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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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XVII Legislatura

Commissione parlamentare per le questioni regionali

Resoconto stenografico



Seduta n. 15 di Giovedì 5 maggio 2016

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE FORME DI RACCORDO TRA LO STATO E LE AUTONOMIE TERRITORIALI, CON PARTICOLARE RIGUARDO AL «SISTEMA DELLE CONFERENZE»

Audizione del professor Massimo Luciani.
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 3 
Luciani Massimo , Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Roma «La Sapienza» ... 3 
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 7 
Ribaudo Francesco (PD)  ... 7 
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 8 
Luciani Massimo , Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Roma «La Sapienza» ... 8 
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 8 
Lanièce Albert  ... 9 
Luciani Massimo , Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Roma «La Sapienza» ... 9 
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 10

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
GIANPIERO D'ALIA

  La seduta comincia alle 8.40.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.

  (Così rimane stabilito).

Audizione del professor Massimo Luciani.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di Massimo Luciani, professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Roma «La Sapienza», nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle forme di raccordo tra lo Stato e le autonomie territoriali, con particolare riguardo al sistema delle conferenze.
  Nel ringraziare il professor Luciani per la sua disponibilità, gli cedo la parola per lo svolgimento della sua relazione.

  MASSIMO LUCIANI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Roma «La Sapienza». Grazie presidente. Ringrazio molto la Commissione per l'invito a partecipare a questa indagine conoscitiva su una questione che ritengo veramente centrale.
  La Commissione ha posto sei quesiti, che toccano questioni diverse. Tuttavia, tali questioni sono tutte interne a una problematica generale che è caratterizzata, secondo me, da una complessiva unitarietà. Ciò suggerisce di dare una risposta unitaria e non partitamente differenziata per i singoli interrogativi. Pertanto, non risponderò ai singoli interrogativi partitamente, ma cercherò di farlo nel contesto di un discorso che spero sarà omogeneo.
  Preliminarmente, farei qualche precisazione sul contesto generale, cioè sui modelli di federalismo ovvero di regionalismo che sono posti alla nostra attenzione dall'analisi comparata.
  Questi modelli sono sostanzialmente tre: quello competitivo, quello garantista o regolativo e quello cooperativo.
  Secondo la mia modesta opinione, i primi due modelli, competitivo e garantista, sono del tutto inadeguati, specialmente per un Paese come l'Italia.
  Il modello competitivo, che intende esaltare la concorrenza fra gli enti territoriali, allo scopo di attirare risorse, persone e investimenti, mi sembra di problematica applicazione in una realtà economico-sociale che è attraversata da linee di frattura così pronunciate che è impossibile immaginare una vera competizione. Il modello competitivo presuppone, infatti, un minimo di omogeneità tra i competitori.
  Il modello garantista o regolativo, che, come sapete, è incentrato sulla definizione di sfere di competenza che sono fissamente determinate per il centro e per la periferia, è affetto da un'eccessiva rigidità, che lo rende incapace di adattarsi alle multiformi e variabili esigenze di società che sono sempre più complesse.
  Resta evidentemente il modello cooperativo, il cui obiettivo è la solidarietà fra i molteplici livelli di governo, che sono chiamati a interagire per la massimizzazione dell'interesse comune, soprattutto attraverso l'applicazione del canone della leale Pag. 4collaborazione, che sarà il fulcro della mia esposizione.
  Credo si possa dire con ragionevole sicurezza che la Costituzione nel suo testo originario non abbia operato una chiara scelta di campo fra questi modelli. In particolare, è rimasta incerta fra il modello garantista o regolativo e il modello cooperativo.
  Mi pare che la stessa carenza di una scelta chiara si rinvenga anche nella legge costituzionale n. 3 del 2001, che, come ricordate, ha interamente modificato il Titolo V.
  Mi sembra più rilevata la propensione in favore del modello cooperativo nella legge di revisione costituzionale che è stata definitivamente approvata dalla Camera il 12 aprile di quest'anno, sebbene la premessa dalla quale la riforma ha preso le mosse, a mio modesto parere, sia fallace.
