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Resoconto dell'Assemblea

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XVII LEGISLATURA

Allegato A

Seduta di Martedì 25 novembre 2014

COMUNICAZIONI

Missioni valevoli nella seduta del 25 novembre 2014.

  Angelino Alfano, Gioacchino Alfano, Alfreider, Alli, Amici, Baldelli, Baretta, Bellanova, Bindi, Biondelli, Bobba, Bocci, Bonifazi, Michele Bordo, Borletti Dell'Acqua, Boschi, Brambilla, Bratti, Bressa, Brunetta, Caparini, Capezzone, Casero, Castiglione, Catania, Cecconi, Centemero, Cicchitto, Cirielli, Colonnese, Costa, D'Ambrosio, Dambruoso, De Girolamo, De Micheli, Del Basso De Caro, Dellai, Di Gioia, Di Lello, Luigi Di Maio, Epifani, Faraone, Fedriga, Ferranti, Ferrara, Fico, Fioroni, Gregorio Fontana, Fontanelli, Franceschini, Frusone, Gentiloni Silveri, Giachetti, Giacomelli, Giancarlo Giorgetti, Gozi, La Russa, Lorenzin, Losacco, Lotti, Lupi, Madia, Manciulli, Merlo, Meta, Nicoletti, Orlando, Pes, Pisicchio, Pistelli, Portas, Rampelli, Ravetto, Realacci, Domenico Rossi, Rughetti, Sanga, Sani, Santerini, Scalfarotto, Scotto, Sereni, Sisto, Speranza, Tabacci, Taglialatela, Vargiu, Velo, Vignali, Vito, Zanetti.

(Alla ripresa pomeridiana della seduta).

  Angelino Alfano, Gioacchino Alfano, Alfreider, Alli, Amici, Baldelli, Baretta, Bellanova, Biondelli, Bobba, Bocci, Bonifazi, Michele Bordo, Borletti Dell'Acqua, Boschi, Brambilla, Bratti, Bressa, Brunetta, Caparini, Capezzone, Casero, Castiglione, Catania, Cicchitto, Cirielli, Colonnese, Costa, D'Ambrosio, Dambruoso, De Girolamo, De Micheli, Del Basso De Caro, Dellai, Di Gioia, Di Lello, Luigi Di Maio, Epifani, Faraone, Fedriga, Ferranti, Ferrara, Fico, Fioroni, Gregorio Fontana, Fontanelli, Franceschini, Frusone, Gentiloni Silveri, Giachetti, Giacomelli, Giancarlo Giorgetti, Gozi, La Russa, Lorenzin, Losacco, Lotti, Lupi, Madia, Manciulli, Merlo, Meta, Nicoletti, Orlando, Pes, Pisicchio, Pistelli, Portas, Rampelli, Ravetto, Realacci, Domenico Rossi, Rughetti, Sanga, Sani, Santerini, Scalfarotto, Scotto, Sereni, Sisto, Speranza, Tabacci, Taglialatela, Valeria Valente, Vargiu, Velo, Vignali, Villarosa, Vito, Zanetti.

Annunzio di proposte di legge.

  In data 24 novembre 2014 sono state presentate alla Presidenza le seguenti proposte di legge d'iniziativa dei deputati:
   FORMISANO: «Disposizioni per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne e domestica, istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta e delega al Governo in materia di risarcimenti alle vittime» (2742);
   LOSACCO e BOCCADUTRI: «Modifiche al codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, in materia di criteri di aggiudicazione» (2743);
   VALERIA VALENTE: «Disciplina dei consultori familiari» (2744);
   COVA ed altri: «Introduzione dell'articolo 5-bis della legge 14 agosto 1991, n. 281, concernente l'introduzione di un tributo sulla detenzione di cani non sterilizzati» (2745).

  Saranno stampate e distribuite.

Adesione di un deputato a una proposta di legge.

  La proposta di legge BOCCADUTRI ed altri: «Disposizioni concernenti la limitazione dell'uso del contante e la promozione dell'impiego di strumenti di pagamento elettronici» (1928) è stata successivamente sottoscritta dal deputato Giuseppe Guerini.

Assegnazione di progetti di legge a Commissioni in sede referente.

  A norma del comma 1 dell'articolo 72 del Regolamento, i seguenti progetti di legge sono assegnati, in sede referente, alle sottoindicate Commissioni permanenti:
   I Commissione (Affari costituzionali):

  BONAVITACOLA ed altri: «Modifiche agli articoli 7 e 10 del testo unico di cui al decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, in materia di esclusione della condanna per abuso d'ufficio dal novero delle cause ostative alla candidatura nelle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali» (2661) Parere delle Commissioni II, V e della Commissione parlamentare per le questioni regionali.
   III Commissione (Affari esteri):

  TIDEI e PORTA: «Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata, adottata a New York il 20 dicembre 2006» (1374) Parere delle Commissioni I, II, IV, V e XII.
   VII Commissione (Cultura):

  DADONE ed altri: «Introduzione dell'insegnamento della Costituzione come materia di studio nelle scuole di ogni ordine e grado» (2641) Parere delle Commissioni I, V, XI e della Commissione parlamentare per le questioni regionali.
   IX Commissione (Trasporti):

  FRUSONE ed altri: «Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sui fatti accaduti l'11 ottobre 2013 nelle acque internazionali al largo di Lampedusa e sullo svolgimento delle operazioni di soccorso» (1960) Parere delle Commissioni I, II (ex articolo 73, comma 1-bis, del Regolamento, per le disposizioni in materia di sanzioni), III, IV e V.

Trasmissioni dal Presidente del Senato.

  Il Presidente del Senato, con lettere in data 21 novembre 2014, ha comunicato che la 13a Commissione (Territorio) ha approvato, ai sensi dell'articolo 144, commi 1 e 6, del Regolamento del Senato, le seguenti risoluzioni:
   risoluzione sulla comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni - Verso un'economia circolare: programma per un'Europa a zero rifiuti (COM(2014) 398 final) (Atto Senato Doc. XVIII, n. 80), che è trasmessa alla VIII Commissione (Ambiente) e alla X Commissione (Attività produttive);
   risoluzione sulla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alle prescrizioni in materia di limiti di emissione e di omologazione per i motori a combustione interna destinati alle macchine mobili non stradali (COM(2014) 581 final) (Atto Senato Doc. XVIII, n. 81), che è trasmessa alla VIII Commissione (Ambiente), alla IX Commissione (Trasporti) e alla XIV Commissione (Politiche dell'Unione europea).

Trasmissioni dalla Corte dei conti.

  Il Presidente della Sezione del controllo sugli enti della Corte dei conti, con lettera in data 21 novembre 2014, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 7 della legge 21 marzo 1958, n. 259, la determinazione e la relazione riferite al risultato del controllo eseguito sulla gestione finanziaria dell'Agenzia del demanio, per l'esercizio 2013. Alla determinazione sono allegati i documenti rimessi dall'ente ai sensi dell'articolo 4, primo comma, della citata legge n. 259 del 1958 (Doc. XV, n. 202).

  Questi documenti sono trasmessi alla V Commissione (Bilancio), alla VI Commissione (Finanze) e alla VIII Commissione (Ambiente).

  Il Presidente della Sezione del controllo sugli enti della Corte dei conti, con lettera in data 21 novembre 2014, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 7 della legge 21 marzo 1958, n. 259, la determinazione e la relazione riferite al risultato del controllo eseguito sulla gestione finanziaria dell'Ente parco nazionale del Vesuvio, per l'esercizio 2013. Alla determinazione sono allegati i documenti rimessi dall'ente ai sensi dell'articolo 4, primo comma, della citata legge n. 259 del 1958 (Doc. XV, n. 203).

  Questi documenti sono trasmessi alla V Commissione (Bilancio) e alla VIII Commissione (Ambiente).

Annunzio di progetti di atti dell'Unione europea.

  La Commissione europea, in data 24 novembre 2014, ha trasmesso, in attuazione del Protocollo sul ruolo dei Parlamenti allegato al Trattato sull'Unione europea, la proposta di regolamento di esecuzione del Consiglio che stabilisce condizioni uniformi di applicazione del regolamento (UE) n. 806/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda i contributi ex ante al Fondo di risoluzione unico (COM(2014) 710 final), che è assegnata, ai sensi dell'articolo 127 del Regolamento, alla VI Commissione (Finanze), con il parere della XIV Commissione (Politiche dell'Unione europea).

Richiesta di parere parlamentare su atti del Governo.

  Il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, con lettera in data 18 novembre 2014, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 1, comma 40, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, e dell'articolo 32, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, la richiesta di parere parlamentare sullo schema di decreto ministeriale concernente il riparto dello stanziamento iscritto nello stato di previsione della spesa del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali per l'anno 2014, relativo a contributi ad enti, istituti, associazioni, fondazioni ed altri organismi (122).

  Questa richiesta è assegnata, ai sensi del comma 4 dell'articolo 143 del Regolamento, alla XIII Commissione (Agricoltura), che dovrà esprimere il prescritto parere entro il 15 dicembre 2014.

Atti di controllo e di indirizzo.

  Gli atti di controllo e di indirizzo presentati sono pubblicati nell’Allegato B al resoconto della seduta odierna.

DISEGNO DI LEGGE: CONVERSIONE IN LEGGE DEL DECRETO-LEGGE 18 NOVEMBRE 2014, N. 168, RECANTE PROROGA DI TERMINI PREVISTI DA DISPOSIZIONI LEGISLATIVE CONCERNENTI IL RINNOVO DEI COMITATI DEGLI ITALIANI ALL'ESTERO E GLI ADEMPIMENTI RELATIVI ALLE ARMI PER USO SCENICO, NONCHÉ AD ALTRE ARMI AD ARIA COMPRESSA O GAS COMPRESSO DESTINATE ALL'ATTIVITÀ AMATORIALE E AGONISTICA (A.C. 2727)

A.C. 2727 – Questione pregiudiziale

QUESTIONE PREGIUDIZIALE

   La Camera,
   premesso che:
    il decreto-legge in esame consolida l'infausta e sistematica utilizzazione di uno strumento per sua natura temporaneo e straordinario per correggere disposizioni legislative in vigore, cogliendo l'occasione di modificare termini e scadenze delle medesime, quasi sempre, come nel caso specifico, a causa di inadempienze e ritardi della pubblica amministrazione;
   ad avviso dei sottoscrittori del presente atto, il provvedimento:
    considerato proporzionalmente all'esiguo articolato, due soli articoli, riesce a cumulare una summa di criticità sotto il profilo della legittimità costituzionale, del rispetto del Parlamento nonché del nostro ordinamento giuridico;
    inaugura un sotto-insieme nell'alveo della consolidata fattispecie di fine d'anno, meglio nota come «milleproroghe», proponendo qui ed ora un «mini-proroghe» o «proroghe occasionali»;
    consolida altresì un nuovo requisito per il ricorso alla decretazione d'urgenza che, potendo cogliere la ghiotta e contestuale occasione offerta dal disegno di legge di riforma della Costituzione in itinere in questo ramo del Parlamento, potrebbe esservi introdotto: quello dell'occasionalità;
    in oltremodo stridente contrasto con i requisiti richiesti dall'articolo 77 della Costituzione appare il modo ed il metodo, disinvolti ad avviso dei sottoscrittori del presente atto, con la quale l'articolo 1 del presente provvedimento, emanato attraverso il ricorso alla decretazione d'urgenza e vigente dal giorno successivo alla sua pubblicazione, sia, ad oggi, in procinto di trasbordare nel testo della legge di stabilità per il 2015, in esame in questo ramo del Parlamento, che entrerà in vigore, con certezza quasi assoluta, il 1o gennaio 2015; l'articolo 1 del presente decreto-legge, dunque, avrà l'onore di vigere contemporaneamente in due leggi; alla maggioranza del Parlamento è lasciato l'onere di accettarlo;
    all'articolo 2, invece, ad onta del titolo del decreto legge, non si ha «proroga», bensì differimento di termini, che non può essere fatto rientrare nel concetto e nella definizione giuridica di proroga, in quanto il differimento prevede una dilatazione di termini il cui effetto si è già determinato e concluso;
    né il titolo né il preambolo del provvedimento corrispondono al vero: il titolo perché recita di «proroghe», ma una delle due ivi contenute non è una proroga, il termine essendo già scaduto il 5 novembre ultimo scorso; il preambolo, perché adducendo «straordinarietà» alla disposizione di proroga cozza, anche a livello cognitivo, con il rinvio, espressamente definito «ulteriore», del rinnovo dei Comites;
   con riguardo al rinnovo dei Comites, vale la pena ripercorrerne l’iter normativo: il decreto-legge 30 maggio 2012, n. 67, recante «disposizioni urgenti» per il rinnovo dei Comitati e del Consiglio generale degli italiani all'estero, ha stabilito che le procedure avrebbero dovuto avere luogo entro la fine dell'anno 2014;
    già l'articolo 10, comma 1, del decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 207 e, successivamente, l'articolo 2, comma 1, del decreto-legge 28 aprile 2010, n. 63, avevano disposto il rinvio del rinnovo, che avrebbe dovuto svolgersi nel marzo 2009 alla naturale scadenza quinquennale, prima al 2010 e poi al 2012, nelle more dell'adozione di una riforma di tali organismi, anche a seguito della sopravvenuta elezione dei parlamentari della «Circoscrizione estero»;
    da ultimo sono state recentemente introdotte dal decreto-legge n. 109 del 2014, cosiddetto «decreto missioni», delle modifiche con le quali si prevede che il plico elettorale per esprimere il voto per il rinnovo dei COMITES sia inviato ai soli elettori che abbiano, entro i trenta giorni antecedenti la data del voto, manifestato la propria intenzione di partecipare alle consultazioni elettorali; proprio in ragione di questa nuova procedura tutti i Comitati sono in ritardo con l'implementazione, ragion per la quale si è adottato questo nuovo decreto-legge che proroga ulteriormente la data delle elezioni al 2015;
    i sottoscrittori del presente atto hanno assistito, in questi primi venti mesi della legislatura in corso, ad un'impressionante sequela di deroghe alle procedure ordinarie di formazione delle leggi: le deroghe hanno assunto la forma del ricorso sistematico alla decretazione di urgenza, alla pratica dei decreti omnibus, alla fiducia, alla decretazione d'urgenza coniugata ad una legge-delega, alla decretazione d'urgenza coniugata alla posizione della questione di fiducia;
    ciò lede le prerogative del Parlamento, altera gli equilibri istituzionali, viola, in maniera palese o latente, il dettato costituzionale, l'ordinamento democratico-parlamentare, i pronunciamenti della Corte costituzionale;
    in termini meno aulici, ad avviso dei sottoscrittori del presente atto, nei decreti legge, svincolati o devianti dalle norme costituzionali, confluiscono, molto semplicemente, le questioni sulle quali il Governo non intende perdere tempo o, come peculiarmente in questo caso, l'amministrazione pubblica chiamata agli adempimenti ha perso tempo,

delibera

di non procedere all'esame del disegno di legge n. 2727.
N. 1. Sibilia, Cozzolino, Dadone, D'Ambrosio, Dieni, Fraccaro, Lombardi, Nuti, Toninelli, Di Battista, Del Grosso, Manlio Di Stefano, Grande, Scagliusi, Spadoni.

DISEGNO DI LEGGE: S. 1428 – DELEGHE AL GOVERNO IN MATERIA DI RIFORMA DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI, DEI SERVIZI PER IL LAVORO E DELLE POLITICHE ATTIVE, NONCHÉ IN MATERIA DI RIORDINO DELLA DISCIPLINA DEI RAPPORTI DI LAVORO E DELL'ATTIVITÀ ISPETTIVA E DI TUTELA E CONCILIAZIONE DELLE ESIGENZE DI CURA, DI VITA E DI LAVORO (APPROVATO DAL SENATO) (A.C. 2660-A)

A.C. 2660-A – Proposta emendativa

PROPOSTA EMENDATIVA RIFERITA ALL'ARTICOLO UNICO DEL DISEGNO DI LEGGE

ART. 1.

  Dopo il comma 11, aggiungere il seguente:
  11-bis. Qualora il Governo non intenda conformarsi ai pareri parlamentari, trasmette nuovamente i testi alle Camere con le sue osservazioni, con eventuali modificazioni, corredate dei necessari elementi integrativi di informazione e motivazione. I pareri definitivi delle Commissioni competenti per materia sono espressi entro il termine di dieci giorni dalla data della nuova trasmissione. Decorso tale termine, i decreti possono essere comunque adottati.

  Conseguentemente, al comma 13, sostituire le parole: ai commi 10 e 11 con le seguenti: ai commi 10, 11 e 11-bis.
1. 141. (ex 1. 523.) Ciprini, Pesco, Tripiedi, Baldassarre, Rizzetto, Cominardi, Chimienti.

A.C. 2660-A – Ordini del giorno

ORDINI DEL GIORNO

   La Camera,
   premesso che:
    in sede di esame dell'atto Camera n. 2660-A (Deleghe al Governo in materia di riforma, degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino dei rapporti di lavoro e di sostegno alla maternità e alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro); il comma 6, lettera g), prevede l'adozione di modalità semplificate per garantire la data certa nonché l'autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso dal lavoratore;
    con ciò, il comma 6, lettera g) della legge delega, esprime un giudizio di scarsa efficacia delle attuali norme di contrasto all'abuso delle «dimissioni in bianco»;
    con la legge n. 188 del 17 ottobre 2007, era stato introdotto un meccanismo procedurale diretto a contrastare e porre rimedio generale contro l'abuso delle dimissioni in bianco del lavoratore o delle lavoratrici;
    sulla medesima materia è intervenuta la legge n. 92 del 2012, la cosiddetta «Legge Fornero», prevedendo una procedura molto complicata e di difficile applicazione; il secondo periodo del comma 18 dell'articolo 4 della legge n. 92 del 2012, rinvia a un possibile decreto ministeriale di natura non regolamentare l'individuazione di ulteriori modalità semplificate di accertamento della veridicità della data e dell'autenticità delle dichiarazione del lavoratore, in funzione dello sviluppo dei sistemi informatici e della evoluzione della disciplina in materia di comunicazioni obbligatorie;
    il 25 marzo 2014 è stato approvato alla Camera dei deputati, il testo unificato n. 254-272-A che prevede la redazione a pena di nullità, delle dimissioni o anche della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, su appositi moduli, recanti la data di emissione, contraddistinti da un codice alfanumerico progressivo di identificazione, che fornisca un elemento sicuro di riferimento riguardo all'effettivo momento di apposizione della firma o delle firme sugli atti in oggetto. Prevedendo altresì che tali moduli fossero resi disponibili gratuitamente dalla direzione territoriale del lavoro, dagli uffici comunali e dai centri per l'impiego, attraverso siti internet istituzionali,

impegna il Governo

a prevedere, con i decreti attuativi, una procedura informatica semplice e priva di costi che garantisca l'autentica volontà della cessazione del rapporto di lavoro da parte della lavoratrice o del lavoratore, anche tenuto conto della necessità di assicurare, nel contempo, la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso.
9/2660-A/1Di Salvo, Gnecchi, Gribaudo, Maestri, Incerti, Cinzia Maria Fontana, Giacobbe, Albanella, Simoni, Dell'Aringa.


   La Camera,
   premesso che:
    in sede di esame dell'atto Camera n. 2660-A (Deleghe al Governo in materia di riforma, degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino dei rapporti di lavoro e di sostegno alla maternità e alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro); il comma 6, lettera g), prevede l'adozione di modalità semplificate per garantire la data certa nonché l'autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso dal lavoratore;
    con ciò, il comma 6, lettera g) della legge delega, esprime un giudizio di scarsa efficacia delle attuali norme di contrasto all'abuso delle «dimissioni in bianco»;
    con la legge n. 188 del 17 ottobre 2007, era stato introdotto un meccanismo procedurale diretto a contrastare e porre rimedio generale contro l'abuso delle dimissioni in bianco del lavoratore o delle lavoratrici;
    sulla medesima materia è intervenuta la legge n. 92 del 2012, la cosiddetta «Legge Fornero», prevedendo una procedura molto complicata e di difficile applicazione; il secondo periodo del comma 18 dell'articolo 4 della legge n. 92 del 2012, rinvia a un possibile decreto ministeriale di natura non regolamentare l'individuazione di ulteriori modalità semplificate di accertamento della veridicità della data e dell'autenticità delle dichiarazione del lavoratore, in funzione dello sviluppo dei sistemi informatici e della evoluzione della disciplina in materia di comunicazioni obbligatorie;
    il 25 marzo 2014 è stato approvato alla Camera dei deputati, il testo unificato n. 254-272-A che prevede la redazione a pena di nullità, delle dimissioni o anche della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, su appositi moduli, recanti la data di emissione, contraddistinti da un codice alfanumerico progressivo di identificazione, che fornisca un elemento sicuro di riferimento riguardo all'effettivo momento di apposizione della firma o delle firme sugli atti in oggetto. Prevedendo altresì che tali moduli fossero resi disponibili gratuitamente dalla direzione territoriale del lavoro, dagli uffici comunali e dai centri per l'impiego, attraverso siti internet istituzionali,

impegna il Governo

a valutare la possibilità, in fase di predisposizione dei decreti legislativi, di prevedere procedure informatiche semplici e prive di costi volti a garantire l'autentica volontà della cessazione del rapporto di lavoro da parte della lavoratrice o del lavoratore, anche tenuto conto della necessità di assicurare, nel contempo, la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso.
9/2660-A/1. (Testo modificato nel corso della seduta) Di Salvo, Gnecchi, Gribaudo, Maestri, Incerti, Cinzia Maria Fontana, Giacobbe, Albanella, Simoni, Dell'Aringa.


