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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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XVII Legislatura

Commissione parlamentare per le questioni regionali

Resoconto stenografico



Seduta n. 1 di Mercoledì 26 marzo 2014

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Balduzzi Renato , Presidente ... 2 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE QUESTIONI CONNESSE AL REGIONALISMO AD AUTONOMIA DIFFERENZIATA

Audizione dei professori Antonio D'Atena, Stelio Mangiameli e Roberto Toniatti.
Balduzzi Renato , Presidente ... 2 
D'Atena Antonio , Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Roma «Tor Vergata», presidente dell'Associazione italiana dei costituzionalisti ... 2 
Balduzzi Renato , Presidente ... 6 
Mangiameli Stelio , Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Teramo, direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie ... 6 
Balduzzi Renato , Presidente ... 9 
Mangiameli Stelio , Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Teramo, direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie ... 9 
Balduzzi Renato , Presidente ... 9 
Toniatti Roberto , Professore ordinario di diritto costituzionale comparato e di diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Trento ... 9 
Balduzzi Renato , Presidente ... 13 
Pili Mauro (Misto)  ... 13 
Dalla Zuanna Gianpiero  ... 14 
Kronbichler Florian (SEL)  ... 15 
Balduzzi Renato , Presidente ... 15 
Toniatti Roberto , Professore ordinario di diritto costituzionale comparato e di diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Trento ... 15 
Mangiameli Stelio , Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Teramo, direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie ... 16 
D'Atena Antonio , Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Roma «Tor Vergata», presidente dell'Associazione italiana dei costituzionalisti ... 18 
Balduzzi Renato , Presidente ... 20

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE RENATO BALDUZZI

  La seduta comincia alle 13.40.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
  (Così rimane stabilito).

Audizione dei professori Antonio D'Atena, Stelio Mangiameli e Roberto Toniatti.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione dei professori Antonio D'Atena, Stelio Mangiameli e Roberto Toniatti, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul regionalismo ad autonomia differenziata.
  Do la parola al professor D'Atena per lo svolgimento della relazione.