  Si è sostenuto, infatti, che il contenzioso costituzionale fra lo Stato e le Regioni sarebbe stato alimentato essenzialmente dalle materie di competenza concorrente, mentre risulta che le principali controversie sono state sollecitate, semmai, dalle materie cosiddette «trasversali» di competenza esclusiva statale (penso alla concorrenza e all'ordinamento civile) e da una materia di competenza concorrente, qual è il coordinamento della finanza pubblica, che però la giurisprudenza costituzionale da subito ha configurato, in realtà, come sostanzialmente esclusiva statale.
  Nel contesto di un modello cooperativo, ovviamente gli istituti di coordinamento fra centro e periferia acquistano una centralità assoluta. Ora si tratta di capire se – va da sé che resta ferma l'incognita del risultato referendario – il nuovo Senato sia in grado di esaurire in sé l'intera funzione, oppure se compiti di coordinamento possano essere o addirittura debbano essere esercitati anche da istituzioni diverse. Basta il Senato per la razionalizzazione del modello cooperativo oppure occorre altro?
  È evidente che allo stato mancano alcuni dati essenziali. In particolare, non sappiamo quale sarà il contenuto della legge elettorale del Senato e non possiamo immaginare quali saranno le strategie delle forze politiche sulla sua composizione.
  Questo è un punto cruciale, sul quale mi permetto di richiamare l'attenzione della Commissione. Infatti, non possiamo sapere in questo momento se le forze politiche punteranno su candidature forti e autorevoli oppure su scelte di secondo piano e scarsamente rappresentative. Questo condizionerebbe molto pesantemente il funzionamento del Senato.
  Non possiamo prevedere con affidabile sicurezza se nella seconda Camera gli schieramenti si articoleranno in base a cleavages o fratture politiche ovvero territoriali. Di conseguenza, viviamo sotto il velo dell'ignoranza.
  Nonostante questo – perché se ci accontentassimo di dire che non sappiamo molte cose sarebbe inutile confrontarci – penso che alcune primissime considerazioni possano essere sviluppate. Inizierei con la constatazione che la ridefinizione della composizione e delle attribuzioni del Senato non toglie ragion d'essere al sistema delle conferenze.
  In primo luogo, si deve considerare che il principio di leale collaborazione, che è imposto dalla costante giurisprudenza costituzionale e che è diventato ancora più centrale ora che la scelta per il modello cooperativo sembra essersi fatta più netta, non conosce una sola forma di manifestazione.
  Come risulta dalla giurisprudenza costituzionale, almeno a mio parere, opera su quattro piani: il primo è la partecipazione ai processi decisionali; il secondo è quello delle intese e degli accordi generali; il terzo è quello delle intese e degli accordi individuali; il quarto è quello della definizione di determinazioni centrali che siano ispirate a ragionevolezza, proporzionalità e sussidiarietà.
  In altre parole, una scelta nazionale, che sia legislativa o meno, è conforme al principio di leale collaborazione se è ragionevole, proporzionale e ispirata alla sussidiarietà. Non lo dico io, ma lo affermò la Corte costituzionale già nella sentenza n. 303 del 2003, che, come la Commissione sa perfettamente, è una sentenza di sistema, sulla Pag. 5quale si disse che aveva riscritto il Titolo V a due anni dalla sua approvazione.
  Questo quarto piano attiene al contenuto delle singole decisioni e, quindi, ha un profilo sostanziale che non rileva in questa sede. Pertanto, possiamo accantonarlo.
  Quanto agli altri tre, mi pare evidente che l'avvento del nuovo Senato comporterebbe un diverso coinvolgimento delle autonomie sul primo terreno, quello della partecipazione, perché effettivamente quest'ultima sarebbe già garantita per molti profili in Senato.
  Tuttavia, questo non basterebbe a cancellare l'esigenza del «sistema delle conferenze». Per un verso, non farebbe venir meno l'opportunità di ulteriori forme di partecipazione e, per l'altro, non sposterebbe i termini del problema sugli altri due terreni rilevanti: intese e accordi generali e individuali.
  In particolare il secondo terreno, quello delle intese e degli accordi di carattere generale, è il terreno tipico di intervento del «sistema delle conferenze», che non verrebbe meno con la nuova struttura costituzionale. Questo è un punto, secondo me, centrale.
  Il nuovo Senato non può essere la sede di accordi intersoggettivi, ma solo di accordi intrasoggettivi. È vero che il Senato rappresenta le istituzioni territoriali, ma queste non sono direttamente presenti in quel ramo del Parlamento nella forma di distinte delegazioni, sicché non è possibile che esse vi stipulino pattuizioni giuridicamente qualificate. Le intese, se sono intersoggettive, non si possono fare in Senato.
  Anche in questo caso per consolidata giurisprudenza costituzionale, l'intesa, che è uno strumento essenziale del regionalismo cooperativo, forte o debole che sia, deve avere evidentemente la possibilità di stringersi altrove.
