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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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XVII Legislatura

Commissione parlamentare per le questioni regionali

Resoconto stenografico



Seduta n. 7 di Giovedì 26 giugno 2014

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Balduzzi Renato , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE QUESTIONI CONNESSE AL REGIONALISMO AD AUTONOMIA DIFFERENZIATA

Audizione del professor Oskar Peterlini.
Balduzzi Renato , Presidente ... 3 
Peterlini Oskar , Professore di diritto regionale e delle autonomie presso la libera Università di Bolzano ... 3 
Balduzzi Renato , Presidente ... 7 
Del Barba Mauro  ... 7 
Balduzzi Renato , Presidente ... 8 
Cotti Roberto  ... 8 
Balduzzi Renato , Presidente ... 8 
Peterlini Oskar , Professore di diritto regionale e delle autonomie presso la libera Università di Bolzano ... 9 
Balduzzi Renato , Presidente ... 10 
Peterlini Oskar , Professore di diritto regionale e delle autonomie presso la libera Università di Bolzano ... 10 
Balduzzi Renato , Presidente ... 10

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE RENATO BALDUZZI

  La seduta comincia alle 15.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
  (Così rimane stabilito).

Audizione del professor Oskar Peterlini.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle questioni connesse al regionalismo ad autonomia differenziata, del professor Oskar Peterlini.
  Oskar Peterlini è professore di diritto regionale e delle autonomie presso la libera Università di Bolzano, ma è stato anche, per tre legislature, parlamentare della Repubblica. Quindi, lo ascoltiamo volentieri in tutte le sue vesti, in tutte le sue funzioni, e lo ringraziamo anche per aver lasciato agli atti della Commissione – il che gli consentirà anche un'esposizione più breve – una memoria che sarà certamente molto utile.
  Do la parola al professor Oskar Peterlini per lo svolgimento della relazione.

