per l'espressione di un'eventuale diniego.
  Come ho detto, comunque, si tratterebbe di un meccanismo molto farraginoso, che non considererei consigliabile, il quale, inoltre, richiederebbe, quanto meno, una legge, anche se la via maestra sarebbe costituita dal procedimento revisione della Costituzione.
  Se, invece, aderendo alla tesi secondo cui, nel contesto dell'articolo 116, ultimo comma, l'espressione «iniziativa» vada intesa in senso generico, come equivalente ad atto d'impulso, potrebbe attingersi all'esperienza maturata in materia di rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose diverse da quella cattolica. Più specificamente, potrebbe ritenersi che la richiesta di intesa vada rivolta al Governo, munita del parere espresso dagli enti locali attraverso il Consiglio delle autonomie locali (CAL) insediato in ogni Regione ad autonomia ordinaria. Su questa base, si aprirebbero delle trattative e si elaborerebbe un testo concordato, il quale dovrebbe confluire nel disegno di legge governativo.
  Una delle domande alle quali si deve rispondere ha ad oggetto le differenze tra il testo dell'intesa con il Governo e il testo della legge. A mio avviso, i due atti dovrebbero essere fondamentalmente coincidenti, presentando soltanto minime differenze, dovute alla loro, rispettiva, natura e, soprattutto al carattere pattizio dell'intesa.
  Nelle intese tra lo Stato e le confessioni religiose, c'è una clausola che impegna il Governo a trasfondere il testo dell'intesa in un disegno di legge. È evidente che una clausola del genere ha senso nell'intesa, ma non nella legge adottata sulla sua base. Per contro, la legge contiene disposizioni sulla copertura finanziaria, che non debbono necessariamente essere presenti nel testo dell'intesa.
  Qual è la posizione del Parlamento? Io penso che, in questo procedimento, al Parlamento spetterebbe l'adozione di una legge di approvazione in senso tecnico, del tipo prendere o lasciare, senza emendamenti. Peraltro, questa è la soluzione accolta nei rapporti con le confessioni religiose.
  È necessario che questo iter sia disciplinato con legge?
  Certo, non sarebbe male formalizzarlo e, a tal fine, potrebbe attingersi allo schema di disegno di legge approvato dal Governo Prodi che ho ricordato prima. Tuttavia, si Pag. 7potrebbe anche fare a meno di una previa disciplina legislativa della procedura. Del resto, mi sembra che questa sia la situazione per quanto concerne i rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose diverse dalla cattolica.
  La quinta questione è la seguente: che cosa implica il richiamo al rispetto dei principi del federalismo fiscale?
  Vorrei soffermarmi sulla breve storia di questo enunciato, la quale ha inizio con la bozza Amato, che – come noto – è stata l'atto di iniziativa legislativa costituzionale del Governo D'Alema da cui è stato riavviato il processo di riforma interrottosi nella primavera del 1998.
  Nella bozza Amato si prevedeva che forme e condizioni particolari di autonomia fossero riconosciute alle Regioni ordinarie, nel rispetto degli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione. Qualche osservatore, tra cui anche chi vi parla, aveva fatto notare che in questo modo, gli spazi disponibili sarebbero stati estremamente esigui. Infatti, quale autonomia ulteriore è possibile concedere, se è necessario rispettare, oltre all'articolo 119, anche gli articoli 117 e 118? Nella formula attuale, si richiamano, quindi, soltanto i principi dell'articolo 119. Si tratta di una formula felice, anche se presenta un certo grado di genericità. Ciò rende necessario prospettare delle conclusioni problematiche.
  L'ipotesi che avanzo è che alcune scelte-cardine dell'articolo 119 non possano essere modificate dalla legge. Mi riferisco anzitutto al principio della responsabilizzazione delle Regioni nei confronti delle collettività sottostanti (o, brevemente, al federalismo fiscale). Tra l'altro, sono stato sempre favorevole alla logica sottesa a questo principio, il quale dovrebbe avere un effetto positivo, spingendo i cittadini a valutazioni non ideologiche, ma pragmatiche, basate sui risultati della gestione.
  Riguardo al principio dell'equilibrio dei bilanci e al principio dell'osservanza dei vincoli europei, varrebbero anche altre norme costituzionali. Pertanto, se anche si prevedesse la deroga all'articolo 119, questi principi andrebbero mantenuti fermi.
  In merito all'equiparazione, nei limiti del possibile, degli enti locali alle Regioni, che costituisce un altro dei principi dell'articolo 119 novellato, precisato che l'equiparazione incontra un limite nella circostanza che gli enti locali non hanno lo strumento della legge, è da ritenere che, attraverso le leggi derogatorie del Titolo V della Costituzione, gli enti locali ubicati nelle Regioni che fruiscano del trattamento differenziato di cui all'art. 116, terzo comma, non possano essere trattati, dal punto di vista delle loro prerogative in materia finanziaria, peggio degli enti locali di altre Regioni.