  Talora ovviamente si collocherà nella sede dei rapporti bilaterali fra lo Stato e la Regione o la Provincia autonoma interessata, talaltra e più frequentemente si costruirà in una sede collegiale. Questa sede esiste già ed è la Conferenza Stato-Regioni. Ovviamente, qualora fossero coinvolte le istituzioni sub-regionali, interverrebbero la Conferenza Stato-Città e la Conferenza unificata.
  Se è questa la logica del regionalismo cooperativo, a me sembra che l'eventuale presenza dei Presidenti di Regione in Senato non potrebbe avere effetti sostitutivi dell'intervento delle Conferenze, innanzitutto perché i Presidenti sarebbero onerati di gravosi impegni in sede locale. Pertanto, mi sembra difficile immaginare che possano assolvere con rigorosa assiduità l'impegno senatoriale, tanto più per profili di questa importanza e delicatezza.
  In secondo luogo, come accennavo poc'anzi, la legge di revisione disegna il Senato come sede di moderazione o, tutt'al più, di mediazione del conflitto centro-periferia, ma non come luogo di stipulazione di vere e proprie intese.
  Non di meno – questo è un altro punto importante – come accennavo, è ragionevole immaginare che l'avvento di una nuova sede partecipativa determinerebbe l'opportunità di un alleggerimento di alcuni compiti attualmente assegnati alle conferenze.
  Questo riguarda, a mio avviso, soprattutto il dominio dei pareri. Il fenomeno potrebbe anche essere visto con favore, perché una delle principali criticità che sembrano caratterizzare oggi il «sistema delle conferenze» è proprio il sovraccarico di attività consultiva che lo grava. Se le conferenze si concentrassero sul terreno dell'interlocuzione diretta con lo Stato per il profilo della stipulazione di intese e di accordi, questo sarebbe opportuno.
  L'avvento del nuovo Senato non determinerebbe il venir meno della funzione del «sistema delle conferenze». Tuttavia, ho anche detto che questo sistema non potrebbe continuare a funzionare senza alcuna variazione rispetto alla situazione attuale.
  Il terreno dell'integrazione europea, che voi avete segnalato nei quesiti che avete posto agli auditi, è molto significativo. Nella seconda Camera, infatti, si dovrebbe realizzare il coordinamento alto fra il centro e la periferia in rapporto alle esigenze poste dall'integrazione europea.
  A me personalmente sembra evidente che in quella sede sarebbe impossibile un Pag. 6esame tecnico congiunto del loro impatto nell'ordinamento nazionale a tutti i livelli. Di conseguenza, è probabile che il Senato tenderà a occuparsi dell'impatto delle condizioni europee sulla legislazione, mentre le conferenze dovrebbero abbandonare questo campo, occupandosi essenzialmente dell'impatto sull'amministrazione. Tornerò fra poco sulla distinzione tra legislazione e amministrazione.
  Va considerato, inoltre, che il Senato non ha in materia alcuna competenza esclusiva, ma, ai sensi del novellato articolo 55 della Costituzione, concorre e partecipa alla relativa funzione. Ciò vuol dire che il passaggio senatoriale non può esaurire il procedimento.
  Tuttavia, l'apporto della seconda Camera non può essere sminuito. Mi permetto di dire che erra chi pensa che il Senato, così come è costruito e definito dalla legge di revisione costituzionale, sia una Camera di scarsa importanza e di secondo piano. È una seconda Camera, ma non di secondo piano.
  Al Senato spettano, infatti, almeno tre attribuzioni particolarmente rilevanti, delle quali la compartecipazione ai procedimenti di integrazione europea è soltanto una parte. Penso alla valutazione delle politiche pubbliche e dell'attività delle pubbliche amministrazioni, alla verifica dell'impatto delle politiche europee sui territori e, infine, alla verifica dell'attuazione delle leggi dello Stato, tutte competenze menzionate dall'articolo 55, quinto comma, novellato.
  Fermo restando che la riserva del rapporto fiduciario alla Camera dei deputati comporta l'esclusione del Senato dal circuito della responsabilità politica cosiddetta «istituzionale» (è ovvio che la fiducia spetta soltanto alla Camera), il conferimento delle attribuzioni che ho appena menzionato inserisce, però, il Senato nel circuito della responsabilità politica cosiddetta «diffusa», cioè di quella responsabilità che si dirige alla pubblica opinione e che eventualmente si sconta in termini di perdita di consenso.
  Nell'esercizio dell'attività di verifica e di valutazione, il Senato dovrà vagliare le politiche pubbliche e l'attuazione delle leggi, non in generale, ma nella prospettiva del loro impatto sui territori.
  Ciò significa che eserciterà una funzione diversa da quelle attualmente assolte dal «sistema delle conferenze», ma che in qualche modo a esse si raccorda, perché il confronto in sede di conferenze può ben essere condizionato dall'esito delle verifiche senatoriali. La verifica e la valutazione in Senato viene prima dell'apporto delle conferenze e non possiamo immaginare che queste ultime prescindano dalle risultanze di questa attività senatoriale.