   La Camera,
   premesso che:
    l'efficacia dei servizi per il lavoro e delle misure di politica attiva del lavoro non risiede esclusivamente nella fase di erogazione, ma richiede una fondamentale attività tecnica di preparazione, anche con funzioni anticipatorie dei fenomeni che incidono sul mercato del lavoro, di programmazione e di progettazione orientate alle competenze, come previsto dalla strategia europea per l'occupazione e da modelli consolidati, funzioni che, sulla base delle esperienze in atto relative alla sinergia tra servizi pubblici e privati per il lavoro in diverse regioni, rischiano di avere una rilevanza insufficiente;
    che l'integrazione tra servizi per il lavoro pubblici e privati rischia di esprimersi nell'insufficienza quantitativa dei servizi erogati nei territori;
    che è importante assicurare un raccordo tecnico tra la governance regionale e i servizi privati per il lavoro per massimizzarne l'efficacia e rendere omogenea l'offerta,

impegna il Governo

il Governo a prevedere che la governance regionale dei servizi in materia di politica attiva del lavoro per attività di sistema quali analisi dei fabbisogni, programmazione e progettazione, coordinamento territoriale, offerta dei servizi in aree di carenza, si possa avvalere di strutture tecniche intermedie pubbliche, partecipate o private specificamente accreditate o autorizzate, nel rispetto dell'invarianza della spesa e anche attraverso opportuni progetti a valere sui fondi già disponibili per gli ambiti di intervento riconducibili all'incremento dell'occupazione e dell'occupabilità, allo sviluppo e al riconoscimento delle competenze, a sostegno dell'inclusione sociale e della lotta alla povertà.
9/2660-A/2Burtone, Albanella.


   La Camera,
   premesso che:
    uno degli obiettivi del Disegno di legge delega è quello di garantire la fruizione dei servizi essenziali in materia di politica attiva del lavoro su tutto il territorio nazionale, nonché di assicurare l'esercizio unitario delle relative funzioni amministrative;
    l'articolo 1, comma 4, lettera q) del disegno di legge delega prevede, tra i principi e criteri direttivi a cui il governo deve attenersi, «l'introduzione di modelli sperimentali, che prevedano l'utilizzo di strumenti per incentivare il collocamento dei soggetti in cerca di lavoro e che tengano anche conto delle buone pratiche realizzate a livello regionale»,

impegna il Governo:

   a valutare l'opportunità di prevedere che nella redazione dei decreti attuativi siano inclusi, tra i soggetti in cerca di lavoro che potranno utilizzare gli strumenti previsti dai modelli sperimentali, anche quei soggetti fragili così come individuati dal Programma Operativo Nazionale sull'Inclusione Sociale definito dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali;
   a considerare altresì la possibilità che ai fini della realizzazione di tali modelli sperimentali possa essere utilizzata anche una quota del Fondo Sociale Europeo, in raccordo con le regioni e tenendo conto delle linee operative definite nel Programma Operativo Nazionale di cui è titolare il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
9/2660-A/3Santerini, Marazziti.


   La Camera,
   premesso che:
    la legge 28 giugno 2012, numero 92 che disciplina, rispettivamente, all'articolo 2 l'istituzione dell'Assicurazione sociale per l'impiego (ASpI), con la funzione di fornire ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione un'indennità mensile, e all'articolo 3, le tutele in costanza di rapporto di lavoro;
    considerato che molti operatori segnalano significativi ritardi nella concessione di quanto spettante alla persona come sostegno al reddito;
   tenuto conto:
    dell'articolo 36 della Costituzione che riconosce «al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa»;
    dell'articolo 38 della Costituzione, per cui i lavoratori hanno diritto a che siano «preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria»,

impegna il Governo

a definire, in sede di predisposizione dei decreti legislativi di cui al presente disegno di legge, delle procedure semplificate e certe affinché l'ente erogatore possa provvedere all'erogazione dell'ammortizzatore sociale spettante nel più breve tempo possibile e, comunque, non oltre i 30 giorni dalla presentazione della domanda o dalla autorizzazione.
9/2660-A/4Polverini, Tripiedi.


   La Camera,
   premesso che:
    la legge 28 giugno 2012, numero 92 che disciplina, rispettivamente, all'articolo 2 l'istituzione dell'Assicurazione sociale per l'impiego (ASpI), con la funzione di fornire ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione un'indennità mensile, e all'articolo 3, le tutele in costanza di rapporto di lavoro;
    considerato che molti operatori segnalano significativi ritardi nella concessione di quanto spettante alla persona come sostegno al reddito;
   tenuto conto:
    dell'articolo 36 della Costituzione che riconosce «al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa»;
    dell'articolo 38 della Costituzione, per cui i lavoratori hanno diritto a che siano «preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria»,

impegna il Governo

a valutare la possibilità di definire, in sede di predisposizione dei decreti legislativi di cui al presente disegno di legge, delle procedure semplificate e certe affinché l'ente erogatore possa provvedere all'erogazione dell'ammortizzatore sociale spettante in tempi congrui e, comunque, non oltre i 30 giorni dalla presentazione della domanda o dalla autorizzazione.
9/2660-A/4. (Testo modificato nel corso della seduta) Polverini, Tripiedi.


   La Camera,
   premesso che:

    i lavoratori della cultura e dello spettacolo rappresentano una categoria strategica per lo sviluppo, con caratteristiche di stabile discontinuità lavorativa e intermittenza che li rendono una forma peculiare tra lavoro autonomo e lavoro subordinato e piccola impresa;

    i regimi fiscali e societari tradizionali mal si adattano a questo tipo di lavoro contribuendo a creare zone grigie in campo di ammortizzatori sociali, previdenziale, tributario, di fedeltà fiscale e di difficoltà di sviluppo di comportamenti pienamente imprenditoriali;

    anche considerato il riconoscimento in tal senso più volte espresso dal Ministro Poletti, non ultimo nel percorso di applicazione di «Garanzia Giovani», e del Ministro Franceschini, per individuare modalità specifiche di semplificazione, aggiornamento delle normative pensate per queste categorie di lavoratori,

impegna il Governo

nei limiti previsti dalla delega, ad affrontare la specifica situazione dei lavoratori della cultura e dello spettacolo, con tutti i possibili accorgimenti della normativa attuativa prevista, con la condivisione di lavoratori e delle imprese e con l'attivazione di un tavolo di lavoro, al fine di rendere più efficace l'accesso alle tutele pensionistiche e sociali, le azioni di formazione e di politiche attive, la copertura dei periodi di inattività.
9/2660-A/5Rampi, Manzi, Malisani, Bonomo, Narduolo, Carocci, Blazina, Malpezzi, Ghizzoni, Bossa, Ventricelli, D'Ottavio.


   La Camera,
   premesso che:

    i lavoratori della cultura e dello spettacolo rappresentano una categoria strategica per lo sviluppo, con caratteristiche di stabile discontinuità lavorativa e intermittenza che li rendono una forma peculiare tra lavoro autonomo e lavoro subordinato e piccola impresa;

    i regimi fiscali e societari tradizionali mal si adattano a questo tipo di lavoro contribuendo a creare zone grigie in campo di ammortizzatori sociali, previdenziale, tributario, di fedeltà fiscale e di difficoltà di sviluppo di comportamenti pienamente imprenditoriali;

    anche considerato il riconoscimento in tal senso più volte espresso dal Ministro Poletti, non ultimo nel percorso di applicazione di «Garanzia Giovani», e del Ministro Franceschini, per individuare modalità specifiche di semplificazione, aggiornamento delle normative pensate per queste categorie di lavoratori,

impegna il Governo

nei limiti previsti dalla delega, a valutare l'opportunità di intervenire al fine di affrontare la specifica situazione dei lavoratori della cultura e dello spettacolo, con tutti i possibili accorgimenti della normativa attuativa prevista, con la condivisione di lavoratori e delle imprese e con l'attivazione di un tavolo di lavoro, al fine di rendere più efficace l'accesso alle tutele pensionistiche e sociali, le azioni di formazione e di politiche attive, la copertura dei periodi di inattività.
9/2660-A/5. (Testo modificato nel corso della seduta) Rampi, Manzi, Malisani, Bonomo, Narduolo, Carocci, Blazina, Malpezzi, Ghizzoni, Bossa, Ventricelli, D'Ottavio.


   La Camera,
   premesso che:
    il disegno di legge di delega al Governo in materia di riforma del mercato del lavoro, con particolare riguardo alla revisione delle forme contrattuali, all'articolo 1, commi 8 e 9, prevede una delega in materia di conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, allo scopo di garantire adeguato sostegno alle cure parentali e di rivedere e aggiornare le misure intese a tutelare la maternità e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro;
    i criteri di delega, estesi durante l'esame in Commissione Lavoro alla Camera, prevedono un ampliamento delle categorie di lavoratrici beneficiarie dell'indennità di maternità, comprese le lavoratrici parasubordinate, l'incentivazione di forme di flessibilità dell'orario di lavoro, come il telelavoro, la possibilità di cessione fra lavoratori dipendenti dello stesso datore di lavoro di giorni di riposo aggiuntivi in favore di lavoratori genitori di un figlio minore che necessiti di cure costanti, l'incremento dei servizi per le cure parentali, la ricognizione delle disposizioni di tutela e sostegno della maternità e della paternità al fine di rivedere la normativa per migliorarla, l'istituzione di particolari congedi per le donne inserite in percorsi i di protezione, certificati, relativi alla violenza di genere, l'estensione di tali benefici anche ai rapporti di lavoro del pubblico impiego, una migliore promozione delle pari opportunità nel mondo del lavoro;
    il comma 9 ha anche previsto l'introduzione di un credito d'imposta, inteso ad incentivare il lavoro femminile, per le donne lavoratrici, anche autonome, che abbiano figli minori o figli disabili non autosufficienti e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito individuale complessivo, nonché l'armonizzazione del regime delle detrazioni per il coniuge a carico;
    nell'ambito dei crediti d'imposta per carichi di famiglia sarebbe opportuno anche rivedere la soglia di reddito al di sotto della quale i familiari risultino fiscalmente a carico del contribuente, per renderla attuale e adeguarla al reale costo della vita, nonché introdurre ulteriori crediti d'imposta, possibilmente a regime, che incentivino il lavoro delle donne-madri-lavoratrici, come gli incentivi fiscali per il pagamento delle rette degli asili nido e dell'assistenza domiciliare all'infanzia, le cosiddette Tagesmutter, e dei centri estivi dei figli fino ai 5 anni d'età,

impegna il Governo

a esercitare la delega di cui all'articolo 1, comma 9, lettera c), f) e g), anche nel senso di adeguare al costo della vita la soglia di reddito al di sotto della quale i familiari risultino fiscalmente a carico del contribuente, e di prevedere a regime altre forme di credito d'imposta che incentivino il lavoro delle donne-madri-lavoratrici, come illustrato in premessa.
9/2660-A/6Gebhard, Alfreider, Plangger, Schullian, Ottobre.


   La Camera,
   premesso che:
    il disegno di legge di delega al Governo in materia di riforma del mercato del lavoro, con particolare riguardo alla revisione delle forme contrattuali, all'articolo 1, commi 8 e 9, prevede una delega in materia di conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, allo scopo di garantire adeguato sostegno alle cure parentali e di rivedere e aggiornare le misure intese a tutelare la maternità e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro;
    i criteri di delega, estesi durante l'esame in Commissione Lavoro alla Camera, prevedono un ampliamento delle categorie di lavoratrici beneficiarie dell'indennità di maternità, comprese le lavoratrici parasubordinate, l'incentivazione di forme di flessibilità dell'orario di lavoro, come il telelavoro, la possibilità di cessione fra lavoratori dipendenti dello stesso datore di lavoro di giorni di riposo aggiuntivi in favore di lavoratori genitori di un figlio minore che necessiti di cure costanti, l'incremento dei servizi per le cure parentali, la ricognizione delle disposizioni di tutela e sostegno della maternità e della paternità al fine di rivedere la normativa per migliorarla, l'istituzione di particolari congedi per le donne inserite in percorsi i di protezione, certificati, relativi alla violenza di genere, l'estensione di tali benefici anche ai rapporti di lavoro del pubblico impiego, una migliore promozione delle pari opportunità nel mondo del lavoro;
    il comma 9 ha anche previsto l'introduzione di un credito d'imposta, inteso ad incentivare il lavoro femminile, per le donne lavoratrici, anche autonome, che abbiano figli minori o figli disabili non autosufficienti e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito individuale complessivo, nonché l'armonizzazione del regime delle detrazioni per il coniuge a carico;
    nell'ambito dei crediti d'imposta per carichi di famiglia sarebbe opportuno anche rivedere la soglia di reddito al di sotto della quale i familiari risultino fiscalmente a carico del contribuente, per renderla attuale e adeguarla al reale costo della vita, nonché introdurre ulteriori crediti d'imposta, possibilmente a regime, che incentivino il lavoro delle donne-madri-lavoratrici, come gli incentivi fiscali per il pagamento delle rette degli asili nido e dell'assistenza domiciliare all'infanzia, le cosiddette Tagesmutter, e dei centri estivi dei figli fino ai 5 anni d'età,

impegna il Governo

a valutare la possibilità di prevedere a regime ulteriori forme di credito d'imposta, senza ulteriori oneri a carico della finanza pubblica.
9/2660-A/6. (Testo modificato nel corso della seduta) Gebhard, Alfreider, Plangger, Schullian, Ottobre.


   La Camera,
   premesso che:
    il decreto legislativo n. 151 del 26 marzo 2001, cosiddetto Testo Unico Maternità-Paternità, modificato dal decreto legislativo n. 119 del 2011, contiene le norme sui permessi e sui congedi di maternità e paternità;
    il decreto riconosce alla mamma lavoratrice nel periodo di astensione obbligatoria dal lavoro (5 mesi: due prima del parto e tre dopo il parto salvo che si voglia ricorrere al congedo flessibile) il diritto a percepire un'indennità economica pari all'80 per cento della retribuzione giornaliera calcolata sulla base della paga dell'ultimo mese di lavoro precedente il mese di inizio del congedo;
    l'indennità è anticipata in busta paga dal datore di lavoro fatta eccezione per i casi previsti dalla legge per cui il pagamento è erogato direttamente dall'istituto Nazionale di Previdenza Sociale al beneficiario/a (lavoratrici stagionali, lavoratrici dello spettacolo con occupazione saltuaria, del settore agricolo, colf, badanti e disoccupate);
    il nostro ordinamento prevede che le somme d'indennità vadano anticipate dal datore di lavoro per conto dell'INPS, salvo il successivo conguaglio con le somme dovute all'istituto a titolo di contributi, non favorisce la lotta alla discriminazione di genere sul posto di lavoro;
    anche a causa della crisi economica, il datore di lavoro tende sempre più spesso a trattenere l'indennità per se stesso, in particolare nel Mezzogiorno;
    è chiaro che, se il datore di lavoro in un periodo di crisi economica è costretto a fronteggiare ogni giorno difficoltà finanziarie, non riuscirà a garantire l'anticipazione delle varie indennità compresa quella di maternità,

impegna il Governo

a valutare l'opportunità di affidare il pagamento dell'indennizzo economico dall'INPS direttamente alla beneficiaria, come già accade per diverse categorie.
9/2660-A/7Sgambato, Moscatt, Pagani, Palma.


   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 1 comma 4, lettera g) prevede, tra i principi e i criteri direttivi cui il Governo è tenuto ad attenersi nell'esercizio della delega, la razionalizzazione e la revisione delle procedure e degli adempimenti in materia di inserimento mirato delle persone con disabilità di cui alla legge 12 marzo 1999, n. 68, e degli altri soggetti aventi diritto al collocamento obbligatorio, al fine di favorirne l'inclusione sociale, l'inserimento e l'integrazione nel mercato del lavoro, avendo cura di valorizzare le competenze delle persone,

impegna il Governo

a promuovere in particolare, nell'esercizio della delega, la rivisitazione della base dei lavoratori su cui vengono calcolati le quote di assunzione obbligatoria di persone con disabilità e degli ambiti territoriali in cui scatta la sospensione di tali obblighi nel caso di apertura di procedure di mobilità, nonché a riformare il sistema sanzionatorio aggravando le ammende per quelle aziende che eludono colpevolmente l'obbligo di assumere lavoratori disabili al fine di recuperare risorse da destinare al fondo per la disabilità e ai progetti virtuosi di collocamento mirato per sostenere la nascita e la diffusione di nuovi servizi su tutto il territorio nazionale.
9/2660-A/8Maestri, Giacobbe, Romanini.


   La Camera,
   premesso che:
    nel quadro del difficile contesto socio-economico che da anni caratterizza il nostro Paese, la vita di milioni di famiglie italiane è sempre più esposta al rischio di impoverimento a causa del forte indebolimento del sistema produttivo italiano, gli ammortizzatori sociali rappresentano l'unico strumento di sostegno al reddito per decine di migliaia di persone che rischiano di essere relegate in una posizione di marginalità economica e sociale;
    a tal riguardo appare indispensabile operare al fine di ottimizzare i tempi occorrenti per l'espletamento delle procedure relative alla emanazione dei decreti di concessione degli interventi di sostegno al reddito, superando i ritardi che troppo spesso si sono registrati in tante parti del paese, dovuti nella maggior parte dei casi alla scarsezza del personale preposto, il cui numero – rimasto inalterato nel corso di questi drammatici anni – non appare, purtroppo, sufficiente a garantire l'indispensabile sollecitudine nell'espletazione dei relativi iter procedurali;
    sul tema, in risposta all'interrogazione 4-00974, il Governo ha riconosciuto che, a fronte del massiccio ricorso delle imprese alla concessione di ammortizzatori sociali e nonostante rinformatizzazione della gestione delle pratiche, il sistema presenti ancora notevoli ritardi, la cui soluzione è di urgente attualità;
    all'articolo 1, comma 2, lettera a), numero 7) del provvedimento in oggetto, nell'ambito della delega in materia di riordino degli ammortizzatori sociali, dopo l'esame di questo ramo del Parlamento, si prevede «l'introduzione di meccanismi standardizzati di concessione»,

impegna il Governo

a dare piena attuazione alla suddetta delega, al fine di assicurare, oltre alla standardizzazione delle procedure, anche la rapidità e la certezza dei tempi di erogazione degli ammortizzatori sociali, nel rispetto delle esigenze di migliaia di lavoratori e delle relative famiglie.
9/2660-A/9Albanella, Incerti, Giacobbe.


   La Camera,
   premesso che:
    nel quadro del difficile contesto socio-economico che da anni caratterizza il nostro Paese, la vita di milioni di famiglie italiane è sempre più esposta al rischio di impoverimento a causa del forte indebolimento del sistema produttivo italiano, gli ammortizzatori sociali rappresentano l'unico strumento di sostegno al reddito per decine di migliaia di persone che rischiano di essere relegate in una posizione di marginalità economica e sociale;
    a tal riguardo appare indispensabile operare al fine di ottimizzare i tempi occorrenti per l'espletamento delle procedure relative alla emanazione dei decreti di concessione degli interventi di sostegno al reddito, superando i ritardi che troppo spesso si sono registrati in tante parti del paese, dovuti nella maggior parte dei casi alla scarsezza del personale preposto, il cui numero – rimasto inalterato nel corso di questi drammatici anni – non appare, purtroppo, sufficiente a garantire l'indispensabile sollecitudine nell'espletazione dei relativi iter procedurali;
    sul tema, in risposta all'interrogazione 4-00974, il Governo ha riconosciuto che, a fronte del massiccio ricorso delle imprese alla concessione di ammortizzatori sociali e nonostante rinformatizzazione della gestione delle pratiche, il sistema presenti ancora notevoli ritardi, la cui soluzione è di urgente attualità;
    all'articolo 1, comma 2, lettera a), numero 7) del provvedimento in oggetto, nell'ambito della delega in materia di riordino degli ammortizzatori sociali, dopo l'esame di questo ramo del Parlamento, si prevede «l'introduzione di meccanismi standardizzati di concessione»,

impegna il Governo

a valutare l'opportunità di assicurare, oltre alla standardizzazione delle procedure, anche la rapidità e la certezza dei tempi di erogazione degli ammortizzatori sociali, nel rispetto delle esigenze di migliaia di lavoratori e delle relative famiglie.
9/2660-A/9. (Testo modificato nel corso della seduta) Albanella, Incerti, Giacobbe.