  Con la sesta domanda, si chiede: quali sono i possibili sviluppi delle iniziative avanzate dalle regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna?
  Per la Lombardia e l'Emilia-Romagna, si è aperto un tavolo presieduto dal Sottosegretario Bressa e sono iniziate le trattative. Tutto ciò dovrebbe sfociare in un disegno di legge del Governo da sottoporre al Parlamento.
  Per il Veneto, a quanto risulta, la proposta di legge elaborata dal Consiglio regionale non è stata ancora sottoposta ad un ramo del Parlamento. Qualora questo dovesse avvenire, la soluzione più saggia sarebbe quella di sospenderne l'approvazione, in attesa che si realizzi l'intesa.
  D'altra parte, dai comunicati del Dipartimento per gli affari regionali e le autonomie, ricavo che il Sottosegretario Bressa ha invitato il presidente Zaia a unirsi al tavolo cui partecipano le altre due Regioni, per poter, su quella base, elaborare anche per il Veneto l'intesa che dovrebbe essere trasfusa nella legge. Se ciò si verificasse, quand'anche avesse avuto inizio la fase referente, la Commissione parlamentare si troverebbe di fronte al fatto nuovo dell'intesa, cui dovrebbe adeguare la propria valutazione.
  Ci sono già state in passato modifiche della posizione delle Commissioni parlamentari in presenza di una sopravvenuta intesa, anche se si trattava di un'intesa in Conferenza. Ho trovato almeno un precedente in questo senso. Quindi, la cosa non sarebbe sconvolgente. Pag. 8
  Non ho altro da aggiungere. Grazie.

  PRESIDENTE. La ringrazio, professor D'Atena, anche per l'efficacia delle risposte ai quesiti che abbiamo voluto porre in quest'indagine conoscitiva.
  Do la parola al professor Stelio Mangiameli, che ringrazio per la collaborazione.

  STELIO MANGIAMELI, professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Teramo. Grazie, presidente. Ringrazio per l'invito a partecipare anche a quest'indagine conoscitiva sul tema dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
  Anch'io ho seguito lo schema delle domande che mi sono pervenute dalla Commissione e vorrei partire rispondendo, molto brevemente, alla prima domanda: quali sono i motivi di base della mancata attuazione, fino a questo momento, dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione? Per rispondere, è sufficiente rifarsi alla storia stessa della nascita di questa disposizione, nel momento in cui fu approvata la legge costituzionale n. 3 del 2001, per i contenuti politici che volevano essere trasfusi all'interno di questo comma, tutti rivolti essenzialmente a consentire la soddisfazione di determinati interessi di una forza politica da parte di quelle forze che presumevano di avere la possibilità di costruire una coalizione con tale forza.
  Allora, la pretesa della Lega Nord era quella di attribuire lo Statuto speciale al Veneto e alla Lombardia e la risposta delle forze di maggioranza di quella legislatura fu di concedere tutto quello che la Lega Nord chiedeva sotto forma di una condizione particolare di autonomia comune a tutte le Regioni.
  Con ciò si spiega non soltanto perché i primi tentativi sono sempre venuti dal Veneto e dalla Lombardia, ma anche il connotato politico di questo tipo di iniziative, che furono adottate in opposizione alla maggioranza parlamentare piuttosto che per una vera e propria volontà, almeno per le iniziative del 2007, di avere maggiore autonomia.
  L'unica differenza si è registrata nel momento in cui, ancor prima dell'approvazione della riforma costituzionale Renzi-Boschi, la Regione Veneto avviò un procedimento «originale», con una legge che fu sottoposta al vaglio della Corte costituzionale e da cui uscì sostanzialmente una sola ipotesi di referendum sull'articolo 116, terzo comma.
  Non dobbiamo dimenticare che, infatti, dei quesiti che quella legge aveva elaborato, quattro sono stati censurati dalla Corte costituzionale, incluso quello che chiedeva ancora una volta l'autonomia speciale.
  La storia spiega, quindi, anche il motivo per cui c'è stato uno scarso utilizzo dell'articolo 116, terzo comma.
  Quali sono le opportunità e quali, invece, gli eventuali rischi? Do un giudizio positivo, tutto sommato, di questa disposizione, che apre verso l'asimmetria, superando il canone dell'uniformità del trattamento delle Regioni, cui era ispirato il regionalismo del 1947, perché questa clausola potrebbe consentire una competizione virtuosa tra territori regionali.
  Anche il tema della solidarietà tra le Regioni più avanzate e quelle più arretrate potrebbe realizzarsi secondo schemi nuovi e più efficaci, se attuato attraverso il coinvolgimento diretto delle Regioni e non, come accade oggi, soltanto attraverso il riparto operato dal centro.
  Bisogna ricordare che l'articolo 116, terzo comma, che consente di attribuire forme e condizioni particolari di autonomia, si muove all'interno del sistema di autonomia ordinaria disegnato dal Titolo V. In tal senso, il terzo comma è profondamente diverso dal primo comma del 116, in cui la specialità è una deroga al contenuto del Titolo V. Tant'è vero che questa disposizione può essere letta anche come un percorso di più compiuta concretizzazione dell'autonomia ordinaria.
