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Comunicati stampa

16/10/2013
Anniversario della deportazione degli ebrei romani - Intervento Vice Presidente Marina Sereni - (Sala del Mappamondo, Montecitorio)
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Signor Rabbino Capo, Signore e Signori, su un muro del campo di Bergen Belsen c'è un graffito, e ci sono delle parole, di un deportato. "Io sono qui - c'è scritto - e nessuno racconterà la mia storia".

La disperazione che questa frase reca con sé sintetizza, con una forza che ancora ferisce, la tragedia che fu la Shoah. La vergogna che furono i campi di sterminio.

Il più tristemente famoso di questi campi ha un nome che rimarrà per sempre il simbolo del male assoluto. È proprio lì, ad Auschwitz, che furono condotti gli ebrei romani rastrellati, strappati dalle loro case del Ghetto, il 16 ottobre del 1943. Quel giorno di settant'anni fa uomini e donne, vecchi, bambini, furono prede catturate e stipate come bestie in carri ferroviari, per essere trasportati a morire.

Privati di tutto, dei propri diritti, della proprio dignità, privati persino del loro nome, furono condotti verso l'inferno del lager. Un inferno, si badi bene, concepito non da una follia patologica, ma da un disegno razionale sostenuto da una precisa idea politica.

"La Shoah è un vertice dell'orrore per la simbiosi di barbarie e razionalità scientifica, di selvaggio e di tecnocratico, di arcaicità e modernità che è alla sua base", ha scritto Claudio Magris.

Quel 16 ottobre si ruppe ogni argine dell'umanità, fu scavato un abisso che ci obbliga ancora, ogni giorno, a ricordare.

Le strade del cuore di Roma - il Portico d'Ottavia e via della Reginella, via Catalana, via dei Funari - quella mattina risuonarono di urla, di pianti, di violenza.

Molti, non va mai dimenticato, furono identificati e catturati grazie alla delazione di altri cittadini che accettarono le assurde disposizioni di leggi razziali, discriminatorie e indegne della civiltà umana.

Tutti furono separati dai luoghi e dagli affetti, stipati nelle sale del Collegio Militare di Trastevere e poi in quei carri ferroviari, che avevano scritto sulle porte, segnato con il gesso, il sinistro nome di Auschwitz.

Erano donne e uomini, anziani, bambini tenuti per mano dalla loro mamma, dal loro papà. Interi nuclei familiari distrutti. Tre generazioni, come a voler spezzare di proposito, oltre alle vite, il filo della memoria.

Ma in questo non sono riusciti. Quel filo non si è spezzato. E' arrivato fino a noi, alla nostra generazione. A noi il compito di passarlo nelle mani di quelle successive.

Perché senza memoria non c'è cultura, non c 'è civiltà, non c'è umanità.

Proprio per questo motivo, molte di quelle persone che avrebbero avuto mille motivi per dimenticare, per scordare il dolore e l'orrore vissuto, hanno voluto testimoniare. Hanno voluto ricordare e raccontare, per darci un'opportunità di costruire un futuro che non ripeta tanta vergogna.

Penso a persone come Piero Terracina, penso a Settimia Spizzichino che, unica donna tornata da quel viaggio verso la morte, ebbe la forza etica e il coraggio civile di raccontare l'abisso dal quale era riuscita a risalire.

"Ci sono cose - ha detto una volta questa donna così coraggiosa - che tutti vogliono dimenticare. Ma io no. Io della mia vita voglio ricordare tutto, anche quella terribile esperienza che si chiama Auschwitz … Tutto questo è parte della mia vita e soprattutto è parte della vita di tanti altri che dai Lager non sono usciti. E a queste persone io devo il ricordo: devo ricordare per raccontare anche la loro storia. L'ho giurato quando sono tornata a casa, e questo mio proposito si è rafforzato in tutti questi anni, specialmente ogni volta che qualcuno osa dire che tutto ciò non è mai accaduto, che non è vero."