  ANTONIO D'ATENA, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Roma «Tor Vergata», presidente dell'Associazione italiana dei costituzionalisti. Grazie, presidente. Alla luce degli ultimi documenti in sede di iniziativa legislativa, ovvero le proposte di legge costituzionale riguardanti le autonomie speciali (Senato n. 7 Calderoli, Senato n. 574 Zanettin e altri, Camera n. 582 Palmizio, Camera n. 758 Giancarlo Giorgetti e altri) e la bozza elaborata dal Governo «Renzi», che peraltro è ancora una bozza provvisoria, emergono tre tendenze.
  La prima è una tendenza radicale: l'abolizione delle regioni speciali. I disegni di legge Zanettin e altri e Palmizio si muovono, negli stessi termini, in questa direzione, sulla base dell'assunto che le ragioni della specialità non permarrebbero e quindi non si giustificherebbero più autonomie differenziate.
  L'altra linea è quella del mantenimento delle autonomie speciali, salva l'eventuale riarticolazione, attraverso la costituzione di macroregioni, e quindi la possibile confluenza nelle macroregioni anche di enti ad autonomia speciale.
  La terza linea è quella del documento governativo che, per quanto riguarda le regioni ad autonomia speciale, conserva la situazione attuale, introducendo tuttavia una modifica di un certo rilievo: l'abrogazione dell'ultimo comma dell'articolo 116, cioè della norma che consente alle regioni ordinarie di dotarsi di condizioni particolari di autonomia – la formula usata è la stessa usata per le autonomie speciali, – naturalmente concordando questo con lo Stato, visto che la conclusione del procedimento è una legge previa intesa.
  Sullo sfondo di questo panorama di ipotesi, ci sono le due domande che pone il presidente nella lettera con la quale siamo stati convocati: sono venute meno le ragioni storiche che nel 1948 giustificavano regimi differenziati e sono maturate condizioni per estendere il regime speciale a tutte le regioni, magari utilizzando l'articolo 116, ultimo comma, eventualmente rafforzato e modificato ? Io cercherò di rispondere a queste due domande.
  Le ragioni della specialità erano varie negli anni in cui le regioni ad autonomia speciale sono nate. Un documento molto interessante a questo riguardo è quel decreto Pag. 3legislativo che nel 1945 ha istituito il prodromo dell'ente regione, cioè l'amministrazione autonoma della Valle d'Aosta, il quale giustificava la creazione di questa amministrazione autonoma facendo riferimento alle condizioni del tutto particolari dei territori corrispondenti: Condizioni geografiche, economiche e linguistiche.
  Se noi consideriamo il panorama delle regioni ad autonomia speciale, comprendendo ovviamente le due province autonome di Trento e Bolzano, troviamo tutti questi elementi, a cui aggiungerei un elemento sottostante di ordine culturale. Non è casuale che vi siano competenze costituzionalmente previste, o comunque interventi legislativi, su istituti tradizionali di questa realtà: le minime unità colturali, il maso chiuso, le compagnie barracellari in Sardegna. C’è, dunque, uno specifico culturale delle regioni ad autonomia speciale.
  Sul piano strettamente giuridico i versanti in cui la specialità di questi enti si esprime sono tre. Uno è quello dei raccordi con lo Stato. Ci sono speciali raccordi con lo Stato, secondo una logica di raccordi singolari, non collettivi, anche se partecipano agli istituti collettivi di raccordo, come le conferenze. Ricordo la partecipazione del presidente della regione al Consiglio dei ministri e le commissioni paritetiche per le norme di attuazione.
  Il secondo elemento, molto importante, riguarda le competenze. Le competenze erano e sono individuate dagli statuti con tecnica enumerativa. Lo statuto elenca quindi le competenze della regione.
  Il terzo elemento distintivo è la finanza. C’è un regime che viene normalmente considerato come più favorevole dal punto di vista finanziario.
  A parte il primo punto, che presenta un interesse minore nella prospettiva di questo incontro di oggi, direi che i temi da considerare sono le competenze e la finanza. Con la riforma del Titolo V, prima che la riforma venisse completata nei termini in cui è stata completata, le regioni ad autonomia speciale hanno corso il rischio di trasformarsi da autonomie privilegiate in autonomie deteriori. Infatti, soprattutto sul piano della legislazione, attribuire alle regioni ordinarie la competenza residuale significava attribuire loro una competenza di notevole estensione, con la conseguenza che le regioni speciali sarebbero rimaste inchiodate alle competenze enumerate nei rispettivi statuti.
  Per questa ragione, il legislatore costituzionale del 2001 ha introdotto la clausola comunemente qualificata «di maggior favore» o «di equiparazione», in virtù della quale, fino all'ipotetico mutamento degli statuti speciali, le regioni speciali fruiscono delle maggiori competenze attribuite a quelle ordinarie dalla riforma costituzionale del 2001.
  Sul piano delle competenze c’è stato in fondo un notevole grado di assimilazione tra le regioni ordinarie e le regioni speciali. Persistono peraltro aspetti di specialità in alcune materie. La più importante, secondo me, è l'ordinamento degli enti locali. Mentre per quanto riguarda il resto del territorio la competenza ordinamentale in materia di enti locali è da ritenere che sia dello Stato, per le regioni ad autonomia speciale questa competenza è delle regioni, secondo un modello che presenta punti di contatto con i modelli federali. Le funzioni amministrative sono legate al principio del parallelismo. È un pezzo di vecchia Costituzione che sopravvive come impianto negli statuti delle regioni speciali.
  Nonostante queste peculiarità che permangono, questo è il terreno nel quale il persistere di una specialità, con riferimento alle competenze, potrebbe considerarsi non essenziale. C’è però da considerare un dato – e così passiamo subito all'attualità, – che secondo me è molto importante: l'attuale mobilità del quadro costituzionale. Noi non sappiamo quale sarà la riforma del Titolo V alla fine del processo.
  Certamente, se prendiamo in considerazione la bozza di disegno di legge costituzionale elaborata dal Governo, rileviamo che questa ridimensiona drasticamente l'autonomia delle regioni ordinarie. Anzitutto cade l'elenco delle materie di competenza concorrente. La competenza Pag. 4concorrente è una competenza problematica, perché il riparto di competenza verticale presenta elementi di incertezza. Ciò nonostante, oggi c’è un elenco di materie. Nella bozza, invece, scompaiono materie in cui si dice che la regione ha competenza a legiferare, quantomeno per la normativa di dettaglio.
  Inoltre, la competenza residuale si trasforma profondamente, per effetto di una clausola che chiamano «clausola di supremazia», ma che semmai potrebbe essere una «clausola di necessità» (come la Erforderlichkeitsklausel tedesca): una clausola secondo la quale lo Stato, con legge, può intervenire su tutte le materie di competenza residuale, quando ricorrono alcune esigenze: tutela dell'unità giuridica ed economica e realizzazione di riforme economico-sociali d'interesse nazionale.
  A proposito di una clausola non molto dissimile, che nel corso del processo di elaborazione della legge costituzionale n. 3 del 2001 era stata proposta da alcune parti politiche, io avevo parlato di «clausola vampiro». Si fa un riparto di competenze e poi si applica una clausola, la quale consente all'ente controinteressato rispetto al riparto di assorbire queste competenze.
