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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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XVII Legislatura

Commissione parlamentare per le questioni regionali

Resoconto stenografico



Seduta n. 3 di Martedì 31 marzo 2015

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 2 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE PROBLEMATICHE CONCERNENTI L'ATTUAZIONE DEGLI STATUTI DELLE REGIONI AD AUTONOMIA SPECIALE, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL RUOLO DELLE COMMISSIONI PARITETICHE PREVISTE DAGLI STATUTI MEDESIMI

Audizione dei professori Stelio Mangiameli, Roberto Bin e Giandomenico Falcon.
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 2 
Mangiameli Stelio , Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Teramo, direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie ... 2 
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 7 
Bin Roberto , Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Ferrara ... 7 
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 12 
Falcon Giandomenico , professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università degli studi di Trento ... 12 
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 16

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANPIERO D'ALIA

  La seduta comincia alle 9.40.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
  (Così rimane stabilito).

Audizione dei professori Stelio Mangiameli, Roberto Bin e Giandomenico Falcon.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle problematiche concernenti l'attuazione degli statuti delle regioni ad autonomia speciale, con particolare riferimento al ruolo delle Commissioni paritetiche previste dagli statuti medesimi, l'audizione dei professori Stelio Mangiameli, Roberto Bin e Giandomenico Falcon, che ringrazio per la disponibilità.
  Do la parola al professor Stelio Mangiameli per lo svolgimento della relazione.

  STELIO MANGIAMELI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Teramo, direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie. Nel ringraziarvi anzitutto per avermi invitato a questa audizione nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle problematiche concernenti l'attuazione degli statuti delle regioni ad autonomia speciale, cercherò nella mia relazione di seguire dettagliatamente le domande che sono state poste nel questionario che abbiamo ricevuto.
  Riguardo alla prima questione, relativa al problema della mancata attuazione degli statuti speciali, si chiede se ciò possa essere imputato agli strumenti attuativi di previsione statutaria, che sono ormai abbastanza datati, in quale misura la mancata attuazione sia imputabile alla vaghezza delle disposizione degli statuti speciali e, infine, se esistano ragioni politiche della ritardata o mancata attuazione.
  Il tema del regionalismo differenziato è un tema molto significativo nel sistema costituzionale italiano per diverse ragioni. Esiste innanzitutto un dato storico: il regionalismo differenziato è venuto ad esistenza molto tempo prima del regionalismo ordinario e, per certi aspetti, una parte della dottrina (me compreso) ritiene che il vero regionalismo italiano sia quello differenziato, non quello ordinario. Il regionalismo ordinario ha uno scarso impatto dal punto di vista dell'identità. Può dirsi infatti che l'identità regionale è stata realizzata nel tempo con le regioni ordinarie, mentre nel caso delle regioni speciali l'identità addirittura preesisteva alla stessa entificazione delle regioni. Questo per ragioni storiche o per ragioni anche più complesse: noi abbiamo conferito l'autonomia speciale a due regioni che hanno il carattere dell'insularità e ad altre tre regioni che hanno un carattere analogo, quello cioè di essere delle piccole comunità che, al loro interno, hanno presenze di ulteriori comunità alloglotte e quindi hanno necessità di questa identità.
  L'autonomia speciale comincia il suo percorso ancor prima della Costituzione repubblicana. Non dimentichiamo che Pag. 3l'adozione dello statuto della regione siciliana precede di due anni l'entrata in vigore della Costituzione e sarà convertito, ai sensi della legge costituzionale n. 2 del 1948, in legge costituzionale ai sensi e per gli affetti dell'articolo 116 della Costituzione. Ciò ha comportato che proprio questo statuto speciale ha un carattere negoziale: lo statuto speciale e il patto tra la comunità regionale e lo Stato italiano. Questo ovviamente imprime a questi statuti e in particolare a quello siciliano una dimensione più federale che regionale. Del resto, leggendo molte delle disposizioni dello statuto della regione siciliana, si evince che l’imprinting di carattere federale è molto forte: mi riferisco in particolare a norme che ormai sono scomparse, come quella sull'Alta Corte della regione siciliana e alla struttura del giudice speciale costituzionale, che aveva un carattere arbitrale nella sua composizione, come è tipico nei giudici costituzionali delle entità federali.
  Ad esempio, in Germania, la Corte costituzionale è eletta per metà da una Camera, che è rappresentativa del popolo tedesco, e per l'altra metà dal Bundesrat, che è rappresentativo dei lander, delle entità regionali. In America, la Corte Suprema può essere nominata solo con il consenso del Senato, che è la Camera che rappresenta gli Stati, anche se vi è stata una modifica nella composizione.
  Gli statuti speciali, sin dal primo momento, contenevano delle previsioni normative sul tema dell'attuazione, che sono state interpretate in modo opposto a quello con cui furono pensate.
  Le disposizioni degli statuti speciali sull'attuazione furono infatti pensate perché eravamo al momento della creazione delle prime regioni in Italia, quindi è ovvio che, entificando una determinata realtà politica e sociale, occorresse predisporre anche mezzi e beni per il suo funzionamento, i quali non potevano che provenire dallo Stato; di qui la necessità di una cessione di funzioni da parte dello Stato.
  Ciò si evince con estrema chiarezza se si legge l'articolo 43 dello Statuto siciliano che recita tuttora che «una Commissione paritetica di quattro membri nominati dall'Alto commissario della Sicilia e dal Governo dello Stato determinerà le norme transitorie relative al passaggio degli uffici e del personale dello Stato alla regione, nonché le norme per l'attuazione del presente statuto». Con le norme di attuazione del presente statuto non si pensava alla specificazione dei poteri legislativi e amministrativi, perché quelli sono prescrittivamente indicati dallo statuto; tra l'altro, le enumerazioni dei poteri e delle materie non abbisognano di nulla per poter funzionare, ovvero il conferimento dalla potestà legislativa a un soggetto diverso dallo Stato per opera di una norma costituzionale avviene è completo ed avviene per così dire «con un tratto di penna». L'organo legislativo che ne è destinatario è in condizione, nel momento in cui è costituito, di poter iniziare la legislazione nel campo materiale di sua competenza. Lo stesso dicasi per quanto riguarda le funzioni amministrative, solo che queste richiedono un apparato di gestione della funzione stessa, ponendosi pertanto il problema del passaggio degli uffici e del personale. Queste norme riguardavano quindi la costituzione dell'ente in concreto e l'avvio di quel minimo di apparato amministrativo necessario per consentire alla regione la realizzazione di quanto era scritto nello statuto, ma non una precisazione degli ambiti materiali in cui la regione poteva legiferare e avrebbe potuto svolgere le sue funzioni amministrative. Questa è una lettura impropria, che è stata addossata alle norme previste dagli statuti speciali.