  Torno alla questione della legislazione e dell'amministrazione. È stata prospettata da più parti l'ipotesi che la linea di demarcazione fra le competenze del nuovo Senato e quelle del «sistema delle conferenze» passi lungo il crinale che divide la legislazione dall'amministrazione.
  A me sembra un criterio eccessivamente meccanico. Preciso che anzitutto si tratta di un crinale problematico da definire, perché l'amministrazione sovente ha compiti regolatori che sono stati abbandonati dalla legge. La legge si è sottratta alla regolazione, delegando all'amministrazione, in particolare alle autorità amministrative indipendenti, compiti che una volta essa assolveva. Questo è il primo punto.
  Specularmente, la legge invade il campo dell'amministrazione sempre più di frequente con le cosiddette «leggine».
  Fermo restando questo, il criterio, a mio parere, è troppo meccanico. Prevedibilmente ci sono dei casi in cui le cose funzionerebbero esattamente in questo modo. Segnalavo poc'anzi la questione dell'impatto delle politiche europee. In questo campo il Senato va davvero sulla legislazione e il «sistema delle conferenze» va sull'amministrazione.
  Tuttavia, il quadro è più complesso. Poiché, almeno a mio parere, il «sistema delle conferenze» resterà pur sempre protagonista delle procedure negoziali fra lo Stato e le autonomie, è bene prendere atto che in quelle procedure la distinzione fra legislazione e amministrazione non avrebbe molto senso.
  Quando Stato e autonomie si confrontano sulla definizione in concreto delle loro Pag. 7competenze – che sono solo a grandi linee stabilite dalle norme costituzionali, mentre ci sono dei margini di apprezzamento che sono lasciati alle parti – oppure sull'assegnazione di certi beni della vita (penso in particolare alle risorse finanziarie), essi non possono certo distinguere fra il dominio della legge, quello dell'atto normativo dell'amministrazione e quello dello stesso provvedimento amministrativo.
  Se si vuole far funzionare l'intesa, questa deve abbracciare tutti i terreni rilevanti. Anche se in genere si muove sul terreno dell'amministrazione, la sua formalizzazione richiede sovente e prioritariamente un passaggio legislativo.
  Peraltro, è vero, come è stato sottolineato nel corso di altre audizioni di questa indagine conoscitiva, che la giurisprudenza costituzionale nega formalmente che il principio di leale collaborazione operi sul terreno della legislazione, però inviterei a riflettere sul fatto che non mancano occasioni in cui la Corte ha fatto chiaramente intendere che una legislazione negoziata sarebbe stata auspicabile, soprattutto per il profilo del chiarimento della ragionevolezza delle determinazioni del legislatore statale.
  Voglio dire che, quando sono assunte sulla base di un'adeguata considerazione delle esigenze regionali e di quelle delle autonomie in generale, queste determinazioni sono considerate ragionevoli dalla Corte.
  È vero che il principio di leale collaborazione formalmente non è vincolante nel dominio della legislazione, ma finisce per esserlo sostanzialmente, proprio perché la legislazione negoziata consente di dire se effettivamente il legislatore statale ha operato correttamente.
  Concludo con un'ultima questione più particolare, che però è sollecitata dal vostro ultimo quesito.
  Il processo di integrazione europea ha messo in luce l'importanza di una relazione forte e costante delle assemblee legislative degli Stati membri fra di loro e con il Parlamento europeo. Questo modello potrebbe essere utilmente replicato nei rapporti fra Senato e Consigli regionali. Lo si potrebbe fare anche valorizzando il ruolo della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative regionali e provinciali.
  Come accennavo in apertura, abbiamo incognite ancora eccessive perché si possa ipotizzare con ragionevole sicurezza un modello di funzionamento, un quomodo, ma penso che almeno sull’an potremmo concordare.
  Potremmo sin da ora affermare che l'interlocuzione fra la Conferenza e il Senato potrebbe temperare l'evidente tendenza al rafforzamento degli esecutivi che ha caratterizzato gli ultimi anni di funzionamento della nostra forma di governo, recuperando elementi di rappresentatività che altrimenti corrono il rischio di un eccessivo appannamento.
  Mi rendo conto che ci sarebbero molte altre questioni da affrontare, però confido di non aver disatteso le vostre indicazioni e di non aver eluso i quesiti posti, fermo restando ovviamente che, quando si scioglieranno i nodi, sia istituzionali che politici, cui accennavo in apertura, si potrà essere più precisi.
  Vi ringrazio per la vostra attenzione.