  C’è anche un altro elemento – sul quale non mi soffermo – sulla base del quale si introduce per questa competenza residuale addirittura un limite finalistico, il che aggiunge elementi di confusione e di incertezza. Comunque, per effetto di questa clausola, la legislazione regionale verrebbe privata di un ambito riservato, in quanto ci sarebbe sempre la possibilità di un intervento dello Stato. È da domandarsi se questo intervento sia giustiziabile in base a una clausola di questo tipo.
  Il rischio è che l'autonomia ordinaria venga riportata ad una condizione peggiore di quella che era propria del primo regionalismo. Infatti, nel primo regionalismo c'era l'elenco di materie dell'articolo 117, primo comma, e in quelle materie le regioni, per la normativa di dettaglio, avevano una competenza riservata e sottratta allo Stato, in base a un riparto verticale (principio-dettaglio). Ora, invece, lo Stato potrebbe intervenire espropriando la competenza.
  Tra l'altro, ho sentito dire, anche nel dibattito giornalistico, che si tratta della soluzione tedesca. Non è vero che questa è la soluzione tedesca. In Germania non è la clausola di supremazia che può essere invocata. Peraltro, in Germania queste clausole di supremazia sono lette in questo senso: non c’è una prevalenza sempre e comunque della legge federale, ma c’è se la legge federale è adottata nel rispetto del riparto di competenza.
  Si invoca semmai la clausola che giustifica l'esercizio, da parte della federazione, della competenza concorrente detta «alla tedesca». I Länder (gli enti che corrispondono alle regioni) hanno competenza in certe materie, però la federazione può spostare il confine tra le competenze, se ricorrono certi presupposti. Alcuni presupposti somigliano a quelli enunciati poco fa. Si parla, per esempio, di unità del diritto e dell'economia, oltre che di assicurazione di condizioni di vita equivalenti, e quindi di perequazione economico-sociale all'interno del territorio federale.
  Tuttavia, c’è un dato da considerare: tutto questo vale per un numero limitato di materie. La federazione non ha una competenza generale per cui può espropriare tutte le competenze regionali, ma ce l'ha soltanto limitatamente ad alcune materie. Invece, nel nostro caso, non c’è questo correttivo.
  Io suggerirei, se dovesse restare questa formula, che in questo tipo di legislazione intervenisse in maniera significativa, e non solo simbolica, un Senato delle autonomie, perché questo potrebbe essere un elemento procedimentale di bilanciamento. In mancanza di tutto questo, la legislazione delle regioni ordinarie rischia di essere fortemente degradata. In questo quadro, gli statuti speciali riacquisterebbero un significato centrale, perché le regioni speciali si vedrebbero garantite quelle competenze che lo statuto speciale attribuisce loro e che la bozza di legge costituzionale del Governo non tocca.Pag. 5
  Per quanto riguarda il privilegio finanziario, la questione è piuttosto delicata. I dati di cui disponiamo evidenziano due cose. Innanzitutto emerge che nei territori regionali speciali c’è una spesa media pro capite all'incirca doppia che nei territori regionali ordinari. Se la comparazione si fa prendendo in considerazione regioni speciali e regioni ordinarie del Nord, il rapporto è ancora più a favore delle regioni speciali. Anche il rapporto tra la spesa e il PIL regionale è mediamente doppio per quanto riguarda le regioni speciali.
  Questo è un punto sul quale io non mi sento di esprimermi approfonditamente, perché richiede competenze economiche o comunque un'apertura alla prospettiva economica che non è propria della mia formazione. Tuttavia, devo rilevare che ci sono alcuni autori – abbiamo tenuto proprio qui a Roma, a Palazzo Montecitorio, il 5 dicembre scorso, un incontro per la presentazione di un libro di Gianfranco Cerea e di un altro di Mauro Marcantoni e Marco Baldi – i quali sostengono che in realtà non ci sarebbe un privilegio, dal momento che queste maggiori risorse finanziarie servirebbero a coprire maggiori spese, dovute a maggiori funzioni. Questo è un dato da verificare.
  C’è però un fatto: comunque stiano le cose, il privilegio finanziario è sentito come tale dagli altri territori. Negli altri territori, a ragione o a torto, si ritiene che ci sia. La spia di questa percezione è rappresentata da due fenomeni. Uno è quello della proposta di creare nuovi enti ad autonomia speciale. In passato, per esempio, si è ipotizzato che fossero dotate di autonomia speciale la regione Veneto, le province di Belluno, Bergamo e Treviso. L'altro fenomeno riguarda i tentativi dei comuni di «migrare» – mi sono espresso così una volta – da territori regionali ordinari a territori regionali speciali confinanti (o forse non necessariamente confinanti, dal momento che la contiguità non è prevista dall'articolo 132 della Costituzione). In questo caso, il comune usufruirebbe di un maggiore benessere.
  Questa questione è molto delicata ed è una delle ragioni di disagio. Quel che è certo è che c’è un disagio, soprattutto nelle popolazioni delle regioni ordinarie più ricche, le quali concorrono a finanziare un benessere al quale non partecipano.
  Sono maturate le condizioni per estendere il regime speciale a tutte le regioni, rafforzando eventualmente l'articolo 116, terzo comma, della Costituzione ? Io ho sempre ritenuto che questa disposizione, per un certo aspetto, fosse troppo generosa. Questo è un difetto della legislazione italiana: a un certo punto procede per ampie categorizzazioni, senza considerare i problemi nel dettaglio. In base all'articolo 116, tutte le materie di legislazione concorrente possono diventare materie delle regioni ordinarie, che si arricchiscono di specialità. Sarebbe un patrimonio enorme, il quale comprenderebbe anche materie che sono impropriamente di competenza concorrente (si pensi all'energia). Queste regioni acquisirebbero in questo modo competenze sull'energia, sulle grandi reti e così via. Ci sono poi anche alcune materie di legislazione esclusiva dello Stato che possono essere attribuite alle regioni.
  A mio modo di vedere, se restasse l'articolo 116, una rimodulazione opportuna sarebbe quella di individuare l'estensione della possibilità lì prevista, circoscrivendo il numero delle materie. Detto questo, l'articolo 116 è una valvola importante, perché è proprio lo strumento che potrebbe consentire di superare quella condizione di disagio delle popolazioni delle regioni ordinarie che ho rappresentato e di contenere spinte secessionistiche.
  Io penso che non possiamo sottovalutare, per esempio, il segnale del referendum per l'indipendenza del Veneto. Dal punto di vista giuridico, è una manifestazione che non ha valore. Tuttavia, dal punto di vista politico è certamente un segnale molto forte.
  Delle correzioni vanno fatte, ma un intervento sulla Costituzione che ridimensioni eccessivamente lo status delle regioni, e che sopprima questo canale che può Pag. 6consentire a queste situazioni di trovare uno sbocco adeguato, forse sarebbe inappropriato.
  Ho l'orologio sotto gli occhi e vedo che si è esaurito il tempo a mia disposizione. A questo punto concludo. Grazie, presidente.

  PRESIDENTE. Ringrazio il presidente D'Atena, che avrà sicuramente modo di dirci qualcos'altro in sede di discussione successiva.
  Do la parola al professor Stelio Mangiameli, direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie.