  OSKAR PETERLINI, Professore di diritto regionale e delle autonomie presso la libera Università di Bolzano. Signor presidente, gentili onorevoli, ex colleghi, sono lieto di poter affrontare questo compito direi non facile in questi tempi, come avevo anticipato parlando con il presidente, e con il vento che tira, che parte da una certa delusione della riforma del 2001. Senza analizzare troppo i motivi, si passa come un pendolo da un estremo all'altro.
  Ringrazio anche i gruppi parlamentari che hanno avuto la sensibilità di proporre il mio nome per quest'audizione. All'inizio è stato il Movimento 5 Stelle, e me ne sono molto rallegrato, sebbene non appartenga a quel movimento, perché mi hanno detto di aver apprezzato i miei lavori parlamentari. Poi mi hanno sostenuto anche i colleghi delle Minoranze linguistiche e la componente politica del gruppo Misto-LED ex SEL.
  Vorrei iniziare con la crisi della politica e delle istituzioni democratiche – vi chiederete perché, e la risposta ve la darò subito – poi parlerò dei motivi del fallimento della riforma 2001, che non dovrebbe portarci al ritorno al passato, e dell'opportunità delle soluzioni autonomistiche anche per un rilancio economico. Mi pare che questo aspetto sia stato un po’ trascurato anche nelle audizioni precedenti.
  Il contributo che specialmente un'autonomia dove convivono gruppi linguistici può dare per la pace sarà il tema finale che affronterò.
  Non mi attengo al testo scritto, che è stato distribuito o comunque l'avete ricevuto.
  Vorrei, dunque, innanzitutto affrontare questo tema della crisi della politica, che viviamo non solo in Italia, ma un po’ in tutto il mondo, che sta gettando discredito sulle istituzioni, che ci mette in difficoltà anche nelle regioni, si esprime anche come un comportamento di ostilità e nelle elezioni Pag. 4come un elemento di astensionismo, che si muove tra astensionismo e altri tipi di comportamento alternativi.
  La risposta a questa crisi può essere di diverso tipo. La scienza ha studiato vari modi e uno di questi è la cosiddetta «governance», passando dal cosiddetto «governo» a un termine usato e praticato nel mondo aziendale che indica di coinvolgere, non solo come una dirigenza politica eletta, ma soprattutto le parti sociali, gli attivisti, i movimenti, aprendosi praticamente nella gestione della società.
  Un'altra soluzione è quella di rafforzare gli strumenti di democrazia diretta e, infine, vi è la ricerca di ambiti più gestibili, più ristretti, più direttamente contattabili dal cittadino in ambiti più regionali autonomisti.
  Due tendenze stanno segnando il movimento che, al momento, direi mondiale, e si tratta di due tendenze contrapposte. Una tendenza è che il mondo si sta avvicinando, si sta riunendo e si sta anche caricando – permettetemi questo termine, perché è proprio così – di organi sovranazionali che, con tutto il bene e il merito che hanno, si allontanano sempre più dal cittadino e che, in contrapposizione a questa tendenza, portano il cittadino a vedere la sua mancata influenza su questi organi e a cercare una dimensione più gestibile.
  Tutti questi strumenti che ho menzionato, la governance e la democrazia più diretta, sono diverse forme organizzative dell'autonomia, ma perseguono in principio una stessa meta comune: i cittadini vogliono poter identificarsi meglio con la loro comunità, vogliono trovare, in un mondo sempre più grande, lontano e globalizzato una nuova identità e possibilità di realizzarsi nella realtà regionale, per poter cooperare e co-gestire i loro interessi oppure, per usare un termine carico di sentimento, per trovare una nuova Heimat, un termine difficilmente traducibile, che significa il luogo natio dove potersi rifugiare e potersi sentire a casa.
  Gli strumenti della governance li ho brevemente descritti. Gli strumenti della democrazia diretta in Italia non sono molto sviluppati e sono conosciuti in pratica solo con i due referendum, quello confermativo sulle leggi costituzionali e quello abrogativo, usato con grande successo per la legge sul divorzio, e successivamente usato e strausato.
  Mancano, in una democrazia equilibrata, in cui c’è la democrazia rappresentativa e quella diretta, strumenti importanti: le proposte di iniziativa popolare in Italia finiscono praticamente per arenarsi nelle aule parlamentari; il referendum confermativo anche per le leggi ordinarie; l'iniziativa popolare di modifica della Costituzione. La procedura dei diritti referendari tra Corte di Cassazione e Corte costituzionale è molto appesantita e dovrebbe essere semplificata. Soprattutto la discussione aperta è sul quorum, che vari proposte di modifica hanno cercato di eliminare, ridurre, controbilanciare con un numero di firme maggiori, ma senza riuscirci.
  Infine, la terza risposta a questa crisi della politica è proprio il regionalismo. Ci chiediamo cosa sia successo con la riforma del 2001. Questa autorevole Commissione – e mi complimento con il presidente e con i componenti che hanno deciso di festeggiare questo giubileo dei sessant'anni – è praticamente il primo embrione di un obiettivo che i padri costituenti hanno riconosciuto, cioè l'obiettivo di dare espressione alle voci regionali.
  Questa Commissione, già prevista nella Costituzione del 1948, l'unica di espressione regionale, ha poi vissuto un incremento della sua importanza fino ad arrivare alla riforma costituzionale del 2001, che addirittura ha previsto la possibilità di ampliamento della composizione della Commissione con delegati regionali. Perciò ho usato anche il termine «embrione» per quello che si sta discutendo adesso al Senato di una possibile rappresentanza. Purtroppo quest'ultimo passaggio non è stato attuato da tredici anni e ci fa riflettere sugli obiettivi del 1948.
  C’è comunque questo obiettivo, anche se un po’ sottosviluppato, come regionalismo, e si spiega perché nel 1948 le condizioni erano diverse, anche l'Europa era Pag. 5diversa, c'era la paura della disgregazione. Comunque, l'Italia ha il grande pregio di avere una Costituzione che si annovera tra le più liberali del mondo, con una grande missione liberale, democratica e sociale, mentre sul versante dell'organizzazione è rimasta indietro. Lo dimostrano tutti i tentativi di riforma iniziati già con Craxi, con Spadolini col suo decalogo, con le varie Commissioni bicamerali, fino alla riforma del Titolo V.
  Quest'ultima riforma non ha trasformato l'Italia in un Paese federale – chi conosce i Paesi federali come l'Austria, la Svizzera, la Germania o anche gli Stati Uniti d'America o altri sa cos’è un Paese federale – però ha effettivamente introdotto un paio di elementi importanti. Ci si chiede perché, adesso, dopo pochi anni di esperienza, il pendolo vada dall'altra parte.
  Quali sono le debolezze ? La prima debolezza è che se si fa una riforma si dovrebbe farla completa. Se io faccio una riforma costituzionale in senso federale e la metto su un piede solo, rischio che prima o dopo caschi. E difatti è avvenuto questo, perché si sono introdotti un paio di elementi senza riformare tutto il progetto; progetto che, tra l'altro, era previsto, ma D'Alema come sappiamo l'aveva ridotto alla mera riforma del Titolo V.
  Un'altra debolezza, che si esprime anche adesso nella discussione su regioni speciali e regioni ordinarie, è quella che l'Italia è un Paese con esperienze molto varie, con culture e pregi diversi. Dare una risposta unitaria a un Paese così variegato è naturalmente sbagliato. Ci sono regioni che queste competenze nuove introdotte nel 2001 hanno saputo gestirle eccellentemente, mentre ce ne sono altre che ci hanno costretto – lo dico senza voler offendere nessuno – ogni anno in Parlamento a fare una legge per la gestione dei rifiuti in Campania, come sappiamo tutti. Ritengo che una riforma costituzionale debba tener conto di questo.
  La Costituzione già lo prevedeva. In questo caso, l'articolo 116 prevedeva non solo, nel comma 1, le regioni speciali, ma anche la possibilità di crescere, come regioni ordinarie, per arrivare a una specialità che poteva essere raggiunta con una certa procedura. Purtroppo, le procedure avviate in Lombardia e in Veneto, nonostante la parentela politica della dirigenza del Governo romano e della Lombardia e del Veneto, non sono state realizzate.
  Il terzo punto di debolezza è che con le competenze devono anche essere trasferite le responsabilità. Queste si misurano sugli obiettivi da porre e da raggiungere, con incentivi e penalizzazioni e con standard previsti nella legge delega sul federalismo fiscale, però anche quella, bloccata un po’ dalla crisi economica, è rimasta lì.
  In linea di principio – questo è un messaggio importante – premiare le eccellenze conviene a tutti. Se l'Italia ha ricchezze in un certo territorio, conviene puntare su queste non per ribadire privilegi, ma per evidenziare il vantaggio per tutto il Paese. Questi vantaggi non sono solo sul versante sociale, politico, di convivenza delle minoranze, ma sono anche sul versante economico, come avevo già sottolineato.
  La crisi economica che stiamo vivendo non risale solo alle ultime precipitazioni economiche dovute alla crisi dei mercati finanziari – purtroppo ci hanno colpito anche quelle – ma deriva dal tipo di sviluppo che ha avuto lo stato sociale che all'inizio, dopo la guerra, ha potuto svilupparsi con la crescita enorme di tutti gli Stati europei. L'Italia addirittura è cresciuta a un ritmo ancora più accelerato di tanti altri Paesi. Pertanto, le radici sono molto più profonde e sono accompagnate, negli ultimi anni, da una vera rivoluzione dello sviluppo demografico, uno sviluppo che ci rende felici per quanto riguarda l'aspettativa di vita, ma ci dà preoccupazioni per quanto riguarda le nascite, rispetto alle quali l'Italia presenta i numeri tra i più bassi del mondo.