Lo ha spiegato bene, il motivo di tanta forza, di tanta responsabilità, il premio Nobel Elie Wiesel, che era bambino, quando fu deportato ad Auschwitz. Ha spiegato cosa successe una volta tornati. Per alcuni avvenne prima. Per altri è stato il tempo a consentire di farlo, a prezzo di fatica, di sofferenza, di un tormentato scavo interiore nel proprio animo.

"Proprio perché sopravvissuti - ha scritto Wiesel - ritenemmo che ogni minuto delle nostre vite dovesse essere consacrato a una sorta di missione impossibile, una vocazione, una responsabilità, un obbligo. Dovevamo fare qualcosa dei nostri ricordi, di tutto quello che sapevamo. Dovevamo farne qualcosa non tanto per amore dei nostri morti, quanto per amore dei bambini che ancora dovevano nascere, ebrei e cristiani, musulmani e buddisti, bambini di ogni dove".

Non c'è messaggio più prezioso. Non c'è fatica - perché la memoria è anche fatica, significa immergersi di nuovo nel dolore passato - di cui tutti noi non si debba essere grati.

Soprattutto quando le ferite si riaprono, quando la mente torna a quel tempo, come è successo in questi giorni con la morte di Erich Priebke.

È impossibile dimenticare, anche oggi, anche nel momento della sua fine, chi sia stato quest'uomo. Di più: è un dovere non dimenticarlo.

Un individuo colpevole non di un omicidio, ma di una strage di innocenti in ginocchio, di bambini e di reclusi a via Tasso. Una strage per la quale è fuggito, lasciando dietro di sé il dolore straziante di tante famiglie, che hanno tutto il diritto di veder rispettati i loro sentimenti, e se credono, il loro diritto a non perdonare. Un uomo che per giunta non ha mai dato segni di pentimento o di ravvedimento, né di pietà verso le vittime del nazismo. Arrivando persino, fino all'ultimo, a non riconoscere nemmeno la verità del male assoluto che allora fu compiuto in nome della folle ideologia in cui lui pienamente si rispecchiava.

Ecco. Io credo che da tutto questo derivi a tutti noi un preciso compito. Come istituzioni - ed è il motivo per cui la Camera dei deputati ha voluto organizzare, oggi, questo momento di ricordo e di riflessione - e come singoli cittadini.

Dobbiamo continuare a dire che quanto successe fu una realtà compiuta dagli uomini sugli uomini, fu qualcosa che accadde per precise responsabilità, fu il prodotto dell'odio razziale, di una politica e di leggi folli, dell'egoismo e del silenzio, di tutte quelle ragioni che dobbiamo combattere perché una simile vergogna non si abbia a ripetere.

Nulla deve essere dato per scontato. Nessun diritto è mai acquisito per sempre. La guardia non va mai abbassata. "Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare. Le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate, anche le nostre". Così ha scritto Primo Levi.

E mi piace pensare che in questa direzione possa contribuire anche la scelta compiuta nei giorni scorsi dal Governo e dal Parlamento per quanto riguarda i musei in corso di realizzazione a Roma ed a Ferrara. Come sapete con il Decreto "Valore Cultura" è stato possibile compiere un significativo passo avanti per la sede del Museo nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara, stanziando nuove risorse pur in un periodo difficile per le finanze dello Stato.

Iniziative come quella di oggi servono a ricordare, a coltivare la memoria, a responsabilizzare una volta di più le istituzioni e i cittadini.

Servono a capire il presente, per superare i rischi che si presentano dinanzi a noi, per non chiudere gli occhi davanti alle sofferenze del mondo, per procedere lungo la strada scelta allora, quando l'umanità cominciò a risalire dall'abisso in cui era precipitata: quella della riappropriazione dei valori umani, del rispetto dei diritti di ogni individuo, della costruzione del futuro affermando le ragioni del dialogo e del bene più prezioso di cui gli uomini dispongono, la pace.

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