  PRESIDENTE. Siamo noi che ringraziamo lei, professore, per il contributo per noi particolarmente utile.
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  FRANCESCO RIBAUDO. Grazie, professore. Ci ha fatto un quadro molto chiaro rispetto a tutte le audizioni che abbiamo svolto su tutte le argomentazioni che abbiamo discusso, sottolineando anche quali sono le criticità.
  Per esempio, una delle questioni sulle quali si è dibattuto molto riguarda la modalità di funzionamento delle conferenze. Ci siamo chiesti soprattutto se, alla luce della riforma del nuovo Senato, occorre istituzionalizzarle meglio e rendere più incisivo il loro intervento.
  Vero è che non si può fare una distinzione meccanica. Tuttavia, si può meglio definire – chiedo una sua opinione su questo – l'intervento nel procedimento legislativo Pag. 8 rispetto al procedimento amministrativo. Credo che questo si dovrebbe fare comunque.

  PRESIDENTE. Do la parola al professor Luciani per la replica.

  MASSIMO LUCIANI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Roma «La Sapienza». Mi sembra effettivamente un'osservazione molto pertinente, tanto più che mi offre il destro di aggiungere qualcosa, perché, visti i tempi, avevo semplificato.
  Ritengo che si debba chiarire e tipizzare meglio gli apporti della Conferenza per quanto riguarda la sede negoziale. In particolare, a mio avviso, occorrerebbe una maggiore trasparenza dei procedimenti negoziali, soprattutto nel caso delle intese e degli accordi bilaterali.
  Particolarmente delicata è la questione delle relazioni finanziarie, che, a mio avviso, mostra qualche criticità. Talora si registra un trattamento differenziato delle singole autonomie, in particolare delle autonomie speciali, con l'interlocuzione diretta tra il Ministero dell'economia e delle finanze e la singola Regione.
  Tale trattamento non appare giustificato dalla logica dell'autonomismo, perché il regime delle risorse finanziarie, a parità di condizioni di fatto e di diritto, dovrebbe essere sempre il medesimo. Pertanto, sarebbe opportuno che la negoziazione su questo piano fosse il meno possibile bilaterale e coinvolgesse tutte le Regioni, oppure, forse più pertinentemente, tutte le Regioni ordinarie da una parte e le autonomie speciali dall'altra, sulla base di una ricostruzione, come dicevo, delle condizioni di fatto e di diritto, che devono giustificare, semmai, un eventuale trattamento differenziato.
  Ho l'impressione che la sede corretta per verificare dove siano i punti di differenziazione sia proprio quella della conferenza. Credo che non sia opportuno abbandonare la libera negoziazione, che peraltro vede protagonista un ministero e non il Governo nella sua collegialità, alla sede bilaterale, anziché concentrarla nella sede collegiale della conferenza.
  Va da sé che tutto questo sollecita una riflessione anche a Costituzione invariata. Nell'ipotesi di esito positivo del referendum di ottobre, è evidente che questo problema si riporrebbe a maggior ragione, proprio perché, nella mia prospettiva – non so se è condivisa – il ruolo delle conferenze dovrebbe essere quello specifico della sede dell'intesa intersoggettiva, che non può essere il Senato.
  Infatti, il Senato è un soggetto unitario, dove si può stipulare un'intesa intrasoggettiva. Sono le varie componenti del Senato che si possono intendere, ma questo non sostituisce l'accordo tra soggetti istituzionali che restano differenziati, nonostante il Senato sia rappresentativo delle istituzioni territoriali.
  Non so se ho risposto al suo quesito.