  Anche la disposizione dello statuto friulano, che fu scritto in un momento in cui la Corte costituzionale aveva adottato la maggior parte della sua giurisprudenza in materia, che implicava che le norme di attuazione fossero quelle che definivano i poteri legislativi delle regioni speciali, porta una dizione nell'articolo 66 che non è dissimile da quella dello statuto siciliano, anzi lo ricalca. Tale articolo recita infatti: «con decreti legislativi, sentiti una Commissione paritetica di sei membri, nominati Pag. 4tre dal Governo della Repubblica e tre dal Consiglio regionale, saranno stabilite le norme di attuazione del presente statuto e quelle relative al trasferimento all'amministrazione regionale degli uffici statali che nel Friuli Venezia Giulia adempiono a funzioni attribuite alle regioni». Siamo quindi sempre nello stesso ambito di funzionamento e di logica.
  Paradossalmente, lo statuto che ha seguito la distorsione introdotta dalla prassi rispetto alle norme costituzionali è lo statuto del Trentino Alto Adige che, come voi sapete, è stato rielaborato all'inizio degli anni ’70 e quindi reca una dizione alquanto anomala, facendo riferimento al: «Le norme di attuazione relative alle materie attribuite alla competenza della provincia». In tal caso, quindi, ha fatto breccia nel testo quella parte di giurisprudenza costituzionale che ha letto le disposizioni degli altri statuti che consentivano la precisazione degli ambiti materiali di competenza legislativa e amministrativa.
  Questa è però una situazione paradossale, perché proprio le province di Trento e Bolzano sono quelle che hanno realizzato il massimo grado di autonomia. Ci troviamo di fronte a un testo dello statuto che ha distorto o meglio che si è adeguato alla distorsione dell'esperienza concreta dell'ordinamento, anche se, nel concreto, la prassi di tale parte dell'ordinamento speciale può considerarsi la prassi migliore.
  Possiamo dire tranquillamente che il ruolo delle norme di attuazione non è dipeso dalla vaghezza delle enumerazioni contenute negli statuti speciali. Le materie previste nello statuto siciliano, sardo, valdostano, trentino e friulano non sono infatti enunciazioni indefinibili: espressioni linguistiche spesso anche estremamente ridotte, quali igiene e salute, agricoltura e foreste, urbanistica, beni culturali, non hanno alcun elemento di vaghezza.
  Ogni dottrina – non solo quella italiana, mi riferisco anche alla giurisprudenza della Corte costituzionale austriaca e tedesca – di un ordinamento che conosce un sistema enumerativo ha costruito degli schemi per poter interpretare adeguatamente tutte le enumerazioni.
  Anche la nostra Corte costituzionale, quando ha avuto il concreto problema di dover definire questa o quella materia contenuta nell'articolo 117 o altrove, ha agito allo stesso modo, ovvero ha chiarito, in massima parte attraverso strumenti ermeneutici e anche tramite opzioni di carattere metodologico e momenti di precomprensione giuridica, e risolto i problemi che potevano nascere dall'elencazione di materie.
  Non c'era quindi alcun motivo, per quanto riguarda le regioni speciali, che il contenuto del potere legislativo su una determinata materia dovesse essere determinato da una norma di attuazione, quindi da una norma subordinata alla Costituzione e allo statuto, ma da cui far discendere il significato di quanto è previsto nello statuto stesso.
  Vi è stata quindi un'inversione logica nel sistema delle fonti: io interpreto la Costituzione non per quello che dice, ma per il contenuto delle leggi che vi dovrebbero dare attuazione. Questa tecnica ha comportato più di un ritardo. Essa infatti ha innanzitutto nuociuto alle regioni ordinarie, perché, quando sono venute in essere le regioni ordinarie e si è completato il disegno regionalista, qualcosa di analogo è stato applicato anche alle regioni ordinarie, con il D.p.R. 15 gennaio 1972, n. 8, con cui fu effettuato il primo trasferimento alle regioni ordinarie di funzioni amministrative statali e con lo stesso D.p.R. 24 luglio 1977, n. 616, purtroppo anche sulla base di un'infelice posizione di parte della dottrina, che considerò l'articolo 117 della Costituzione una pagina bianca. Mi riferisco alla celebre espressione pronunciata da Livio Paladin nel 1971, al convegno di studi regionalistici. Questo è il senso in cui ha nuociuto, creando inoltre una situazione ulteriore, perché le regioni ordinarie, superati questi momenti di impasse e costituitesi organizzativamente, sono andate avanti speditamente sull'assetto dei poteri e, ogni volta Pag. 5che dovevano rivendicare qualcosa, avevano la possibilità di fare sinergia tra di loro nei confronti dello Stato.
  Le regioni speciali, che in origine erano le uniche regioni in essere e che godevano della massima autonomia, hanno continuato a camminare a ranghi separati, rincorrendo la possibilità di ottenere competenze attraverso il meccanismo dei decreti di attuazione.
  Il rapporto tra regionalismo ordinario e regionalismo speciale, anziché sottolineare la specialità ricomprendendo nei poteri ordinari anche poteri ulteriori, in realtà si è rivelato penalizzante per le regioni speciali, provocando pertanto l'aggravamento politico della situazione.
  Questo ha portato nel 2001, quando fu approvata la revisione del Titolo V con la legge costituzionale n. 3, alla scrittura dell'articolo 10 della suddetta legge, che recita: «sino all'adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampia rispetto a quelle già attribuite».
  Il sistema veniva quindi da tale disposizione ricondotto a una effettiva razionalità, perché il Titolo V era lo standard di autonomia ordinaria e doveva valere per tutti, mentre per la parte eccedente prevista dagli statuti, lo statuto continuava ad essere valido. Si è creata una situazione molto interessante perché, per quanto riguarda le regioni ordinarie, si è avuto il principio dell'inversione dell'enumerazione, cioè numerati sono diventati i poteri dello Stato e la competenza generale residuale è passata alle regioni, con nel mezzo il corpo delle competenze concorrenti, mentre, nel caso delle regioni speciali, c’è un sistema a doppia numerazione: da una parte l'enumerazione dello Stato, dall'altra l'enumerazione degli Statuti, con la clausola di residualità a favore sempre delle regioni speciali.
  Questo è il sistema più garantista per le entità regionali. Penso in modo particolare all'esperienza canadese, in cui questo modello ha permesso di discutere e negoziare molto meglio alle entità federate il rapporto con la federazione.
  Le regioni speciali si sono trovate dal punto di vista costituzionale di nuovo un passo avanti rispetto all'intero sistema. È chiaro che però il meccanismo perverso delle Commissioni paritetiche e delle norme di attuazione ha impedito a queste regioni di utilizzare al massimo tale sistema costituzionale, così come si era venuto a creare.
  C’è ancora bisogno delle Commissioni paritetiche e di questi decreti di attuazione ? A mio avviso no, perché ormai le regioni sono una realtà consolidata, hanno apparati amministrativi consistenti, con il loro potere di organizzazione sono in grado di avere flessibilità per decidere meglio l'allocazione delle loro risorse, e, anche se l'articolo 119 è di là da essere, comunque per le regioni speciali vi sono norme sulla finanza speciale che sono pienamente in vigore e che consentono una quantità di risorse notevoli.