   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 1 comma 7 lettera h) del provvedimento in oggetto prevede la creazione di una agenzia unica ispettiva al fine di razionalizzare e semplificare le funzioni ispettive, l'integrazione in un'unica agenzia dei servizi ispettivi costituisce una novità assoluta nell'ordinamento giuridico italiano e permetterebbe un salto di qualità delle ispezioni sul lavoro;
    insieme alla unicità delle ispezioni occorre modificare la normativa in tema di contenzioso avverso il verbale unico ispettivo per consentire all'agenzia di operare in maniera efficace ed efficiente;
    senza alcuna riforma del contenzioso, a legislazione vigente, l'agenzia unica dovrebbe frammentare la difesa processuale dinanzi a diversi giudici, con conseguente dispendio di risorse pubbliche appartenenti ad enti diversi (INPS per la riscossione dei contributi contestati nel verbale ispettivo; Inail per la riscossione dei premi contenuti nello stesso verbale; l'agenzia unica, a seguito di emissione di ordinanza ingiunzione per la riscossione delle sanzioni amministrative). Ogni giudizio sarebbe autonomo e richiederebbe l'audizione dei medesimi testimoni;
    tale risultato non è conforme alle esigenze di razionalizzazione e semplificazione delle ispezioni che dovrebbe andare verso la realizzazione di principi volti alla effettiva protezione dei lavoratori e la semplificazione delle procedure;
    occorre una modifica interpretativa al fine della ottimizzazione delle risorse umane e strumentali dell'agenzia e un risparmio di procedure e di spese per le aziende nel caso di contenzioso giudiziario,

impegna il Governo

a prevedere la razionalizzazione e semplificazione della procedura del contenzioso in materia di lavoro, anche attraverso la modifica delle disposizioni processuali contenute nella legge 24 novembre 1981 n. 689 e nel decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150, prevedendo che la rappresentanza e la difesa in ogni stato e grado del giudizio avverso i verbali ispettivi sia svolta dall'agenzia ispettiva mediante i propri funzionari.
9/2660-A/10Gribaudo, Boccuzzi.


   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 1 comma 7 lettera h) del provvedimento in oggetto prevede la creazione di una agenzia unica ispettiva al fine di razionalizzare e semplificare le funzioni ispettive, l'integrazione in un'unica agenzia dei servizi ispettivi costituisce una novità assoluta nell'ordinamento giuridico italiano e permetterebbe un salto di qualità delle ispezioni sul lavoro;
    insieme alla unicità delle ispezioni occorre modificare la normativa in tema di contenzioso avverso il verbale unico ispettivo per consentire all'agenzia di operare in maniera efficace ed efficiente;
    senza alcuna riforma del contenzioso, a legislazione vigente, l'agenzia unica dovrebbe frammentare la difesa processuale dinanzi a diversi giudici, con conseguente dispendio di risorse pubbliche appartenenti ad enti diversi (INPS per la riscossione dei contributi contestati nel verbale ispettivo; Inail per la riscossione dei premi contenuti nello stesso verbale; l'agenzia unica, a seguito di emissione di ordinanza ingiunzione per la riscossione delle sanzioni amministrative). Ogni giudizio sarebbe autonomo e richiederebbe l'audizione dei medesimi testimoni;
    tale risultato non è conforme alle esigenze di razionalizzazione e semplificazione delle ispezioni che dovrebbe andare verso la realizzazione di principi volti alla effettiva protezione dei lavoratori e la semplificazione delle procedure;
    occorre una modifica interpretativa al fine della ottimizzazione delle risorse umane e strumentali dell'agenzia e un risparmio di procedure e di spese per le aziende nel caso di contenzioso giudiziario,

impegna il Governo

a prevedere la razionalizzazione e semplificazione della procedura del contenzioso in materia di lavoro, anche attraverso la modifica delle disposizioni processuali contenute nella legge 24 novembre 1981 n. 689 e nel decreto legislativo 1o settembre 2011, n. 150, prevedendo che la rappresentanza e la difesa in ogni grado di giudizio avverso i verbali ispettivi sia svolta dall'agenzia ispettiva mediante i propri funzionari.
9/2660-A/10. (Testo modificato nel corso della seduta) Gribaudo, Boccuzzi.


   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 28 della Costituzione stabilisce in capo ai funzionari e ai dipendenti dello Stato e degli enti pubblici la diretta responsabilità in materia penale, civile ed amministrativa degli atti compiuti in violazione di taluni diritti;
    il pubblico dipendente nell'esercizio delle proprie funzioni può incorrere in determinate responsabilità: civile, penale, amministrativo-contabile, disciplinare, dirigenziale. La responsabilità penale in capo al dipendente è conseguente alla commissione di reati contro la pubblica amministrazione, previsti dal Titolo II del Codice Penale;
    la responsabilità disciplinare è materia regolata dall'articolo 55 del testo unico 165 del 2001 al quale sono collegati l'articolo 54 dello stesso testo unico relativo al codice di comportamento dei dipendenti pubblici, l'articolo 94 del testo unico 267 del 2000 e la legge 27 marzo 2001, n. 97;
    nel settore del lavoro pubblico, il procedimento disciplinare per il licenziamento del dipendente, qualora la contestazione avesse riguardato un fatto che poteva costituire reato ed era quindi oggetto dell'accertamento del giudice penale, non aveva alcuna autonomia ma era strettamente legato alla decisione del giudice per cui, a fronte di una sentenza di assoluzione e qualunque fosse il motivo dell'assoluzione stessa il lavoratore non poteva essere licenziato;
    la privatizzazione del rapporto di pubblico impiego ha ex novo regolamentato la responsabilità disciplinare e la responsabilità dirigenziale, mentre non ha innovato la previgente disciplina sulle tre restanti responsabilità, ovvero quella civile, penale ed amministrativo contabile per le quali viene testualmente richiamata la relativa disciplina legislativa di settore ad opera dell'articolo 55, comma 2 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165;
    la legge 27 marzo 2001, n. 97 ha introdotto la disciplina del rapporto tra processo penale e procedimento disciplinare, con particolare riguardo agli effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche. Tale legge ha modificato l'articolo 653 del Codice di Procedura Penale, stabilendo che «La sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso»;
    per il dipendente privato si applica il principio della giusta Causa, articolo 2119 del codice civile, per riferirsi ad un comportamento talmente grave da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro, neppure a titolo provvisorio, neppure per il tempo previsto per il preavviso di licenziamento,

impegna il Governo

nell'ambito delle deleghe previste dal provvedimento in oggetto, a rivedere la normativa in questione, omogeneizzando il trattamento dei lavoratori pubblici e dei lavoratori privati.
9/2660-A/11Venittelli.


   La Camera,
   premesso che:
    nonostante l'ampia portata degli ambiti delle deleghe contenute nel provvedimento in oggetto, il comparto del lavoro autonomo non trova una trattazione organica e molte questioni rimangono irrisolte;
    tra i tanti problemi che vivono i lavoratori che esercitano la loro attività nella forma autonoma e iscritti alle gestioni speciali di artigiani e commercianti e alla gestione separata INPS si segnala il caso di coloro che in caso di patologie gravi e sospensione dell'attività, sono comunque gravati dell'obbligo di versare acconti e saldi di imposte e contributi sulla base di imponibili che la patologia non permette oggettivamente di produrre;
    l'attuale normativa non consente nemmeno, pur in situazioni di conclamata e prolungata impossibilità di produrre reddito, di rateizzare i tributi dovuti,

impegna il Governo

a valutare la possibilità, nell'ambito delle sue prerogative, di rivedere l'attuale disciplina al fine di consentire ai lavoratori iscritti alle gestioni speciali di artigiani e commercianti e alla gestione separata INPS, che versano in particolari condizione di salute, di poter sospendere, per un periodo congruo, il pagamento degli obblighi fiscali e previdenziali, recuperando le suddette somme solo alla ripresa dell'attività lavorativa, attraverso la rateizzazione del dovuto.
9/2660-A/12Paris, Gribaudo, Giacobbe.


   La Camera,
   premesso che:
    dal 2009 ad oggi sono quasi un milione i lavoratori che a vario titolo hanno beneficiato di ammortizzatori in deroga;
    particolarmente critica risulta essere oggi la condizione dei lavoratori in mobilità in deroga che hanno usufruito dell'ammortizzatore sociale per più di tre anni in maniera consecutiva senza soluzione di continuità;
    suddetti lavoratori non percepiscono l'indennità di mobilità con regolarità in quanto, come minimo, si registrano nei pagamenti ritardi di nove mesi, per via dei ritardi con cui avvengono i riparti alle regioni;
    con il decreto 83473 sono stati introdotti criteri maggiormente restrittivi per l'accesso al citato beneficio;
    dal 1o gennaio tali lavoratori rischiano, comunque, di trovarsi fuori da ogni forma di copertura e di sostegno al reddito;
    sarebbe opportuno rafforzare i meccanismi di protezione nell'ambito dell'esercizio della delega da parte del Governo per evitare che un numero rilevante di questi lavoratori finisca per essere privo di qualsiasi forma di protezione sociale,

impegna il Governo

in considerazione del permanere di condizioni di criticità nell'ambito delle gestioni di crisi industriale, a prevedere, d'intesa con le regioni, la possibilità di prorogare, ulteriormente, i trattamenti di mobilità in deroga, in essere al 31 agosto 2014, fino alla emanazione dei decreti delegati di cui al comma 1 del presente disegno di legge delega.
9/2660-A/13Battaglia.


   La Camera,
   premesso che:
    al comma 4 dell'articolo 1 del presente ddl delega viene prevista alla lettera c) la istituzione di Agenzia nazionale per l'occupazione;
    la citata Agenzia nasce partecipata da Stato, regioni e province autonome, vigilata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali;
    la lettera e) del citato comma prevede all'agenzia l'attribuzione di competenze in materia di Aspi cioè l'Assicurazione sociale per l'impiego (ASpI), che a seguito dei decreti delegati che saranno emanati porterà alla omogeneizzazione della disciplina relativa ai trattamenti ordinari e ai trattamenti brevi, in materia di ammortizzatori sociali, rapportando la durata dei trattamenti alla pregressa storia contributiva del lavoratore;
    ad oggi l'unico istituto titolare di queste competenze è l'Inps a cui vanno riconosciute competenze e strumenti che ne fanno un esempio in Europa e nel mondo tant’è che con il progetto Cina l'Inps sta supportando il paese demograficamente più popolato del mondo a dotarsi di una struttura erogatrice di prestazioni di welfare;
    la successiva lettera r) del citato comma che prevede meccanismi di raccordo tra l'Agenzia e l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), sia a livello centrale che a livello territoriale necessita di una declinazione rafforzativa nell'ambito della stesura dei decreti delegati;
    l'Inps non può non essere titolare di parte importante delle competenze in materia di erogazione dei nuovi ammortizzatori sociali,

impegna il Governo

nell'ambito della stesura dei decreti delegati concernenti l'istituzione della Agenzia nazionale per l'occupazione ad attribuire all'Inps titolarità fondatrice in relazione alle competenze di cui al citato comma ed in particolare in materia di nuovi ammortizzatori sociali.
9/2660-A/14Famiglietti.


   La Camera,
   premesso che:
    il comma 6 del disegno di legge in esame individua i principi e i criteri direttivi cui il Governo dovrà attenersi nell'esercizio della delega, per la definizione di norme di semplificazione e di razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti, a carico di cittadini e imprese, relativi alla costituzione ed alla gestione dei rapporti di lavoro, nonché in materia di igiene e sicurezza del lavoro;
    nello specifico, tra i principi e i criteri direttivi è prevista la promozione del principio di legalità ed il conferimento di priorità alle politiche intese a prevenire e scoraggiare il lavoro sommerso, ai sensi di alcune recenti risoluzioni del Parlamento europeo in materia. Le risoluzioni dispongono l'adozione da parte dell'UE di una strategia specifica per la lotta contro il lavoro nero e la promozione dell'emersione del lavoro irregolare e riconoscono la necessità di incrementare il personale e le risorse necessarie per effettuare le ispezioni sul lavoro negli Stati membri;
    tra gli strumenti di lotta alla legalità e alla evasione contributiva costituisce un valida misura l'innalzamento dei limiti per i reati di omissione contributiva, di fatto quinquennali per molte fattispecie a seguito della Riforma Dini (Legge n. 335 del 1995);
    in particolare, in tema di prescrizione di contributi previdenziali, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6173 pronunciata il 7 marzo 2008, risolvendo un contrasto di giurisprudenza in ordine all'interpretazione della norma di cui all'articolo 3 della legge n. 335 del 1995, hanno affermato che, con l'entrata in vigore della predetta norma, la quale ha introdotto il nuovo regime per la prescrizione dei contributi relativi a periodi precedenti, opera, fuori dei casi di conservazione del precedente termine decennale, il nuovo termine di prescrizione più breve che comincia a decorrere dalla data del 1o gennaio 1996. Detto termine non può essere superiore a cinque anni, mentre può essere inferiore se tale è il residuo del più lungo termine determinato secondo il regime precedente. Dunque solo in alcuni casi è prevista la prescrizione a 10 anni;
    allo scopo di scoraggiare il lavoro sommerso è opportuno prevedere l'innalzamento dei termini di prescrizione per i reati di omissione contributiva, permettendo al lavoratore di recuperare quegli oneri assicurativi e previdenziali in grado di garantirne il sostentamento durante la vecchiaia, nel pieno rispetto dell'articolo 38 della Costituzione e come fu fra il 1969 e il 1995, prima dell'entrata in vigore della «Riforma Dini»,

impegna il Governo

a valutare l'opportunità di adottare le adeguate iniziative, anche di carattere normativo, atte a prevedere, come ulteriore strumento di lotta alla illegalità e alla evasione contributiva, l'innalzamento dei termini di prescrizione per i reati di omissione contributiva.
9/2660-A/15Tinagli.


   La Camera,
   considerato che:
    i dati Istat del settembre 2014 riportano la spaventosa cifra di 3 milioni 236 mila disoccupati. La mancanza di lavoro è una piaga da combattere per arginare il crescente fenomeno della povertà;
    i decreti-delegati che il Governo dovrà adottare devono necessariamente tenere come elemento coordinatore degli interventi la lotta alla povertà attraverso l'aumento dei posti di lavoro e assicurando che la retribuzione assicurata a chi un contratto di lavoro ce l'ha sia almeno sufficiente a garantire una vita dignitosa per il lavoratore e le persone che da lui o da lei dipendono;
    il Governo deve anche valutare interventi urgenti per contrastare la povertà in crescita, attraverso incisive politiche pubbliche che facciano incrementare l'occupazione, provvedendo nel frattempo ad assistere chi – a causa della mancanza del lavoro – è sprofondato sotto la soglia della povertà;
    secondo i più recenti dati dell'ISTAT il numero delle famiglie nelle quali tutte le forze lavoro sono in cerca di occupazione risulta in crescita del 18,3 per cento rispetto al 2012 (+175 mila in termini assoluti). Peggio ancora se si confronta il quadro con quello di 2 anni prima: in questo caso il rialzo supera il 50 per cento, attestandosi precisamente al 56,5 per cento. Si tratta quindi di «case» dove non circola denaro, ovvero risorse procurate attraverso il lavoro. Molte di queste famiglie per sopravvivere fanno affidamento su redditi da capitale, come le rendite da locazione, o su indennità di disoccupazione, o ancora su redditi da pensione, di cui beneficiano altri membri della famiglia, conviventi o meno;
    a soffrire di più è il Mezzogiorno, con 598 mila famiglie, nelle quali coloro che sono forza lavoro risultano tutti disoccupati. Seguono il Nord, che ne ha 343 mila, e il Centro, con 189 mila. Ma il fenomeno è in crescita dappertutto;
    se si guarda al numero dei nuclei familiari in cui tutti i componenti che partecipano al mercato del lavoro hanno un'occupazione, pari a 13 milioni 691 mila, vi è un calo di 281 mila unità (–2 per cento);
    un dato molto preoccupante, rilevato in sede Europea, rileva che il 32,3 per cento dei minori italiani (quasi uno su tre) è a rischio povertà, contro il 28,4 per cento degli adulti e il 24,2 per cento degli anziani,

impegna il Governo:

   a valutare che i decreti-delegati da adottare garantiscano, nel loro complesso, una crescita dell'occupazione e un miglioramento della condizione salariale di chi pur avendo un lavoro è a rischio o vive sotto la soglia della povertà;
   ad approntare interventi di contrasto alla povertà mediante l'adozione di un piano pubblico per il lavoro;
   ad incrementare le risorse per garantire i diritti fondamentali al cibo, alla casa, alla salute e all'istruzione di chi sia scivolato sotto la soglia della povertà.
9/2660-A/16Giancarlo Giordano, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    il provvedimento chiede al Governo di intervenire a riformare i contratti di lavoro attualmente esistenti. Tra questi vi è il contratto di apprendistato che è stato disciplinato in maniera organica da parte del decreto legislativo n. 167 del 2011, su cui già più volte il Governo e il legislatore sono intervenuti, indebolendone l'impianto;
    da ultimo con il decreto-legge n. 34 del 2014, è stato previsto che nell'apprendistato l'obbligo della forma scritta rimane per il contratto e per il patto di prova, mentre il piano formativo individuale può essere formulato in maniera sintetica e inserito nel contratto;
    con tale ultima previsione si è determinato uno snaturamento del contratto di apprendistato, marginalizzando il ruolo e l'importanza della formazione, che è la ragione stessa di questo contratto. L'azienda può più facilmente sfruttare il lavoro di un apprendista che comporta vantaggi in termini fiscali e di salario;
    il decreto-legge n. 34 del 2014 ha anche soppresso la condizione che legava la possibilità di assumere nuovi apprendisti, alla prosecuzione del rapporto di lavoro, al termine del periodo di apprendistato, nelle aziende che occupino almeno 10 dipendenti;
    in base alla nuova previsione legislativa la condizione rimane applicabile esclusivamente e solo parzialmente alle aziende che occupano almeno 30 dipendenti, le quali devono assicurare la prosecuzione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato. Esse nei trentasei mesi precedenti la nuova assunzione, devono aver assunto almeno il 20 per cento degli apprendisti il cui contratto di apprendistato sia terminato;
    con il decreto-legge n. 34 del 2014 si era anche tentato di sopprimere la formazione pubblica (interna o esterna all'azienda), che prima era obbligatoria, che consente di integrare la formazione di tipo professionalizzante e di mestiere svolta in azienda. Con il decreto-legge n. 34, la formazione è rimasta obbligatoria solo se le regioni provvedono «a comunicare al datore di lavoro, entro quarantacinque giorni dalla comunicazione di instaurazione del rapporto, le modalità per usufruire dell'offerta formativa pubblica»;
    le modifiche apportate, in appena tre anni dall'adozione del Testo unico che disciplina il contratto di apprendistato, rivelano non un intento semplificatorio, ma il tentativo in atto già da tempo, di trasformare tale forma di contratto nel nuovo contratto modello per lo sfruttamento del lavoro precario e non finalizzato realmente alla formazione di lavoratrici e lavoratori, facendo venire meno la sua natura di contratto a causale mista (formativa e lavorativa);
    il contratto di apprendistato stenta a decollare come contratto a causale mista. Si tende erroneamente ad ascrivere la disaffezione per tale contratto agli «appesantimenti» introdotti dalla riforma Fornero del mercato del lavoro, la quale è intervenuta sul regime della durata, sul numero complessivo degli apprendisti in servizio e sul regime delle conferme dei lavoratori apprendisti. Si tratta di accuse infondate, perché il trend negativo va avanti da svariati anni prima; i dati del bilancio ISFOL, INPS e Ministero del Lavoro diffusi il 17 aprile 2014 rivelano che se dal 2011 al 2012 il numero di contratti è calato del 4,6 per cento (469.855 in tutto), il trend decrescente continua dal 2008. Nel 2008 gli apprendisti erano 645.385 unità (con una diminuzione di 175 mila unità rispetto al 2012);
    un confronto meramente numerico mostra che in Germania ogni anno i contratti di apprendistato sono 1.5 milioni. Il confronto, tuttavia, non può andare più in là dei numeri, essendo sostanziali le differenze del mercato e dell'organizzazione del lavoro nei due Paesi; in Italia vanno particolarmente male i contratti di apprendistato tra i minori e nella fascia di lavoratori tra i 15 e 29 anni, che sono quelli ai quali – paradossalmente – tale contratto serve maggiormente;
    lo scarso ricorso all'apprendistato ha diverse ragioni, nonostante la recente disciplina organica introdotta nel 2011, abbia previsto significativi sgravi fiscali e incentivi normativi. Le regioni hanno ridotto le risorse per la formazione; l'offerta formativa pubblica si è ridotta dell'1,4 per cento tra il 2011 e il 2012. Solo 3 apprendisti sui 10 (31 per cento) hanno preso parte a interventi formativi organizzati da regioni e province autonome (si scende al 13 per cento nel sud e si sale al 43,5 per cento nel nord). Le risorse stanziate dalle regioni nel 2012 sono scese a 161 milioni, pari a meno 15,8 per cento. In alcune regioni, inoltre, non tutti i contratti di apprendistato sono ancora stati normativi per la parte di competenza regionale,

impegna il Governo:

   a contrastare, con i decreti delegati, il tentativo di trasformare il contratto di apprendistato in un contratto in uno strumento per sfruttare i vantaggi fiscali e contributivi che esso assicura, riducendo o facendo scomparire la componente formativa e creando ulteriore precariato;
   a valutare gli effetti applicativi delle disposizioni richiamate in premessa, al fine di ridisciplinare nei decreti delegati l'obbligo di mettere per iscritto il piano formativo individuale, nel senso di escludere che esso possa trasformarsi nelle ripetizioni di mere clausole di stile o sterili precetti standard;
   a individuare, insieme con le regioni, risorse necessarie per assicurare la formazione pubblica a favore degli apprendisti, riportando gli stanziamenti almeno ai livelli del 2008 e rivendendo l'efficacia dei piani formativi;
   a svolgere un esame delle disposizioni e prassi in materia di ispezioni e controlli ai datori di lavoro con riferimento ai lavoratori apprendisti, sviluppando, insieme con le parti sindacali e con esperti del settore, protocolli e standard per verificare l'eventuale abuso del contratto, mirato a sfruttare il lavoro degli apprendisti perché economicamente più conveniente e non già a realizzare la indispensabile formazione del lavoratore e della lavoratrice.
9/2660-A/17Zaccagnini, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    in linea con le indicazioni dell'Unione europea, per apprendimento permanente si intende qualsiasi attività di apprendimento intrapresa dalle persone in modo formale, non formale e informale, nelle varie fasi della vita, al fine di migliorare le conoscenze, le capacità e le competenze, in una prospettiva personale, civica, sociale e occupazionale (Legge 92/2012, di riforma del mercato del lavoro, articolo 4, commi da 51 a 61 e da 64 a 68);
    in attuazione della cosiddetta Legge Fornero n. 92 del 2012, nella Conferenza Unificata del 20 dicembre 2012, è stata raggiunta l'intesa sull'apprendimento permanente, finalizzata alla costruzione di reti territoriali, di cui faranno parte scuole, università, centri territoriali per l'istruzione degli adulti, camere di Commercio, industria, artigianato e agricoltura, imprese e loro rappresentanze datoriali e sindacali, e sancito l'accordo sull'orientamento permanente;
    il 15 febbraio 2013 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo 16 gennaio 2013 n. 13 «Definizione delle norme generali e dei livelli essenziali delle prestazioni per l'individuazione e validazione degli apprendimenti non formali e informali e degli standard minimi di servizio del sistema nazionale di certificazione delle competenze»;
    il nostro Paese ha così dimostrato di rispondere alle sollecitazioni rivolte dall'Unione europea ai Paesi membri affinché, in un periodo di crisi economica globale, si dotino degli strumenti legislativi che consentano al maggior numero di persone, in particolare ai giovani in cerca di prima occupazione e ai giovani cosiddetta NEET di far emergere e far crescere il grande capitale umano rappresentato dalle competenze, finora scarsamente valorizzate, acquisite in tutti i contesti come lavoro, vita quotidiana e tempo libero;
    il suddetto provvedimento contiene: 1) un quadro definitorio e condiviso sulla materia; 2) standard minimi di riferimento per la regolamentazione e l'erogazione dei servizi di validazione e certificazione delle competenze; 3) l'istituzione del repertorio nazionale dei titoli di istruzione e formazione e delle qualificazioni professionali (accessibile e consultabile per via telematica); 4) gli standard degli attestati e dei certificati spendibili a livello europeo; 5) un sistema di monitoraggio e valutazione dell'attuazione di quanto previsto dal suddetto decreto legislativo n. 13 del 2013;
    si tratta pertanto di un quadro positivo che presenta però alcuni limiti, il primo tra i quali è che tutti i provvedimenti sono realizzati «senza maggiori oneri per lo Stato» e non prevedono settori di sperimentazione o, soprattutto, priorità di azione per i soggetti coinvolgibili nei percorsi di certificazione delle competenze e di apprendimento permanente (si pensi, ad esempio, ai giovani cosiddetti NEET tra i 20 e i 35 anni, i lavoratori tra i 40/55 anni che perdono il lavoro, i migranti e le specifiche attenzioni, all'interno di questi gruppi, per la componente femminile),

impegna il Governo

nell'ambito dell'emanazione dei decreti legislativi ad introdurre misure volte a favorire, nell'ordinamento italiano l'adozione di un sistema di apprendimento permanente, in linea con le politiche in materia di istruzione e formazione adottate a livello europeo (Lifelong Learning Programme – LLP), anche con riguardo alla formazione continua in particolar modo rivolta a quei lavoratori adulti appartenenti alla fascia di età più critica, quella degli ultra cinquantenni che perdono il lavoro.
9/2660-A/18Zaratti, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    in linea con le indicazioni dell'Unione europea, per apprendimento permanente si intende qualsiasi attività di apprendimento intrapresa dalle persone in modo formale, non formale e informale, nelle varie fasi della vita, al fine di migliorare le conoscenze, le capacità e le competenze, in una prospettiva personale, civica, sociale e occupazionale (Legge 92/2012, di riforma del mercato del lavoro, articolo 4, commi da 51 a 61 e da 64 a 68);
    in attuazione della cosiddetta Legge Fornero n. 92 del 2012, nella Conferenza Unificata del 20 dicembre 2012, è stata raggiunta l'intesa sull'apprendimento permanente, finalizzata alla costruzione di reti territoriali, di cui faranno parte scuole, università, centri territoriali per l'istruzione degli adulti, camere di Commercio, industria, artigianato e agricoltura, imprese e loro rappresentanze datoriali e sindacali, e sancito l'accordo sull'orientamento permanente;
    il 15 febbraio 2013 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo 16 gennaio 2013 n. 13 «Definizione delle norme generali e dei livelli essenziali delle prestazioni per l'individuazione e validazione degli apprendimenti non formali e informali e degli standard minimi di servizio del sistema nazionale di certificazione delle competenze»;
    il nostro Paese ha così dimostrato di rispondere alle sollecitazioni rivolte dall'Unione europea ai Paesi membri affinché, in un periodo di crisi economica globale, si dotino degli strumenti legislativi che consentano al maggior numero di persone, in particolare ai giovani in cerca di prima occupazione e ai giovani cosiddetta NEET di far emergere e far crescere il grande capitale umano rappresentato dalle competenze, finora scarsamente valorizzate, acquisite in tutti i contesti come lavoro, vita quotidiana e tempo libero;
    il suddetto provvedimento contiene: 1) un quadro definitorio e condiviso sulla materia; 2) standard minimi di riferimento per la regolamentazione e l'erogazione dei servizi di validazione e certificazione delle competenze; 3) l'istituzione del repertorio nazionale dei titoli di istruzione e formazione e delle qualificazioni professionali (accessibile e consultabile per via telematica); 4) gli standard degli attestati e dei certificati spendibili a livello europeo; 5) un sistema di monitoraggio e valutazione dell'attuazione di quanto previsto dal suddetto decreto legislativo n. 13 del 2013;
    si tratta pertanto di un quadro positivo che presenta però alcuni limiti, il primo tra i quali è che tutti i provvedimenti sono realizzati «senza maggiori oneri per lo Stato» e non prevedono settori di sperimentazione o, soprattutto, priorità di azione per i soggetti coinvolgibili nei percorsi di certificazione delle competenze e di apprendimento permanente (si pensi, ad esempio, ai giovani cosiddetti NEET tra i 20 e i 35 anni, i lavoratori tra i 40/55 anni che perdono il lavoro, i migranti e le specifiche attenzioni, all'interno di questi gruppi, per la componente femminile),

impegna il Governo

nell'ambito dell'emanazione dei decreti legislativi a valutare l'opportunità di introdurre misure volte a favorire, nell'ordinamento italiano, l'adozione di un sistema di apprendimento, permanente, in linea con le politiche in materia di istruzione e formazione adottate a livello europeo (Lifelong Learning Programme – LLP), anche con riguardo alla formazione continua in particolar modo rivolta a quei lavoratori adulti appartenenti alla fascia di età più critica, quella degli ultra cinquantenni che perdono il lavoro.
9/2660-A/18. (Testo modificato nel corso della seduta) Zaratti, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    il disegno di legge delega in esame per la riforma del mercato del lavoro, prevede, tra l'altro, disposizioni di semplificazione e razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese;
    nell'ambito delle suddette misure di semplificazione, tra i principi e criteri direttivi a cui si dovranno attenere i futuri decreti delegati, vi è la previsione di modalità semplificate per garantire la reale manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro;
    tale criterio di delega riguarda il tema delle cosiddette «dimissioni in bianco»;
    la pratica delle cosiddette dimissioni «in bianco» consiste sostanzialmente nel far firmare le dimissioni al lavoratore al momento dell'assunzione (in bianco, appunto) e quindi nel momento in cui la posizione dello stesso lavoratore è più debole, pratica riguardante prevalentemente le donne lavoratrici;
    detta pratica, è una delle piaghe più sommerse in questo ambito, una clausola nascosta nel 15 per cento dei contratti di lavoro a tempo indeterminato che costituisce un ricatto che vede coinvolto circa il 60 per cento delle lavoratrici donne, e il 40 per cento dei lavoratori maschi;
    secondo i dati forniti dagli uffici vertenza della CGIL, ogni anno circa 2 mila donne chiedono assistenza legale per estorsione di finte dimissioni volontarie. Si può essere dimissionati con molti pretesti, ma i motivi più frequenti sono la nascita di un figlio, una malattia, il rapporto con il sindacato, ecc. Insomma si tratta di una minaccia subdola, che costringe a lavorare in soggezione, a disposizione dei datori di lavoro;
    si ricorda che riguardo al contrasto della pratica delle «dimissioni in bianco», la Camera ha già approvato una proposta di legge, ora all'esame del Senato, che vincola la validità della dichiarazione di dimissioni volontarie all'utilizzo di appositi moduli usufruibili solo attraverso gli uffici provinciali del lavoro e le amministrazioni comunali, assicurando che gli stessi siano contrassegnati da codici alfanumerici progressivi e da una data di emissione che garantiscano la loro non contraffazione, e al tempo stesso la loro utilizzabilità solo in prossimità della effettiva manifestazione della volontà del lavoratore di porre termine al rapporto di lavoro in essere. Viene così meno la possibilità di estorcere al momento dell'assunzione la contestuale sottoscrizione di una possibile, postuma lettera di dimissioni volontarie,

impegna il Governo:

   nell'ambito dell'esercizio della delega di cui al principio e criterio direttivo previsto dal comma 6, lettera g), a prevedere che le modalità di risoluzione consensuale finalizzata al recesso dal contratto di lavoro sia sottoscritta, pena la sua nullità, dalla lavoratrice, dal lavoratore, dalla prestatrice d'opera o dal prestatore d'opera, su appositi moduli resi disponibili dai siti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, nonché dai siti regionali ad essi collegati, secondo modalità che garantiscano al contempo la data certa della effettiva manifestazione della volontà del richiedente la certezza dell'identità del richiedente medesimo, la riservatezza dei dati personali;
   a presentare e sostenere in Parlamento, un autonomo disegno di legge in materia di dimissioni in bianco che riprenda i contenuti di quello già approvato dalla Camera.
9/2660-A/19Nicchi, Airaudo, Placido, Scotto.


   La Camera,
   considerato che:
    il disegno di legge delega in esame per la riforma del mercato del lavoro, prevede, tra l'altro, disposizioni di semplificazione e razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese;
    nell'ambito delle suddette misure di semplificazione, tra i principi e criteri direttivi a cui si dovranno attenere i futuri decreti delegati, vi è la previsione di modalità semplificate per garantire la reale manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro;
    tale criterio di delega riguarda il tema delle cosiddette «dimissioni in bianco»;
    la pratica delle cosiddette dimissioni «in bianco» consiste sostanzialmente nel far firmare le dimissioni al lavoratore al momento dell'assunzione (in bianco, appunto) e quindi nel momento in cui la posizione dello stesso lavoratore è più debole, pratica riguardante prevalentemente le donne lavoratrici;
    detta pratica, è una delle piaghe più sommerse in questo ambito, una clausola nascosta nel 15 per cento dei contratti di lavoro a tempo indeterminato che costituisce un ricatto che vede coinvolto circa il 60 per cento delle lavoratrici donne, e il 40 per cento dei lavoratori maschi;
    secondo i dati forniti dagli uffici vertenza della CGIL, ogni anno circa 2 mila donne chiedono assistenza legale per estorsione di finte dimissioni volontarie. Si può essere dimissionati con molti pretesti, ma i motivi più frequenti sono la nascita di un figlio, una malattia, il rapporto con il sindacato, ecc. Insomma si tratta di una minaccia subdola, che costringe a lavorare in soggezione, a disposizione dei datori di lavoro;
    si ricorda che riguardo al contrasto della pratica delle «dimissioni in bianco», la Camera ha già approvato una proposta di legge, ora all'esame del Senato, che vincola la validità della dichiarazione di dimissioni volontarie all'utilizzo di appositi moduli usufruibili solo attraverso gli uffici provinciali del lavoro e le amministrazioni comunali, assicurando che gli stessi siano contrassegnati da codici alfanumerici progressivi e da una data di emissione che garantiscano la loro non contraffazione, e al tempo stesso la loro utilizzabilità solo in prossimità della effettiva manifestazione della volontà del lavoratore di porre termine al rapporto di lavoro in essere. Viene così meno la possibilità di estorcere al momento dell'assunzione la contestuale sottoscrizione di una possibile, postuma lettera di dimissioni volontarie,

impegna il Governo

nell'ambito dell'esercizio della delega di cui al principio e criterio direttivo previsto dal comma 6, lettera g), a prevedere che le modalità di risoluzione consensuale finalizzata al recesso dal contratto di lavoro sia sottoscritta, pena la sua nullità, dalla lavoratrice, dal lavoratore, dalla prestatrice d'opera o dal prestatore d'opera, secondo modalità che garantiscano al contempo la data certa della effettiva manifestazione della volontà del richiedente la certezza dell'identità del richiedente medesimo, la riservatezza dei dati personali.
9/2660-A/19. (Testo modificato nel corso della seduta) Nicchi, Airaudo, Placido, Scotto.


   La Camera,
   considerato che:
    il provvedimento si conferma – per la totale genericità dei principi e criteri direttivi a cui si dovranno attenere i futuri decreti attuativi – come una vera e propria delega in bianco al Governo per riformare il mercato del lavoro;
    la delega al Governo in esame, interviene anche con riferimento agli strumenti di sostegno in caso di disoccupazione involontaria;
    nell'ambito dei principi e criteri direttivi riguardanti i suddetti strumenti di sostegno in caso di disoccupazione involontaria, si segnala la previsione grave, o comunque estremamente ambigua contenuta al comma 2, lettera b), n. 6, in base alla quale lo stato di disoccupazione non deve essere più considerato requisito per l'accesso a servizi di carattere assistenziale;
    alla luce del fatto che già attualmente, lo stato di disoccupato non è un criterio per l'accesso a servizi di carattere assistenziale, che è invece stabilito in funzione dell'ISEE, detta previsione sembrerebbe comportare di fatto, il non voler più consentire ai disoccupati di poter beneficiare dell'esenzione dal pagamento del ticket sulle prestazioni mediche, che è invece l'unico beneficio di cui godono attualmente in questo ambito;
    se così fosse, ci troveremmo di fronte ad una evidente riduzione dei livelli di copertura assistenziale e sanitaria attualmente garantiti per questa categoria di cittadini;
    la stessa Commissione Affari sociali, nel suo parere espresso al disegno di legge in esame, ha chiesto un chiarimento in merito a detta previsione,

impegna il Governo

a prevedere che la prevista soppressione dello stato di disoccupazione quale requisito per l'accesso a servizi di carattere assistenziale, dovrà comunque garantire livelli di copertura assistenziale e sanitaria, non inferiori a quelli attualmente previsti dalla normativa nazionale e regionale.
9/2660-A/20Matarrelli, Nicchi, Airaudo, Placido, Scotto.


   La Camera,
   considerato che:
    all'articolo 1, comma 6, la lettera f) prevede la revisione del regime delle sanzioni per la violazione delle norme in materia di sicurezza del lavoro, tenendo conto dell'eventuale natura formale della violazione ed in modo da favorire l'immediata eliminazione degli effetti della condotta illecita. In questo ambito si prevede anche la valorizzazione degli istituti di tipo premiale;
    per quanto riguarda, più in generale, i benefici riconosciuti dall'ordinamento a seguito di una corretta applicazione delle norme antinfortunistiche da parte delle imprese, la legge ha introdotto un regime premiale con la riduzione dei premi e dei contributi per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali;
    tale regime non va ovviamente valorizzato, perché le leggi, soprattutto quelle così importanti come quelle sulla sicurezza sul lavoro, si rispettano a prescindere e non dietro la promessa di un premio, semmai occorre introdurre nuove ipotesi tipiche di ricorso giudiziario da parte delle organizzazioni sindacali per la repressione della condotta antisindacale da rendere attivabili anche in caso di violazioni amministrative quali lavoro nero, appalti abusivi, mancata predisposizione delle misure di prevenzione e sicurezza, con facoltà di transigere identificando percorsi di graduale ritorno verso la legalità che, se rispettati, evitino la comminazione delle sanzioni,

impegna il Governo

in sede di adozione dei decreti legislativi allo scopo di conseguire obiettivi di semplificazione e razionalizzazione delle procedure di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro in materia di igiene e sicurezza sul lavoro, a sostituire la previsione, nell'ambito del regime sanzionatorio, di una valorizzazione degli istituti di tipo premiale con nuove ipotesi tipiche di ricorso giudiziario da parte delle organizzazioni sindacali per la repressione della condotta antisindacale da rendere attivabili anche in caso di violazioni amministrative quali lavoro nero, appalti abusivi, mancata predisposizione delle misure di prevenzione e sicurezza.
9/2660-A/21Daniele Farina, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    il provvedimento all'articolo 1, comma 8, allo scopo di garantire adeguato sostegno alle cure parentali, attraverso misure volte a tutelare la maternità delle lavoratrici e favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la generalità dei lavoratori prevede l'emanazione di uno o più decreti legislativi per la revisione e l'aggiornamento delle misure volte a tutelare la maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro;
    conciliare lavoro e famiglia è una sfida quotidiana che coinvolge uomini e donne, anche se le pratiche della cura sono state a lungo nascoste e invisibili, relegate nel privato e considerate solo un dovere femminile;
    ancora oggi, a causa della diseguale distribuzione del carico di lavoro domestico e di cura all'interno della famiglia, la difficoltà di conciliare è avvertita soprattutto dalle donne, in modo particolare nella fase del ciclo di vita immediatamente successiva alla nascita dei figli. Le donne, infatti, continuano ad accollarsi le maggiori responsabilità di cura dei figli e degli altri familiari, indipendentemente dal regime di welfare e dalle specifiche politiche familiari e per l'infanzia adottate a livello politico;
    un'adeguata considerazione delle relazioni di cura e dello spazio che occupano nella vita degli individui presuppone un nuovo orientamento del modo di guardare alla vulnerabilità ed alla dipendenza che consenta di vederle come condizioni universali e per questo degne di un progetto pubblico in cui siano contemplati il diritto di ricevere cura, ma anche quello di prestare cura;
    attuare politiche di conciliazione lavoro-famiglia rappresenta quindi una grande opportunità di evoluzione organizzativa delle istituzione e delle aziende. Diffondere le politiche di conciliazione significa moltiplicare le positive sperimentazioni già fatte ma soprattutto diffondere di più il part-time, il telelavoro, la banca delle ore, la formazione per il reinserimento dopo i congedi, le possibilità di sostituzione del titolare dell'impresa assente per maternità, utilizzando anche ulteriori spazi di sperimentazione che sono consentiti dall'aggiornamento dell'articolo 9 legge 53 del 2000;
    non solo le politiche del lavoro e quelle del welfare, ma anche le politiche di conciliazione appaiono come politiche di prevenzione dalla povertà. I vincoli alla occupazione femminile, oltre che vincoli alle scelte di libertà e di pari opportunità, sono anche in contrasto con il benessere delle famiglie, specie in un contesto in cui cresce sia l'instabilità del lavoro che l'instabilità dei rapporti all'interno dei nuclei familiari;
    le politiche di conciliazione, nella misura in cui riescono a decomprimere e a riequilibrare i tempi di cura e di tempi di lavoro dei genitori, consentono – nell'ottica delle pari opportunità – di dare a tutti i bambini le stesse chance: una presenza affettiva ed educativa più equilibrata dei genitori in famiglia;
    la mancanza di un contesto familiare e culturale favorevole alla conciliazione si traduce nel nostro Paese in una bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro e, al contempo, in una persistente bassa fecondità, creando non pochi problemi sia per la crescita economica del paese, sia per i rapporti tra le generazioni,

impegna il Governo:

   ad includere, nell'ambito dell'esercizio della delega per il sostegno alla genitorialità ed alle cure parentali, anche il sostegno a politiche attive ed a misure efficaci per ripensare il rapporto tra tempi di lavoro e di cura, al fine di promuovere una maggiore condivisione della cura da parte degli uomini, e favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, valorizzandone la differente soggettività, e rimuovendo la disparità economica ancora persistente;
   a sostenere il lavoro di cura della lavoratrice all'interno della famiglia, attraverso il riconoscimento del diritto all'accesso anticipato al trattamento pensionistico pari ad un anno di contribuzione figurativa per ogni figlio, beneficio esteso anche se la lavoratrice è risultata inoccupata durante la gestazione o al momento del parto ed anche in assenza di precedenti versamenti contributivi.
9/2660-A/22Pellegrino, Airaudo, Placido, Sannicandro, Nicchi.