  STELIO MANGIAMELI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Teramo, direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie. Grazie, presidente, per questo invito.
  Do per scontati i contenuti dei disegni di legge posti alla nostra attenzione, che possiamo sinteticamente richiamare come segue: specialità, differenziazione asimmetrica e macroregioni. Questi temi sono tra loro differenti e richiedono, ciascuno, una riflessione adeguata, nonostante abbiano come comune denominatore l'espressione «forme e condizioni particolari di autonomia», che compare nei diversi disegni di legge con riferimento al testo dell'articolo 116, primo e terzo comma, della Costituzione. La stessa espressione, peraltro, nei tre contesti ha un significato diverso.
  Vediamo subito il tema della specialità. L'esigenza di attribuire particolari forme e condizioni di autonomia a determinate parti del territorio nazionale è emersa all'indomani della fine della seconda guerra mondiale. Il professor D'Atena faceva riferimento all'esperienza della Valle d'Aosta. Di lì a poco fu costituita la consulta regionale in Sicilia. Lo statuto siciliano ha preceduto l'approvazione della Costituzione. Gli altri statuti speciali sono stati approvati dall'Assemblea costituente prima che chiudesse i battenti. Lo statuto siciliano è stato convertito ai sensi e per gli effetti dell'articolo 116 della Costituzione.
  Le ragioni che portarono alla formazione delle regioni a statuto speciale nell'esperienza costituzionale italiana sono eminentemente storico-politiche, in particolare dovute alla marcata differenziazione etnica, geografica ed economica delle isole maggiori e delle province a evidente carattere di confine, con la presenza di minoranze linguistiche. Le regioni speciali, da questo punto di vista, sono fortemente identitarie. Questo dato prescinde dalla regolamentazione costituzionale, ovvero è una condizione storica, che viene prima della stessa Costituzione.
  Si può considerare questo dato superato ? Questa è una delle domande che stanno alla base dell'indagine conoscitiva e che poneva il presidente nella lettera che ci è stata inviata. A mio avviso, solo chi non conosce queste realtà può pronunciarsi a favore di un superamento della specialità. Infatti, nonostante nel tempo il regionalismo italiano differenziato abbia conosciuto alti e bassi – e più bassi che alti, – la questione identitaria non è stata scalfita, anzi, se possibile, si è ancora più rafforzata nel corso del tempo.
  Anche il diritto europeo ha preso in considerazione questa dimensione, non solo per via del superamento della cecità regionale, quanto soprattutto alla luce del fatto che la dimensione europea in quanto tale si è posta l'obiettivo di proteggere e promuovere le minoranze e di rimuovere le condizioni di particolare disagio all'interno dell'Unione europea. Questo appare evidente da alcune disposizioni dei trattati e della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che fanno riferimento al rispetto dei diritti delle persone appartenenti a minoranze e al rispetto della diversità culturale, religiosa e linguistica, così come alla promozione della coesione economica, sociale e territoriale.
  Questo non vuol dire che il regionalismo speciale sia rimasto quello del 1946-1948. Notevoli cambiamenti si sono avuti e hanno condotto a ulteriori differenziazioni al suo interno. Oggi possiamo parlare tranquillamente di due tipologie di regioni speciali: da un lato quelle meridionali (la Sicilia e la Sardegna), le quali patiscono Pag. 7ormai visibilmente la mancanza di una politica nazionale sul divario territoriale e l'assenza di una seria proiezione dell'Italia nel Mediterraneo; dall'altro le regioni alpine (la Valle d'Aosta, le province di Trento e di Bolzano, e il Friuli-Venezia Giulia), che ritrovano, anche con il dialogo transfrontaliero, punti di crescita e differenziazioni cospicui, che toccano anche l'assetto della democrazia locale, rafforzata dall'introduzione di forme di referendum legislativo che fanno approvare le leggi direttamente al corpo elettorale. Questo vale in modo particolare per la regione Valle d'Aosta e per la provincia di Bolzano.
  Quali sono le caratteristiche del regionalismo speciale ? La risposta a questa domanda è complessa, perché, al di là della questione identitaria, affrontando il tema dal punto di vista costituzionale, dobbiamo necessariamente tenere conto delle evoluzioni determinate dai diversi statuti speciali, dal confronto con le regioni ordinarie nel primo regionalismo, dall'articolo 116 (compresa la clausola di asimmetria), dalle previsioni della legge costituzionale n. 2 del 2001, che ha modificato tutti gli statuti speciali, da quelle della legge costituzionale n. 3 del 2001 e, in particolare, dell'articolo 10 di questa, che prevede una possibilità di recupero di competenze a favore delle regioni speciali, sulla base del nuovo Titolo V.
  Alla luce di tutti questi elementi, che richiederebbero approfondimenti significativi, l'individuazione di un contenuto tipico della specialità diventa arduo ma non impossibile, anche se il regime autonomistico differenziato non può più considerarsi un'eccezione nel sistema regionale italiano, ma piuttosto un elemento stabile del modello, che non si esprime più solo nel nucleo di autonomia maggiore rispetto a quello delle regioni di diritto comune.
  La causa di un simile effetto deve sicuramente ritrovarsi nel carattere costituzionale del regionalismo della riforma, nel quale sembra superato anche il precedente processo di omologazione di tutte le regioni ordinarie. Inoltre, attraverso le disposizioni riguardanti il riparto delle competenze e la salvaguardia della specialità, si recupera un nuovo ampliamento di poteri, che, diversamente dall'origine, fa coincidere questa non tanto con la titolarità di un quantum di autonomia maggiore o più ampia rispetto a quello ordinaria, quanto con una qualità diversa dell'autonomia speciale.
  In ogni caso, se si vogliono indicare le coordinate essenziali caratterizzanti ancora oggi il modello di autonomia speciale, queste devono individuarsi in quattro elementi. Il primo elemento è la presenza di uno statuto elaborato con un procedimento particolare e approvato con legge costituzionale.
  Il secondo elemento è la titolarità della potestà legislativa cosiddetta «primaria», «piena» o «esclusiva», di cui dispongono le sole regioni a statuto speciale, la quale ha segnato il vero tratto distintivo tra il modello di autonomia regionale speciale e quello ordinario. Infatti, nelle materie di tipo primario enumerate dallo statuto le regioni speciali dispongono di una potestà legislativa qualitativamente diversa da quella delle altre regioni, essendo rimesse alla legge regionale non solo l'intera disciplina della materia, ma anche una posizione peculiare nel sistema delle fonti rispetto alla legge statale.
  Il terzo profilo risiede nella peculiarità dell'autonomia finanziaria delle regioni speciali. Sin dalla loro costituzione, infatti, le regioni speciali hanno avuto nel loro sistema di finanza pubblica una diversità di principio. L'articolo 119, nella vecchia formulazione della Costituzione, per le regioni ordinarie si basava sulla previsione di una capacità finanziaria commisurata ai bisogni delle regioni per le spese necessarie ad adempiere alle loro funzioni «normali». Le disposizioni degli statuti indicavano invece la regola della capacità finanziaria collegata al reddito prodotto nella regione, che è una cosa completamente diversa.
  Ciò ha comportato, anche dopo la revisione del 2001, il permanere dell'effetto derogatorio della finanza nelle regioni speciali, rispetto all'articolo 119 di nuova formulazione e alle regioni ordinarie. La Pag. 8legge n. 42 del 2009 – la cosiddetta «legge sul federalismo fiscale» – ha lasciato aperto questo spazio di differenziazione, anche se alcuni avrebbero preteso un'omologazione delle regioni speciali sul regime dell'articolo 119.
  Il quarto elemento peculiare risiede nella competenza delle regioni speciali in materia di ordinamento degli enti locali, la quale si estende alle relazioni finanziarie e tributarie tra gli enti locali della regione speciale e questa stessa regione. L'attuazione si è compiuta per le regioni alpine, in cui il sistema di finanza locale e il sistema di finanza regionale si sono integrati, ma non si è realizzata, invece, per note ragioni, nel caso della Sardegna e della Sicilia.
  Peraltro, nella sentenza n. 48 del 2003, la Corte costituzionale ha precisato che la competenza in materia di ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni non sarebbe intaccata dalla riforma del Titolo V, parte seconda, della Costituzione, ma sopravvivrebbe, quanto meno nello stesso ambito e negli stessi limiti definiti dagli statuti.
  Veniamo adesso alla differenziazione asimmetrica. Differentemente dal principio di specialità, la clausola di asimmetria non consente di negoziare qualsiasi aspetto costituzionale dell'autonomia regionale, ma solamente alcune competenze attribuite allo Stato dal secondo comma dell'articolo 117 e le materie del terzo comma, attinenti alla legislazione concorrente.
  La norma prevede che l'attivazione del procedimento di asimmetria è rimesso alle regioni medesime. Come si vede dalla disciplina costituzionale, l'intera clausola ruota attorno al modello di autonomia regionale ordinaria, per cui appare evidente la sua alternatività rispetto alla specialità delle regioni differenziate.
  Anche se su questa disposizione si possono fare tante considerazioni, occorre prendere atto che le regioni ordinarie non hanno sviluppato una vocazione alla differenziazione asimmetrica. Le uniche proposte avanzate sono state presentate come forma di opposizione alla maggioranza di Governo nazionale, e sono rientrate non appena il governo delle regioni si è trovato allineato con quello nazionale. Questo è stato il caso delle regioni Lombardia e Veneto, che, tra la XV e la XVI legislatura, appena andò al governo Prodi, presentarono due disegni di legge, in base all'articolo 116, terzo comma, e poi, nel 2008, appena ritornò al governo Berlusconi, li ritirarono.
  È questo un motivo sufficiente per abrogare l'articolo 116, terzo comma, come fa il disegno di legge costituzionale del Governo del 12 marzo scorso ? Il tema non va posto in astratto e neppure in concreto in modo basso. Alcuni dicono che la disposizione non ha nuociuto a nessuno, per cui non c’è motivo di non lasciarla.
  Proprio perché la differenziazione asimmetrica è diversa dalla specialità, anche se potrebbe rappresentare un avvicinamento a questa, bisogna inquadrarla nel modello di regionalismo che si vuole realizzare per la nostra Repubblica. La differenziazione asimmetrica non ha, in via di principio, alcuna valenza identitaria, ma ha semplicemente una valenza funzionale. Semmai, è nel tempo che si può configurare l'asimmetria come un fatto identitario.
  Faccio un esempio concreto che si è posto nella redazione dello statuto della regione Abruzzo, a cui io collaborai. Qui c’è la senatrice Pezzopane, che all'epoca era membro del consiglio e si ricorderà perfettamente che inserimmo nello statuto della regione la vocazione ambientalistica per i parchi, che doveva essere eventualmente sviluppata proprio con il ricorso all'articolo 116, terzo comma. La regione non ha poi sviluppato questa differenziazione, ma se l'avesse fatto, quello sarebbe potuto diventare un elemento identitario della regione Abruzzo. In questo senso, l'asimmetria è funzionale, ma ha anche una sua valenza politica.
  Il disegno di legge che tende ad eliminare la clausola di asimmetria, similmente ai disegni di legge costituzionale che vogliono eliminare la specialità, ovviamente ritiene che la certezza dell'uniformità regionale sia un bene più appetibile rispetto Pag. 9alla possibilità di differenziazione. Se questo giudizio di merito politico possa dirsi fondato, è difficile stabilirlo. Quel che è certo, invece, è che non costituisce un ripristino della precedente legalità costituzionale. Modificare l'articolo 116, terzo comma, non significa ritornare al regime precedente la modifica del Titolo V, ma semmai andare verso una nuova e diversa disciplina costituzionale, peraltro, non in positivo.
  Quanto alle macroregioni e al dimensionamento territoriale che implicano, la scelta dei due disegni di legge costituzionale della Lega Nord Padania appare strutturale e opposta a quella del disegno di legge costituzionale del Governo e al disegno di legge Delrio, non solo per la presenza delle province, prevista soltanto in quello della Lega. Infatti, è la logica del regionalismo italiano che verrebbe rivoltata. Rispetto a questo rivolgimento, anche le previsioni sulle risorse finanziarie e sulle funzioni amministrative hanno un carattere servente.
  Il disegno di legge Delrio e il disegno di legge costituzionale del Governo lascerebbero il dimensionamento delle regioni inalterato, ma, con la scomparsa delle province, la creazione delle città metropolitane e la ricentralizzazione delle competenze legislative, le regioni verrebbero depauperate sotto due versanti: dal punto di vista della legislazione, che sarebbe ormai più che residuale, e da quello dell'amministrazione, in quanto dovrebbero condividere la distribuzione dei poteri amministrativi sul territorio di loro competenza con le città metropolitane.
  Lo scenario istituzionale del governo del territorio dovrebbe essere composto, a questo punto, da tre entità: le città metropolitane, le parti delle regioni non coperte dalle città metropolitane e amministrate dalle regioni, le province autonome di Trento e Bolzano e le piccole regioni, come la Basilicata, l'Abruzzo e l'Umbria. Insomma, si darebbe vita a un sistema di frazionamento territoriale che comprenderebbe trentasei entità, le quali non avrebbero, peraltro, capacità e massa critica sufficiente per lanciare o per sostenere una competizione dei rispettivi territori.
  Per contro, l'ipotesi delle macroregioni si muove in una logica opposta e ha un preciso obiettivo politico, di cui si dirà in seguito. A tal riguardo bisogna osservare che per certi versi il processo di aggregazione spontanea di macroregioni è stato avviato in modo diretto e non dovrebbe essere sottovalutato, anche perché non è detto che necessiti effettivamente di una disciplina costituzionale ad hoc. Infatti, l'articolo 117, ottavo comma, della Costituzione prevede già che «la legge regionale ratifica le intese della regione con altre regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni», il che è sufficiente.
  Infatti, da tempo le regioni del Nord, agevolate da una comune guida politica, hanno intrapreso un dialogo – al quale in origine erano aggregate anche la regione Emilia-Romagna e la regione Liguria, – volto a considerare le interdipendenze naturali, economiche e infrastrutturali tra le regioni del Nord Italia in vista di una valutazione complessiva e come spunti per una riflessione su possibili politiche interregionali.