  Il meccanismo del passaggio delle competenze in questi termini non è più accettabile. Se lo Stato ritiene di dover continuare a conservare dei poteri nell'ambito delle regioni speciali è sufficiente che ne faccia espressa dichiarazione. Qui c’è un elemento ulteriore di novità, che potrebbe essere utile al sistema regionale: le regioni speciali, soprattutto in vista della riforma costituzionale che si sta adottando, offrono la possibilità di una sperimentazione inedita in Italia.
  Anche alla luce del testo di riforma al vostro esame, non possiamo pensare che le regioni siano solo un ente di legislazione e programmazione: la regione è un ente di amministrazione per motivi complessi e diversi. Tale realtà vale a maggior ragione per le regioni speciali; l'autonomia speciale si è divisa in due tipi di autonomia: l'autonomia alpina con le quattro entità (Valle d'Aosta, Trento, Bolzano e Friuli Venezia Giulia) e l'autonomia insulare.
  Questi due tipi di autonomie presentano una certa distanza tra loro, sono due sistemi speciali e bisognerebbe considerarli Pag. 6separatamente per quello che sono e per come risultano concretamente organizzati, ma al di là di questo è chiaro che, con le norme sulla finanza speciale e con la realtà che esprimono, il sistema speciale oggi può giocare molto concretamente la partita del regionalismo di esecuzione.
  Più vicine a questo dato sono le regioni alpine rispetto a quelle insulari, ma non vi sono difficoltà soprattutto perché queste regioni gestiscono da tempo una serie di competenze tipicamente statali. Non so se le Camere nell'approvare nella versione definitiva quanto disposto in quello che diviene il comma 12 dell'articolo 39 abbiano percepito esattamente il senso di questa disposizione, ricalcata sulla base del disposto dell'articolo 10 con un'aggiunta che recita che «le disposizioni di cui al capo quarto della presente legge costituzionale non si applicano alle regioni a statuto speciale e alla province autonome di Trento e Bolzano fino all'adeguamento dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime regioni e province autonome».
  Questo significa che non si applicano la nuova enumerazione dell'articolo 117, la clausola di salvaguardia, la clausola di flessibilità o di supremazia e la visione delle competenze residuali in termini di marginalità territoriale. Si applicherebbe ancora la dotazione prevista dagli originari articoli 117 e 10 in combinato disposto con l'enumerazione, e, pertanto, le regioni dovrebbero rinunciare a questo comparto di autonomia, siglando un'intesa con il Governo che si inserisce nel procedimento legislativo previsto dalla legge costituzionale n. 2 del 2001, che attribuiva di fatto alle regioni speciali un forte potere nella riscrittura degli statuti. Dovrebbero quindi rinunciare anche a questo per realizzare l'intesa e per avere uno standard di autonomia che, di certo, è ridotto, quantomeno nella filosofia di massima di chi ha riscritto l'articolo 117.
  Vi è quindi un tentativo di riduzione; poi che questo accada o non accada rappresenta un altro problema, perché le prassi costituzionali sono sempre diverse dalle norme costituzionali. È chiaro che, se le regioni speciali vogliono conservare uno standard più elevato, è sufficiente non addivenire mai a un'intesa.
  Tutto si gioca quindi su quel «non», perché sarebbe stato diverso se la disposizione avesse previsto che «le disposizioni di cui al capo quinto della presente legge costituzionale si applicano alle regioni»: ciò avrebbe comportato che l'autonomia speciale si sarebbe appiattita a livello di quella ordinaria sulla base del nuovo articolo 117 e che le regioni speciali avrebbero dovuto singolarmente negoziare le intese, per cercare di avere qualcosa in più rispetto alle regioni ordinarie. Questa piccola condizione, se il testo rimarrà tale, determinerà una certa divaricazione tra l'esperienza ordinaria e l'esperienza speciale.
  Le regioni speciali sono state litigiose ed hanno dato vita a un contenzioso particolare. Sono state aggressive ? Direi proprio di no. Innanzitutto in un sistema costituzionale che prevede tutte queste entità l'aumento del contenzioso è normale e fisiologico; peraltro è stato denunciato un contenzioso sulle competenze concorrenti, quando invece è stato prevalente non su di esse, ma sulle competenze dello Stato interpretate nel modo in cui lo Stato le ha interpretate, ovvero su clausole particolari come la prevalenza o il coordinamento della finanza pubblica.
  Le regioni speciali nell'ambito del contenzioso hanno perseguito una tecnica difensiva e da questo punto di vista hanno operato per ottenere riconoscimenti delle clausole di salvaguardia contenute nella decretazione, in particolare nella legislazione di emergenza, per la salvaguardia delle loro risorse. Le regioni speciali non sono andate però al di là di questo.
  Credo che il panorama della riforma e dell'esperienza delle Commissioni paritetiche possa essere definita ampiamente esaurita, per cui bisognerebbe trovare nuovi strumenti e nuove forme per avviare questa nuova fase del regionalismo speciale.

Pag. 7

  PRESIDENTE. Nel ringraziare il professore Mangiameli per la sua relazione, do la parola al professor Bin.

  ROBERTO BIN, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Ferrara. Nel ringraziare il presidente, premetto che vi darò una prospettiva un po’ diversa da quella del mio collega Mangiameli, nel senso che a me sembra che l'esperienza delle norme di attuazione e delle Commissioni paritetiche sia un'esperienza molto interessante e molto istruttiva.
  Seguirò anch'io l'ordine delle domande poste nel questionario, partendo quindi dalla questione relativa al verificarsi o meno del ritardo nell'attuazione degli statuti speciali a causa della scarsa efficienza delle Commissioni paritetiche.
  Tenete presente che considero sbagliato parlare di regioni speciali come se fosse una categoria omogenea, vi sono cinque regioni speciali, di cui una più speciale delle altre, avendo due province autonome; si tratta pertanto di regioni che hanno problemi, capacità amministrativa, presenza politica e storie molto diverse, per cui è arbitrario fare un bilancio complessivo.
  Diceva giustamente il collega Mangiameli che le prestazioni delle regioni cosiddette «alpine» sono molto diverse da quelle insulari, e questo ictu oculi, ma bisogna capire quanto pesi questo sul sistema e quanto il sistema abbia favorito questa differenziazione.
  Ritengo che la lentezza dell'attuazione degli statuti – se c’è, il che è tutto da verificare – dipenda non dal cattivo funzionamento delle Commissioni paritetiche, ma dalla fortissima resistenza delle burocrazie centrali. Le Commissioni paritetiche funzionano avendo come interlocutore purtroppo non il Governo (e questo è un problema), sicuramente non il Parlamento, che è bypassato, ma le burocrazie, che non rispondono.