   La Camera,
   considerato che:
    il provvedimento all'articolo 1, comma 8, allo scopo di garantire adeguato sostegno alle cure parentali, attraverso misure volte a tutelare la maternità delle lavoratrici e favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la generalità dei lavoratori prevede l'emanazione di uno o più decreti legislativi per la revisione e l'aggiornamento delle misure volte a tutelare la maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro;
    conciliare lavoro e famiglia è una sfida quotidiana che coinvolge uomini e donne, anche se le pratiche della cura sono state a lungo nascoste e invisibili, relegate nel privato e considerate solo un dovere femminile;
    ancora oggi, a causa della diseguale distribuzione del carico di lavoro domestico e di cura all'interno della famiglia, la difficoltà di conciliare è avvertita soprattutto dalle donne, in modo particolare nella fase del ciclo di vita immediatamente successiva alla nascita dei figli. Le donne, infatti, continuano ad accollarsi le maggiori responsabilità di cura dei figli e degli altri familiari, indipendentemente dal regime di welfare e dalle specifiche politiche familiari e per l'infanzia adottate a livello politico;
    un'adeguata considerazione delle relazioni di cura e dello spazio che occupano nella vita degli individui presuppone un nuovo orientamento del modo di guardare alla vulnerabilità ed alla dipendenza che consenta di vederle come condizioni universali e per questo degne di un progetto pubblico in cui siano contemplati il diritto di ricevere cura, ma anche quello di prestare cura;
    attuare politiche di conciliazione lavoro-famiglia rappresenta quindi una grande opportunità di evoluzione organizzativa delle istituzione e delle aziende. Diffondere le politiche di conciliazione significa moltiplicare le positive sperimentazioni già fatte ma soprattutto diffondere di più il part-time, il telelavoro, la banca delle ore, la formazione per il reinserimento dopo i congedi, le possibilità di sostituzione del titolare dell'impresa assente per maternità, utilizzando anche ulteriori spazi di sperimentazione che sono consentiti dall'aggiornamento dell'articolo 9 legge 53 del 2000;
    non solo le politiche del lavoro e quelle del welfare, ma anche le politiche di conciliazione appaiono come politiche di prevenzione dalla povertà. I vincoli alla occupazione femminile, oltre che vincoli alle scelte di libertà e di pari opportunità, sono anche in contrasto con il benessere delle famiglie, specie in un contesto in cui cresce sia l'instabilità del lavoro che l'instabilità dei rapporti all'interno dei nuclei familiari;
    le politiche di conciliazione, nella misura in cui riescono a decomprimere e a riequilibrare i tempi di cura e di tempi di lavoro dei genitori, consentono – nell'ottica delle pari opportunità – di dare a tutti i bambini le stesse chance: una presenza affettiva ed educativa più equilibrata dei genitori in famiglia;
    la mancanza di un contesto familiare e culturale favorevole alla conciliazione si traduce nel nostro Paese in una bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro e, al contempo, in una persistente bassa fecondità, creando non pochi problemi sia per la crescita economica del paese, sia per i rapporti tra le generazioni,

impegna il Governo

ad includere, nell'ambito dell'esercizio della delega per il sostegno alla genitorialità ed alle cure parentali, anche il sostegno a politiche attive ed a misure efficaci per ripensare il rapporto tra tempi di lavoro e di cura, al fine di promuovere una maggiore condivisione della cura da parte degli uomini, e favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, valorizzandone la differente soggettività, e rimuovendo la disparità economica ancora persistente.
9/2660-A/22. (Testo modificato nel corso della seduta) Pellegrino, Airaudo, Placido, Sannicandro, Nicchi.


   La Camera,
   considerato che:
    il provvedimento in esame, approvato con voto di fiducia dal Senato ed esaminato in sede referente dalla Commissione XI (Lavoro) della Camera dei deputati, appare nel complesso un testo assai pericoloso sia sotto il profilo della tutela e della protezione sociale dei lavoratori, sia e conseguentemente sotto il profilo del rilancio delle attività di sviluppo industriale del nostro Paese, perché omette di indicare in modo chiaro e preciso la via da seguire per riformare l'articolo 18 della legge n. 300/1970 in merito alle sanzioni per i licenziamenti individuali illegittimi e neppure parla di quelli collettivi;
    si segnala in particolare, il comma 7 dell'articolo 1 della delega ove si prevede esplicitamente che il Governo adotti (entro 6 mesi) «un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro». In buona sostanza, non viene introdotta la previsione di un «codice semplificato per il lavoro» che corrisponda alla realizzazione di un «testo unico del lavoro». Si parla, invece, di «testo organico semplificato», ove proprio l'organicità e la semplificazione sono in grado di consentire all'Esecutivo non tanto di riordinare, recuperando, l'attuale normativa in materia di rapporti di lavoro, ma piuttosto di poterla riscrivere integralmente seppur nel rispetto della regolazione dell'Unione europea e delle convenzioni internazionali, oltre che dei principi e dei criteri direttivi della stessa legge delega, nell'ambito dei quali può senza dubbio riscontrarsi uno spazio di intervento particolarmente ampio per l'Esecutivo teso a diminuire le tutele oggi previste dall'articolo 18 della legge n. 300/1970;
    non è un caso che il provvedimento in esame, di fatto, non menzioni espressamente l'articolo 18 ma neanche definisca i limiti specificamente individuati per circoscrivere l'intervento su tale norma che disciplina il quadro regolatorio delle sanzioni incombenti sui datori di lavoro per i licenziamenti nulli e illegittimi;
    inoltre, fra i principi e i criteri direttivi che dovranno essere rispettati nella redazione del codice semplificato la lettera b) del comma 7 dell'articolo 1 della delega si prevede la promozione del contratto a tempo indeterminato quale «forma privilegiata di contratto di lavoro», con l'impegno a renderlo «più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto», con riferimento agli «oneri diretti e indiretti»;
    al riguardo si segnala che proprio su questo passaggio finale del provvedimento in esame potrebbe agganciarsi perfettamente l'intervento sulla rimodulazione del sistema sanzionatorio per i licenziamenti individuali illegittimi, considerato che nell'ambito degli oneri indiretti connessi o comunque derivati dalla gestione dei rapporti di lavoro e dall'amministrazione del personale figurano proprio i «costi» relativi al contenzioso in materia di licenziamento individuale e i profili economici – indennizzo, risarcimento, indennità sostitutiva – attinenti alla stabilità dei rapporti di lavoro conseguente al regime sanzionatorio previsto per i licenziamenti;
    anche su questo punto, l'Esecutivo, stando a quanto previsto dal provvedimento in esame, potrà ampiamente modificare i contenuti dell'attuale articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori fino a restringere in modo particolarmente rilevante i casi di reintegrazione del lavoratore licenziato e a ridurre gli importi dovuti dal datore di lavoro a titolo di indennizzo ovvero di risarcimento;
    come chiaramente espresso nell'ambito della pregiudiziale di costituzionalità presentata dal Gruppo Parlamentare Sinistra Ecologia e Libertà, con riferimento al provvedimento in esame si deve sollevare più di un dubbio per quanto attiene alla compatibilità costituzionale, trattandosi di un testo di legge di delega al Governo talmente ampio e al contempo privo di contorni chiari e definiti;
    sotto tale profilo si segnala come l'articolo 76 della Carta Costituzionale indichi i limiti entro i quali il Governo può essere delegato ad esercitare la funzione legislativa, stabilendo che «l'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti»;
    la Corte costituzionale si è più volte posizionata in una censura sulla costituzionalità dei decreti delegati per estraneità della disciplina regolatoria stabilita nel decreto delegato in raffronto con l'oggetto della delega (sentenze n. 503 del 18 novembre 2000 e n. 212 del 18 giugno 2003), come pure per l'estraneità dell'oggetto rispetto ai contenuti della delega (sentenze n. 251 del 17 luglio 2001 e n. 170 del 17 maggio 2007);
    con tutta probabilità, il provvedimento in esame, non avendo ricevuto specifiche puntualizzazioni sul tema delle modifiche da apportare all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori neanche durante l'esame in sede referente presso la Commissione Lavoro, potrebbe produrre un pesante contenzioso costituzionale attivabile da qualsiasi giudice che venga chiamato a valutare la legittimità di un licenziamento individuale;
    nel corso dell'esame in sede referente del provvedimento in esame presso la Commissione Lavoro sono state apportate talune modifiche al testo trasmesso dal Senato che, pur tuttavia e con tutta evidenza, non rispondono alla soluzione delle criticità esiziali che caratterizzano l'impianto complessivo del provvedimento;
    in particolare, con riferimento al riordino delle forme contrattuali, la modifica di maggiore rilievo ha riguardato la disciplina dei licenziamenti illegittimi nell'ambito del nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio;
    a tal fine, in particolare, la possibilità di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (ferma restando la disciplina vigente per i licenziamenti nulli e discriminatori, a fronte dei quali la reintegra è sempre ammessa) è stata esclusa per i licenziamenti economici, mentre per quanto riguarda i licenziamenti disciplinari ingiustificati è stata limitata a «specifiche fattispecie»;
    ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo parlare di licenziamenti disciplinari per «specifiche fattispecie» non ha alcun senso. Il disciplinare, infatti, può verificarsi per innumerevoli fattispecie che vanno dal litigio con il collega dentro e al di fuori del posto di lavoro, all'incompatibilità caratteriale con i propri superiori o con il proprio datore di lavoro, al furto sul luogo di lavoro eccetera;
    per quanto riguarda, invece, la delega in materia di conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, è stata prevista l'introduzione di congedi dedicati alle donne inserite nei percorsi di protezione relativi alla violenza di genere; inoltre, è stata prevista la semplificazione e razionalizzazione degli organismi, delle competenze e dei fondi operanti in materia di parità e pari opportunità nel lavoro, con il riordino delle procedure connesse alla promozione di azioni positive di competenza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, ferme restando le funzioni in materia di parità e pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri;
    per quanto concerne la delega per la razionalizzazione degli incentivi per l'autoimprenditorialità, è stata introdotta la possibilità di acquisizione delle imprese in crisi da parte dei dipendenti,

impegna il Governo:

   ad adottare le opportune iniziative normative tese ad evitare il rischio di un pesante e costosissimo contenzioso che la presumibile incostituzionalità del provvedimento in esame potrebbe provocare, soffocando al contempo qualsiasi iniziativa imprenditoriale di operare nuove assunzioni;
   ad adottare ogni iniziativa normativa tesa a valorizzare la conciliazione vita-lavoro come principio fondamentale che guida il datore di lavoro, pubblico o privato, nell'esercizio del potere organizzativo dell'azienda, per consentire ai lavoratori e alle lavoratrici di accrescere il proprio benessere ed alle imprese di ridurre i propri costi e di beneficiare di una maggiore produttività dei dipendenti e delle dipendenti nonché di incrementare le assunzioni e di sostenere l'occupazione;
   ad adottare ogni iniziativa normativa tesa a sostenere in particolare le nuove cooperative costituite da lavoratori dipendenti che intendano riscattare l'azienda subentrandone nella gestione per il mantenimento della continuità produttiva qualora si tratti di piccole e medie imprese che versano in gravi difficoltà di produzione e commercializzazione dei prodotti con imminente pericolo di chiusura oppure che abbiano avviato procedure di delocalizzazione delle attività produttive.
9/2660-A/23Ricciatti, Ferrara, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    all'articolo 1, comma 7, la lettera g) contempla la possibilità di estendere il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio per le attività lavorative discontinue e occasionali nei diversi settori produttivi, fatta salva la piena tracciabilità dei buoni lavoro acquistati, con contestuale rideterminazione contributiva;
    con l'approvazione presso la Commissione Lavoro di un emendamento si è cercato giustamente di creare un argine all'aumento del ricorso alle prestazioni di lavoro accessorio, nonostante nell'intero impianto della delega permanga l'obiettivo di estendere il ricorso a tale tipologia di lavoro;
    con il «lavoro accessorio» si è inteso regolamentare, nell'ottica di una maggiore tutela del lavoratore, quelle attività lavorative che si collocano al di fuori della legalità. Si tratta infatti di prestazioni non riconducibili alle tipologie contrattuali tipiche del lavoro subordinato o del lavoro autonomo, ma aventi la finalità di assicurare le tutele minime previdenziali e assicurative, attraverso una forma di retribuzione costituita dai cc.dd. voucher (o buoni lavoro) e che garantiscono anche una copertura contributiva presso l'INPS e l'INAIL;
    tale fattispecie lavorativa è stata introdotta nel nostro ordinamento dal D.lgs. 273/2003 che definisce e disciplina le «prestazioni occasionali di tipo accessorio» con lo scopo dichiarato di regolamentare tutte le attività lavorative «occasionali». La inevitabile ambiguità, derivante dalla non chiara definizione di «occasionalità» ed «accessorietà», era stata in un secondo momento superata, circoscrivendo la nuova disciplina ad una serie di attività tassativamente elencate (es. lavori di giardinaggio, pulizia, manutenzione di edifici, manifestazioni sportive ecc.) ovvero limitando l'istituto ad alcune categorie di lavoratori (giovani con meno di 25 anni regolarmente iscritto ad un ciclo di studi limitatamente ai periodi estivi e festivi ecc.);
    con la Legge n. 92 del 2012 (c.d. riforma «Fornero») si è apportata una radicale trasformazione della originaria disciplina del «lavoro accessorio», le cui conseguenze, forse non del tutto previste dal legislatore, rischiano di stravolgere il mercato del lavoro, soprattutto quello a carattere stagionale. Infatti la stessa legge pur ribadendo «la natura meramente occasionale» dei rapporti di lavoro «accessorio», ha radicalmente ridefinito i limiti di applicazione dell'istituto, eliminando l'elenco di attività previste dalla disciplina previgente e stabilendo che si definisce «lavoro accessorio» quello per il quale il prestatore di lavoro, nel corso dell'anno solare, non percepisca più di euro 5000,00 netti complessivi e non più di euro 2000,00 netti da ciascun committente, imprenditore o professionista. Pertanto tale tipo di rapporto di lavoro è ora definito dai soli limiti economici dei compensi a prescindere dalla tipologia della attività svolta;
    la disciplina dell'istituto, così come si è delineata nella successione delle leggi descritta, appare subito di difficile armonizzazione con l'insieme del diritto del lavoro vigente nel nostro ordinamento. La nuova disciplina del lavoro accessorio, estesa a qualsiasi tipologia di prestazione, abbandonato il requisito dell’occasionalità – che sembrava limitarla alle sole prestazioni lavorative non continuative, marginali, prevalentemente «autonome» o perlomeno border line – e stabilendo un criterio distintivo esclusivamente economico, prescinde del tutto dalla qualificazione del rapporto di lavoro, in quanto consente di disciplinare allo stesso modo sia rapporti di lavoro, di fatto, subordinati che rapporti di lavoro senza il requisito della subordinazione;
    la disciplina in esame deroga inoltre all'obbligo del versamento dei contributi INPS secondo le aliquote proprie dei vari fondi previdenziali ed assicurativi per i lavoratori dipendenti, (ben più alte di quella unica del 13 per cento prevista per il lavoro accessorio a favore della Gestione Separata) e dunque al conseguente diritto del lavoratore di beneficiare di quel trattamento previdenziale. Di più. Il lavoro accessorio, come risulta dal sito dell’ INPS, non da diritto alle prestazioni per malattia, maternità, disoccupazione ed assegni familiari;
    invece che usato per regolarizzare rapporti di lavoro «occasionali», che sarebbero altrimenti rimasti nella illegalità, oggi, complice la grave crisi economica in cui versa il Paese, l'istituto viene sempre più usato per «mascherare» o trasformare «legalmente» rapporti di lavoro subordinato, soprattutto quelli a tempo determinato e stagionali, in rapporti di lavoro accessori e dunque ancor più precari,

impegna il Governo

a dettare una riforma radicale dell'istituto in questione che lo riporti nell'alveo del diritto del lavoro e della Costituzione, impedendo che diventi uno strumento di concorrenza sleale fra le imprese e di ulteriore precarizzazione dei rapporti di lavoro.
9/2660-A/24Palazzotto, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    all'articolo 1, comma 1, del provvedimento è previsto che, in via sperimentale in tutti i casi di disoccupazione involontaria si possa intervenire sul sistema dell'ASpI, rimodulando e omogeneizzando la disciplina di ASpI e Mini-ASpI, estendendo lo strumento ai soli collaboratori coordinati e continuativi, incrementando la durata massima della prestazione, solo per quei lavoratori che hanno delle elevate anzianità contributive, ed introducendo in tal modo un ulteriore elemento di conflitto generazionale, oltre a quello previsto per il «contratto a tutele crescenti»;
    riguardo a quest'ultimo aspetto, cioè alla volontà di introdurre dei massimali per le prestazioni in funzione della contribuzione figurativa, vuol dire limitare le erogazioni a tutti quei lavoratori per i quali non siano stati versati dei contributi sociali effettivi, ma solo figurativi, circostanza che si verifica in caso di interruzione o riduzione dell'attività lavorativa dovuta a determinate fattispecie quali cassa integrazione guadagni, contratti di solidarietà, ma anche disoccupazione e mobilità;
    quello dell'anzianità contributiva è peraltro un parametro del quale attualmente già si tiene per l'accesso all'integrazione salariale straordinaria, concessa soltanto ai lavoratori che hanno una anzianità di servizio in azienda pari almeno a 90 giorni;
    tuttavia, nell'ottica della citata volontà di introdurre un sistema di garanzia universale, in caso di disoccupazione involontaria, che preveda tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori, si potrebbe pensare ad una riduzione della severità dei criteri di accesso (per ASpI) per ampliare la platea di lavoratori tutelati, ma modulando la durata della prestazione sulla anzianità contributiva del lavoratore e in particolare, come espressamente indicato, incrementando l'attuale durata per i lavoratori che hanno una importante anzianità contributiva;
    ancora nella prospettiva generale di legare le tutele del reddito alla storia contributiva dei lavoratori si colloca la volontà di introdurre dei massimali per le prestazioni in funzione della contribuzione figurativa. Ciò significa voler limitare le erogazioni nei confronti dei lavoratori per i quali non siano stati versati dei contributi sociali effettivi, ma appunto figurativi, circostanza, quest'ultima, che si verifica in caso di interruzione o riduzione dell'attività lavorativa dovuta a: cassa integrazione guadagni; contratti di solidarietà; ma anche disoccupazione; mobilità;
    in caso di disoccupazione involontaria, la tutela non deve essere legata alla «storia contributiva» perché non c’è nulla di più discriminatorio che la storia contributiva di chi si trova privo di reddito ed in condizione di bisogno. Inoltre rapportare la durata della prestazione, compresa la Cig, alla storia contributiva del singolo è improprio, perché introdurrebbe dei criteri troppo rigidamente «assicurativi» in un ambito, quale è quello degli ammortizzatori sociali, che dovrebbe avere valore solidale;
    la suddetta previsione, inoltre, sarebbe fonte di problemi gestionali per l'impresa che mal si concilierebbero con la semplificazione amministrativa e burocratica, più volte evocata dal provvedimento,

impegna il Governo

in sede di adozione dei decreti delegati, a prevedere che il sussidio di cui all'articolo 1, comma 1, lettera a) si applichi ai lavoratori di cui alla lettera b) a prescindere da qualsiasi requisito di anzianità contributiva ed assicurativa.
9/2660-A/25Duranti, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    l'articolo 1, comma 2, lettera a), numero 3 del provvedimento prevede la necessità di regolare l'accesso alla cassa integrazione guadagni solo a seguito di esaurimento delle possibilità contrattuali di riduzione dell'orario di lavoro, eventualmente destinando una parte delle risorse attribuite alla cassa integrazione a favore dei contratti di solidarietà;
    il contratto di solidarietà è un ammortizzatore sociale grazie al quale il rapporto di lavoro non viene totalmente sospeso ma è oggetto di una rimodulazione dell'orario, e nel quale le ore non lavorate sono coperte da un'integrazione al reddito da parte dell'INPS per le quote di retribuzione;
    la suddetta diminuzione dell'orario prevista dai contratti di solidarietà stipulati tra l'azienda e le rappresentanze sindacali, può avere o il fine di mantenere l'occupazione in caso di crisi aziendale e quindi evitare la riduzione del personale (cc.dd. contratti di solidarietà difensivi), oppure il fine di favorire nuove assunzioni attraverso una contestuale e programmata riduzione dell'orario di lavoro e della retribuzione (cc.dd. contratti di solidarietà espansivi);
    in condizioni di crisi, i contratti di solidarietà sono preferibili alla cassa integrazione poiché da un lato, impegnano minori risorse di quest'ultima e dall'altro hanno il vantaggio di non disperdere le professionalità dei lavoratori trattenuti che, in questo modo, non perdono la fiducia in se stessi. Inoltre, recenti studi che prendono in esame anche i costi economico-sociali, individuali e collettivi, causati dalla perdita del posto di lavoro, confermano che il ricorso agli ammortizzatori sociali con conseguente perdita del lavoro può avere effetti traumatici non solo sul lavoratore costretto a casa, ma anche per coloro che invece sono ancora trattenuti in azienda;
    una delle deleghe contenute nel provvedimento ne permetterebbe il ricorso anche alle imprese attualmente escluse dall'ambito di applicazione dei contratti di solidarietà, come le Pmi con meno di 15 dipendenti, che potranno essere utilizzarli per creare nuova occupazione, ma sottraendo risorse alla cassa integrazione;
    tenuto conto dell'importanza dei contratti di solidarietà, specie in momenti congiunturali come quello che stiamo attraversando, per garantire il mantenimento dei livelli occupazionali e sostenere la ripresa produttiva delle imprese impedendo che scompaiano dal mercato, appare necessario rifinanziare i contratti di solidarietà con risorse aggiuntive rispetto a quelle stanziate per la cassa integrazione,

impegna il Governo:

   in sede di adozione dei decreti legislativi, a destinare maggiori risorse in favore dei contratti di solidarietà la cui spesa non dovrà gravare sulla dotazione attribuita alla cassa integrazione guadagni;
   a consentire la stipulazione di contratti di solidarietà alle imprese di cui all'articolo 5, commi 5 e 8 del decreto-legge 20 maggio 1993, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236, individuando risorse aggiuntive sufficienti per finanziare i contratti di solidarietà alle piccole imprese e a quelle che pur impiegando più di 15 dipendenti non rientrano comunque nell'ambito di applicazione della CIGS, valutando la loro allocazione per quota parte – definita sulla base della loro capienza – sul Fondo sociale per occupazione e formazione, di cui all'articolo 18, comma 1, lettera a), del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, come rifinanziato da successive leggi, e sul Fondo per interventi strutturali di politica economica di cui al comma 5 dell'articolo 10 del decreto-legge 29 novembre 2004, n. 282, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 dicembre 2004, n. 307.
9/2660-A/26Costantino, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    l'articolo 1, comma 2, lettera a), numero 3 del provvedimento prevede la necessità di regolare l'accesso alla cassa integrazione guadagni solo a seguito di esaurimento delle possibilità contrattuali di riduzione dell'orario di lavoro, eventualmente destinando una parte delle risorse attribuite alla cassa integrazione a favore dei contratti di solidarietà;
    il contratto di solidarietà è un ammortizzatore sociale grazie al quale il rapporto di lavoro non viene totalmente sospeso ma è oggetto di una rimodulazione dell'orario, e nel quale le ore non lavorate sono coperte da un'integrazione al reddito da parte dell'INPS per le quote di retribuzione;
    la suddetta diminuzione dell'orario prevista dai contratti di solidarietà stipulati tra l'azienda e le rappresentanze sindacali, può avere o il fine di mantenere l'occupazione in caso di crisi aziendale e quindi evitare la riduzione del personale (cc.dd. contratti di solidarietà difensivi), oppure il fine di favorire nuove assunzioni attraverso una contestuale e programmata riduzione dell'orario di lavoro e della retribuzione (cc.dd. contratti di solidarietà espansivi);
    in condizioni di crisi, i contratti di solidarietà sono preferibili alla cassa integrazione poiché da un lato, impegnano minori risorse di quest'ultima e dall'altro hanno il vantaggio di non disperdere le professionalità dei lavoratori trattenuti che, in questo modo, non perdono la fiducia in se stessi. Inoltre, recenti studi che prendono in esame anche i costi economico-sociali, individuali e collettivi, causati dalla perdita del posto di lavoro, confermano che il ricorso agli ammortizzatori sociali con conseguente perdita del lavoro può avere effetti traumatici non solo sul lavoratore costretto a casa, ma anche per coloro che invece sono ancora trattenuti in azienda;
    una delle deleghe contenute nel provvedimento ne permetterebbe il ricorso anche alle imprese attualmente escluse dall'ambito di applicazione dei contratti di solidarietà, come le Pmi con meno di 15 dipendenti, che potranno essere utilizzarli per creare nuova occupazione, ma sottraendo risorse alla cassa integrazione;
    tenuto conto dell'importanza dei contratti di solidarietà, specie in momenti congiunturali come quello che stiamo attraversando, per garantire il mantenimento dei livelli occupazionali e sostenere la ripresa produttiva delle imprese impedendo che scompaiano dal mercato, appare necessario rifinanziare i contratti di solidarietà con risorse aggiuntive rispetto a quelle stanziate per la cassa integrazione,

impegna il Governo:

   in sede di adozione dei decreti legislativi, a valutare l'opportunità di destinare maggiori risorse in favore dei contratti di solidarietà la cui spesa non dovrà gravare sulla dotazione attribuita alla cassa integrazione guadagni;
   a consentire la stipulazione di contratti di solidarietà alle imprese di cui all'articolo 5, commi 5 e 8 del decreto-legge 20 maggio 1993, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236, individuando risorse aggiuntive sufficienti per finanziare i contratti di solidarietà alle piccole imprese e a quelle che pur impiegando più di 15 dipendenti non rientrano comunque nell'ambito di applicazione della CIGS.
9/2660-A/26. (Testo modificato nel corso della seduta) Costantino, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    il provvedimento all'articolo 1, comma 2, lettera a), numero 1), allo scopo, secondo la relazione di accompagnamento, di «mettere fine all'uso improprio della cassa integrazione guadagni nelle crisi occupazionali aziendali» prevede l'esclusione di ogni forma di integrazione salariale in caso di cessazione definitiva dell'attività aziendale o di un ramo di essa;
    la suddetta previsione, dichiaratamente orientata al superamento di un Welfare di tipo risarcitorio, rappresenta un serio quanto pericoloso ostacolo a qualsiasi opportunità di ripresa aziendale oltre a lasciare privi di protezione economica tutti quei lavoratori coinvolti nelle crisi aziendali e privare il sistema industriale di strumenti in grado di gestire, in caso di cessazione dell'attività, le diverse crisi occupazionali;
    di contro, l'attuale contesto di ristrutturazione industriale del Paese, caratterizzato, peraltro, da continui processi di acquisizione di aziende da parte di multinazionali straniere, richiederebbe la messa in campo di adeguati strumenti di sostegno al reddito per i sempre più numerosi lavoratori coinvolti nelle crisi, consentendo l'utilizzo dello strumento della cassa integrazione straordinaria nel caso di concreta prospettiva di ripresa delle attività produttive, strumento utile anche a contrastare attività speculative;
    la storia dell'ultimo ventennio ci insegna che le aziende che hanno riaperto dopo la chiusura o il fallimento sono solo quelle dove la lotta dei lavoratori e delle loro organizzazioni ha costretto la vecchia proprietà e gli Enti Pubblici di prossimità o nazionali a ricercare un compratore al fine di rilanciare l'attività e salvaguardare i livelli occupazionali;
    la nuova previsione normativa è penalizzante anche per le operazioni di riassetto societario, come le cessioni di ramo d'azienda, che servono a dare nuova liquidità alle imprese per ripartire e che spesso rappresentano l'unica soluzione atta a scongiurare la cessazione di attività di un'azienda. Il riferimento, per inciso, al ramo di azienda penalizza inoltre tutti i lavoratori in esso occupati che non essendo beneficiari di trattamento d'integrazione salariale non possono eventualmente transitare presso un altro ramo della stessa;
    già la cosiddetta legge Fornero (n. 92 del 2012) al comma 70 dell'articolo 2, ha previsto, attraverso l'abrogazione dell'articolo 3 della legge 23 luglio 1991, n. 223, la sospensione a decorrere dal 1o gennaio 2016 del ricorso alla cassa integrazione straordinaria in caso di procedure concorsuali ed inoltre che dal 1o gennaio 2013 lo stesso fosse possibile solo, esclusi tutti i casi di cessazione dell'attività lavorativa, qualora sussistessero prospettive di continuazione o di ripresa dell'attività lavorativa e di salvaguardia dei livelli occupazionali;
    quanto, invece, previsto dall'articolo 1, comma 2, lettera a), numero 1), del provvedimento restringe ulteriormente i suddetti criteri contemplando un'esclusione da subito di ogni possibilità di ricorso alla cassa integrazione qualora non esistesse certezza della continuazione dell'attività di un'azienda o anche solo di un ramo di essa,

impegna il Governo

a specificare, in sede di adozione dei decreti legislativi, che l'impossibilità di autorizzare le integrazioni salariali in caso di cessazione definitiva dell'attività di un'azienda o di un ramo di essa sia subordinata alla verifica, sulla base di parametri oggettivi da definire con decreto ministeriale, che non sussistano concrete prospettive di continuazione o di ripresa dell'attività a salvaguardia, anche parziale, dei livelli occupazionali.
9/2660-A/27Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    l'articolo 3 del decreto legislativo n. 66 del 2003 stabilisce che l'orario normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali, elevabili al massimo a 48 comprensivo delle ore di straordinario. Tali limiti così individuati, storicamente volti alla tutela della salute del lavoratore, possono essere calcolati come media su un periodo di riferimento non superiore ai 4 mesi, elevabile a 6 attraverso legge o contrattazione collettiva e a 12 mesi, al massimo, quando sussistano «ragioni obiettive, tecniche o relative all'organizzazione del lavoro» (c.d. orario multiperiodale);
    l'orario multiperiodale, ammesso dal nostro ordinamento per tutti i settori di attività, è senza dubbio l'istituto più utilizzato negli ultimi anni nelle strategie organizzative quando lo scopo è rendere più flessibile l'orario di lavoro. La norma infatti ammette, nei casi in cui ricorrano esigenze tecniche, organizzative o commerciali programmabili e dopo il vaglio della contrattazione collettiva nazionale o di secondo livello, che l'impresa deroghi al limite massimo di orario purché lo stesso sia spalmato all'interno di un periodo più esteso di quello settimanale;
    pur con modalità differenti, tutti i Paesi dell'UE hanno attuato, negli ultimi anni, una generale flessibilizzazione della disciplina dell'orario di lavoro, anche acquisendo nei propri ordinamenti regolamentazioni particolarmente innovative come quelle attinenti l'articolazione pluriperiodale dei tempi di lavoro;
    si è inoltre diffusa l'opinione per cui la flessibilità debba essere strettamente correlata a garanzie di protezione e sicurezza dei lavoratori, facendo ben presto sviluppare il concetto di flexsecurity, ossia di un equo contemperamento fra la flessibilità, da un lato e la sicurezza occupazionale dall'altro;
    è evidente quanto questo meccanismo giovi non poco alle imprese le cui esigenze produttive variano significativamente nel corso dell'anno, eventualità, peraltro, che nella fase attuale non riguarda solo le attività connotate da periodi di alta e bassa stagionalità, ma, trasversalmente, la generalità dei settori, dove l'accentuata variabilità della domanda – causata dalla crisi economica – viene di frequente affrontata attraverso peculiari modulazioni dell'orario di lavoro;
    l'orario multiperiodale, insieme al part-time e ad i contratti di solidarietà difensiva, rappresentano soluzioni da valorizzare ed esperibili prima di ricorrere alla cassa integrazione guadagni, perché consentono alle aziende in crisi di gestire meglio i lavoratori in esubero;
    l'articolo 1, comma 2, lettera a), numero 3 del provvedimento prevede la necessità di regolare l'accesso alla cassa integrazione guadagni solo a seguito di esaurimento delle possibilità contrattuali di riduzione dell'orario di lavoro, eventualmente destinando una parte delle risorse attribuite alla cassa integrazione a favore dei contratti di solidarietà,

impegna il Governo

in sede di adozione dei decreti legislativi, a riconoscere alle aziende l'accesso alla integrazione salariale solo dopo che le stesse abbiano esperito in via preventiva soluzioni alternative attraverso la riduzione e la redistribuzione dell'orario e di altre forme di flessibilità oraria su base concordata, altre misure contrattate di flessibilità per limitare le eccedenze ed il ricorso ai contratti di solidarietà.
9/2660-A/28Paglia, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    le disposizioni recate dalla proposta di legge Jobs Act si distinguono per l'esclusione del sindacato da tutti gli interventi previsti, rinvenendo il suo coinvolgimento solo nella delega sul demansionamento;
    il Jobs Act non nasconde, quindi, l'obiettivo di ridimensionare e mettere in discussione il ruolo del sindacato, ritenendolo non necessario, come già avvenuto con il decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, recante misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari, che è intervenuto sul pubblico impiego;
    il Governo e la sua maggioranza, andando contro la Costituzione, non riconoscono la funzione e l'importanza delle associazioni di rappresentanza dei lavoratori e delle lavoratrici, andando a sostituirsi ad essi;
    non è possibile che le organizzazioni sindacali siano escluse in un provvedimento che intende intervenire a modificare radicalmente il diritto e il mercato del lavoro,

impegna il Governo

a coinvolgere le organizzazioni sindacali nella fase di preparazione di tutti i decreti legislativi, nonché degli altri provvedimenti, quale che sia la natura, che verranno approntati sulla base della proposta di legge in esame. Il coinvolgimento non dovrà limitarsi all'ascolto, ma dovrà consistere nella condivisione e contrattazione delle scelte, convocando appositi tavoli tecnici presso i ministeri competenti.
9/2660-A/29Piras, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    il decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34 (decreto Poletti) in materia di «Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell'occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese», ha introdotto disposizioni tese a facilitare il ricorso ai contratti a tempo determinato (cosiddetto lavoro a termine) in un'ottica che la rubrica chiama di «semplificazione», ma che nella sostanza ha comportato lo snaturamento del contratto a termine;
    la proposta di legge in esame si prefigge l'obiettivo di introdurre il contratto a tempo indeterminato a tutele progressive e a rivedere le altre tipologie contrattuali attualmente in essere, al fine di razionalizzarle e ridurle di numero;
    tale intervento non potrà prescindere dalla revisione del contratto a tempo determinato, al fine di recuperare la sua natura e impedire un ricorso ad esso in maniera abusiva;
    il decreto Poletti ha innalzato da 12 a 36 mesi la durata del rapporto a tempo determinato che non necessita dell'indicazione della causale per la sua stipulazione; ha previsto che il numero complessivo di rapporti di lavoro a termine costituiti da ciascun datore può essere fino al 20 per cento del personale complessivo impiegato a tempo indeterminato; infine, ha previsto che un contratto a tempo determinato può essere prorogato fino ad un massimo di cinque volte in 36 mesi;
    sono numerose le storie di lavoratrici e lavoratori che hanno avuto più rapporti di lavoro con la stessa impresa fino ad un massimo di 36 mesi, in parte senza causale e in parte con causali che variavano, pur non cambiando l'attività lavorativa svolta. Nonostante la proroga del contratto a tempo determinato, molto spesso i lavoratori non ottengono che il loro rapporto di lavoro venga stabilizzato, dopo i 36 mesi, con un contratto a tempo indeterminato;
    l'esperienza del mondo del lavoro, sempre più precarizzato, dimostra che il ricorso a forme di contratti, come quello a tempo determinato, non porta ad un aumento dei posti di lavoro, né ad una maggiore stabilizzazione degli stessi. Secondo l’Employment Outlook dell'OCSE, del settembre 2014, in Italia la quota di neoassunti con un contratto precario è al 70 per cento, «una delle più elevate tra i Paesi Ocse»;
    il contratto a termine oggi vigente in Italia contraddice la direttiva europea che lo regola e contraddice il principio di legge secondo cui «la forma comune di rapporto di lavoro è quello a tempo indeterminato»;
    la richiamata direttiva del Consiglio del 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE relativa all'accordo quadro CES, UNICE, CEEP sul lavoro a tempo determinato è stata recepita dal decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368;
    l'articolo 1 della direttiva 1999/70 stabilisce che essa persegue lo scopo di «attuare l'accordo quadro (...), che figura nell'allegato, concluso (...) fra le organizzazioni intercategoriali a carattere generale (CES, CEEP e UNICE)»;
    il terzo comma del preambolo dell'accordo quadro recita:
     «Il presente accordo stabilisce i principi generali e i requisiti minimi relativi al lavoro a tempo determinato, riconoscendo che la loro applicazione dettagliata deve tener conto delle realtà specifiche delle situazioni nazionali, settoriali e stagionali. Esso indica la volontà delle parti sociali di stabilire un quadro generale che garantisca la parità di trattamento ai lavoratori a tempo determinato, proteggendoli dalle discriminazioni, e un uso dei contratti di lavoro a tempo determinato accettabile sia per i datori di lavoro sia per i lavoratori»; il punto 10 delle considerazioni generali dell'accordo quadro stabilisce che:
     «10. considerando che il presente accordo demanda agli Stati membri e alle parti sociali la formulazione di disposizioni volte all'applicazione dei principi generali, dei requisiti minimi e delle norme in esso stesso contenuti, al fine di tener conto della situazione di ciascuno Stato membro e delle circostanze relative a particolari settori e occupazioni, comprese le attività di tipo stagionale»;
     la clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro, rubricata «Principio di non discriminazione», così prevede:
      «1. Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive»;
     la clausola 5 dell'accordo quadro, intitolata «Misure di prevenzione degli abusi», dispone quanto segue:
      «1. Per prevenire gli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a:
       a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti;
       b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;
       c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.
      2. Gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, e/o le parti sociali stesse dovranno, se del caso, stabilire a quali condizioni i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato:
       a) devono essere considerati «successivi»;
       b) devono essere ritenuti contratti o rapporti a tempo indeterminato»;
    si deve ricordare che la clausola 5, punto 1, dell'accordo quadro intende attuare uno degli obiettivi perseguiti dall'accordo, vale a dire limitare il ricorso a una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, considerato come una potenziale fonte di abuso in danno dei lavoratori, prevedendo un certo numero di disposizioni di tutela minima tese ad evitare la precarizzazione della situazione dei lavoratori dipendenti (vedi sentenze Adeneler e a., cit., punto 63; del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., da C-378/07 a 0380/07, Racc. pag. 1-3071, punto 73, nonché del 26 gennaio 2012, Kiiciik, 0586/10);
    detta disposizione dell'accordo quadro impone, quindi, agli Stati membri, per prevenire l'utilizzo abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, l'adozione effettiva e vincolante di almeno una delle misure in essa enunciate qualora il diritto nazionale non preveda norme equivalenti. Le misure così elencate al punto 1, lettere da a) a c) di detta clausola, in numero di tre, attengono, rispettivamente, a ragioni obiettive che giustificano il rinnovo di tali contratti o rapporti di lavoro, alla durata massima totale degli stessi contratti o rapporti di lavoro successivi ed al numero dei rinnovi di questi ultimi (vedi citate sentenze Angelidaki e a., punto 74, nonché Kuciik, punto 26);
    il decreto-legge Poletti, innalzando da 12 a 36 mesi della durata del rapporto a tempo determinato che non necessita dell'indicazione della causale per la sua stipulazione e prevedendo la possibilità di prorogare fino ad un massimo di cinque volte in 36 mesi tal contratto, ha previsto un rispetto di natura puramente formale della clausola 5 dell'Accordo quadro, non prevedendo criteri oggettivi e trasparenti atti a verificare se il rinnovo dei contratti (troppi e in un tempo troppo lungo) e, soprattutto, la mancanza di causa (generalizzata in ogni settore produttivo e impresa, senza limitazioni) siano compatibili con lo scopo e l'effettività dell'accordo quadro;
    oltre a esporre l'Italia al rischio dell'apertura di una procedura di infrazione da parte della Commissione europea, con le conseguenze sul piano economico e procedurale che questo può comportare, il decreto-legge Poletti ha peggiorato la condizione dei lavoratori italiani,