  Dov’è la chance ? La chance sta proprio nella diversificazione del territorio. Le teorie dello spazio o territorio diversificato (così si chiamano) permettono di analizzare una regione nella sua molteplicità e di non vederla solamente come parte di uno Stato.Pag. 6
  Il territorio viene analizzato nelle sue relazioni sociali ed economiche. Ci si chiede – lo chiede proprio l'Italia, ma se l’è chiesto anche la Germania dopo la caduta del muro – perché i tanti sforzi (era la stessa cosa anche in Inghilterra) di industrializzazione, di trasferire infrastrutture verso il Sud alla fine non sono riusciti. È un punto molto importante: l'importazione esogena da sola non funziona.
  Quello che si deve mobilizzare in una regione è la riscoperta delle proprie qualità e lo sviluppo delle potenzialità endogene, che offrono la possibilità di resistere nelle competizioni internazionali dei sistemi territoriali. Solamente in tal modo possono dare i loro frutti i programmi di sviluppo, che hanno fallito o si sono limitati a trasferire i fattori dall'esterno, cioè un transfer esogeno.
  Non bastano i programmi di industrializzazione, la costruzione di infrastrutture, il transfer di tecnologie, di comunicazione. Il successo di un sistema territoriale non dipende solamente dalla qualità e dalla quantità delle risorse, ma da vari elementi interni, dalle relazioni sociali, dal capitale delle interconnessioni locali, dalle proprie capacità e volontà di imparare sia come singoli sia come società. Si tratta praticamente di beni che sono radicati sul territorio; sono strettamente connessi con la cultura e la capacità di innovazione, la capacità individuale e collettiva di imparare, l'informazione, la rete di relazioni, gli investimenti in ricerca e l'educazione.
  Mi permetto di segnalare un importante libro che è stato edito prima in inglese (Regional Economics), a Londra, poi pubblicato anche in italiano da Roberta Cappello, che conviene approfondire in questo ambito, perciò mi limito a citarlo.
  L'autonomia – e questo lo abbiamo potuto sperimentare noi – incentiva e aiuta a sviluppare queste forze endogene. Questo è un punto importante, perché se tutto è diretto a livello centrale naturalmente queste forze rimangono intatte e immuni e non si sviluppano; promuovere invece l'auto-responsabilità, come un'autonomia fa, aiuta a sviluppare queste forze endogene, proprio quelle che devono sviluppare anche la crescita economica, naturalmente in dipendenza della cultura dei vari territori.
  È per questo motivo che la medicina non vale per tutti e per tutto, ma va applicata in modo diversificato con un'autonomia differenziata.
  Vi è un punto molto importante, di cui siamo molto fieri e al riguardo ci chiedono anche di intervenire all'estero, negli ultimi tempi soprattutto nei Paesi dell'est. Sono stato invitato anch'io, da Hong Kong a Macao, dove ci sono forme di autonomia diverse, anche molto più articolate, ma anche a Budapest e nei Paesi vicini dei Balcani. Il punto è che l'autonomia ha dato una soluzione anche a problemi di convivenza di varie nazionalità.
  Se leggiamo i libri di storia, purtroppo dobbiamo constatare che la storia, non solo in Italia e in Europa ma in tutto il mondo, praticamente è fatta di guerre. Un importante teorico americano, Kenneth Waltz, si è chiesto quali fossero le cause di queste guerre e ne ha analizzate tre: l'egoismo delle persone, la necessità di avere un nemico esterno, il mancato ordine mondiale, cioè anarchico, perché non c’è un Governo mondiale.
  Una causa importante che mi permetto di aggiungere è la non corrispondenza dei confini nazionali con gli insediamenti dei popoli. Questa mancata corrispondenza tra il territorio di uno Stato e l'insediamento del popolo ha segnato tantissime guerre. Se i confini non corrispondono agli insediamenti troviamo minoranze etniche all'interno e all'esterno dello stesso Stato. E una delle maggiori cause di insorgenza dei conflitti internazionali va proprio ricercata nella carenza di programmi per la risoluzione dei conflitti tra le diverse nazionalità e minoranze etniche.
  Individuare, pertanto, una soluzione ai problemi delle minoranze e delle nazionalità costituisce una sfida rivolta a spegnere questi focolai e ad assicurare la pace.
  Lo statuto del Trentino-Alto Adige in questo punto si differenzia dagli altri statuti Pag. 7per un aspetto decisivo, ossia il suo carattere internazionale. Mi permetto di citare come è nata la problematica senza entrare nella storia, che anche a causa dei limiti di tempo non avrei voluto affrontare.
  Filippo Turati, davanti a questa Camera dei deputati, nel 1919, contrario all'annessione della parte sud del Tirolo, ammoniva la Camera a respingere – cito – «l'annessione di oltre un quarto di milione di tedeschi gelosi della loro stirpe, della loro patria, della loro libertà, seme perenne di discordia e di ribellione». Questa la profezia di Turati nel 1919.
  La sfida nostra è di dimostrare che l'autonomia ha potuto porre fine a queste tensioni.
  Nel 2001 c’è stata la riforma costituzionale. L'esigenza che adesso si presenta è quella di adeguare questi statuti alla riforma. La necessità di riscriverli, quindi, c’è non solo da questo punto di vista formale. C’è la necessità di adeguarli ai tempi e di tenere conto, per quanto riguarda l'Alto Adige, anche delle nuove esigenze di passare da un parallelismo dei gruppi linguistici che abbiamo vissuto a un'integrazione vera e propria, per trovare il consenso sull'autonomia e sullo sviluppo del territorio per tutti i gruppi linguistici che vi convivono.
  Mi sono chiesto anche quali contributi dare a questo statuto di autonomia, partendo dalle scelte strategiche. Per quanto riguarda il Trentino-Alto Adige, abbiamo l'opportunità di una terra di confine che combacia con le culture germanofone e quelle latine, la conoscenza di più lingue e culture, la funzione di ponte culturale, non solo sociale ed economico, tra il nord e il sud dell'Europa, la ricchezza e l'esperienza di convivenza.
  Sulla struttura, le due province ormai sono di fatto regioni. Si chiamano province autonome e se la riforma Renzi passa saranno le uniche province esistenti. Mi chiedo se non varrebbe la pena riconoscere la situazione reale, riconoscere le province autonome, anche perché le province non esisteranno più, e trovare una soluzione per l'attuale regione, ridotta all'osso per quanto riguarda le sue competenze, anche per risparmiare. Abolirla sarà difficile – lo dico così, anche perché il Trentino è contrario – ma qualificarla come comunità sovraregionale potrebbe essere una sfida interessante, per esempio come agenzia di coordinamento di iniziative comuni delle due province, anche per promuovere una regione transfrontaliera, che già esiste, su vari temi: sull'università, sulla promozione dei prodotti alpini e del turismo nei Paesi lontani, sulla promozione dell’export e la politica agraria e via dicendo. Questo potrebbe essere un grande compito.
  Arrivo alla conclusione, presidente, per non abusare troppo della sua pazienza. L'autonomia dell'Alto Adige rappresenta un modello per tutta l'Europa. È un esempio di risoluzione pacifica dei conflitti. Abbiamo sconfessato, anche se dopo tanti anni, la profezia negativa di Filippo Turati, del 1919. Vi convivono varie minoranze linguistiche e l'autonomia e il federalismo si sono presentati praticamente come modelli non solo di convivenza ma anche di grande sviluppo economico, perché sono riusciti a mobilizzare proprio quelle forze interne che gradirei si possano mobilizzare per tutto il Paese Italia.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Peterlini. Leggeremo naturalmente la sua memoria, che è molto più ricca dei contenuti che i limiti di tempo della nostra audizione certamente hanno consentito di esporre.
  Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  MAURO DEL BARBA. La ringrazio, professore, per questa sintesi che ci ha permesso sicuramente di entrare dentro la ratio complessiva della sua relazione.
  Mi soffermo sul concetto di autonomia differenziata che lei ha elogiato, precisando che la medicina dell'autonomia non può essere distribuita in egual misura in territori differenti. Credo che in questo momento questa riflessione debba essere posta come centrale in Italia, proprio Pag. 8perché il tema della riforma della Costituzione, il tema delle autonomie viene a coincidere con una fase in cui il regionalismo vive un particolare momento di crisi, per non parlare di impopolarità.
  Viene davvero da chiedersi, allora, come su un regionalismo indebolito su territori che hanno in qualche modo fallito la prova dell'autonomia si possa realmente applicare questa autonomia differenziata e se alla fine non sia più che altro un'opportunità per qualcuno e invece un abbandono – uso un termine più forte di quello che vorrei indicare – per qualche altro territorio. Esiste comunque il timore che possa andarne di mezzo una sorta di disgregazione del tessuto nazionale, somministrando la medicina che tutti invece conveniamo possa essere una delle soluzioni, se non la soluzione principale, alla crisi anche economica e sociale, e non solo della politica.