  Si impiegano mesi ad avere risposte che vengono sempre date dall'ultimo funzionario che non ha potere decisionale, che indica le cose che non si possono fare; quindi ciò che si può o non si può fare viene deciso da un organo burocratico. Considero questa la premessa di qualsiasi discorso sull'autonomia in Italia: l'assenza di politica e il governo della burocrazia, cioè l'abuso.
  Le previsioni statutarie sono ormai datate; tutto è ormai datato. La Costituzione americana, avendo oltre due secoli è datata, la nostra tutto sommato è molto più giovane, e proprio lì risiede l'aspetto positivo delle Commissioni paritetiche e delle norme di attuazione, ovvero di aver dato un'attuazione progressiva mutando i contenuti dell'etichetta.
  Non c'entra la vaghezza delle norme (tutte le norme sono vaghe, anche perché la nostra Costituzione, come tutte le altre, non è stata redatta in presenza di fenomeni quali la televisione, internet, l'ingegneria genetica), il problema è avere gli strumenti per adeguare l'applicazione della Costituzione ai fenomeni nuovi, considerando che, nel mezzo, c’è lo spazio delle norme di attuazione.
  Da questo punto di vista, vorrei sottolineare il fatto che la forma del decreto legislativo è fortemente adeguata, perché raggiunge l'obiettivo che starebbe nella riforma costituzionale se le norme sul Senato avessero una loro razionalità e portassero il Senato ad essere un organo funzionante, cosa che temo non sarà, basandosi sul principio di differenziazione delle leggi.
  La Corte costituzionale ha riconosciuto nella sua giurisprudenza ai decreti di attuazione una posizione superiore alla legge ordinaria: la legge del Parlamento non può derogare alle norme dei decreti legislativi, così come la legge del Parlamento non dovrebbe poter derogare alle leggi bicamerali, quelle che in Spagna e in Francia sono leggi organiche.
  Quando ero giovane, uno dei miei primi lavori riguardava un commento a un messaggio segreto del Presidente della Repubblica che il giorno dopo l'uscita del famoso D.p.R. n. 616 del 1977, che trasferiva i poteri alle regioni ordinarie, rimandava al Governo un disegno di legge che derogava al D.p.R. n. 616.Pag. 8
  Era stato appena emanato, dopo due anni di lavori, un decreto di attuazione per le regioni ordinarie e il giorno dopo veniva fatta una «leggina» che ad esso derogava: questo è il micidiale problema della legislazione in Italia, che ormai è diventata incomprensibile, perché è fatta di deroghe, di norme speciali, di contenuti modificati, che nessuno è in grado di controllare.
  Da questo punto di vista, un risultato importante che dà razionalità è rappresentato dalle norme che attuano gli statuti speciali, perché si riferiscono direttamente alla legge costituzionale e si impongono sulle leggi.
  Tenete presente poi che c’è un'altra questione: nei confronti delle regioni ordinarie si sono fatte operazioni parallele. Di recente ci sono state le leggi e i decreti cosiddetti Bassanini, cioè grandi corpi normativi che hanno attuato non lo statuto speciale, ma la disciplina ordinaria costituzionale trasferendo competenze a regioni ed enti locali; essi hanno dato senso alle etichette costituzionali che, di per sé, come diceva il mio maestro Paladin, restano una pagina vuota.
  In tutti i Paesi funziona così e non è una particolarità dell'Italia, persino in Inghilterra una legge sulla devolution verso la Scozia è stata seguita da una serie di atti concertati per dare senso non a una pagina vuota, ma a un corpo normativo di svariate decine di pagine molto specifico sulle competenze trasferite, ciò perché la Carta non basta ma ad essa bisogna dare anche tutto il corpo della sostanza amministrativa, e questo non può che avvenire su base consensuale.
  L'idea di governare contro le regioni e gli enti locali è un'idea assurda; non si governa così, perché in questo modo si crea contenzioso e non si ottiene efficienza. L'idea di una norma che si produca o perché c’è il Senato che rappresenta i territori o perché c’è un principio di contrattazione o perché la concertazione si è raggiunta in qualche modo è un'idea sana e importante e le norme di attuazione rappresentano per gli statuti speciali esattamente questa soluzione.
  C’è una debolezza storica eterna ovunque sulle materie. Le indicazioni delle materie servono infatti a poco. Mi soffermerò alla fine sulla questione dell'adeguamento all'eventuale riforma della Costituzione per quanto riguarda le materie, ma preannuncio che pensare di regolare i rapporti tra Stato e regioni tramite gli elenchi di materie è sbagliato e non è una strumentazione sufficiente; può essere una strumentazione utile ma a condizione che poi dietro si provveda ad un'attuazione mediante atti legislativi di tipo diverso.
  La quarta domanda che ci è stata posta recita: «il rango costituzionale di legge degli statuti speciali e la particolare norma interposta possono paradossalmente aver reso più difficili i meccanismi attuativi e le disposizioni statutarie ?». Rispondo che certo che lo rendono più difficile, perché, siccome queste norme sono specifiche e sono superiori alla legge, incontrano il massimo della resistenza della burocrazia.
  C’è poco da fare: tutto quello che si trasferisce in periferia viene tolto al centro e nessuno molla, è una regola fisica della pubblica amministrazione, nulla di perverso. Il problema è che non c’è la risposta. Vi faccio un esempio molto interessante: il Trentino Alto Adige ha estirpato nel 1992 una norma di attuazione, il decreto n. 266, che è una delle pagine luminose del diritto costituzionale dell'autonomia in Italia, voluto da Valerio Onida presente nella Commissione paritetica, che dispone che le norme dello Stato italiano non si applicano nella regione Trentino Alto Adige per sei mesi.
  Vi è l'obbligo di attuazione e, sfruttando un appiglio nello statuto, si è introdotta addirittura l'impugnazione delle leggi regionali e provinciali del Trentino Alto Adige successiva; non come adesso quindi che viene impugnata appena emanata e pubblicata la legge, potendo essere emanata anche dopo anni per mancato adeguamento.
  Questo è un sistema assolutamente intelligente e odiato dalla burocrazia ministeriale, come posso testimoniare direttamente, Pag. 9perché la sola idea di applicare una cosa del genere a un'altra regione ha suscitato l'opposizione dell'intero ufficio del Ministero, perché implica che i funzionari ministeriali non individuino in una normativa quali disposizioni siano in contrasto con la legge statale, come adesso fanno sistematicamente, ma significa effettuare un controllo sulla legislazione vigente e cogliere i casi in cui la regione non sia adeguata alla legge dello Stato.
  Il Trentino Alto Adige, grazie a questa norma di attuazione, ha un regime totalmente diverso da quello delle altre regioni e molto più sano, perché il funzionario di tale regione non ha il problema che hanno tutti i funzionari regionali di andare a vedere sulla Gazzetta Ufficiale e cercare di capire se quella legge, già di difficile lettura, si applichi o meno direttamente nella regione.