impegna il Governo

a rivedere il contratto a tempo determinato, provvedendo a eliminare il ricorso ad esso in assenza di causali; a eliminare la possibilità di rinnovi dei contratti a termini per la stessa mansione svolta, stabilendo che in tal caso il contratto si considera a tempo indeterminato, con le garanzie oggi previste per tali contratti, aggravando le sanzioni per i casi di ricorso abusivo ai contratti a tempo determinato.
9/2660-A/30Franco Bordo, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    la proposta di legge, in diversi principi e criteri direttivi delle deleghe fa riferimento al tema dell'occupazione: gli ammortizzatori sociali sono finalizzati al coinvolgimento attivo del lavoratore; viene creata un'agenzia per l'occupazione; sono previste misure per semplificare la burocrazia nelle assunzioni; si propone di semplificare le tipologie contrattuali per rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione;
    quanto il Governo si propone di fare per rilanciare l'occupazione rischia di risultare fallimentare e di favorire l'ulteriore precarizzazione dei rapporti di lavoro;
    a settembre 2014 l’Employment Outlook dell'OCSE rileva che la disoccupazione in Italia continuerà a crescere nel 2014, arrivando a quota 12,9 per cento sull'insieme dell'anno, contro il 12,6 per cento del 2013. L'Ocse nella sua nota sul nostro Paese sottolinea che «nel confronto con gli altri Paesi avanzati, in Italia non è solo elevata la quota di disoccupati, ma anche quella di occupati con un lavoro di scarsa qualità». «Il lavoro in Italia sembra essere caratterizzato da un basso livello di sicurezza, a causa dell'elevato rischio di disoccupazione e di un sistema di protezione sociale caratterizzato (...) da un tasso di copertura piuttosto ridotto e da un contributo economico poco generoso». In Italia, la quota di neoassunti con un contratto precario è al 70 per cento, «una delle più elevate tra i Paesi Ocse»;
    inoltre, secondo l'OCSE, in Italia la disoccupazione degli under 25 nell'intero 2013 ha toccato quota 40 per cento, quasi il doppio del livello pre-crisi (20,3 per cento nel 2007); mentre è lavoratore precario il 52,5 per cento dei giovani sotto i 25 anni, dato nettamente superiore agli anni pre-crisi (42,3 per cento nel 2007) ed è quasi doppia rispetto al 2000 (26,2 per cento). La tendenza all'aumento della disoccupazione giovanile, aggiunge l'Ocse nella nota sull'Italia, «si accompagna con l'ancor più preoccupante aumento dei giovani inattivi che non frequentano corsi di istruzione». La percentuale di giovani non in educazione, occupazione o formazione (i cosiddetti «Neet») «è salita di 6,1 punti, raggiungendo il 22,4 per cento alla fine del 2013». Per questi giovani, sottolinea l'organizzazione, «cresce il rischio di stigma, cioè di subire un calo permanente di prospettive di occupazione e remunerazione»;
    il precariato, che il Jobs Act incentiva, è frutto del ricorso a tipologie di contratti non a tempo indeterminato, che non sono stati in grado di arginare il problema della disoccupazione, ma hanno consentito di raggiungere i livelli drammatici descritti;
    ciò dimostra che il ricorso a forme di contratti come quello a tempo determinato, fortemente sostenuto dal Governo Renzi, o l'introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele progressive, non porterà ad un aumento dei posti di lavoro, né ad una maggiore stabilizzazione degli stessi;
    i costi economici della disoccupazione sono incalcolabili: incidono direttamente sul PIL che non viene prodotto in percentuale di molto superiore al costo delle misure di sostegno al reddito dei disoccupati – si tratta di 80 miliardi di ricchezza reale che non viene creata – generano costi ulteriori derivanti dalla perdita di produttività del lavoro e comportano costi sociali quali povertà, perdita della casa, criminalità, denutrizione, abbandoni scolastici, antagonismo etnico, crisi familiari, tensioni sociali potenzialmente esplosive;
    i dati Istat relativi a settembre 2014 riportano la spaventosa cifra di 3 milioni 236 mila disoccupati. Anche se il quadro economico mutasse e vi fosse un boom non si riuscirebbe a creare lavoro per una tale mole di lavoratori e occorrerebbero non meno di 15 anni per riportare la disoccupazione a livelli che si possano considerare fisiologici, ma non si riuscirebbe comunque a tornare ai livelli precedenti (ad esempio al dato del 2005 che ha costituito l'anno migliore del nuovo secolo per l'occupazione nei Paesi UE), tenendo presente che la maggior parte delle imprese stanno provvedendo a sostituire in misura e rapidità crescente il lavoro umano con varie forme di automazione;
    pertanto, non vi è altra possibilità di creare lavoro e riassorbire l'enorme mole di disoccupati se non ricorrendo allo Stato come datore di lavoro di ultima istanza attraverso la creazione di un Piano nazionale del lavoro basato su un programma nazionale di interventi pubblici, che si ispiri al New Deal statunitense che tra il 1933 e il 1943 riuscì a creare occupazione per circa 8,5 milioni di lavoratori;
    è importante porsi l'obiettivo minimo di creare un milione e mezzo di posti di lavoro in un triennio, sostenendo un'occupazione produttiva e un lavoro dignitoso, come promossi dall'Organizzazione internazionale del lavoro e dall'Unione europea;
    il Piano deve occupare lavoratori tra le persone inoccupate, disoccupate o occupate in cerca di altra occupazione, qualora il loro reddito sia al di sotto di ottomila euro, dando tuttavia la priorità a coloro che a parità di altre condizioni rientrano nella definizione di lavoratori svantaggiati ai sensi dell'articolo 2, lettera f) del Regolamento (CE) N. 2204/2002 del 12 dicembre 2002, n. 2204 e che possiedono un patrimonio personale finanziario, mobiliare e immobiliare inferiore; oppure tra persone che usufruiscono di ammortizzatori sociali;
    un tale Programma deve essere realizzato da tutte le amministrazioni dello Stato e dagli enti locali ispirandosi ad interventi che, oltre ad assicurare la creazione di occupazione, consentano lo sviluppo di un nuovo modello produttivo al quale l'Italia deve ambire, ponendosi come obietto primario quello della tutela dell'ambiente e della salute, innanzitutto attraverso il recupero di aree urbane e rurali, degli ecosistemi e della biodiversità;
    gli interventi, pertanto, sono da realizzarsi nei settori della protezione del territorio per prevenire e contrastare il dissesto idrogeologico del Paese; per bonificare e riqualificare dal punto di vista ambientale tutte le aree del territorio nazionale; per recuperare, ristrutturare, adeguare, mettere in sicurezza e valorizzare edifici scolastici, ospedali, asili nido pubblici e il patrimonio immobiliare pubblico da destinare a prima casa e a iniziative di cohousing e coworking; per incrementare l'efficienza energetica e ridurre i consumi per gli uffici pubblici; per recuperare e valorizzare il patrimonio storico, architettonico, museale e archeologico italiano; per recuperare terreni pubblici incolti o abbandonati e salvare dall'inquinamento fiumi, aree paludose, spiagge e coste;
    per il funzionamento del Programma è possibile prevedere l'istituzione di un'Agenzia nazionale snella e poco costosa, vigilata da più ministeri, che svolga funzioni di organizzazione, programmazione, attuazione, indirizzo controllo e coordinamento;
    il Programma dovrebbe basarsi su progetti presentati dagli enti locali e che questi vogliono realizzare, utilizzando le strutture periferiche del Ministero delle attività produttive, per la valutazione dei progetti, e del Ministero del lavoro, per l'assunzione del personale;
    lo Stato dovrebbe mettere a disposizione dei progetti le risorse, con la partecipazione degli Enti locali, e le attrezzature e gli strumenti già in dotazione o di proprietà delle Forze armate e di polizia, nonché quelle degli Enti locali, mentre i centri per l'impiego dovrebbero procedere a organizzare la formazione dei lavoratori da impiegare;
    i Progetti non direttamente realizzati dagli enti pubblici devono essere assegnati attraverso gare d'appalto ad imprese che si impegnino ad assumere, con contratto a tempo determinato per la durata dell'appalto o a tempo indeterminato, almeno il 50 per cento del personale necessario tra i lavoratori svantaggiati come definiti dal Regolamento europeo n. 2204 del 2002, di cui si è scritto sopra. La riserva di manodopera nei bandi di appalto sarebbe così conforme alle norme dell'Unione europea in materia di aiuti di Stato;
    per quanto riguarda le risorse da destinare alla realizzazione del Programma Nazionale per un triennio sperimentale lo Stato dovrebbe stanziare risorse non inferiori a 29 miliardi da ripartire tra un Fondo nazionale per finanziare i progetti e l'incremento delle risorse a disposizione – a legislazione vigente – degli interventi per la messa in sicurezza del territorio, per gli asili nido pubblici, per la messa in sicurezza degli edifici scolastici pubblici e per incrementare l'efficienza, la prestazione energetica e la riduzione del consumo di energia negli edifici pubblici;
    per mettere insieme le risorse necessarie, tra le altre misure approntabili, si potrebbe far ricorso alla Cassa Depositi e Prestiti che può impiegare risorse proprie e emettere obbligazioni da far sottoscrivere alle Fondazioni bancarie, all'INAIF e ai Fondi pensioni negoziali; destinare quota parte dei fondi strutturali europei; escludere dal patto di stabilità interno, per il triennio di sperimentazione, le spese in conto capitale collegate ai Progetti; ridurre le tax expenditures, i costi per auto blu e taxi, la deducibilità degli interessi passivi per le banche, la spesa per gli F-35, le fregate FREMM e la TAV Lione-Torino; utilizzare le risorse del cuneo fiscale; incrementare l'aliquota sostitutiva sulle rendite finanziarie e riformare la tassa sulle transazioni finanziarie,

impegna il Governo

ad adottare, anche mediante provvedimenti di natura legislativa, un Piano sperimentale per la creazione di nuovi posti di lavoro per contrastare la piaga della disoccupazione, sulla base di quanto indicato in premessa.
9/2660-A/31Quaranta, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    la proposta di legge si propone di modificare radicalmente il mondo del lavoro, affidando al Governo deleghe attraverso le quali l'esecutivo dovrebbe rivedere le forme contrattuali esistenti, ma soprattutto modificare ulteriormente lo Statuto dei lavoratori del 1970;
    il contenuto delle deleghe mostra l'intenzione di eliminare dal mondo del lavoro importanti regole conquistate nel corso del secolo scorso a tutela dei lavoratori e delle lavoratrici. La convinzione del Governo di Renzi e della sua maggioranza, in maniera del tutto simile a quanto praticato dai governi della destra, sembra essere che la classe imprenditoriale italiana e i singoli imprenditori siano in grado di assicurare da sé l'interesse dei lavoratori e che abbiamo a cuore il rispetto dei loro diritti;
    tale convinzione è errata. Non perché gli imprenditori, al contrario, siano per definizione degli oppressori dei lavoratori, ma perché l'assenza di regole e l'obiettivo di massimizzare i profitti delle imprese ha come conseguenza che i lavoratori, parti deboli del rapporto contrattuale, vedono peggiorare la loro situazione e sono esposti a facili ricatti di licenziamento, di modifica delle condizioni contrattuali e di riduzione delle retribuzioni. Questo potrà avvenire, inoltre, in un contesto nel quale la portata del contratto collettivo nazionale e il ruolo dei sindacati sono stati ridotti e sviliti;
    sul fronte delle retribuzioni, il comma 5, lettera f) della proposta di legge stabilisce che il Governo introduca, eventualmente anche in via sperimentale, il compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato;
    le retribuzioni dei lavoratori e delle lavoratrici italiane, specie in alcune aree del Paese o in relazione ad alcune tipologie contrattuali, non sono in grado di assicurare una retribuzione giusta e sufficiente a provvedere ai bisogni del lavoratore e della sua famiglia. Non è insolito che vi siano lavoratori al di sotto della soglia della povertà nonostante abbiano un lavoro o un contratto;
    in ambito Europeo, un recente studio UE, sottolinea come l'Italia si classifichi seconda, dopo il Regno Unito, per livello di disuguaglianza distributiva dei redditi. In particolare, continuano ad essere ingiustificatamente alte le retribuzioni e i bonus dei manager. Il decreto-legge 24 aprile 2014 n. 66 ha fissato il tetto retributivo nella pubblica amministrazione a 240 mila euro;
    nella situazione di crisi nella quale si trova immerso anche il nostro Paese, l'opinione pubblica ritiene opportuno che tutti i settori della società siano compartecipi dei sacrifici necessari e ritiene non più tollerabile i considerevoli e sproporzionati emolumenti fissi e variabili che molti manager anche di società private si auto-elargiscono, nonché le loro super liquidazioni spesso neanche lontanamente giustificate dai risultati conseguiti nelle conduzione delle aziende loro affidate;
    di fronte all'aumento delle disuguaglianze sociali e economiche, al crescere della sperequazione, è necessario intervenire per il contenimento delle retribuzioni dei manager anche privati e fissare parametri più precisi per i dirigenti pubblici, al fine di ristabilire equità ed etica;
    per evitare di violare gli articoli 3 e 53 della Costituzione, i manager di banche e imprese private che ricevono a qualunque titolo denaro pubblico (dal Governo nazionale, da istituzioni europee e internazionali) dovrebbero essere sottoposti allo stesso regime dei pubblici;
    occorre modificare il quadro normativo del diritto societario e la contrattualistica lavorativa nazionale per le figure dirigenziali prevedendo:
     tetto massimo per gli stipendi dei manager pubblici e privati che non potranno superare la quota proporzionale 1/20 rispetto al salario medio dei dipendenti;
     tetto massimo ai sistemi incentivanti che non potranno comunque superare il rapporto di 1 a 1 con la retribuzione annuale;
     approvazione da parte degli azionisti con quorum del 50 per cento e voto favorevole del 66 per cento di ogni bonus o stock option, entro i limiti prima indicati, parametrando la percentuale da erogare al raggiungimento degli obiettivi di produttività e di utili prodotti;
     abolizione dei bonus all'uscita e tutte le altre forme di indennità, retribuzioni anticipate, premi per acquisizioni e vendite, nonché di contratti di consulenza con società appartenenti al gruppo per il quale si svolge la prestazione;
     liquidazione per la cessazione del rapporto di lavoro commisurata esclusivamente alla sua durata e proporzionale al limite massimo della retribuzione fissa annuale;
    altri Paesi europei in tema di regolamentazione delle retribuzioni e dei bonus dei manager, nel settore pubblico e privato, hanno già intrapreso azioni concrete. Con il pacchetto CRD IV, nel 2013 l'UE ha fissato un tetto ai bonus dei banchieri. Nel caso C-507/13, l'avvocato generale della Corte di Giustizia ha invitato la Corte, nelle sue conclusioni formulate il 20 novembre 2014, a respingere il ricorso della Gran Bretagna che contesta la direttiva ritenendo le remunerazioni competenza degli Stati;
    la ricetta indicazioni sopra fornite, insieme ad una profonda riforma del nostro sistema fiscale, possono costituire un ulteriore passo nella giusta direzione per ridurre le disuguaglianze nella distribuzione dei redditi,

impegna il Governo

a intraprendere le opportune iniziative, anche legislative, per riformare il diritto societario nel senso indicato in premessa, per il contenimento delle retribuzioni dei manager del settore privato e fissare parametri più precisi per i dirigenti pubblici, al fine di ristabilire equità ed etica nelle retribuzioni.
9/2660-A/32Fratoianni, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    la proposta di legge in esame, denominata Jobs Act, incide in modo sostanziale sul diritto del lavoro e sui diritti dei lavoratori, attribuendo al Governo numerose deleghe che introducono una nuova riforma del mercato del lavoro, a distanza di appena due anni dall'ultima che porta il nome dell'allora Ministro del lavoro, Elsa Fornero (legge n. 92 del 2012);
    sulla base delle deleghe conferite, diverse disposizioni dei decreti delegati andranno ad incidere su disposizioni di natura previdenziale e dovranno affrontare la problematica della continuità contributiva dei lavoratori e delle lavoratrici che oggi hanno lavori discontinui;
    pensare di riformare il diritto del lavoro o di razionalizzarlo, d'altra parte, non è possibile se non si ripensa e si risistema l'ultima riforma pensionistica che porta ancora una volta il nome dell'allora Ministro del lavoro, Elsa Fornero (articolo 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201) e che ha fallito sul piano sociale e giuridico le finalità che si proponeva;
    la riforma Fornero del 2011 ha trasformato il sistema previdenziale innalzando di molti anni l'età per la pensione, sia in termini anagrafici che contributivi e a distanza di tre anni contiene ancora errori che non sono stati corretti;
    come è stato ormai acclarato non di una «riforma» si è trattato di una «manovra», perché le casse della previdenza dei lavoratori, ovvero i loro risparmi pensionistici, sono state utilizzate per drenare risorse per ridurre il debito pubblico;
    una «manovra» scritta in una notte, senza alcun dibattito pubblico, che non ha considerato l'impatto immediato e di lungo termine che produceva su lavoratrici e lavoratori;
    l'assenza di disposizioni transitorie che consentissero il passaggio graduale alle nuove regole previdenziali ha prodotto l'inumano fenomeno dei cosiddetti esodati, lavoratori a cui è stato tolto il pane, la dignità e la speranza; la «sesta» salvaguardia che stiamo approvando non può essere un merito del Governo, della sua maggioranza o del Parlamento, ma ribadisce l'incapacità delle istituzioni di rimediare in maniera definitiva e strutturale a una situazione inaccettabile e indegna di un Paese come l'Italia. A distanza di tre anni l'INPS e il Governo non hanno saputo e voluto indicare quanti e quali sono le lavoratrici e i lavoratori esodati;
    un problema di «coperture» e di risorse non esiste dal momento che i risparmi che la «manovra» Fornero avrebbe dovuto produrre erano stati calcolati dalla nota tecnica della ragioneria generale dello Stato in circa 23 miliardi nel decennio 2012-2021, mentre l'ufficio attuariale dell'INPS nel 2013 ha calcolato che verranno generati circa 90 miliardi di risparmio nello stesso periodo;
    tali risorse devono tornare o rimanere nelle casse previdenziali. Il Governo e la sua maggioranza non possono pensare di destinarle per coprire i 50 miliardi che bisogna mettere da parte ogni anno in base al Fiscal compact, come è lecito desumere dalle parole del Ministro Poletti, che nel corso della riunione del 30 giugno 2014 con le rappresentanze degli esodati e di altre categorie, ha dichiarato di non poter risolvere le tante situazioni gravi che la manovra Fornero ha prodotto «per mancanza di risorse»;
    tra gli errori della manovra Fornero ci sono i lavoratori del settore ferroviario, tra cui i macchinisti, non proprio esodati, ma che dovrebbero andare in pensione a 67 anni, mentre hanno un'aspettativa di vita media di solo 63 anni; oppure i lavoratori della scuola, cosiddetta «quota 96» che sono rimasti imprigionati nella Fornero perché a loro non si è voluta applicare la regola, posta dallo Stato, che gli consente di andare in pensione un solo giorno all'anno, il primo settembre; e poi ci sono i lavoratori e le lavoratrici delle poste o quelli che hanno trovato un nuovo lavoro a tempo indeterminato, ma poi lo hanno riperso perché l'azienda è fallita e sono stati puniti e si potrebbero fare molti altri esempi;
    ci sono troppi casi e eccessive fattispecie di lavoratori che la «manovra» Fornero ha lasciato sul lastrico e nella disperazione. Forse è possibile salvaguardarli tutti con tante minute disposizioni speciali, ma non si sa quando e come, essendo ormai arrivati alla sesta salvaguardia;
    per sanare con certezza tutti gli errori serve tornare ad una disposizione che abbia il carattere della legge generale e astratta che possa coprire tutte le fattispecie, ovvero una riforma strutturale della «manovra» Fornero;
    la «manovra» Fornero è intervenuta su un sistema pensionistico che non aveva problemi di sostenibilità perché messo in sicurezza dalle numerose riforme succedutesi negli anni 90 e nel primo decennio del 2000. I suoi costi erano già nella media della spesa pensionistica europea, per incidenza sul PIL, nonostante solo nella spesa pensionistica italiana vengano conteggiati anche il TFR o il TFS, che però sono retribuzioni differite;
    bisogna prendere atto di tale fallimento e procedere ad una vera riforma pensionistica che abbia il coraggio politico di rafforzare la previdenza rimettendo i lavoratori e la loro dignità al centro del sistema; è necessario abbassare l'età pensionistica, distinguere i lavori, riconoscere ai fini contributivi il lavoro domestico e quello di cura, di donne e di uomini, per superare le troppe procedure aperte dall'Unione europea contro l'Italia con riferimento all'età pensionistica delle donne, assicurare che la pensione non valga meno del 60 per cento dell'ultimo salario,

impegna il Governo

a presentare al Parlamento una riforma del sistema previdenziale che tenga conto di quanto indicato in premessa che abroghi la «manovra» Fornero in materia di pensioni.
9/2660-A/33Placido, Airaudo, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    i commi 5-6 recano una delega al Governo per la definizione di norme di semplificazione e di razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti, a carico di cittadini e imprese, relativi alla costituzione ed alla gestione dei rapporti di lavoro, nonché in materia di igiene e sicurezza del lavoro;
    in materia di igiene e sicurezza sul lavoro, la Costituzione italiana (articoli 2, 32 e 41) fissa alcuni principi fondamentali, prevedendo la tutela della persona umana nella sua integrità psico-fisica come principio assoluto ai fini della predisposizione di condizioni ambientali sicure e salubri. Partendo da tali principi costituzionali, la giurisprudenza ha stabilito che la tutela del diritto alla salute del lavoratore si configura sia come diritto all'incolumità fisica sia come diritto ad un ambiente salubre;
    il quadro normativo che disciplina la materia della salute e sicurezza sul lavoro è articolato e complesso essendo stato oggetto di molteplici interventi legislativi che hanno trovato un punto di sintesi e di riordinamento nel decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, con cui, in attuazione alla delega contenuta nell'articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, si è dettata la normativa quadro per il riassetto e la riforma delle norme vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro, che si erano succedute negli anni;
    gli interventi recati dal decreto legislativo sono stati profondi e importanti a fronte di continui fatti tragici, emblematici del perdurare di gravi infortuni sul lavoro, frutto spesso di procedure di sicurezza mai seguite o della violazione di regole elementari di prudenza, sia nella grande che nella piccola impresa;
    uno degli aspetti particolarmente positivi ed apprezzabili del decreto legislativo n. 81 del 2008 consiste, come già indicato, nell'aver dettato un quadro normativo organico e unitario, che richiede un radicamento diffuso della cultura della prevenzione e un impegno costante e coordinato delle istituzioni e dei soggetti che, da versanti diversi (responsabili aziendali del personale, consulenti per la sicurezza, dirigenti e operatori sindacali), sono impegnati in tale delicato settore;
    inoltre, l'esigenza di riformare e razionalizzare il quadro normativo di tutela della sicurezza e salute sui luoghi di lavoro ha tratto origine dal fatto che, a distanza di oltre un decennio dall'emanazione del decreto legislativo n. 626 del 1994, il processo di produzione legislativa in materia di tutela e sicurezza del lavoro in pratica non si era mai fermato. In particolare, il legislatore italiano si è trovato di fronte ad una notevole produzione normativa di fonte comunitaria ed ha continuato nel corso degli anni a recepire nell'ordinamento interno quanto prodotto in sede europea. Tutto ciò non soltanto ha comportato una produzione normativa che ha aggiornato o integrato le norme già inserite nel decreto legislativo n. 626 del 1994, ma ha dato vita ad una serie di discipline settoriali che si sono aggiunte alla disciplina-quadro per garantire la protezione e tutela, soprattutto su base preventiva, dei lavoratori esposti a rischi specifici, ad esempio ad agenti o lavorazioni pericolose;
    pertanto, il quadro normativo in materia di sicurezza sul lavoro è stato caratterizzato da un'integrazione tra previgente diritto interno e disciplina di origine comunitaria in un nuovo assetto che, definito nelle sue linee essenziali nella prima parte degli anni Novanta, ha continuato a conoscere negli anni un progressivo ampliamento;
    inoltre, l'impatto della disciplina comunitaria ha portato ad una profonda trasformazione della normativa applicabile alle diverse attività produttive e della sua ispirazione di fondo, con l'emergere in primo piano di una logica basata sulla prevenzione degli infortuni – piuttosto che sulla tutela risarcitoria del lavoratore –, che si esplica tra l'altro attraverso un'attività informativa e formativa cui i lavoratori e gli imprenditori sono chiamati a partecipare e collaborare attivamente;
    le profonde modificazioni all'impianto normativo determinate dall'impatto della nuova legislazione di origine comunitaria sul previgente diritto interno, nell'offrire risposte più moderne ed efficaci ai problemi della sicurezza, hanno peraltro determinato difficoltà «di transizione», legate alla modificazione dello spirito di fondo dell'azione per la sicurezza imposta a imprenditori, lavoratori e autorità di controllo, alla oggettiva complessità normativa che ne è risultata, nonché ai tempi e alle modalità per la sua attuazione a livello secondario e per la sua concreta applicazione;
    anche per tali motivi, il sistema delineato è apparso talvolta connotato da scarsa effettività: il campo della sicurezza sul lavoro è infatti caratterizzato da una non trascurabile dicotomia tra rigore formale delle norme e pratica applicazione delle stesse nel sistema produttivo;
    a solo un anno di distanza dall'entrata in vigore del testo unico di cui al decreto legislativo n. 81 del 2008, il Governo era nuovamente intervenuto esercitando la delega per le disposizioni integrative e correttive già previste dalla medesima legge di delega, adottando il decreto legislativo n. 106 del 3 agosto 2009;
    durante l'esame dello schema di decreto legislativo correttivo (Atto n. 79), assegnato nel corso della XVI legislatura alle Commissioni riunite XI e XII, sono stati raccolti contributi delle parti sociali e degli altri organismi interessati ed è emersa anche in quella sede la necessità di procedere ad una manutenzione organica della disciplina di cui al decreto n. 81 del 2008 come corretto ed integrato dal successivo decreto legislativo n. 106 del 2009, al fine di colmare le lacune e i problemi riscontrati all'esito della prima fase di applicazione;
    nonostante gli interventi correttivi e integrativi recati dal decreto legislativo n. 106 del 2009, ulteriori modifiche sono state successivamente apportate al decreto legislativo n. 81 del 2008 con successivi provvedimenti. Tali interventi di modifica, a volte proposti come misure di semplificazione hanno prodotto un indebolimento dell'impianto normativo con effetti negativi sulla effettiva tutela della salute e della sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori;
    il fatto che i commi 5-6 rechino una delega al Governo per la semplificazione in materia di igiene e sicurezza del lavoro, senza nessun principio o criterio direttivo, suscita notevoli preoccupazioni, essendo fondato il rischio che il testo unico perda la sua organicità e venga ulteriormente indebolita la necessità di praticare la prevenzione nei luoghi di lavoro;
    se a distanza di cinque anni dalla entrata in vigore del testo unico, si dovesse ritenere necessario procedere ad ulteriori manutenzioni sul decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, occorrerebbe prima verificare quale sia lo stato di attuazione coinvolgendo tutte le parti sociali,