  PRESIDENTE. Professor Mangiameli, per garantire il rispetto dei tempi assegnati le chiederei di rinviare al testo scritto.

  STELIO MANGIAMELI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Teramo, direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie. Va bene, presidente.

  PRESIDENTE. Grazie. Do la parola a Roberto Toniatti, professore ordinario di diritto costituzionale comparato e di diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Trento, già preside della facoltà di giurisprudenza.

  ROBERTO TONIATTI, Professore ordinario di diritto costituzionale comparato e Pag. 10di diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Trento. Ringrazio il presidente e i membri della Commissione per la loro cortese presenza e attenzione a questo evento. Constatato quanto sia giustamente rigorosa l'applicazione dei limiti di tempo dei nostri interventi, comincio subito a svolgere il mio ragionamento, evitando di sottolineare le occasioni di consenso che invece vorrei esprimere verso quanto è stato già detto dai miei colleghi fin qui.
  Io, come esperto di diritto comparato, vorrei partire un po’ da lontano, più dal punto di vista territoriale che dal punto di vista storico, per ripercorrere alcuni punti fermi del mio ragionamento, che penso possano motivare l'opinione che sono chiamato a rendere in questa sede e contribuire anche alla maturazione di un'opinione da parte dei membri della Commissione.
  Io partirei da una definizione, cercando però di spiegare quali sono i fenomeni rispetto ai quali noi ci poniamo. Il fenomeno è quello delle tecniche di ripartizione delle funzioni di governo, secondo criteri di natura materiale, fra una pluralità di enti politici identificati in ragione di un fattore territoriale e coordinati entro un quadro unitario. Da questo punto di vista, distinzioni quali federalismo e regionalismo, a cui personalmente aggiungo anche l'ente sovranazionale, non sono altro che diverse manifestazioni di questa tecnica di ripartizione.
  Proprio sulla base di questa premessa, preciso che la definizione di federalismo che personalmente considero la più sintetica e la più efficace è quella resa dal politologo Daniel Elazar, secondo la quale il federalismo è una combinazione di autogoverno e di governo condiviso (a combination of self-government and shared government). Questa è, a mio giudizio, una definizione che, proprio perché sdrammatizza il fenomeno, mette in evidenza come esista una flessibilità nell'uso di questa tecnica di ripartizione, sulla base di una comune ratio, che è appunto quella della ripartizione delle funzioni fra una pluralità di enti in un contesto unitario. In questa prospettiva si colloca anche l'ordinamento di tipo regionale, quale delineato e prescritto dalla Costituzione repubblicana.
  Il dato forte di questa definizione, a mio giudizio, risiede proprio nella flessibilità del concetto di combinazione fra i due poli dell'autogoverno e del governo condiviso. L'equilibrio di tale combinazione può variare, accentuando ora l'autogoverno ora il governo condiviso, ma è importante che entrambi i poli siano presenti e riconoscibili.
  Sul piano sostanziale – quindi lasciando un attimo da parte la tecnica di ripartizione delle competenze – la variabile combinazione concerne l'orientamento delle politiche pubbliche e dell'esercizio della funzione legislativa e della funzione impositiva, riguardo alla diversità o differenziazione dal lato dell'autogoverno e all'uniformità dal lato del governo condiviso.
  Mi permetta, presidente, di fare ancora una considerazione in una prospettiva generale e astratta. L'opzione circa la collocazione del punto di equilibrio fra uniformità e differenziazione è in ampia misura connessa al contesto formativo-storico dell'ordinamento del quale si tratta. Nel procedimento storico di tipo centripeto, con unità politico-territoriali che si aggregano, l'equilibrio tende a spostarsi nel senso dell'autogoverno, dell'accentuazione della diversità o della garanzia della diversità; mentre nel procedimento storico di tipo centrifugo, con un ordinamento politico-territoriale unitario che si decentra, l'equilibrio tende invece a privilegiare l'uniformità.
  L'esame storico e comparato del fenomeno insegna che la flessibilità della combinazione non riguarda solo un ordinamento statuale composto rispetto ad un altro, ma è rinvenibile anche all'interno di un solo ordinamento. Questo è proprio il focus che ci riguarda direttamente.
  Rimanendo nel contesto europeo, possiamo notare che la flessibilità della combinazione, e dunque dell'opzione preferenziale per la differenziazione rispetto all'uniformità, caratterizza gli ordinamenti Pag. 11della Finlandia, per quanto concerne l'isola di Áland rispetto al resto del territorio; della Francia, con riguardo alla Corsica rispetto alle altre regioni; del Portogallo, con riguardo ad Azzorre e Madeira rispetto al territorio continentale, dove si è svolto un referendum che ha respinto un progetto di regionalizzazione; del Regno Unito, in rapporto a Galles, Irlanda del Nord e Scozia, rispetto all'Inghilterra che rimane l'unica estensione territoriale non regionalizzata; della Spagna, con riguardo all'Andalusia, alla Catalogna, alla Galizia, alla Navarra e al Paese Basco rispetto alle altre comunità autonome. Diversa è invece l'opzione di Austria e Germania, nel cui rispettivo contesto non si registrano diversità di fondo fra i diversi Länder.
  In altre parole, la differenziazione dello Stato fra le unità politiche territoriali è un dato oggi caratterizzante le esperienze europee che hanno accolto e disciplinato il fenomeno della ripartizione materiale delle funzioni di governo in base al criterio territoriale. In altre parole, non si tratta di una bizzarria italiana, ma di un fenomeno consolidato e molto presente.
  Non aggiungo, per motivi sistematici, l'esempio della Federazione russa, perché non penso che la Federazione russa possa agevolmente venire inserita in contesti quali quelli propri dell'Europa occidentale.
  È da menzionare che in tutti questi casi un ruolo cruciale è stato svolto da due fattori, che hanno determinato il riconoscimento costituzionale dell'assetto differenziato: un fattore distintivo (quello che in Spagna chiamano el hecho diferencial) e una cultura dell'autonomia. Questi due elementi, a mio giudizio, stanno alla base di un'opzione costituente, ovvero, in alternativa, di un'opzione di revisione costituzionale, qualora si volesse rivedere l'opzione costituente.
  Il fattore distintivo è individuato in ragione di una pluralità di criteri, che in senso lato si possono ricondurre ad un fattore di identità etnico-linguistica, ovvero di matrice storica, ovvero di natura economica, come la povertà, ovvero di specificità della configurazione territoriale come l'insularità (a volte anche la montagna, paradossalmente, può essere insulare). Tali fattori sono normalmente tutti presenti in varie misure in ciascuna delle esperienze europee sopra richiamate.
  Un altro fattore distintivo è l'esistenza di una cultura dell'autonomia, risultante o meno da pregresse esperienze, che comprende la capacità istituzionale, politica, amministrativa e di gestione delle risorse, le capacità istituzionali di governo, la configurazione del sistema politico (per esempio, la rilevanza di partiti territoriali), l'esistenza di un forte capitale sociale o capitale territoriale che garantisce la coesione del territorio, la volontà politica diffusa e partecipata.
  Vorrei aggiungere che la mancanza di cultura dell'autonomia, per esempio, è forse quello che sta alla base della mancata iniziativa politica delle regioni per l'attivazione dell'ultimo comma dell'articolo 116. Allo stesso tempo, forse un criterio interessante per valutare questa cultura dell'autonomia sta nel numero delle norme di attuazione che sono state poste in essere in attuazione degli statuti speciali. Sulla base dei dati aggiornati al 2011, il quadro di tali norme può essere così sintetizzato: 37 in Sicilia, 27 in Sardegna, 37 in Friuli-Venezia Giulia, 44 in Valle d'Aosta, 154 in Trentino-Alto Adige/Südtirol. È una differenza veramente notevole.
  A mio giudizio, quelli che ho appena ricordato – il fattore distintivo e la cultura dell'autonomia – sono i fattori in ordine ai quali si possono valutare le ragioni del regionalismo differenziato, tanto in una prospettiva a priori, nella fase di esercizio della funzione costituente, quanto come constatazione a posteriori, in una fase eventuale di revisione costituzionale. Questi sono i compiti ai quali le Camere sono oggi chiamate.
  È noto che all'interno delle coordinate succintamente richiamate ha operato l'Assemblea costituente italiana. In proposito è utile ricordare anche il contesto internazionale del dopoguerra, nel quale hanno variamente operato fattori di politica internazionale, nel caso di Friuli-Venezia Pag. 12Giulia, Sicilia e Valle d'Aosta, ma soprattutto nel caso del Trentino-Alto Adige/Südtirol. In relazione a quest'ultima regione l'accordo De Gasperi-Gruber, quale allegato al trattato di pace, ha previsto in capo allo Stato italiano l'obbligo di diritto internazionale di definire il contesto istituzionale e territoriale (cioè il frame) nel quale si sarebbe inserito il diritto delle popolazioni di lingua tedesca di esercitare la propria autonomia di governo.
  Si tratta ora di verificare, quale constatazione a posteriori, la perdurante esistenza dei due fattori, il fattore distintivo e la cultura dell'autonomia, quali sopra indicati. Si tratta di una constatazione il cui svolgimento richiede l'impiego di criteri non giuridici, quali l'analisi sociologica, politologica ed economica, apparendo più idonea, alla maturazione di un giudizio adeguato, l'utilizzazione di strumenti di altre scienze che quella giuridica.
  Cionondimeno, sotto il profilo giuridico, che è quello che mi compete, vorrei elaborare quattro ordini di considerazioni, nei cinque minuti che mi rimangono. In primo luogo, si può dire che, qualora quella constatazione extra-giuridica posteriore – fatta in base all'economia, alla sociologia e via dicendo – fosse positiva, la decisione politica di soppressione di quelle esperienze di autonomia speciale che ne beneficiassero risulterebbe gravata da un vizio di irragionevolezza costituzionale. Inoltre, rispetto alla maggiore tutela offerta al bene giuridico contrapposto dell'uniformità rispetto alla differenziazione, ravviserei anche un vizio di violazione del principio di proporzionalità rispetto al bilanciamento fra costi e benefici risultanti dall'assetto prodotto dalla revisione costituzionale.
  Ancora sotto il profilo giuridico, si può osservare che il potenziale innovativo dell'innovazione costituzionale repubblicana, prodotto dalla previsione dell'assetto regionale differenziato, ha indotto un'autorevole dottrina, quale quella rappresentata da Valerio Onida, a ritenere che l'esistenza delle autonomie regionali speciali rappresenti un principio supremo dell'ordinamento costituzionale, in quanto tale sottratto alla disponibilità della funzione di revisione costituzionale, in base alla sentenza n. 1146 del 1988 della Corte costituzionale.
  In terzo luogo, almeno con riguardo a quelle regioni ad autonomia differenziata nelle quali esiste un significativo pluralismo culturale e linguistico, occorre richiamare l'articolo 3 della Costituzione e ricordare che proprio il principio costituzionale di eguaglianza prescrive trattamenti normativi eguali per situazioni di fatto eguali e trattamenti normativi ragionevolmente differenziati per situazioni diverse.
  Ricordo ancora la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali e una sua ipotetica suscettibilità a venire valutata quale norma interposta. Ricordo che la tutela delle minoranze è oggi recepita anche dal diritto dell'Unione europea in base al Trattato di Lisbona.
  Questo è vero un po’ per tutte le autonomie speciali. Per quanto riguarda più direttamente quella del Trentino-Alto Adige/Südtirol, ricordiamo che i margini di discrezionalità disponibili per l'organo di revisione costituzionale sono significativamente ridotti anche per l'efficacia dell'obbligazione di diritto internazionale sopra ricordata. Esiste poi un ragionamento, che non posso qui sviluppare, in ordine al fatto che l'accordo De Gasperi-Gruber si riferisce alla popolazione di lingua tedesca, ma in questa nozione sono state fatte rientrare anche le popolazioni di lingua ladina e possono essere fatte rientrare anche le due minoranze germanofone del Trentino: i cimbri e i mòcheni. Evidentemente si pone un problema di adeguatezza della cornice regionale in ordine alla tutela di questi gruppi linguistici.
  Vorrei soffermarmi un attimo su questo semplicemente per ricordare che i costi delle autonomie regionali differenziate non possono corrispondere ad una logica meramente sostitutiva dell'esercizio decentrato di competenza dello Stato, ma devono potersi identificare, anche a maggior ragione, nell'assunzione di compiti di governo originali e radicati nelle peculiarità locali e nelle esigenze del territorio.Pag. 13
  Faccio alcuni esempi. I costi del bilinguismo evidentemente hanno una loro logica locale. La valorizzazione dell'ambiente, non solo sotto il profilo della salute, ma anche sotto il profilo dell'attrattività del territorio ai fini turistici, riguarda una realtà locale. L'investimento nella montagna, per garantire la qualità della vita della montagna, è evidentemente una priorità sul piano locale. Un maggiore investimento pubblico in ricerca scientifica ed innovazione può rappresentare una scelta indotta dalla configurazione montana del territorio, che non renderebbe praticabile una politica di insediamenti industriali di grandi dimensioni. La provincia autonoma di Trento investe quasi il tre per cento del proprio bilancio in ricerca scientifica, che rispetto allo Stato evidentemente è una proporzione molto diversa.
  Bisogna tenere conto del fatto che non è perché ci sono le risorse che ci sono le politiche, ma è in quanto ci sono le competenze che ci sono le politiche, e che le politiche hanno un costo. È questo il criterio in base al quale oggi viene disciplinata questa materia.
  In riferimento al Trentino-Alto Adige/Südtirol faccio presente che dal 2009 in avanti (è stata ricordata la legge sul federalismo fiscale) la rivendicazione delle due province autonome va nella direzione di acquisire competenze, senza trasferimenti da parte dello Stato. Secondo me, questo è proprio un indicatore di cultura di governo, perché evidentemente si vogliono esercitare quelle competenze senza «succhiare» risorse allo Stato o portarle via alle altre regioni.
  Non formulo il mio giudizio. Ho espresso i criteri in base ai quali lo formulerei e li affido alla vostra saggezza.