  È possibile che tutto questo sia retto dalla burocrazia e non dalla politica ? Questo è come al solito il problema centrale. Nel complesso, mancano monitoraggi sull'attività della regione, ma il Trentino Alto Adige invece ha una sua strumentazione apposita.
  Le Commissioni paritetiche ritardano ? Le Commissioni paritetiche sono degli organismi piuttosto curiosi. Attualmente sono rappresentante dello Stato della Commissione paritetica per il Friuli Venezia Giulia e dieci anni fa ero stato rappresentante della regione nella Commissione paritetica per la medesima regione e non è che abbia molto cambiato le mie idee; il fatto che io rappresenti lo Stato, essendo notoriamente piuttosto impegnato sul terreno della difesa dell'autonomia (sono nato a Bolzano, ho vissuto a Trieste, mia madre era sarda, quindi l'autonomia me l'hanno, per così dire, iniettata) è un po’ buffo e vi dà l'idea di cosa sono in realtà le Commissioni paritetiche: le Commissioni paritetiche sono organi di consulenza.
  La regione presenta una proposta di decreto che noi discutiamo, senza pensare se il cappello che indossiamo è quello della regione o dello Stato, perché si tratta di vedere se la cosa abbia un senso, abbia una veste giuridica, sia presentabile e poi, in seguito, si apre una trattativa. Qui si presenta il problema, perché la trattativa non si apre con il Governo e i suoi rappresentanti – che sono io in tal caso, che non ho però alcuna direttiva del Governo – ma si apre con la burocrazia, per cui si dà luogo a una serie di audizioni in cui la Commissione paritetica ascolta (nell'ultima a cui ho partecipato c'erano due magistrati della Corte dei conti) qualche burocrate che viene a dirci per quali motivi le cose non si possono fare.
  Questo è molto lontano dall'idea originaria per cui nella Commissione paritetica ci sono i campioni della regione e i campioni dello Stato che svolgono il loro duello, non è così.
  La Commissione paritetica non ritarda di per sé: dipende moltissimo dall'impulso dato dalla regione. Se la regione vuole delle cose, la Commissione paritetica funziona. Quando sono stato rappresentante del Friuli Venezia Giulia in Commissione paritetica mi sono dimesso perché ero in presenza di una regione che non sapeva cosa volesse e non avevo intenzione di discutere del nulla perdendo tempo.
  Oggi le cose funzionano in maniera un po’ diversa soprattutto se la regione riesce ad avere un patto politico con il Governo, un patto che non necessariamente passa per lo stesso colore politico. Le regioni speciali, soprattutto spinte dall'urgenza della crisi finanziaria di rimanere nel patto di stabilità, hanno cercato un colloquio con lo Stato e lo hanno ottenuto, e da lì sono venute fuori agende politiche condivise, che danno alla regione la forza di proporre le iniziative, rispetto a cui la Commissione paritetica fa una consulenza pressoché gratuita e dopo si tenta di vedere se dal punto di vista burocratico ciò sia ammissibile. Non si ha di fronte un interlocutore politico governativo.
  L'agenda politica sarebbe una cosa molto importante come molto importante Pag. 10sarebbe avere una politica governativa che sia attenta, dedicando anche pochissimo tempo, a queste cose.
  Ad esempio, si sta discutendo in questi giorni una norma d'attuazione che riguarda il controllo di raccolta dei conti e il Patto di stabilità, che fa della Regione Friuli Venezia Giulia il portavoce unico dello Stato su tutti gli obblighi derivanti dal Patto di stabilità, nel senso che la regione si fa garante per tutto il sistema regionale, per cui non accetta il taglio lineare e il taglio del Comune, ma chiede di sapere quanto debba risparmiare, fa suo quell'obiettivo, garantisce, e la Corte dei conti sorveglia.
  Questa innovazione sarebbe importantissima per il Paese, ma la Corte dei conti ha già dichiarato che forse non si può, bisogna riunirsi e valutare, in quanto dietro non vi è un partner politico.
  Le norme di attuazione generalmente tendono a risolvere il contenzioso che si annida anche in cose molto piccole. Adesso ci sono gli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), ci sono sempre dei problemi di demanio per cui improvvisamente si scopre che un pezzo di fiume è ancora demanio statale per cui la regione non può svolgere le sue funzioni, spessissimo sono cose di bassa amministrazione.
  Abbiamo avuto problemi in tutte le regioni con il Ministero difesa sulla questione del demanio militare, che è una cosa importante per la pianificazione territoriale, ma ovviamente si gestisce a un livello amministrativo, non politico. Di questo si occupano le Commissioni paritetiche.
  Per quanto attiene alle norme finanziarie, la questione è differente: in Sardegna e in Friuli Venezia-Giulia la parte dello statuto sulle norme finanziarie è mutabile con legge ordinaria dello Stato «sentita la regione», nelle altre regioni c’è un principio patrizio attraverso norme attuazione o con obblighi di accordo. Di fatto tutta questa partita ormai è regolata non dalle norme attuazione, ma da patti politici; le norme di attuazione non si occupano generalmente di aspetti finanziari, se non quello dell'ordinamento della finanza, ma non certo di una quantificazione degli stessi.
  Questi sono patti politici che funzionano piuttosto bene e si tratta di una pagina molto interessante della specialità, perché dopo il Patto di Milano il Trentino Alto Adige si è attribuito la spesa universitaria; le Regioni speciali hanno quindi preso pezzi di gestione. Si sono tolte dal fondo sanitario oppure si prendono cura degli uffici dell'apparato giudiziario, non hanno competenza per quanto riguarda l'ordinamento giudiziario, ma gli uffici, i computer, il personale tecnico sono somministrati dalle province autonome per la Regione; si tratta di fenomeni interessanti di collaborazione. Non passano per le norme di attuazione ma passano per un principio fondamentale, quello dell'accordo, il principio dell'intesa.
  Per quanto riguarda la riforma, ritengo non sia tanto vero che la riforma del Titolo V attualmente in gestione ridurrebbe le competenze regionali, nel senso che non farebbe che riportare in capo allo Stato delle competenze che sono state scritte un po’ avventatamente nel Titolo V e che la Corte costituzionale ha infatti già da tempo portato in capo allo Stato.
  Ciò in quanto il Titolo V è stato scritto avventatamente ed è stato gestito da una Corte costituzionale che all'inizio aveva anche la cultura per dare un quadro di difesa delle autonomie che oggi ha un po’ perso. Oggi le competenze sono state tutte trasferite allo Stato, il Titolo V è totalmente disapplicato, per cui non cambia un granché modificare un'etichetta e spostarla da una parte all'altra.
  Togliere la potestà concorrente per poi mettere «potestà esclusiva dalle norme di...» non cambia nulla: non sta lì il cambiamento e non mi sembra neanche tanto semplice dire, guardando la riforma riguardo alle materie, che le regioni davvero perdano qualcosa che non hanno mai esercitato perché non hanno avuto la capacità di esercitare, perché, ad esempio, sulle grandi linee di trasporto dell'elettricità, Pag. 11nessuna regione ha pensato di emanare una legge, però può avere rilevanza sulla gestione di singoli problemi amministrativi. In Trentino Alto Adige il problema si è posto.