  Ora, se ipotizzate che tutte le Regioni italiane chiedano forme e condizioni particolari di autonomia per le materie previste dall'articolo 116, terzo comma, il sistema del regionalismo italiano sarebbe profondamente innovato, con molta probabilità in meglio, nel senso che ci sarebbe Pag. 9una maggiore maturità dei territori. La stessa questione del divario territoriale potrebbe, in quest'ottica, dirsi superata anche per le considerazioni che dirò più avanti.
  La disposizione soddisfa anche forti elementi di identità regionale e di competizione territoriale: la richiesta di maggiore autonomia da parte delle Regioni che l'hanno già formulata anche di recente è un modo per avere servizi e politiche pubbliche che consentano loro di avere un potenziale in più, in quella che non è una competizione nazionale, ma una competizione europea e, per certi aspetti, mondiale, come vedremo tra un momento.
  L'idea principale è anche quella di garantire una maggiore efficienza finanziaria, non soltanto in termini di spesa, ma anche in termini di realizzazione delle politiche. Anche questo profilo potrebbe rappresentare un vantaggio per tutto il territorio nazionale e non soltanto per le Regioni che lo richiedano.
  Piuttosto che di rischio di asimmetria, bisognerebbe parlare dei limiti e delle condizioni da rispettare. Lo dico perché questo è un tema un po’ in ombra. Soprattutto nel momento in cui il processo si avvia, l'asimmetria trova dei limiti nelle disuguaglianze create: c'è un momento iniziale in cui, di fatto, si squilibra la posizione delle Regioni, le quali non possono andare oltre una certa soglia, nell'ambito del sistema regionale nel suo complesso.
  Ciò vuol dire che il parametro dell'esercizio delle competenze asimmetriche e del conferimento delle relative risorse finanziarie risiede essenzialmente nell'articolo 120, secondo comma, della Costituzione, che richiede che sia mantenuta «la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali».
  Inoltre, da questo punto di vista, l'asimmetria sarebbe comunque sottoposta al rispetto del libero transito dei beni e della libera circolazione delle persone e delle cose, nell'esercizio del diritto del lavoro in qualunque parte del territorio nazionale.
  Da questo punto di vista, non si può prospettare l'asimmetria come una clausola che consenta di affidare il Veneto ai veneti e la Sicilia ai siciliani, per esempio.
  Infine, le forme e le condizioni particolari di autonomia non esonerano la Regione che le ha ottenute dall'obbligo di dare il suo contributo solidale alle altre Regioni e alla Repubblica, anzi occorre dire che le Regioni con maggiore capacità fiscale devono dare alla perequazione territoriale una parte del loro gettito, anche se, per quest'ultimo aspetto, appare ormai maturo il tempo di sperimentare procedure più innovative, sulla scorta di esempi che derivino anche dalla comparazione e che facciano del coordinamento della finanza pubblica non un limite da opporre alle Regioni, bensì una politica attiva, cui le Regioni possano partecipare, al fine di rendere più efficiente la perequazione territoriale.
  In conclusione, non vi è motivo di ritenere, almeno allo stato, che l'asimmetria costituisca l'anticamera di una richiesta di secessione.
  Quali conseguenze – si chiede nel terzo quesito – comporterebbe l'attuazione dell'articolo 116, terzo comma, in caso di attribuzione alla Regione di competenze legislative e in caso di attribuzione di competenze amministrative? Come si dovrebbe, eventualmente, procedere, nel caso in cui si ritenga necessario tornare indietro rispetto all'attribuzione di maggiore autonomia?
  Da questo punto di vista, la prima considerazione è che l'attuazione dell'articolo 116 richiede un forte approccio nazionale e, per ciò stesso, unitario, dal momento che un'autonomia consolidata può rivelarsi efficace e produrre risultati solo in un contesto in cui siano rafforzati anche i compiti riconosciuti al centro, soprattutto verso l'esterno, nei confronti dell'Europa e delle sedi di negoziazione internazionali, ma anche verso l'interno, per cui la simmetria non deve essere vissuta come una spoliazione dei poteri del centro.
  In tal senso, bisogna considerare che il regionalismo italiano e le autonomie locali si collocano all'interno del contesto dell'ordinamento repubblicano non soltanto per soddisfare quelle esigenze che furono fatte proprie dall'Assemblea costituente, come la diffusione della democrazia, la ricostruzione, Pag. 10 il superamento della questione meridionale, e via dicendo, ma anche tenendo conto dell'attuale condizione in cui si trova la Repubblica.
  Il fondamento del regionalismo attuale è molto più prossimo a essere spiegato in relazione al sistema di internazionalizzazione dell'economia e al processo di integrazione europea, che rimane centrale, nonostante le recenti vicende dell'Unione europea.