  PRESIDENTE. Ringrazio i professori D'Atena, Mangiameli e Toniatti, che hanno rappresentato un quadro molto ampio. Abbiamo ancora qualche minuto a disposizione per poter fare domande.
  Mi pare che i punti essenziali delineati siano stati questi: il rapporto tra finanziamento privilegiato e competenze rafforzate (su questo tema audiremo anche professori di scienza delle finanze e di economia, ma è interessante avere anche un punto di vista giuridico-costituzionale); la questione identitaria e i criteri, non solo giuridici, per poter stabilire quando siamo in presenza di una questione identitaria; il problema del regionalismo differenziato; la questione delle macroregioni; ed infine il quesito su quando alcune caratteristiche del territorio possono essere considerate o meno esclusive di questa o di quella parte del territorio.
  Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  MAURO PILI. Innanzitutto mi complimento con gli auditi per la chiarezza delle questioni poste, anche perché per la prima volta, in queste aule, si pone il tema reale della prima riforma incompiuta del federalismo, e il fatto di disegnarne oggi un'altra, senza aver compiuto la prima. Oggi dobbiamo valutare se completare questa riforma, con tutti i limiti che si sono verificati in questa prima fase e che sono stati richiamati, tra cui le gelosie tra regioni differenziate e la rincorsa di ognuno alle prerogative dell'altro.
  In realtà, le regioni differenziate, nonostante la clausola di maggior favore, sono state comunque surclassate da quelle ordinarie. Il passo in avanti fatto dalle regioni ordinarie sul piano delle competenze e delle funzioni, anche quelle economiche, è di rilievo. C’è stata infatti una negoziazione in Conferenza Stato-regioni che, invece, non è stata possibile, proprio per la rigidità degli statuti speciali, per le regioni autonome.
  Questo tema oggi ci induce a una riflessione che, guardando da un'ottica regionalista e insulare, mi pare non tenga conto del cuore del problema: la misurazione della specialità. Questo è il tema riguardo al quale il contrasto parlamentare tra le regioni ordinarie e quelle speciali fa sì che da una parte ci sia il tentativo di scardinare le speciali e dall'altra quello di rafforzare le ordinarie. Ciò avviene perché non si è posta la questione Pag. 14nevralgica della misurazione della specialità. A cosa è legata la specialità ? È un fattore culturale, identitario, indefinito, o vi è qualcosa di più pregnante, che oggi, per quanto mi riguarda, necessita di essere ancorato a elementi di certezza economico-finanziaria, che sono legati alle funzioni che quella specialità deve assolutamente rappresentare ?
  Io penso che questo sia un aspetto che va affrontato preventivamente, sia per completare la riforma che non si è compiuta sia per impostare qualsiasi nuovo processo di riforma futura, perché questo è il tema su cui il costo del federalismo fiscale non si è misurato. Mentre si è pensato a un riequilibrio della spesa generale della pubblica amministrazione, dalla sanità alla scuola, sul livello nazionale, uniformando la spesa, non si è posto il tema (toccato dall'ultimo intervento) del di più di chi vi è costretto oggettivamente, non per un favore dello Stato concesso alla regione, ma per un diritto che deve essere posto come base nevralgica del sistema pattizio tra Stato e regione speciale, che deve essere misurato.
  Io penso che da questo punto di vista oggi noi siamo di fronte a un problema, che vorrei porre agli illustri auditi. Noi siamo di fronte a una situazione di incostituzionalità. Nel momento in cui non si è compiuta la prima riforma, siamo in totale violazione dell'articolo 116, che aveva previsto la differenziazione tra le regioni speciali e quelle ordinarie. Oggi si è creata una situazione che nella sostanzialità delle questioni vede le regioni ordinarie un passo in avanti rispetto a quelle speciali, per tutta una serie di ragioni, da quelle economiche al rapporto pattizio, che si è sostanzialmente bloccato, con le regioni a statuto speciale.
  Questo pone un tema che è richiamato dall'articolo 10 della legge n. 3 del 2001, che dice sostanzialmente che per le regioni a statuto speciale si devono adeguare gli statuti. Nel momento in cui questo adeguamento non è avvenuto, cioè non c’è stato quel passo in avanti rispetto alla crescita esponenziale dei poteri e delle funzioni delle regioni ordinarie, di fatto si è creato un vulnus costituzionale, sul quale io penso che il Parlamento debba trovare degli elementi rilevanti.
  Credo che la misurazione della specialità debba essere un termine su cui fare delle valutazioni compiute. Cito, per esempio, la specialità insulare, che mi sembra quella più misurabile e meno discrezionale. Il costo dell'insularità è misurabile. Se una regione insulare fa parte di uno Stato, è giusto che questo equilibrio venga misurato su quel fronte. Rispetto a questo tema della misurazione della specialità, chiedo se gli illustri auditi possono citarci degli esempi e darci un'indicazione più netta.

  GIANPIERO DALLA ZUANNA. Innanzitutto vi ringrazio molto. Questa è un'occasione importante, anche perché ci aspettano passaggi parlamentari che, anche se forse saranno affrontati in modo frettoloso, dovranno essere affrontati nel miglior modo possibile.
  Si parlava di cultura dell'autonomia. Mi pare di aver capito che in ambito europeo e internazionale, per poter parlare di specialità, sono giudicate necessarie due caratteristiche: un fattore distintivo, il quale però non è di facile definizione, a meno che non parliamo di isole o di etnie, e la cultura dell'autonomia.
  Io mi chiedo cosa sia veramente questa cultura dell'autonomia. Se le regioni a statuto ordinario hanno avuto per tredici anni a disposizione il terzo comma dell'articolo 116 e non l'hanno mai applicato, verrebbe da dedurre che questa cultura dell'autonomia semplicemente non c’è. Evidentemente queste regioni hanno ritenuto più importante cercare di contrattare continuamente con lo Stato soldi o quant'altro, invece di affrontare la strada dell'autonomia, che è una cosa seria. L'autonomia vuol dire essere responsabili di quello che si fa in modo pieno.
  Vorrei una riflessione aggiuntiva su questo tema. Non possiamo imporre la cultura dell'autonomia. Se adesso noi andiamo a riformare la situazione, non possiamo dire alle regioni che devono diventare autonome. Queste sono cose che Pag. 15emergono con la storia e con il tempo, anche se forse la legge in un certo senso potrebbe aiutare. Evidentemente, però, se in tredici anni nessuno l'ha fatto, vuol dire che questo dato non c’è.
  Oppure, in realtà, l'articolo 116, terzo comma, è solo una disposizione teorica, che in pratica non era applicabile alle regioni o non c'erano le condizioni, economiche o di altro tipo, per poterla fattivamente applicare ? Vorrei una riflessione aggiuntiva su questo tema.

  FLORIAN KRONBICHLER. Rivolgo una domanda al professor Toniatti. Io provengo da Bolzano, una provincia che negli ultimi anni sente il bisogno di giustificarsi per certi privilegi e si vede oggetto dell'invidia delle regioni a statuto ordinario.
  Proprio la settimana scorsa c’è stata qui a Roma una conferenza sulle autonomie speciali organizzata dai colleghi del Senato. A margine di quel convegno, il nuovo governatore della provincia di Bolzano, Kompatscher, senza portare prove, ha rivendicato che, nonostante i pregiudizi – così li chiama lui – secondo cui le province autonome «mungono» lo Stato, la provincia di Bolzano sarebbe ormai da due o tre anni fra gli enti che, al netto, pagano allo Stato più di quello che ne ricevono. La provincia di Bolzano, secondo lui, è il terzo contribuente dello Stato dopo la Lombardia e l'Emilia-Romagna. Lei può confermare questo «trapasso», che contraddirebbe tutto quello che di solito si dice in giro ? Grazie.

  PRESIDENTE. Mi permetto di porre una breve domanda anch'io, per approfittare della qualità dei nostri auditi, che sono anche cari colleghi, oltre che amici.
  Il punto mi pare proprio quello del rapporto tra le competenze rafforzate e il finanziamento privilegiato, il cui nucleo sta nella diversa quantità di entrate tributarie che rimangono sul territorio, rispetto a quelle che vengono conferite alla raccolta generale dei tributi. Capisco che si tratta di un quesito che può essere rivolto più opportunamente ad altre perizie, ma sotto il profilo costituzionale la questione sembra quella di fare in modo che tutte le entità che concorrono a costituire la Repubblica attuino in una misura ragionevolmente equivalente il dovere costituzionale di solidarietà, anche tributaria. A me pare questa la domanda di fondo, per capire come possiamo continuare a ragionare sulle questioni della specialità e della differenziazione, in vista di una discussione parlamentare importante sulla revisione del Titolo V e sulla modifica del bicameralismo.
  Do la parola ai professori per la replica.