  È buffo che in Italia continuiamo a gestire la questione dei rapporti Stato/regione tramite le etichette che designano le materie di competenza legislativa, come se fosse quello il problema; non è più quello il problema delle autonomie, lo era nel 1947, perché per la Costituente era importante dare alle regioni la potestà di smarcarsi dall'indirizzo politico di maggioranza in Parlamento e per ottenere questo occorreva concedere potestà di legge.
  Questa è una pagina storica un po’ lunga da raccontare, ma si capisce bene se ambientata nel 1948, ma oggi è l'amministrazione quello che pesa, è lì che si gioca il problema, non tanto sulla potestà legislativa. Né nella Costituzione del 1948, né nella riforma del 2001, né in tutti i testi di riforma che si sono affacciati e qualche volta approvati nel frattempo, né in questo testo riforma ci si occupa del problema, mentre ci si occupa di altro.
  Non ha molto senso spostare la competenza concorrente in materia spostando sull'altra categoria l'esclusiva dello Stato da residuale, mentre grande senso avrebbe portare l'esperienza delle intese Stato/regione dentro la Costituzione; lì sarebbe il punto e diventa cruciale la questione relativa al Senato, ma a condizione che esso rappresenti i territori, perdendo altrimenti la sua funzione.
  Non c’è una parola sul coordinamento amministrativo che esiste in tutti i Paesi del mondo, in alcuni dei quali è presente in Costituzione, in altri, come il Regno Unito, si è sviluppato di fatto. Perché non pensare al problema invece di risolvere le questioni a livello di semplici etichette ?
  Le materie hanno un carattere difensivo e in questo, come accennava il collega Mangiameli, l'esperienza della gestione del Titolo V post 2001 e della norma di salvaguardia (l'articolo 10) secondo cui le regioni speciali possono giovarsi delle maggiori competenze lasciate alle regioni ordinarie è indicativa, perché è un totale fallimento.
  Un bel giorno le regioni speciali hanno capito che per fortuna avevano degli statuti, in cui per fortuna erano indicate le materie di loro competenza, in modo da poterle difendere, perché l'erosione è stata totale, la famosa clausola residuale (tutto ciò che non è previsto compete alle regioni) è stata un fallimento totale. La residualità ha giocato un ruolo residuale e la Corte costituzionale è riuscita a dire delle cose che vi lascerebbero stupiti, ad esempio, il rimborso chilometrico al personale dipendente che viaggia con propri mezzi di trasporto rientra nel diritto privato, disciplina di diritto civile, qualsiasi pratica amministrativa (VIA, autocertificazione, SCIA) è livello essenziale dei diritti civili dei cittadini, per cui alla regione la competenza è sottratta, gli appalti o sono concorrenza o sono ordinamento civile, salvo che per il Trentino Alto Adige, che ha la materia degli appalti nello statuto.
  Vi è stato un uso difensivo delle materie scritte in statuto, che ha fatto sì che subissero meno l'erosione delle competenze, ufficialmente date dal Titolo V del 2001 e che le regioni ordinarie hanno subìto mostruosamente, per cui non sono mai state a un livello più basso di autonomia di adesso. Sono quindi rimasti attaccati alle materie fissate nei loro statuti poi reinterpretate in base alle norme di attuazione.
  Questo è un fenomeno molto interessante, che meriterebbe un maggiore approfondimento, perché si parla di regioni e di autonomia in termini troppo astratti. Oggi per capire cosa sia il diritto regionale in Italia non possiamo guardare la Costituzione, ma dobbiamo guardare alle innumerevoli sentenze della Corte costituzionale e alle loro evoluzioni. È urgente porre mano a questo problema, perché il contenzioso è enorme, non ha pari nel mondo e paralizza l'azione del Governo, oltre che quella della regione, e il Governo non può sottostare alla «spada di Damocle» di un alto numero di ricorsi su ogni Pag. 12legge importante che vanno decisi dopo un anno. Non si può andare avanti così. Questo è un campanello d'allarme e colgo l'occasione per suonarlo. Vi ringrazio dell'attenzione.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Bin e lascio la parola al professor Falcon.

  GIANDOMENICO FALCON, professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università degli studi di Trento. Nel ringraziare il presidente, vi informo che non faccio parte di Commissioni paritetiche e non ho quindi esperienza diretta come il collega Bin, ma, in compenso, ho una grande esperienza di contenzioso costituzionale dalla parte delle regioni.
  Riallacciandomi a quanto diceva ora il collega Bin, è abbastanza ridicolo affermare che la riforma del Titolo V oggi sia necessaria per rimediare all'eccessiva autonomia delle regioni. Il professor Bin ha raccontato una situazione specifica, una norma di attuazione del Trentino Alto Adige fatta nel 1992, nel momento in cui si chiuse il pacchetto con l'Alto Adige con la controversia con Vienna.
  Il professor Onida, come molti altri, ebbe la sua parte, e alla fine il consenso fu raggiunto su questa norma, che, purtroppo, non funziona semplicemente come potrebbe sembrare, ma sancisce che, nelle materie di competenza della provincia, le leggi statali nuove non si applichino direttamente, ma la provincia abbia obbligo di adeguamento entro sei mesi. Trascorsi quei sei mesi, lo Stato ha novanta giorni per impugnare davanti alla Corte costituzionale.
  Essendo avvocato, giudico tutto questo contenzioso tra Stato e regioni in Corte costituzionale positivo e non mi sembra neppure abnorme e anomalo. Anche solo considerando quello della regione Trentino Alto Adige e delle due province, quanto è generato da impugnazioni fatte dallo Stato per mancato adeguamento ? Nessuno.
  Questo perché, mentre è facile prendere le leggi che arrivano dall'ufficio regioni della Presidenza del Consiglio e «impallinarle» una alla volta, verificare invece quali leggi statali richiedano un adeguamento e se la provincia di Trento o di Bolzano o la regione si siano adeguate costerebbe fatica, quindi lo Stato non lo fa. Questa clausola che è giusta non ha quindi giocato un grande ruolo.
  Un cenno alla potestà legislativa delle regioni, perché è vero quanto diceva il collega Mangiameli, ossia che è ora di finirla con una sciocchezza che abbiamo sentito dire e talvolta forse anche detto per troppi anni sul fatto che le regioni devono essere, come in Germania i lander, un baricentro dell'amministrazione e che vi sia principio di sussidiarietà a tutti i livelli per le loro funzioni esclusive, così come per le materie esclusive statali.