  PRESIDENTE. Mi sembra un'ottima questione.

  ROBERTO COTTI. Vorrei chiedere l'opinione del professor Peterlini sull'iter che dovrebbe essere seguito, visto che adesso stiamo discutendo in Parlamento della riforma del Titolo V della Costituzione. Se questa riforma verrà approvata, essa dovrà essere applicata anche alle regioni a statuto speciale, ma siccome queste hanno i loro statuti autonomi, nel progetto di legge si dice che alle regioni a statuto speciale verrà applicata la riforma una volta cambiati gli statuti.
  C’è chi sostiene che bisogna indicare un termine temporale e se entro tale data le regioni autonome non adeguano il loro statuto alla nuova legge automaticamente interviene lo Stato applicando la riforma costituzionale. C’è chi, invece, si rifà anche alla «Dichiarazione sul regionalismo in Europa», che – sebbene non sia una legge applicabile direttamente – al comma 6 dell'articolo 3 dice esplicitamente che «le decisioni o le misure statali riguardanti le competenze o gli interessi regionali non possono essere adottate senza l'accordo preventivo delle regioni interessate». Quindi, c’è chi sostiene che vada privilegiato l'aspetto pattizio, cioè si devono mettere d'accordo Stato e regione per cambiare lo statuto, e c’è chi sostiene che deve prevalere l'autorità statale centrale, nonostante alcuni statuti addirittura siano precedenti alla Costituzione o alcune autonomie regionali abbiano comunque una storia – è il caso anche della regione da cui provengo, la Sardegna – molto diversa da quella della nazione.
  Che strada dobbiamo seguire ? Il patto ? O l'intervento dello Stato centrale che a un certo punto impone la modifica dello statuto e decide in assenza di un accordo di applicare la riforma del Titolo V ?