  ROBERTO TONIATTI, Professore ordinario di diritto costituzionale comparato e di diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Trento. Nel rispondere, seguirò un ordine inverso rispetto a quello secondo il quale sono state formulate le domande, cominciando dal presidente Balduzzi.
  La mia opinione è questa. Certamente c’è l'obbligo della solidarietà, ovvero della partecipazione alla perequazione territoriale. In questa fase questo obbligo viene assolto. Non saprei dire quanto e se in maniera sufficiente, ma certamente viene assolto dal 2009 in avanti. Direi anzi che questa è una delle priorità, come dimostrato anche da quanto detto dal presidente Kompatscher.
  Io credo che il dato importante sia che, proprio in ragione della specialità, anche l'individuazione dei modi e dei quantitativi di partecipazione debba essere affidata al metodo negoziale, non tanto perché si tratta di questioni di mercato, quanto perché evidentemente si tratta di graduare, anche nel tempo, l'intensità della partecipazione, posto che comunque tutti gli obblighi di natura comunitaria permangono. Nell'ultima legge finanziaria ho letto per la prima volta la formula «compatibilità eurocomunitaria», che è veramente molto interessante. Tutto questo c’è. L'importante, però, secondo me, è che venga affidato al metodo negoziale, quello che è stato seguito.Pag. 16
  Infatti, si è verificato qualcosa di non molto coerente. Successivamente all'accordo di Milano, concluso nel 2009, vi sono stati degli interventi di tipo autoritativo, che non erano coerenti con l'applicazione del metodo negoziale. Dico questo semplicemente perché gli statuti (certamente quello del Trentino-Alto Adige/Südtirol) prevedono che si possa modificare lo statuto, che ha rango costituzionale, anche con legge ordinaria, a condizione che la legge ordinaria rifletta un'intesa raggiunta fra le istituzioni di governo, che è appunto quello che si è verificato.
  La mia risposta alla domanda del presidente è che senz'altro questa riflessione va fatta e va ribadito l'obbligo della partecipazione alla perequazione. Questo, però, deve avvenire sulla base del metodo previsto dallo statuto.
  Quanto alla domanda dell'onorevole Kronbichler, io non so dire se è vero che vi è stato questo «trapasso» (io la chiamerei «evoluzione») della provincia autonoma di Bolzano e quindi non posso dare una risposta. In un certo senso, però, la risposta a lei viene da quella che ho appena dato al presidente: questa partecipazione alla perequazione è già avviata, ma non la saprei misurare.
  Al senatore Dalla Zuanna, che mi chiedeva qualche riflessione in più sulla cultura dell'autonomia, vorrei rispondere con parole forse un po’ «brutali», ma si tratta di cose che ho scritto, anche se può essere di cattivo gusto citarsi: a mio giudizio, il regionalismo non fa parte della Costituzione materiale italiana, se non per talune autonomie regionali istituite dall'Assemblea costituente. Lì la cultura dell'autonomia, ovvero la cultura e la prassi dell'autogoverno esistevano già. Da questo punto di vista, prima è arrivata la Costituzione italiana e poi è arrivato il regionalismo. Non parlo di regioni, ma della rivendicazione ad acquisire il ruolo di regione. Io credo che questo sia all'origine di tanti problemi. D'altra parte, non si giustificherebbe altrimenti un ritardo dal 1948 al 1972-1975, quando è avvenuto l'insediamento dei consigli regionali. Secondo me è in questi termini che può spiegarsi questo divario.
  Quanto al problema posto dall'onorevole Pili, è molto ricca la prospettiva di una misurazione della specialità. Certamente vi sono tanti criteri di misurazione. Io non so se lei si riferisca solo a criteri di tipo economico o anche a criteri di capacità di governo, cioè di capacità di corrispondere alle aspettative. Non so poi se si debba fare riferimento alla qualità della legislazione, ma sarebbe molto difficile e non saprei veramente a quale disciplina appellarmi, anche se la prospettiva della misurazione della specialità è molto stimolante.

  STELIO MANGIAMELI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Teramo, direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie. Io partirei proprio dalla questione posta dal presidente sull'equivalenza del dovere di solidarietà e della specialità. Come dicevo prima, c’è il problema del criterio originario per calcolare l'autonomia finanziaria delle regioni a statuto speciale, che è diverso qualitativamente rispetto al criterio relativo a quelle a statuto ordinario. Quel criterio fu previsto dagli statuti speciali per la condizione di particolare disagio delle regioni speciali originarie, sia quelle del Nord che quelle del Meridione (le due isole).
  Nel corso del tempo il criterio ha modificato la sua sostanza, perché la realtà socio-economica delle diverse regioni speciali si è modificata profondamente. Mentre in origine le regioni a statuto speciale del Nord erano povere tanto quanto le regioni del Sud, in seguito hanno avuto un ciclo più virtuoso delle regioni del Sud, e quindi una crescita del reddito prodotto nel territorio che, con l'applicazione dello stesso criterio, ha portato a un gettito superiore.
  Le regioni del Sud, non avendo avuto la stessa crescita, applicando pur sempre lo Pag. 17stesso criterio si ritrovano in condizione di debito dal punto di vista finanziario, tant’è vero che tutti i sistemi regionali speciali prevedevano, oltre al diverso criterio, forme di fondi speciali per le singole regioni. Per la Sardegna c'era il famoso Piano di rinascita, per la Sicilia c'era un fondo speciale previsto dallo statuto. Lo stesso accadeva per la Valle d'Aosta.
  Occorre guardare l'evoluzione del PIL, anche nell'ultimo ventennio. Io ho qui un prospetto, che ho preparato proprio per questo motivo. Noi ci troviamo con un PIL individuale regionale incommensurabilmente più alto nelle regioni speciali del Nord, che era tale anche nel 1995, quando c'era un momento di declino del regionalismo. Certamente, quindi, si pone un problema di solidarietà rispetto a questa crescita, ma secondo me non è l'unico problema che c’è nel regionalismo. È chiaro che le regioni del Sud, comprese le due speciali, avrebbero bisogno di un'attenzione molteplice.
  Io ho parlato del cosiddetto «federalismo fiduciario» – lo troverete nella relazione che deposito, ma non ho avuto il tempo di esporlo – cioè di forme di accompagnamento delle regioni meridionali, perché si possa affrontare il divario territoriale in una chiave nuova di regionalismo. Ora non ho il tempo di esporre tutto questo problema, che è enorme, però è quello che sta dietro a questo discorso e che coinvolge anche la questione del reddito e del versamento allo Stato da parte della provincia di Bolzano, che non è proprio nei termini precedentemente illustrati.
  L'articolo 116, terzo comma, non era applicabile, perché la procedura era troppo farraginosa. Gli unici tentativi sono stati d'ordine politico, per creare problemi alla maggioranza di Governo del tempo. In realtà questa clausola di asimmetria fu inserita senza prevedere tutte le varie fasi del procedimento, che erano complicatissime: la consultazione degli enti locali, l'intesa con il Governo, la presentazione del disegno di legge. Inoltre bisognava guardare i margini delle materia. Insomma, c'era una molteplicità di problemi che rendevano la suddetta procedura difficilmente applicabile.
  Sul tema della cultura dell'autonomia, e anche sul tema della misurazione della specialità, il dato che continua a emergere con chiarezza, secondo me (mi ricollego a quanto diceva Toniatti in precedenza), è che la vera cultura di autonomia e la qualità della specialità si sposano, perché le uniche vere regioni in Italia sono le regioni speciali. Il resto è una costruzione che è funzionale a uno Stato che sceglie di avere certe caratteristiche, e che può optare anche per la scelta del dimensionamento delle regioni così come sono, che derivano dai distretti di rilevazione statistica, o per una costruzione più equilibrata di accorpamento di alcune regioni (non parlo delle macroregioni come sono disegnate nel disegno di legge della Lega).
  Questo è un processo di razionalizzazione che deve coinvolgere tutti, per dare vita a un sistema autonomistico che è frutto di un'ingegneria costituzionale e che serve a efficientare la Repubblica. Questo è un discorso che in Italia non si riesce a fare, perché il pendolo una volta era tutto nell'estremismo del federalismo, adesso è tutto nel senso del neocentralismo. In Italia siamo ancora lontani dal poter fare un discorso equilibrato su un regionalismo razionale e funzionale, secondo l'insegnamento kelseniano.
  A fronte di questo, le regioni speciali sono vere e proprie entità storiche, con identità regionale. Su questo non c’è dubbio. Io sono siciliano, e quindi condivido con lei la stessa sofferenza. Non si preoccupi. Le regioni meridionali speciali avrebbero potuto fare molto di più – penso soprattutto allo statuto siciliano – ma hanno avuto altri problemi per cui questo non è successo. Il discorso in merito sarebbe lungo. Le condizioni storiche di partenza potevano sembrare uguali a quelle delle regioni del Nord, ma le condizioni di sviluppo sono state totalmente diseguali, perché abbiamo avuto una politica nazionale, dal Risorgimento in poi, che ha penalizzato il Mezzogiorno. La Pag. 18Cassa del Mezzogiorno e la politica di industrializzazione dell'IRI negli anni 1950-1960 non sono riusciti a colmare questo divario. Quando è arrivato il nuovo sistema degli anni ottanta, dopo la crisi petrolifera, non si è più riusciti a parlare in modo sereno della questione meridionale e del divario territoriale.
  Questo ce lo stiamo portando dietro oggi come una palla al piede, senza considerare che potrebbe invece essere una risorsa di grande traino per tutto il Paese. Su questo tema avrei bisogno di dire altre cose, ma non ne ho il tempo.