  Tutti capiamo che «l'esercito» non può che restare accentrato, ma le funzioni in materia di ambiente, anche se la disciplina è statale, devono essere amministrate a livello locale, in base al principio di sussidiarietà. È quindi giustissimo che la funzione legislativa non abbia oggi la stessa importanza che poteva avere un tempo. Attenzione, però, raccomando sempre di non «buttarla a mare», perché funzione legislativa vuol dire che un tribunale amministrativo non può dire che la legge regionale è illegittima e quindi non la applica, come può fare con i regolamenti, ma la deve mandare per il giudizio alla Corte costituzionale.
  La funzione legislativa, a prescindere dallo spessore dei suoi contenuti, è quindi la garanzia che il rapporto sul giudizio di legittimità della normazione regionale ha un suo giudice preciso, che è la Corte costituzionale, non la magistratura ordinaria, non la magistratura amministrativa. Sebbene oggi forse il ruolo baricentrico delle regioni sta nello snodo amministrativo e la funzione legislativa regionale è la disciplina di questo ruolo amministrativo, perché quando si dice che le regioni non fanno ordinamento civile, processuale, penale, ma fanno ordinamento amministrativo nell'essenza, rimane fondamentale il livello delle fonti.
  Detto questo, vengo alle domande che sono state poste nel questionario. Faccio presente che, non essendo in una Commissione Pag. 13paritetica, non ho quel tipo di esperienza e alla domanda se lo strumento del decreto legislativo continui ad essere la modalità migliore, affermo subito che alla fine arrivo a dire di sì, associandomi quindi a quanto rilevato dal collega Bin.
  Ricordo di aver sentito qualche collega anni fa (poi ha cambiato idea) dare giudizi negativi sui decreti legislativi e sulle norme di attuazione, perché non fanno partecipare il Parlamento, sono un raccordo tra regione e Governo (con le problematiche che abbiamo già sentito, ossia che purtroppo il Governo non ci si applica molto) e quindi un raccordo con le burocrazie ministeriali.
  È però essenziale che resti un atto normativo, cioè le norme di attuazione non possono venire semplicemente sostituite da accordi che abbiano rilievo solo per le parti. Deve essere un atto che ha il suo posto riconoscibile tra le fonti, inevitabilmente intermedio tra livello costituzionale e livello legislativo ordinario, laddove Costituzione e statuto costituiscono un vincolo per le norme di attuazione e il livello legislativo ordinario è vincolato. Non dobbiamo dimenticarci che le norme di attuazione non solo attuano, ma anche integrano lo statuto, e la Corte costituzionale ha pienamente ammesso questa funzione.
  Il Parlamento rimane fuori dal circuito, si potrebbe pensare a un coinvolgimento in qualche forma anche della nuova struttura del Parlamento, per esempio a un potere di richiamo, anche se bisogna stare attenti a non complicare la procedura, che è una procedura sostanzialmente negoziale, che è bene lasciare flessibile e frutto di contrattazione politica.
  In definitiva, si può forse fare di meglio, però bisogna anche stare attenti a non fare di peggio, e quindi le norme di attuazione rimangono uno strumento buono.
  In relazione a quali indicazioni è possibile desumere dalla giurisprudenza amministrativa e costituzionale in merito al carattere vincolante, non vi è alcun dubbio sul carattere vincolante della norma di attuazione, come le norme prodotte da qualunque altra fonte, non c’è dubbio sul loro carattere normativo, non c’è nemmeno dubbio sulla loro sindacabilità da parte della Corte costituzionale.
  Prendendole dalla memoria dei miei casi, mi sono segnato due sentenze. Nella n. 353 del 2001, la Corte ha dichiarato incostituzionale una norma di attuazione del Trentino Alto Adige che dava valore di piano di bacino al piano delle acque concordato tra Stato e provincia di Trento. L'ha dichiarata incostituzionale perché la regione Veneto che riceve i fiumi del Trentino era tagliata fuori e la Corte ha detto che bisognava istituire un meccanismo che includesse anche la regione Veneto.
  Nella sentenza n. 227 del 2003 la Corte ha detto che le norme di attuazione vanno interpretate alla luce dello statuto. Lì si trattava di caccia e la norma di attuazione diceva che la provincia di Trento determina gli standard di protezione della natura, la Corte ha sempre avuto una giurisprudenza molto restrittiva (forse anche troppo) in materia e, di fronte alla provincia di Trento che obiettava che la norma di attuazione prevedeva che fossero loro a decidere le specie cacciabili, i periodi, la durata della stagione, e la Corte ha detto: niente da fare, la norma di attuazione ha largheggiato, ma voi la dovete intendere alla luce dei limiti della potestà legislativa, quindi vi tenete i limiti generali di tutte le altre, altrimenti sarebbe illegittima. Il principio di interpretazione è quindi costituzionalmente conforme.
  Riguardo alla domanda se la particolare forza e il rango di legge costituzionale possono paradossalmente aver reso più difficili i meccanismi attuativi delle disposizioni statutarie, ricordo che il collega Bin ha risposto di sì. Ne prendo atto perché ritengo che meglio possano rispondere coloro che hanno fatto parte delle Commissioni di attuazione, ma personalmente avrei risposto di no, cioè che la resistenza dipende dal contenuto delle norme, non Pag. 14dalla loro forza. Probabilmente le burocrazie non ritengono che sia una norma che prevale sulle leggi.
  Per quanto attiene invece alla questione relativa alla misura in cui la mancata attuazione delle previsioni statutarie sia determinata dal concreto funzionamento delle Commissioni e a quanto abbiano influito i ritardi nel loro rinnovo, mi ricollego alla domanda concernente quali siano le ragioni della ritardata o mancata attuazione. Ritengo che tali questioni vadano affrontate insieme, perché ho difeso più di metà delle regioni italiane (anche la Sicilia e la Sardegna, però soprattutto le regioni alpine, in particolare negli ultimi anni abbastanza stabilmente la provincia autonoma di Trento e la regione Friuli Venezia Giulia) e nella mia esperienza non ho avuto la sensazione di questa difficoltà.
  Le norme di attuazione del Trentino Alto Adige sono di una quantità notevole ed ho l'impressione che quando si vuole si fanno e non ho l'impressione del disastro che sembra invece sotteso alla domanda che è stata posta.
  Scorrendo la letteratura, trovo che, in passato, soprattutto la Sicilia ha avuto dei problemi, in parte forse legati alla questione finanziaria, ma oggi non lo direi. Se si chiede se i ritardi nella nomina possano generare problemi, questo è evidente: se una Commissione paritetica non ha i suoi membri nominati, è chiaro che funziona male, ma non mi risulta affatto che la mancata attuazione delle disposizioni sia una delle cause principali del contenzioso (forse qualcosa può valere in tal senso per la Sicilia).
  Mi sembra anche da escludere che l'incremento della conflittualità tra regioni speciali e Stato degli ultimi anni sia riconducibile al tema delle norme di attuazione. L'incremento di conflittualità è anche quasi finito, perché con i nuovi accordi che hanno coinvolto quasi tutte le regioni speciali, molte regioni hanno rinunciato al contenzioso; ad esempio, la provincia autonoma di Trento un mese e mezzo fa ha rinunciato a quattordici ricorsi.