  Da questo punto di vista, il regionalismo diventerebbe l'assetto istituzionale più idoneo a consentire agli organi di governo dello Stato di proteggere gli interessi nazionali, laddove questi si confrontano con quelli degli altri Stati, e di dedicare particolare attenzione a quelle negoziazioni internazionali ed europee da cui può derivare la loro salvaguardia.
  Sul piano interno, le istituzioni statali sono chiamate a migliorare le politiche di loro competenza e il loro ruolo complessivo, senza pensare che la soluzione debba essere quella di cercare di bloccare le spinte autonomistiche, che provengono da queste Regioni.
  Da questo punto di vista, compete al centro la visione strategica del Paese, che non sempre vi è stata. Possiamo dire che, molte volte, al cambio di maggioranza, abbiamo assistito anche al cambio della visione strategica del Paese e al fatto che mancasse una visione strategica della Repubblica e della sua collocazione internazionale comune alle diverse forze presenti in Parlamento.
  A ciò si aggiungono, oltre alle classiche funzioni statali, rappresentate da feluca, toga, spada e moneta, alcune funzioni strutturalmente riconducibili a livello centrale, come la perequazione o anche la spesa da parte dello Stato con risorse aggiuntive o con interventi speciali per determinati territori, che servono, anche in questo caso, a garantire un miglioramento delle condizioni di sviluppo del Paese nel suo complesso.
  Infine, il ruolo dell'istituzione statale centrale è quello di raccordare le istituzioni stesse con i diversi livelli di governo. Su questo terreno, come voi sapete, manca ancora oggi una serie di strumenti di collegamento dei livelli di governo e delle diverse istituzioni (Governo e Parlamento, in modo particolare).
  Per quanto riguarda gli effetti che comporta il riconoscimento di forme e condizioni particolari di autonomia, occorre ricordare che la clausola di asimmetria concerne direttamente tre materie del secondo comma dell'articolo 117: l’«organizzazione della giustizia di pace», le «norme generali sull'istruzione» e la «tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali». Poi, ci sono tutte le materie del terzo comma dell'articolo 117, le cosiddette materie concorrenti.
  Badate che, da questo punto di vista, la norma farebbe pensare a un potenziamento della potestà legislativa concorrente delle regioni perché questo è l'oggetto che, in via di principio, la disposizione costituzionale pone al centro dello spostamento in termini di maggiore competenza. In tal senso, l'acquisizione della disciplina avverrebbe, nel caso delle competenze esclusive, non integralmente, ma sottoposta a principi desumibili dalla legislazione statale, il che è particolarmente rilevante, soprattutto per quello che riguarda le «norme generali sull'istruzione».
  Per quanto riguarda le competenze concorrenti, vi sarebbe uno spostamento delle competenze legislative per le materie espressamente enumerate nei cataloghi costituzionali, che le Regioni dichiarano di voler assumere in via asimmetrica.
  Resterebbero formalmente fuori da questo contesto le materie di competenza residuale dell'articolo 117, quarto comma, perché di esse non vi è menzione. Da questo punto di vista, la lettura formale della disposizione non è soddisfacente.
  Vi sono materie concorrenti che non possono essere integralmente trasferite alle Regioni. In modo particolare, faccio riferimento alla materia del «coordinamento della finanza pubblica», per espressa disposizione dell'articolo 119 della Costituzione, che viene richiamato nell'articolo 116, terzo comma, e a cui deve sottostare tutta la procedura asimmetrica. Pag. 11
  C'è un'altra materia che non può essere «maggiorata» in via simmetrica: i «rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni». Per questo tipo di competenze, vi sono delle clausole, nel quinto e nel nono comma dell'articolo 117, che non rendono eludibile il rapporto con la legge statale, cioè la legge di principio che determina le possibilità per le Regioni di agire in questi campi.
  È ovvio che per tutti i legislatori valgono i vincoli dell'articolo 117, primo comma, quindi quelli della Costituzione, in particolare, e quelli dell'ordinamento europeo, oltre gli obblighi internazionali, ma questo comporta che determinate materie del terzo comma non possano essere acquisite in una misura diversa rispetto alla regolamentazione che hanno in questo momento. Mi riferisco in modo particolare alle materie relative a «casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale» nonché a quelle relative a «enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale». Per queste materie, infatti, valgono le stringenti regole europee sulle banche, che sottopongono a una disciplina del tutto atipica la possibilità di poter gestire questi soggetti.
  Inoltre, le competenze legislative – ritornerò sul quarto comma tra poco – si porterebbero conseguentemente dietro tutte le funzioni amministrative di riferimento, in base all'articolo 118, secondo comma, che prevede l'attribuzione a Comuni, Province e Città metropolitane di funzioni amministrative proprie conferite dallo Stato o dalla Regione, secondo le rispettive competenze, quindi alla materia corrisponde la possibilità di individuare e disciplinare le funzioni legislative.