  PRESIDENTE. Anche questa è una questione interessante. Mi collego, ma in un'altra ottica, alla domanda del senatore Cotti per chiedere un punto di vista anche al professor Peterlini. In alcune audizioni che abbiamo avuto nell'ambito di questa indagine conoscitiva è stata avanzata, da parte di alcuni studiosi, una preoccupazione relativa alla riforma, in corso di discussione al Senato, del Titolo V e naturalmente della seconda Camera.
  Il riferimento è alla clausola, su cui anche noi come Commissione abbiamo rivolto un'osservazione in sede di parere alla I Commissione del Senato, con la quale si demanda l'applicazione delle nuove regole – che sono sicuramente nel complesso più coesive e certamente meno autonomiste, come ispirazione – ai futuri statuti. È un approccio che potrebbe allontanare ancora di più il contesto delle regioni ad autonomia ordinaria rispetto a quelle delle regioni ad autonomia speciale.
  Alcuni dei nostri auditi manifestavano una preoccupazione che questo non conduca a un'ulteriore tensione tra le due forme di regionalismo e poi a una conclusione che potrebbe buttar via con la classica «acqua sporca» anche il classico «bambino».
  Da questo punto di vista, mi interessa conoscere l'opinione del professor Peterlini.
  Do la parola all'audito per la replica.