  PRESIDENTE. Grazie, professore. Voglio ricordare che noi abbiamo svolto una precedente indagine conoscitiva sulle autonomie speciali, sul funzionamento delle commissioni paritetiche e sulle forme e le condizioni in cui avviene l'attuazione degli statuti, soprattutto con riferimento alla parte relativa ai rapporti finanziari fra lo Stato e le Regioni.
  Da questa indagine emerge la necessità di procedure uniformi nella regolazione dei rapporti fra Stato e autonomie speciali. Ciò non significa omologazione delle condizioni. Significa, piuttosto, che ci deve essere una discussione fra soggetti che rappresentano territori particolari, rispetto ai quali si è previsto un ordinamento giuridico specifico, ma che devono avere procedure e condizioni di interlocuzione e, quindi, di decisione uguali per tutti e più trasparenti.
  Altrimenti, prevale il principio della forza politica contingente tra Governo di una Regione e Governo dello Stato in un particolare momento storico, e questo rischia di vulnerare anche il senso e lo spirito dell'autonomia.
  Lo volevo dire, non per autocitarci, ma perché la sua osservazione è assolutamente utile anche ai fini di una discussione che noi stiamo facendo su una riforma del «sistema delle conferenze» a legislazione costituzionale vigente, a prescindere dall'esito del referendum costituzionale.

Pag. 9

  ALBERT LANIÈCE. Visto lo spessore del tema affrontato, vorrei porre una domanda che esula un po’ dall'argomento specifico.
  Io sono senatore della Valle d'Aosta, una Regione a statuto speciale molto interessata a questa riforma costituzionale. In questi giorni registriamo la presa di posizione decisa di molti costituzionalisti, molto critica verso questa riforma, in particolare sul Senato.
  Mi collego all'ultima parte del suo intervento, dove ha toccato alcuni aspetti riguardanti le funzioni del Senato. Una delle critiche più pesanti è che il Senato sarebbe un luogo dove si «passerebbero le carte».
  In nessuna delle letture svolte nel corso del dibattito in Parlamento, si è fatto il minimo accenno a quello che potrebbe essere il ruolo delle conferenze proprio in relazione alle funzioni del futuro Senato.
  Vorrei avere, se è possibile, una sua opinione sulle vere funzioni, su quello che sarà il Senato dal punto di vista politico e sull'importanza che può avere.
  Questo è un dibattito che si sta aprendo anche nelle nostre Regioni a statuto speciale, perché è chiaro che noi stiamo molto attenti a quelle che saranno la nostra rappresentanza e la nostra possibilità di incidere dal punto di vista politico.