  Non vi dovrebbe essere, in realtà, nessuno spostamento amministrativo in più da questo punto di vista perché formalmente le materie del terzo comma confermerebbero integralmente le funzioni amministrative alle Regioni. Tuttavia, è evidente che ciò non si verifica per certi aspetti.
  In via di principio, nella richiesta di asimmetria non sarebbe ammissibile una frammentazione delle materie della legislazione né una scelta delle funzioni amministrative perché le materie dovrebbero transitare in via diretta, secondo il canone della competenza esclusiva o il canone della competenza concorrente, nel caso delle materie del secondo comma.
  In realtà, una frammentazione della materia o un riferimento a funzioni amministrative, pretesi in modo espresso, anche nelle proposte avanzate dalle tre Regioni, deve ritenersi ammissibile per quelle materie che sistematicamente non risultino acquisibili in via esclusiva, come quelle di competenza statale, ma anche per le competenze concorrenti, per il modo in cui si è evoluto il riparto delle competenze tra lo Stato e le Regioni.
  Com'è noto, anche dopo l'entrata in vigore della revisione del 2001, lo Stato ha continuato a legiferare nelle materie di competenza concorrente, non limitandosi a disciplinarne semplicemente i principi fondamentali, ma disciplinando per intero le materie, o intervenendo, in un modo o nell'altro, nei campi materiali che formalmente dovevano essere riservati alla competenza concorrente delle Regioni. Anche grazie a una particolare giurisprudenza della Corte costituzionale, questo è stato ritenuto possibile, attraverso quella che la stessa Corte ha definito la «chiamata in sussidiarietà» oppure il ruolo delle «materie trasversali» o delle «materie-funzioni» oppure il principio di prevalenza della legge dello Stato o ancora l'intreccio delle competenze, e via dicendo...
  Di fatto, si è assistito in questi anni allo spostamento di oggetti della legislazione o al mantenimento di oggetti della legislazione in capo allo Stato, che rientrerebbero nelle materie enumerate a favore delle Regioni.
  Uno degli effetti dell'articolo 116, terzo comma, dovrebbe essere quello di impedire, per le materie attribuite in via asimmetrica, che le clausole di attrazione della competenza regionale, anche se compensate nella logica della giurisprudenza della Corte costituzionale con procedure collaborative, possano non avere effetti nei confronti della Regione interessata. Non avrebbe senso il fatto che una Regione richieda maggiori competenze in materia di «governo del territorio» e una qualunque legge Pag. 12dello Stato, che, in modo trasversale, interviene su quella materia, possa colpire anche la Regione che ha chiesto maggiori competenze. In questo caso, l'effetto dell'asimmetria sarebbe vanificato.
  Il fatto che la giurisprudenza della Corte e la legislazione dello Stato si siano mosse in questo modo ha avuto notevoli conseguenze anche per le materie del quarto comma dell'articolo 117, che sono anche materie di rilievo e particolarmente importanti e di cui c'è traccia anche nelle proposte richieste. Pensate all’ «agricoltura» o ai «servizi sociali» o alle «attività produttive», per cui le Regioni sono titolari di un'apposita imposta e svolgono una serie di attività.
  Per tutto l'ambito materiale del quarto comma, la Corte costituzionale ha ammesso che, comunque, lo Stato potesse entrare in merito, per cui uno degli squilibri che si potrebbe creare è che le Regioni potrebbero, in via ipotetica, potenziare con l'asimmetria la loro autonomia nelle materie concorrenti, ma rimarrebbero svuotate nelle materie del quarto comma, perché l'interpretazione del quarto comma non è stata nei termini dell'espressione della disposizione costituzionale, secondo cui la competenza spetta sempre alle Regioni, salvo che nelle materie espressamente riservate alla competenza esclusiva dello Stato. A partire dalla sentenza n. 370 del 2003, la Corte costituzionale ha infatti affermato che la circostanza per cui una materia non sia inclusa né nell'elenco del secondo comma né in quello del terzo comma non vuol dire che cada automaticamente nel quarto comma.
  Da questo punto di vista le Regioni potrebbero chiedere, come, di fatto, accade in alcuni punti del disegno di legge del Veneto, non solo il rafforzamento di materie del terzo comma, ma anche quello di materie che formalmente sarebbero incluse nel quarto comma.
  Ciò non esclude peraltro che ci sia bisogno di un coordinamento legislativo, anche tra le competenze asimmetriche e le competenze residue dello Stato, anche perché queste possono intervenire nella medesima politica o possono avere effetti tra politiche di competenza regionale e politiche di competenza dello Stato. In tal caso, lo schema collaborativo dovrebbe essere diverso da quello sin qui proposto dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale e molto più simile a una negoziazione delle norme statali limitative, anche in via esclusivamente bilaterale; ciò vuol dire che le Regioni, in quanto titolari di funzioni asimmetriche, dovrebbero sedersi, ogni volta che lo Stato manifesti esigenze di coordinamento, e avere un coordinamento cui prestare un assenso preventivo.