Pag. 9

  OSKAR PETERLINI, Professore di diritto regionale e delle autonomie presso la libera Università di Bolzano. Ringrazio per le interessantissime domande, che rimarranno comunque un punto di discussione, non avendo io certamente le ricette sul tavolo. Comunque, tutte e tre le risposte alle domande poste dipendono dall'impostazione. L'Italia, purtroppo, non ha mai vissuto, anche perché è nata diversamente, questa sfida, questa challenge federalista.
  Quando le migliori intelligenze, nella metà del 1800, hanno cercato di costituire l'Italia l'idea era quella di unificare le varie regioni e portarle insieme. Quello che è sopravvenuto era completamente diverso; c'era la marcia dei Mille, Garibaldi, l'annessione a uno Stato che già esisteva, l'assunzione di una Costituzione sardo-piemontese che già c'era. Perciò, non c’è mai stata l'occasione di vivere quello che si è vissuto in altri Stati, la cui nascita era praticamente un'aggregazione libera.
  Questo principio, che si chiama sussidiarietà, è entrato nella Costituzione italiana dalla finestra e non dalla porta, perché è menzionato in due articoletti: nell'articolo 118, dove si dice che i Comuni hanno la competenza, salvo che per motivi di sussidiarietà sia più opportuno portarla verso l'alto, e in un altro articolo, quello sul potere sostitutivo del Governo, l'articolo 120.
  Non c’è, insomma, questa cultura. E io non posso immaginare, con una cultura federalista, che ci sia un potere centrale che imponga verso il basso il suo potere. Questo vale sia per la discussione adesso in atto e soprattutto per l'applicazione della stessa alle regioni speciali.
  Spero che le regioni speciali abbiano le ragioni per esserci. So che in Sicilia sono in corso grandi dibattiti e so che la regione speciale è nata perché c'era l'occupazione americana e certe forze borghesi e la mafia cercavano di andarsene con l'America; una situazione simile ad Aosta, dove qualcuno sperava di andare con la Francia.
  Da noi c’è il problema dei gruppi linguistici e questo motivo comunque rimane. Non credo che la Sicilia voglia separarsi, però motivi per l'autonomia – vale anche per la Sardegna – ci saranno sicuramente, anche se la gestione dell'autonomia purtroppo non ha dato quei frutti che si potevano avere in altre regioni.
  Sull'idea di indicare un termine per l'applicazione devo dire che noi come autonomia speciale siamo sicuramente più rasserenati, perché l'autonomia è stata, anche nella sua forma migliorata, non solo basata sull'Accordo di Parigi del 1946 tra l'Austria e l'Italia, che poi è entrata a far parte dell'accordo di pace del 1947, ma anche le sopravvenute riforme che hanno trovato la loro realizzazione nello statuto del 1972 sono state alla fine notificate dall'Italia all'Austria, che le ha depositate alle Nazioni Unite, a New York, nel 1992, e che sono praticamente di carattere internazionale. Non posso perciò immaginare che qui si tolgano aspetti che erano stati accordati internazionalmente.
  Mi auguro, invece, che si segua un'altra strada: come avevo detto, dove ci sono eccellenze vale la pena di promuoverle. Il prodotto interno lordo, il cosiddetto PIL, spesso viene misurato globalmente per tutto il Paese, ma ci si deve rendere conto che questo PIL non è altro che la somma dei PIL prodotti nelle varie regioni. Più si riesce a produrre pro capite – al momento il Trentino-Alto Adige è al vertice – meglio si può contribuire alla media nazionale.
  Al senatore Del Barba, sul PIL regionale e sulla medicina che non può essere applicata ho già risposto. Sulla soluzione dell'imposizione, devo dire che noi abbiamo l'esperienza per cui in qualche articolo dello statuto c’è scritto che si fa d'intesa. È quello che avevamo auspicato ed è la ragione per cui il nostro statuto e anche altri non sono mai stati cambiati.
  La riforma di Calderoli – chiamiamola così – del 2005 prevedeva l'intesa. Penso che non si possano mai risolvere i problemi di una comunità con la forza militare, ma si deve cercare un consenso nella popolazione. Questo per noi era un importante aspetto e ritengo che sia anche Pag. 10una soluzione per il futuro: trovare forme e introdurre riforme non in modo unilaterale, ma in forma condivisa.
  Presidente Balduzzi, mi sfugge il senso della domanda...