  ANTONIO D'ATENA, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Roma «Tor Vergata», presidente dell'Associazione italiana dei costituzionalisti. Nel rispondere, seguirò anche io un ordine inverso rispetto a quello secondo il quale sono state formulate le domande, cominciando dal presidente Balduzzi e dalla domanda sul finanziamento privilegiato con l'evocazione del principio di solidarietà.
  A me sembra importante, a questo riguardo, l'accenno che ha fatto il collega Toniatti al metodo negoziale. In effetti, quando si tratta di gestire trasferimenti di risorse da certe aree ad altre aree, la scelta esclusivamente centralistica diventa una scelta poco funzionale. Toniatti fa riferimento alle procedure negoziali previste dallo statuto, ma io penserei anche ad una cornice istituzionale più ampia. In fondo, questo è un problema che si pone in generale, non solo nei rapporti tra le regioni speciali e le regioni ordinarie, ma anche nei rapporti tra quelle ordinarie tra di loro e in quelli tra regioni ordinarie e regioni speciali, in senso rovesciato, dove il contribuente netto cambia.
  La sede sarebbe un Senato delle autonomie. D'altra parte, non è un caso che quando la legge costituzionale n. 3 del 2001 ha previsto un'integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali, creando quell'organo che nel gergo è stato chiamato «la bicameralina» e che poi non si è mai realizzato, pensava, tra le competenze, a quella in materia di finanza. Questo è un pezzo che mancava alla riforma del 2001. In fondo, questo era un surrogato rispetto a una seconda Camera. Il tema della seconda Camera, secondo me, è un tema strategico e questo sarebbe il momento per affrontarlo ex novo.
  Io mi permetto sommessamente di dire che non può essere una seconda Camera assolutamente depotenziata, ossia un organo di alta consulenza, ma deve avere la possibilità di portare la voce delle autonomie nei processi di decisione centrale. Uno degli ambiti in cui questo intervento sarebbe quanto mai salutare è quello della perequazione finanziaria.
  La cultura dell'autonomia è un dato storico. Voi considerate che ci sono state ampie parti del territorio italiano che hanno avuto una fiorente stagione comunale e altre parti che non l'hanno avuta. C’è un vecchio studio di Putnam sullo spirito civico delle regioni italiane, che si lega a questa tradizione. La storia non è un elemento che si può eliminare.
  A questo si aggiunge un altro aspetto, al quale ha accennato Mangiameli. È stato detto che le vere regioni sono le regioni speciali. Io non sono del tutto d'accordo, perché ritengo, per esempio, che un'entità come la Toscana sia una regione autentica, che individua un'identità culturalmente coesa. Il discorso vale forse anche per la Liguria, ma si può fare anche per altre realtà, anche se nell'Assemblea costituente questo tema è stato affrontato in maniera meccanica, mutuando i vecchi compartimenti statistici, come è stato ricordato.
  Comunque, questa cultura dipende dalla storia. La domanda che ci si poneva allora, quando si è fatta la riforma del Titolo V, era se la creazione di regioni più forti potesse essere uno strumento per promuovere la nascita di una coscienza civica. Questa era la scommessa, secondo me. C'era quindi un elemento pedagogico. D'altra parte, anche ai tempi della Costituente, quando si parlava delle autonomie le si considerava una palestra di democrazia. Si usciva da un ventennio in cui la democrazia non c'era.Pag. 19
  Io ritengo che uno strumento virtuoso possa essere il federalismo fiscale, ma un federalismo fiscale rettamente inteso e funzionante, con l'effettiva responsabilizzazione delle dirigenze nei confronti delle collettività, senza che si perda l'identificazione della responsabilità e anche della fonte di finanziamento alla quale si attinge per risolvere i problemi. Io penso che questa possa essere la strada. Ritengo sterile il ritorno al centralismo, a dire la verità.
  Per quanto riguarda l'articolo 116, ultimo comma, sono sempre stato critico sull'estensione delle competenze. In fondo, con un minimo di pazienza, si potevano individuare degli ambiti, visto che si è lavorato sull'elencazione di materie. Richiamare in blocco la competenza concorrente è stata un po’ una fuga in avanti.
  D'altra parte, si deve dire che dipende tutto dai numeri della politica e dalla presenza all'interno del Parlamento di forze determinanti, le quali esigono di ottenere certi risultati sul piano dell'ampliamento delle autonomie. Se sono determinanti per la tenuta del Governo, queste forze lo condizionano. È quello che è successo in Spagna con il primo Governo Zapatero: i catalani erano determinanti per la tenuta della maggioranza, quindi il Parlamento nazionale in sede di approvazione degli statuti, e in particolare dello statuto catalano, non è stato molto severo. Per quanto riguarda il procedimento, si è seguito il procedimento degli statuti spagnoli.
  Non credo che il punto sia stato questo, ma piuttosto quello che diceva in precedenza Mangiameli. Non c’è stato tanto un problema di farraginosità del procedimento, che mi sembra comunque un procedimento percorribile, quanto un problema legato all'uso politico che si è fatto di questa clausola, come strumento di opposizione da far valere nei confronti di una maggioranza che si intendeva mettere in difficoltà. Questa è stata la mia sensazione. Infatti, cambiata la maggioranza, queste pretese, che avevano raggiunto una certa massa critica, sono subito rientrate.
  Io, però, ripeto che non sottovaluterei segnali come quelli del referendum nel Veneto, perché sono il segno di un'insofferenza grave, che ha anche una sua giustificazione. Bisogna che l'edificio istituzionale crei delle strade perché queste istanze si possano canalizzare. Altrimenti, l'alternativa diventa traumatica.
  Per la misurazione delle specialità, forse i dati più oggettivi sono i dati geografici. Ci possono essere anche dei dati storico-identitari. Parliamo quindi di cultura e di territorio. Per quanto riguarda il territorio, non c’è dubbio che le isole hanno un costo, che dipende dalla loro insularità. È stato ricordato che in certi casi l'insularità può essere anche montana. Comunque, parliamo di territori che hanno questo tipo di problema.
  Non è un caso che, per esempio, in Portogallo le sole regioni autonome siano le Azzorre e Madeira, due arcipelaghi che si collocano nell'Oceano Atlantico, quindi molto distanti dal territorio metropolitano. Questo è uno degli elementi che spiegano come mai ci siano delle regioni autonome in uno Stato che mantiene una tradizione centralistica, nonostante la creazione, da parte della Costituzione del 1976, di regioni amministrative.
  Io ricordo che qualche anno fa invitai a Roma una collega portoghese per partecipare a un convegno dal titolo «I cantieri del federalismo in Europa» e le chiesi di parlarci del regionalismo portoghese. Esordì dicendo che il federalismo in Portogallo non esiste, perché la cultura è questa. Invece nelle isole c’è, anzi posso dire, anche per averlo constatato direttamente, che è stato un enorme fattore di sviluppo. Le Azzorre non esistevano, né come entità unitaria (anche perché sono isole sparse) né economicamente. Tuttavia, l'aver creato la regione è stato un fattore di promozione e di sviluppo formidabile.
  La questione dell'insularità, d'altra parte, era presa espressamente in considerazione dal vecchio articolo 119 della Pag. 20Costituzione, che prevedeva i contributi speciali a favore delle regioni soprattutto per il Mezzogiorno e per le isole. C'era questa questione sociale che si avvertiva, alla quale si sarebbe dovuta dare una risposta.
  Comunque, l'insularità è sicuramente un elemento. Gli altri strumenti di misurazione sono estremamente difficili da individuare.

  PRESIDENTE. Credo che la nostra indagine conoscitiva non sarebbe potuta cominciare meglio. Sono state poste praticamente quasi tutte le questioni. Ricordo che non solo c’è stata la ripresa televisiva a circuito chiuso, ma ci sarà anche la resocontazione stenografica della nostra audizione. Ricordo anche al professor Mangiameli, che non ha potuto completare la sua esposizione, che può lasciarci il testo scritto della sua relazione.
  Nel ringraziare nuovamente i professori D'Atena, Mangiameli e Toniatti, dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.20.