  Infine, in merito al possibile ritorno alla legislazione statale delle materie che hanno formato parte dell'attribuzione di maggiore autonomia, sono percorribili due vie: una via consensuale e una via unilaterale. Formalmente, sulla via consensuale, non dovrebbero esserci dubbi perché, così come la fonte che interviene è una legge previa intesa, con una legge previa intesa si potrebbe tornare indietro. In realtà, a prescindere dalla valutazione che questo comporterebbe in termini di gestione da parte della Regione, questa ipotesi non dovrebbe essere ammissibile, atteso che l'esercizio delle funzioni attribuite non può essere giuridicamente messo in dubbio o revocato, se non in via di fatto, e che lo Stato e le Regioni non possono esimersi costituzionalmente dall'ottemperare l'esercizio dei poteri delle funzioni proprie.
  Si può aggiungere, a parziale limitazione di questo discorso, che un dibattito simile si è svolto in Spagna durante gli anni della crisi, in cui le diverse Comunità autonome avevano pensato di restituire la scuola e la sanità al Governo centrale. Concretamente, anche in quel caso, non si addivenne ad alcuna modifica degli Statuti.
  Più complesso appare, invece, l'esercizio di un intervento unilaterale dello Stato sulle materie che hanno formato oggetto di un'intesa. Innanzitutto, questa ipotesi contrasterebbe con il sistema delle fonti, quindi non sarebbe possibile un intervento unilaterale con un atto di legislazione ordinaria. Forse ciò sarebbe anche possibile – vedremo in che misura nell'ultimo caso – con un decreto-legge. Pag. 13
  Secondariamente, dal punto di vista sostanziale, se la legislazione regionale non determina un superamento dei limiti di cui abbiamo parlato e delle condizioni cui è sottoposta l'asimmetria, non sussiste ragione perché lo Stato intervenga con la sua legislazione. Si può anche pensare a un controllo e un monitoraggio della legislazione regionale su questa materia, ma, in via di principio, sino a quando le funzioni siano esercitate entro i limiti e i confini con le risorse pattuite, non c'è nessun motivo di riconsiderare il nuovo riparto di competenza.
  L'unica ipotesi nella quale si possa ammettere un intervento statale unilaterale è quella in cui si indichino casi concreti per i quali i limiti e le condizioni dell'asimmetria non siano stati rispettati, anche per un comportamento omissivo.
  In questa fattispecie, infatti, troverebbe fondamento, sia pure con una procedura ispirata ai principi di sussidiarietà e di leale collaborazione, l'esercizio del potere sostitutivo di cui all'articolo 120, secondo comma.
  In tale ultima evenienza, che consente la verifica dell'uso delle competenze acquisite asimmetricamente, si porrebbe il problema se questi interventi non debbano implicare anche una valutazione del comportamento degli organi regionali alla luce del disposto dell'articolo 126, cioè proporre uno scioglimento del Consiglio e la rimozione del Presidente.
  Dal punto di vista procedurale, come deve articolarsi il procedimento dell'articolo 116, terzo comma? Il procedimento prevede cinque momenti: l'iniziativa; la consultazione degli enti locali; il rispetto dei principi dell'articolo 119; l'intesa tra lo Stato e la Regione; l'approvazione della legge da parte delle Camere a maggioranza assoluta.
  In questo caso, l'iniziativa si può avere per due vie: o da parte della Giunta rivolta al Governo oppure da parte di un'iniziativa del Consiglio regionale direttamente alla Camera, come diceva il professor D'Atena, per effetto del disposto dell'articolo 121, secondo comma, che troverebbe applicazione in questo caso.
  Tenete conto che tutte le volte che la Costituzione parla di iniziativa, tranne che nel caso dell'iniziativa economica privata dell'articolo 41, ne parla in senso tecnico, nel senso di iniziativa legislativa, quindi, in via di principio, si deve presumere che anche in questo caso si faccia riferimento a questo tipo di iniziativa.
  Per contro, quando si parla di intesa, in genere nel linguaggio della legislazione, l'intesa interviene tra gli organi esecutivi, cioè tra il Governo e la Giunta. Di qui la necessità di combinare queste due ipotesi, anche se una parte della dottrina ritiene che l'intera procedura e l'intera negoziazione possano essere di ambito parlamentare, come accadeva prima della modifica del 2001 con l'approvazione degli Statuti ordinari, che erano sottoposti ad approvazione da parte delle Camere, una volta deliberati dal Consiglio regionale.
  Tenete conto che, anche se in quel momento storico questa procedura non aveva senso perché gli Statuti ordinari non avevano, come non hanno tuttora, attinenza con il riparto delle competenze, tale procedura era ispirata dal sistema spagnolo, in cui gli Statuti delle Comunità autonome costituiscono la norma sulla competenza concreta della Regione, in quanto le competenze offerte dalla Costituzione devono essere validate dall'assunzione concreta all'interno dello statuto stesso. Da questo punto di vista, la procedura potrebbe, quindi, essere integralmente parlamentare.