  PRESIDENTE. Si legge che le nuove disposizioni si applicano alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano, una volta che vi sia stata l'attuazione e la modifica degli statuti. Questo significa che intanto le regioni ad autonomia ordinaria vedranno un cambiamento del loro rapporto con lo Stato e un ampliamento complessivo delle funzioni statali, quindi vedranno forse una riduzione – riferivo una lettura che facevano i nostri auditi – della loro autonomia, mentre per quanto riguarda le regioni a statuto speciale rimane tutto com’è fino a quando non saranno modificati gli statuti.
  Questo significa che, in questo periodo, c’è un ulteriore allargamento della forbice del trattamento normativo tra le regioni ad autonomia ordinaria e le regioni a statuto speciale. Questo, secondo quelle preoccupazioni che erano state espresse, potrebbe creare un'ulteriore tensione tra il regionalismo ordinario e quello speciale, naturalmente in particolare nelle zone di confine e soprattutto per quanto riguarda le regioni a statuto speciale del nord.
  Per le isole il discorso è diverso.

  OSKAR PETERLINI, Professore di diritto regionale e delle autonomie presso la libera Università di Bolzano. Certo. La risposta dovrebbe essere assicurata – ho letto che nella prima bozza del disegno di legge costituzionale del Governo Renzi non c’è – proprio con l'articolo 116, comma 3, in cui si prevede per tutte le regioni una possibilità di sviluppo indipendentemente dal fatto che siano al momento regioni ordinarie. Non posso immaginare che lo sviluppo in Italia ci faccia ricadere indietro, a prima della Costituzione del 1948. Quello mi sembra, di fatto, l'obiettivo al momento.
  Direi all'Italia di aprire un po’ gli occhi, di studiare i pregi di un federalismo che ha dato frutti visibili in tutta l'Europa e di non mettersi nella situazione di pensare che un nuovo centralismo sia la risposta giusta.
  Se questo accade per le regioni ordinarie, perché si ritiene che la medicina al momento fosse troppo forte o non adeguata, si lasci la medicina giusta a quelle sviluppate – e tra queste conterei non solo quelle speciali di adesso, ma anche una Lombardia che ha un prodotto lordo ai vertici, come tante altre regioni del nord – e si usino le risorse per sviluppare tutto il Paese.
  La ringrazio per questa opportunità. So che il mio compito è difficile perché al momento parlo contro il vento.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Peterlini.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.45.