  MASSIMO LUCIANI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Roma «La Sapienza». Senatore, lei mi consentirà di non prendere posizione sulla positività o meno della legge costituzionale. Non lo posso fare per ragioni istituzionali, perché io sono il presidente dell'Associazione italiana dei costituzionalisti. Va da sé che non posso prendere alcuna posizione pubblica.
  Tuttavia, ovviamente posso dire cosa penso sulle questioni tecniche, come ho detto più volte, sia nelle numerose audizioni a cui ho avuto l'onore di essere invitato nel corso del procedimento di revisione sia nella commissione di esperti che fu costituita, come sapete, a suo tempo dal Governo Letta.
  Come accennavo precedentemente, a mio avviso, è un errore teorico, non un errore di valutazione politica, ritenere che il Senato sulla carta sia una Camera priva di attribuzioni significative. La legge di revisione costituzionale conferisce al nuovo Senato numerose funzioni molto rilevanti.
  Quale sarà il ruolo politico di questo Senato, che ha queste funzioni rilevanti? È davvero impossibile dare una risposta, per una ragione molto semplice: le Costituzioni non possono tutto definire.
  Io ricordo l'esperienza della Costituzione repubblicana nella sua redazione originaria. Quando Vittorio Emanuele Orlando si trovò di fronte al testo della Commissione dei 75, disse loro: «Cosa volete fare? Volete fare del Presidente della Repubblica un fainéant (un fannullone)».
  Vittorio Emanuele Orlando, uomo del passato, come egli stesso riconosceva, aveva in mente la figura del re. Disse sostanzialmente: «State disegnando un Capo dello Stato le cui attribuzioni sono irrilevanti, anche perché l'articolo 89 prevede la controfirma di tutti i suoi atti. Ciò vuol dire che farà tutto il Governo».
  Orlando si sbagliava. Lo dico con tutto il rispetto che merita un gigante del diritto pubblico italiano. La forma dell'articolo 87 della Costituzione conferiva al Presidente della Repubblica moltissimi poteri. Come sarebbero stati esercitati questi poteri? Questo era lasciato alla dialettica politica, tant'è che sappiamo che le singole Presidenze della Repubblica hanno utilizzato i loro poteri in modo molto differenziato. Sfido chiunque a dire che, per esempio, il potere di rinvio delle leggi sia stato utilizzato nel medesimo modo da De Nicola a oggi. È evidente che è stato utilizzato in modo molto differenziato, e questo è dipeso dalla personalità del singolo Presidente della Repubblica e dalla contingenza politica nella quale si è trovato a operare.
  Qui che cosa accadrà? Come accennavo precedentemente, se le forze politiche interpreteranno il Senato come un luogo che deve essere necessariamente lasciato al margine del confronto politico e, quindi, selezioneranno candidature di backbencher, il Senato verosimilmente non riuscirà a utilizzare con forza le numerose attribuzioni costituzionali che possiede. Se la strategia Pag. 10delle forze politiche fosse diversa, il Senato avrebbe gli strumenti formali per utilizzare con forza attribuzioni costituzionali importanti.
  Mi permetto di dire che sono forse tra i pochi costituzionalisti rimasti in questo Paese che considerano che la forma sia ancora importante e decisiva. La forma è decisiva per determinare le condizioni di funzionamento della forma di governo. In seguito dipenderà dal sistema politico, però la forma dà al Senato tutti gli strumenti per poter avere un ruolo politicamente rilevante. Se riuscirà a conquistarlo non dipende soltanto dalla forma ovviamente, ma anche dalla realtà delle strategie politiche.
  Posso rispondere a metà al suo quesito, ma sulla forma ritengo di essere ragionevolmente sicuro.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Luciani.
  Ricordo che giovedì 19 maggio alle ore 8,15 avremo l'audizione del professor Moavero Milanesi.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 9.15.