  In concreto, come sapete, la regione Veneto ha fatto prima un atto di giunta e poi un atto di iniziativa, che ha già deliberato in consiglio, senza aver sentito gli enti locali, peraltro. Tale atto non è perfetto nella formazione e non è stato consegnato alle Camere, ma al Presidente del Consiglio dei ministri, quindi siamo in una fase in cui ancora la procedura non è del tutto definita.
  Inoltre, se mi permettete, darei un suggerimento alla Commissione su quello che si può fare per migliorare questo procedimento.
  La consultazione degli enti locali a mio avviso deve avvenire attraverso il Consiglio delle autonomie locali, che la Costituzione Pag. 14definisce «organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali», ma il problema è capire quando la consultazione debba intervenire. Formalmente, la disposizione costituzionale prevede che l'iniziativa sia preceduta dalla consultazione. Tuttavia, se si ragiona sistematicamente, non meno significativa dovrebbe essere la consultazione alla fine della negoziazione sull'intesa raggiunta, che darà vita alla collocazione asimmetrica delle competenze.
  Quali elementi potrà disciplinare la legge statale dopo l'intesa? Io interpreto questa legge – e mi è sembrato di capire che anche il professor D'Atena fosse d'accordo – come una legge meramente formale, che può approvare a maggioranza assoluta, negare l'approvazione o non raggiungere la maggioranza assoluta. Tuttavia, dopo l'intesa, non vi può essere una modifica unilaterale da parte delle Camere al contenuto e al testo dell'intesa stessa.
  Oltre che formale, la legge sarebbe atipica perché questa servirebbe a rivestire l'intesa della forma della legge e sarebbe rafforzata perché la legge chiede la maggioranza assoluta dei componenti.
  Occorrerebbe in proposito approvare una legge di attuazione?
  Anche io ricordo il disegno di legge del 21 dicembre 2007, ma ritengo che non ci sia tale necessità, come non c'è nel caso della legge previa intesa dell'articolo 8 della Costituzione con le confessioni acattoliche.
  Non dobbiamo dimenticare che l'articolo 116, terzo comma, disciplina una fonte primaria. Il sistema delle fonti primarie è concluso a livello costituzionale, per cui una legge ordinaria per disciplinare una legge rafforzata sarebbe, per certi aspetti, contraddittoria. Ciò non vuol dire che le Camere non possano assumere alcune iniziative con riferimento a quest'oggetto, ma che lo possano fare in un modo diverso.
  Che cosa implica il richiamo al rispetto dei principi del federalismo fiscale?
  Oltre al problema dell'armonia con la Costituzione e i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, secondo me, dall'articolo 119 traspaiono alcune regole che devono essere tenute presenti: un bilancio in equilibrio; un debito pubblico più che sostenibile; una capacità fiscale adeguata; un sistema tributario che non abbia esercitato tutta la pressione fiscale; una finanza degli enti locali equilibrata; l'assenza di piani di rientro o di forme di commissariamento statale. Lo dico perché, altrimenti, non ci sono i presupposti del rispetto dei principi dell'articolo 119.
  Inoltre, a fronte di tutte queste condizioni, sul terreno dell'articolo 119 si apre un'incognita su come debba avvenire il trasferimento delle ulteriori risorse, ossia se queste debbano essere fiscalizzate oppure se ci debbano essere dei veri e propri trasferimenti con fondi su cui si agisce.
  Sulle tre iniziative, come sapete, c'è stata una proposta di legge, con le vicende che abbiamo già detto e le due risoluzioni che impegnano il presidente della rispettiva giunta ad aprire un negoziato. C'è anche l'indicazione delle materie e via dicendo.
  In altra sede, ho cercato di tratteggiare anche il contenuto delle materie e quello che si può fare, ma qui non è possibile entrare nell'ambito delle singole proposte.
  Entro nel merito solo di un punto molto rilevante: l'articolo 2 della proposta di legge del Veneto avanza la pretesa per cui il gettito dei nove decimi delle principali imposte erariali sia trasferito alla Regione, cui si accompagnano altre specifiche disposizioni su particolari imposte, come, per esempio, l'imposta del bollo, e altre riferite alle risorse di fondi rotativi nazionali, che verrebbero segmentati regionalmente e separati dal resto del fondo, in modo che i contributi versati nel fondo da parte delle imprese regionali in nessun caso possano essere utilizzati da parte di imprese di altre parti del territorio.
  La richiesta del Veneto è comprensibile in ragione della concorrenza realizzata da parte delle contermini Province autonome di Trento e di Bolzano e della Regione Friuli Venezia Giulia.
  Voi avete deliberato una legge con cui – per carità – un Comune di 1.300 anime passa dal Veneto al Friuli Venezia Giulia, ma, tre giorni dopo l'approvazione di questa legge, sul Corriere del Veneto è apparso un elenco in cui le province di Trento e Pag. 15Bolzano hanno dichiarato quali Comuni del Veneto intenderebbero accettare e quali non intenderebbero accettare, tra cui anche Cortina; c'è quindi un elemento di concorrenza particolare.