  Questi ricorsi erano generati dal fatto che, per le condizioni penose della finanza pubblica e i vincoli europei, lo Stato dava meno soldi di quelli previsti dallo statuto, aumentava un'imposta prevedendo che il ricavato dall'aumento fosse entrata statale, mentre lo statuto prevede che i sei decimi vadano alla provincia autonoma di Trento; quindi è chiaro che in tal caso vi è stata una violazione dello statuto.
  È chiaro che i maggiori proventi derivanti dalla lotta all'evasione per le riscossioni dei tributi già istituiti fanno parte dei decimi che lo statuto stabilisce, come anche forme più sottili. Tutto questo contenzioso è derivato dal fatto che lo Stato ha richiesto alle regioni speciali una quantità enorme di denaro: ad esempio nel confinante Veneto sono emerse proteste, Cortina ha chiesto di andare nella provincia di Bolzano per il regime tributario più favorevole, ma ormai la riduzione di entrate alle province autonome di Trento e di Bolzano ammonta a una percentuale molto rilevante del bilancio. Questo ha generato il contenzioso, e le norme di attuazione non c'entrano affatto.
  Infine, riallacciandomi anche qui a quanto hanno detto i colleghi, in particolare alle conclusioni di Roberto Bin, sottolineo che la tendenza alla rivalutazione degli statuti speciali è cresciuta. Non è solo l'articolo 39 della riforma, ma noi che abbiamo lavorato con le regioni speciali e abbiamo cercato di difenderne l'autonomia ci siamo aggrappati di nuovo agli statuti speciali e alle norme di attuazione in corrispondenza con il fatto che quella maggiore autonomia che nel 2001 pareva così grande (io stesso scrissi un breve articolo – che oggi non riscriverei – intitolato Il Big Bang delle regioni) perché in quel tempo abbiamo in tanti creduto che ci fosse un enorme ampliamento dell'autonomia regionale, ma poi ci siamo accorti che questo non era assolutamente vero perché la clausola residuale non contiene niente, ovvero solo il turismo e l'assistenza sociale, che erano già nell'originario 117, e l'agricoltura, che però è disciplinata dalle norme comunitarie e in gran parte dal diritto privato.Pag. 15
  L'esempio più illuminante è quello dei lavori pubblici di interesse regionale. È scomparso dall'elenco delle materie presente nell'originario articolo 117, ma a un certo punto la Corte costituzionale ha detto che i lavori pubblici sono competenza residuale, ma non una materia, mentre lo Stato ha una legge apposita, per cui ora metà è tutela della concorrenza (tutta la procedura di gara) e metà è ordinamento civile, una volta aggiudicato il contratto.
  La provincia di Trento, come ricordava il professor Bin, è andata davanti alla Corte perché nel suo statuto è scritto «lavori pubblici di interesse provinciale», e la Corte «a bocca storta» ha riconosciuto che era presente nello statuto, ed è quindi stato un grosso successo.
  Ha riconosciuto che può disciplinare, ma copiando la legge dello Stato, perché c’è il principio di tutela della concorrenza. Anche aggrapparsi agli statuti quindi non è stato sempre utile.
  Il procedimento amministrativo era già quasi tutto rimesso alla competenza statale in quanto rientrante nei livelli essenziali delle prestazioni e ritengo che questa sia una sciocchezza: se le regioni fanno solo amministrazione e non possono disciplinare il procedimento per arrivare al provvedimento è un non senso. Si sarebbe dovuto quanto meno circoscrivere la competenza statale alla sola fissazione dei principi.
  Paradosso dei paradossi: nella riforma costituzionale, che state approvando e che probabilmente sarà giusto non modificare tanto, perché altrimenti non la si approva più, c’è scritto che passa allo Stato la competenza dei principi di fondo in materia di associazione dei comuni. Questo era concepito per riportare allo Stato una competenza che si riteneva regionale, perché la Corte aveva detto in relazione alle Comunità montane che delle forme associative si occupano le regioni.
  Con l'ultima sentenza n. 50 del 2015 la Corte ha cambiato idea e ha detto che la materia delle forme associative tra i comuni è statale. Se resta (a questo punto speriamo che resti) quella norma che era stata inserita in Costituzione per portare alla competenza dello Stato una materia altrimenti regionale, visto che la Corte ha cambiato idea e la materia è diventata statale, se viene approvata funzionerà come limite alla competenza statale, e questo può anche essere una cosa ottima.
  Le regioni speciali comunque staranno fuori e forse è un bene, perché tutto sommato hanno la loro strada, ottima in alcuni casi. Il vero problema (ha ragione Bin) è che la riforma costituzionale non ha colto quanto c'era di positivo nell'esperienza delle speciali: la trattazione per l'acquisizione delle funzioni amministrative.
  La provincia di Trento e quella di Bolzano gestiscono da decenni la scuola con pieno successo, le regioni ordinarie, per colpa della burocrazia statale che non ha voluto mollare la scuola che oggi è nell'elenco delle materie concorrenti, ma anche per colpa della loro timidezza, non hanno avuto coraggio di addossarsi la scuola con i suoi vantaggi e le infinite grane che comporta, ma non è questione di Costituzione perché basterebbe il principio di sussidiarietà. Si tratta di avere coraggio.
  La riforma costituzionale non ha colto le esperienze positive delle regioni speciali innanzitutto sul piano finanziario, perché possiamo discutere se i sei o nove decimi che vanno alle province e alla regione siano troppo o troppo poco, però che ci sia un criterio di riparto tra ciò che va allo Stato e ciò che va alle regioni scritto nella Costituzione sarebbe una cosa intelligente. Lo Stato valuti quanto gli serve, senza fare ogni giorno una legge finanziaria.
  In secondo luogo, la riforma non ha colto l'esperienza di accordi regione per regione per determinare cosa una regione sia davvero in grado di fare e cosa intenda addossarsi.
  Trovo giusto, quindi, che le regioni speciali in questo momento stiano fuori, dato che la riforma è fatta così. Non ho il timore del collega Mangiameli che blocchino la riforma degli statuti per quella ragione, perché nella logica pattizia è anche facile dire alle regioni speciali di Pag. 16riscrivere lo statuto tenendo conto della logica generale del nuovo Titolo V. Sulle funzioni si potrebbe trattare e credo che l'accordo si raggiungerebbe facilmente.

  PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti per le interessanti relazioni, esprimendo rammarico per non poter continuare l'interessante audizione a causa dei lavori in Assemblea. Chiederei pertanto agli autorevoli relatori la cortesia di farci pervenire ulteriori osservazioni scritte e ai colleghi, che avrebbero voluto porre domande, di inviarle direttamente ai relatori, in modo che possano fornirci per iscritto ulteriori chiarimenti.
  Dichiaro pertanto conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 11.05.