  Nonostante ciò, non dobbiamo dimenticare che esiste una profonda differenza fra la finanza speciale delle Regioni a statuto speciale e la finanza ordinaria, cui anche la procedura di asimmetria è sottoposta, per via del richiamo nell'articolo 116, terzo comma, dell'articolo 119. Peraltro, la specialità della finanza delle Regioni speciali non è giustificata dal novero delle competenze in concreto esercitate.
  Quello è un caso di disposizione costituzionale derogatoria, mentre un altro caso è quello delle competenze che loro hanno concretamente esercitato. Queste possono essere anche di più, ma non è detto che siano sempre di più o uguali per tutte le Regioni. Mi riferisco in modo particolare a competenze che il Trentino-Alto Adige e le due Province hanno assunto, ma anche a quelle che ha assunto la Valle d'Aosta e il Friuli Venezia Giulia e a quelle che la regione Sicilia non ha assunto, pur avendo i dieci decimi delle imposte, quindi, da questo punto di vista, dovrebbero rimanere fermi i parametri dell'articolo 119.
  Il tema è complesso per via del tipo di richieste arrivate e la negoziazione dell'intesa fra le Regioni e il Governo sta procedendo su vie diverse.
  Ora sarebbe opportuno, da questo punto di vista, che l'attività governativa, che ormai sembra ineludibile, nell'ambito dell'articolo 116, terzo comma, fosse preceduta da una risoluzione delle Camere, predisposta magari dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali, possibilmente di concerto con la Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale, in modo da indicare alcune coordinate della negoziazione e, in primo luogo, quella di mettere in linea le competenze comuni richieste dalle diverse Regioni.
  Lo dico perché, se osservate le risoluzioni e le confrontate con la proposta del Veneto, noterete che esiste un pacchetto di competenze, di materie e di funzioni, che sono asimmetricamente richieste, quindi queste potrebbero formare oggetto della negoziazione.
  Quest'aspetto è importante perché lo Stato potrebbe applicare in maniera omogenea determinati parametri e sarebbe percepibile il risparmio che lo Stato otterrebbe dall'asimmetria, chiudendo determinati uffici o riducendoli per le altre Regioni.
  In secondo luogo, se è vero che il nodo del regionalismo asimmetrico resta quello del regionalismo, cioè l'equilibrio territoriale grazie alla collaborazione fra centro e territori, e che nell'asimmetria troverebbe applicazione il principio unitario della Repubblica una e indivisibile, bisogna anche dire che è vero che l'unità della Repubblica non dipende dalla quantità di competenze esercitate dalle Regioni, ma da un principio del regime politico.
  Tuttavia, non può essere disgiunto da qualche perplessità il fatto che solo le tre grandi Regioni contermini del nord abbiano chiesto questo tipo di autonomia. Messe insieme, queste tre Regioni cumulano, secondo i dati del 2016, poco meno di un terzo della popolazione nazionale, ma più del 40 per cento del PIL nazionale e, soprattutto, il 54,3 per cento delle esportazioni.
  Da ciò deriva la preoccupazione che tali richieste possano discendere dalla volontà di formare un blocco territoriale del nord, rispetto al quale lo Stato centrale può rispondere non certamente negando ogni validità alla pretesa di maggiore autonomia regionale, bensì governando questo processo.
  A tal fine, lo Stato dovrebbe assicurare un contesto unitario, migliorando e intensificando, come abbiamo già detto, gli interventi di perequazione territoriale, ma, al contempo, dovrebbe stimolare la crescita autonomistica delle altre Regioni italiane. Inoltre, qualora queste non dovessero corrispondere a una maggiore assunzione di responsabilità, potrebbero mettere in discussione la tutela dell'unità giuridica ed economica, che può essere messa in discussione dalle Regioni che chiedono l'asimmetria, ma anche dalle Regioni che non fanno nulla. Pag. 16
  Certo, non si può tarare il livello regionale sulle Regioni che non fanno nulla o che fanno ben poco nel nostro Paese, per cui, qualora il comportamento delle altre Regioni dovesse essere totalmente negligente, come in molti casi è successo, la minaccia della tutela dell'unità giuridica e dell'unità economica deriverebbe da quel comportamento. Nei confronti di queste Regioni, se altri stimoli non avessero effetto, bisognerebbe azionare i poteri sostitutivi di commissariamento. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie, professor Mangiameli.
  Non essendoci domande o richieste di chiarimento, se i colleghi sono d'accordo ed eventualmente ci fosse la disponibilità dei professori a dare qualche chiarimento specifico, potremmo formulare ulteriori richieste di domande o di chiarimenti per iscritto, considerato che dobbiamo chiudere l'audizione per via dei lavori dell'Assemblea.
  Ringrazio gli intervenuti e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 9.15.