impegna il Governo

a istituire un tavolo con le parti sociali per verificare se e quali interventi di manutenzione operare sul testo unico di cui al decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, assicurando il rispetto del principio della preminenza della prevenzione in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro e mettendo la tutela della vita umana e della dignità dei lavoratori innanzi ad ogni scelta che si intenda operare, non cedendo a logiche mercantilistiche e di profitto.
9/2660-A/34Pannarale, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    la proposta di legge in esame ai commi 5 e 6 reca una delega al Governo per la definizione di norme di semplificazione e di razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti, a carico di cittadini e imprese, relativi alla costituzione ed alla gestione dei rapporti di lavoro;
    dall'elenco dei criteri e principi direttivi di cui ai predetti commi si evince l'assenza di interventi finalizzati a garantire il rafforzamento dei servizi svolti in favore dei lavoratori, nella gestione del rapporto di lavoro e delle incombenze che ne derivano, da parte degli istituti di patronato e di assistenza sociale;
    la rete degli istituti di patronato rappresenta una rete pubblica indispensabile che assicura informazione e assistenza a milioni di lavoratori e cittadini;
    in base alla legge che li regola, gli istituti di patronato e di assistenza sociale esercitano funzioni di fondamentale importanza in materia di informazione, di assistenza e di tutela, anche con poteri di rappresentanza, a favore dei lavoratori dipendenti e autonomi e dei pensionati per il conseguimento in Italia e all'estero delle prestazioni di qualsiasi genere in materia di sicurezza sociale, di immigrazione e emigrazione, previste da leggi, regolamenti, statuti, contratti collettivi ed altre fonti normative, erogate da amministrazioni ed enti pubblici, da enti gestori di fondi di previdenza complementare o da Stati esteri nei confronti dei cittadini italiani o già in possesso della cittadinanza italiana, anche se residenti all'estero;
    tra le attività degli istituti di patronato e di assistenza sociale rientra anche l'informazione e la consulenza ai lavoratori e ai loro superstiti e aventi causa relative all'adempimento da parte del datore di lavoro degli obblighi contributivi e della responsabilità civile anche per eventi infortunistici;
    negli ultimi anni, purtroppo, le risorse a loro disposizione sono state ridotte e da ultimo, l'articolo 1, comma 9, della legge n. 228 del 2012, pur escludendo, fino alla riforma degli istituti di patronato e assistenza sociale, la riduzione degli stanziamenti, ha disposto tuttavia che il raggiungimento degli obiettivi di riduzione di spesa del Ministero del lavoro e delle politiche sociali venga comunque assicurato, a decorrere dal 2014, per un importo di 30 milioni di euro, anche mediante l'attuazione dell'articolo 7, comma 15, della legge n. 135 del 2012, il quale prevede che il Ministero dell'economia e delle finanze – a fronte di proposte di riduzione di spesa dei singoli Ministeri non adeguate a conseguire i risparmi prefissati – debba riferire al Presidente del Consiglio dei ministri ed, eventualmente, con la legge di stabilità, disporre la corrispondente riduzione delle spese rimodulabili in precedenza accantonate;
    poiché la proposta di legge in esame si pone l'obiettivo di incidere in modo sostanziale sul diritto del lavoro e sui diritti dei lavoratori, più forte è la necessità di assicurare tutele e garanzie ai lavoratori anche attraverso l'assistenza gratuita offerta dagli istituti di patronato e di assistenza sociale, la cui esistenza e funzionalità è messa a repentaglio dai continui tagli,

impegna il Governo

ad assicurare, con provvedimenti legislativi e incrementando le risorse finanziarie disponibili, un rafforzamento del ruolo e delle funzioni svolte dagli istituti di patronato e di assistenza sociale a favore dei lavoratori e dei cittadini.

9/2660-A/35Melilla, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    la proposta di legge in esame si pone l'obiettivo di incidere in modo sostanziale sul diritto del lavoro e sui diritti dei lavoratori, continuando la stagione dello smantellamento dello Statuto dei lavoratori, proprio nel bel mezzo di una crisi economica e del sistema produttivo senza precedenti, quando più forte è la necessità di tutele e garanzie dei lavoratori;
    le disposizioni della proposta di legge evidenziano, inoltre, una assenza quasi completa del coinvolgimento delle rappresentanze sindacali nei processi che porteranno all'adozione dei decreti delegati, in continuità con i provvedimenti dei precedenti governi della destra e del Governo in carica, che fanno carta straccia delle relazioni sindacali e dimostrano la volontà di avocare al Governo la rappresentanza diretta dei lavoratori, in violazione della Costituzione;
    è indispensabile che il Governo e la sua maggioranza, nel rispetto della Costituzione, garantiscano le prerogative sindacali dei lavoratori, anche in materia di rappresentanza, e avviino iniziative per restituire centralità all'azione sindacale;
    il tema della rappresentanza e della rappresentatività è oggetto di dibattito sindacale, dottrinale e politico da molti anni, senza che vi sia mai stato un intervento organico volto a superare le problematiche emergenti. Il mondo del lavoro è per sua natura dinamico e sottoposto a mutamenti rapidi e a volte radicali, legati a fattori economici, produttivi e anche culturali, che richiedono risposte altrettanto rapide ed efficaci da parte del legislatore e dei soggetti rappresentativi del mondo del lavoro. Dalla qualità della risposta dipende buona parte della tutela che l'ordinamento è in grado di garantire ai lavoratori e alla dignità del lavoro;
    in materia di rappresentanza, l'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori nella formulazione vigente stabilisce che le: «Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell'ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell'unità produttiva. Nell'ambito di aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire organi di coordinamento»;
    questa formulazione è conseguenza di un referendum tenuto nel 1995 che abrogò il principio della «maggiore rappresentatività sul piano nazionale», togliendo di mezzo la disposizione che concedeva soltanto alle associazioni confederali la potestà di rappresentare l'ambito di riferimento per la costituzione di rappresentanze sindacali; da qui l'allargamento di tale riconoscimento anche a favore delle associazioni sindacali non rientranti in tale ambito, ma che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell'unità produttiva. Il referendum aveva l'obiettivo di estendere la libertà dei lavoratori circa la scelta intorno alla propria rappresentanza, ma i fatti più recenti hanno dimostrato, così come sostenuto da autorevole dottrina, che l'articolo 19 dello Statuto è stato travolto da un insolito destino, nel momento in cui è stato impiegato come leva per escludere sindacati maggiormente rappresentativi – e in particolare uno dei sindacati maggiormente rappresentativi (la Fiom) – dalla possibilità di costituire rappresentanze sindacali all'interno di un'azienda (la Fiat), avendo rifiutato di firmare il contratto collettivo di lavoro applicato nelle sue unità produttive;
    sebbene la Corte costituzionale abbia più volte affermato (sentenza 244/1996; ordinanze 345/1996, 148/1997 e 76/1998) la legittimità costituzionale dell'attuale formulazione dell'articolo 19, è evidente che essa viene oggi utilizzata da soggetti imprenditoriali per superare o fare a meno delle regole della rappresentanza e della rappresentatività, valendosi strumentalmente di un'interpretazione restrittiva e paradossale della norma, che nei fatti permette al datore di lavoro di scegliersi l'interlocutore sindacale, consentendo la costituzione di rappresentante sindacali aziendali (RSA) solo per i sindacati, anche del tutto minoritari, che abbiano però accettato di sottoscrivere un accordo sindacale gradito alla parte datoriale, con concreta espulsione, invece, dei sindacati non conformisti, anche se addirittura maggioritari presso i lavoratori;
    nello stesso tempo, una tale conclusione è resa possibile dal fatto che qualsiasi sindacato può sottoscrivere un contratto collettivo nazionale di lavoro o aziendale, purché la controparte datoriale vi consenta indipendentemente dal suo grado di rappresentatività effettivo tra i lavoratori;
    una prima salutare reazione contro questo stato di cose è venuta dall'accordo interconfederale del 28 giugno 2011, che ha fissato per la prima volta il principio, anche nel settore del lavoro privato, della necessità che la legittimazione a negoziare si basi su una rappresentatività sufficiente e che la conclusione dell'accordo sindacale si basi sulla rappresentatività maggioritaria dei sindacati sottoscrittori;
    il principio, del tutto condivisibile, non può però diventare, come tutti si augurano, una struttura portante dell'ordinamento democratico fin quando non avrà efficacia universale che solo una legge, e non un accordo, può evidentemente garantire;
    l'intervento legislativo che finora si è avuto è quello del tutto incongruo dell'articolo 8 del decreto-legge n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, il quale ha stravolto e pervertito i principi stabiliti nell'accordo interconfederale del 28 giugno 2011 prevedendo che accordi aziendali stipulati da rappresentanze sindacali dei sindacati maggiormente rappresentativi possono stabilire una disciplina di deroga non solo di contratti nazionali, ma addirittura di disposizioni legislative, aprendo così la strada al pericolo di un'atomizzazione del diritto del lavoro, poiché ogni impresa potrebbe avere il «suo» diritto del lavoro;
    è dunque necessario attuare una profonda riforma delle relazioni industriali attraverso una legislazione completa che regoli in maniera democratica la rappresentatività sindacale e imponga la misura della reale rappresentanza su base proporzionale e la legittimità degli accordi subordinandola al voto libero e democratico dei lavoratori;
    in campo sindacale l'esigenza della ridefinizione per via legislativa della rappresentanza e della rappresentatività è ormai ineludibile e riguarda le organizzazioni dei lavoratori e delle imprese. Tutti i lavoratori delle grandi o piccole imprese devono, con certezza di esigibilità del diritto, poter eleggere i propri rappresentanti sindacali nell'ambito del luogo di lavoro e a livello interaziendale per i luoghi di lavoro più piccoli;
    a tal fine il modo più efficace sembra quello di introdurre una norma di raccordo tra RSU e RSA secondo un principio di sussidiarietà verticale: fino a quando le RSU non sono state nominate intervengono le RSA e, una volta nominate le RSU, la capacità e il potere negoziale sindacale si trasmettono automaticamente;
    l'obiettivo dell'intervento legislativo deve essere quello di rafforzare la rappresentanza generale e, quindi, la democrazia sociale, con una legge di impianto universalistico, che abbia come base dei principi ben chiari:
     1) contrastare l'eccessiva frantumazione, garantendo il pluralismo;
     2) misurare l'effettiva rappresentatività dei sindacati sulla base della consistenza associativa certificata e del consenso elettorale riscosso tra tutti i lavoratori;
     3) mantenere inalterate le dinamiche della rappresentanza, ma differenziare i quorum rappresentativi tra settore privato e pubblico, stante le peculiarità e la maggiore parcellizzazione sindacale di quest'ultimo;
     4) assicurare la costituzione delle RSU in tutti i luoghi di lavoro o nelle aree territoriali per le piccole imprese, senza provocare conflitti tra la RSU firmataria dei contratti collettivi nazionali e la RSA nella contrattazione di secondo livello;
     5) prevedere in via normativa il principio della «porta aperta», tipico del diritto cooperativo, in relazione a un diritto continuativo di ingresso di nuove sigle e associazioni sindacali nella compagine aziendale;
     6) uniformare, seppur con le necessarie distinzioni, ma ai fini di una vera democraticità sindacale, le norme elettorali delle RSU con quelle delle rappresentanze politiche, prevedendo anche l'ausilio di osservatori terzi indipendenti nel caso di contestazioni e di lamentati imbrogli elettorali nonché l'applicazione delle già previste sanzioni penali e civili per gli autori di tali imbrogli;
     7) conferire efficacia erga omnes a tutti i contratti collettivi di lavoro sottoscritti maggioritariamente dai sindacati dei quali sia misurabile la rappresentatività e approvati dai lavoratori interessati;
    tale obiettivo è giuridicamente raggiungibile nell'immediato limitatamente ai contratti collettivi aziendali, in sintonia con quanto previsto dagli articoli da 2 a 8 del citato accordo interconfederale del 28 giugno 2011, restando insuperabile per i contratti di livello superiore la necessità di una revisione dell'articolo 39, quarto comma, della Costituzione;
   ciò non significa, peraltro, che la legge non possa riservare solo ai contratti collettivi nazionali o territoriali l'efficacia inderogabile di cui all'articolo 2077 del codice civile e la possibilità di costituire disciplina di rinvio da parte di norme legislative, nonché punto di riferimento per la determinazione giudiziale della retribuzione ai sensi dell'articolo 36 della Costituzione;
    in tale modo si garantirebbe che contratti collettivi diversi sottoscritti da sindacati minoritari o non validati dall'approvazione dei lavoratori non abbiano nessuna delle essenziali caratteristiche menzionate. Per altro verso, però, anche l'efficacia erga omnes da riconoscersi al contratto collettivo aziendale deve incontra il limite del rispetto e della salvaguardia dei diritti e degli interessi primari del lavoratore, i quali costituiscono una zona «kollektivfreie» non intaccabile dai disposti del contratto collettivo con efficacia generale: per l'elencazione in positivo di tali diritti e interessi, che hanno tipicamente a che fare con profili esistenziali (ad esempio, orario di lavoro, part-time, aspettative professionali eccetera), una precisa elencazione non può che essere rinviata alla stessa contrattazione collettiva, chiamata in sostanza a delineare un'autolimitazione dei suoi effetti,

impegna il Governo

a promuovere un provvedimento di natura legislativa in materia di costituzione di rappresentanze sindacali unitarie (RSU) nei luoghi di lavoro, rappresentatività e diritti delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro e modalità di adesione alle stesse, nonché in materia di efficacia dei contratti collettivi di lavoro ad ogni livello territoriale e aziendale, nel rispetto delle premesse del presente atto.

9/2660-A/36Sannicandro, Airaudo, Placido.


   La Camera,
   considerato che:
    le politiche di austerità promosse dai Paesi dell'Unione europea, inclusa l'Italia, hanno portato a una recessione che ha dimostrato tutti i suoi effetti devastanti facendo correre quegli stessi governi a invocare la crescita come rimedio alla crisi e al problema dell'aumento della disoccupazione;
    alla vigilia dell'ultimo Consiglio europeo di Bruxelles, il Presidente del Consiglio Renzi, intervenendo al Senato dichiarava che «L'Europa è la cenerentola dello sviluppo mondiale, bisogna uscire dalle politiche di rigore» e ha aggiunto qualche giorno dopo che «non solo l'austerità, ma anche la crescita, rappresentano due pilastri della politica europea»;
    negli stessi giorni, il Presidente Napolitano sosteneva che: «dopo anni di politiche restrittive e dinanzi a una disoccupazione dilagante, dinanzi alla recessione che rischia di diventare stagnazione è giusto spostare l'attenzione delle istituzioni europee verso la ripresa e lo sviluppo»;
    credere che la crescita possa produrre occupazione rappresenta un errore, perché la scelta delle aziende di aumentare la produzione, facendo crescere l'occupazione e conseguentemente contribuendo ad innalzare il tasso di crescita del PIL, dipende dall'aumento della domanda o da indicatori concreti che mostrino che essa crescerà. L'aumento della domanda, nel contesto attuale, dipende dall'aumento dell'occupazione e delle risorse economiche a disposizione dei lavoratori;
    in un anno nei Paesi dell'Unione europea i disoccupati sono diminuiti tra uno e due milioni, passando dai 25 milioni del 2013, ai 24 milioni di settembre 2014. Tanti disoccupati comportano una riduzione del PIL potenziale dell'intera Unione dell'ordine del 5 per cento l'anno, corrispondente a circa 800 miliardi di euro;
    in Italia, invece, la disoccupazione nell'ultimo anno è aumentata di poco, passando dal 12,5 al 12,6 per cento, comunque in controtendenza rispetto alla diminuzione registrata nell'Unione europea. 3,2 milioni di disoccupati significano per l'Italia 80 miliardi di ricchezza reale che non viene creata;
    molti disoccupati italiani lo sono da tanto tempo. La disoccupazione di lunga durata genera ulteriori costi derivanti dalla perdita di produttività del lavoro e comporta costi sociali quali povertà, perdita della casa, criminalità, denutrizione, abbandoni scolastici, antagonismo etnico, crisi familiari, tensioni sociali potenzialmente esplosive. Il Premio Nobel Amartya Sen ha scritto: «le pene della disoccupazione possono essere enormemente più gravi di quanto possano suggerire le statistiche sulla distribuzione del reddito [...] E i due problemi sono come ovvio, interrelati, ma ciascuno è a modo suo significativo e va distinto dall'altro. I loro effetti negativi sono cumulativi, ed essi agiscono individualmente e congiuntamente nel loro scardinare e sovvertire la vita personale e sociale» (International Labor Review, 1987);
    anche se il quadro economico italiano mutasse e vi fosse un boom non si riuscirebbe a creare lavoro per una mole di 3,2 milioni di lavoratori. Occorrerebbero non meno di 15 anni per riportare la disoccupazione a livelli accettabili, ma non si riuscirebbe comunque a tornare ai livelli precedenti, ad esempio al dato del 2005 che ha costituito l'anno migliore del nuovo secolo per l'occupazione nei Paesi UE, tenendo presente che la maggior parte delle imprese stanno provvedendo a sostituire in misura e rapidità crescente il lavoro umano con varie forme di automazione;
    il lavoro come diritto è solennemente sancito da tutte le Carte fondamentali nazionali e sovranazionali, incluso la nostra Costituzione che include tra i principi fondamentali non solo il riconoscimento a tutti i cittadini del diritto al lavoro, ma anche la promozione effettiva da parte della Repubblica delle condizioni che rendano effettivo questo diritto (articolo 4);
    il Governo italiano dovrebbe sollecitare le istituzioni dell'Unione europea e gli altri Paesi membri dell'Unione, anche approfittando del semestre di presidenza dell'Unione, affinché i trattati e il diritto dell'Unione vengano modificati nel senso di includere la lotta alla disoccupazione tra gli obiettivi principali delle politiche dell'Unione, più che il pareggio di bilancio;
    a tal proposito merita ricordare che nelle versioni consolidate del Trattato sull'Unione europea (TUE) e del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), l'espressione promuovere «un elevato livello di occupazione» ricorre pochissime volte. Inoltre, i testi rendono chiaro che essa non è un impegno dell'Unione, bensì dovrebbe essere l'esito dell'economia sociale di mercato fortemente competitiva, di stampo neo-liberale, che purtroppo l'Unione e le sue istituzioni (BCE in testa) hanno promosso;
    di fronte alla vera e propria emergenza nazionale e europea rappresentata dalla disoccupazione, occorre una inversione di tendenza che abbandoni l'ideologia neo-liberale per contrastare i populismi crescenti, ponendo finalmente la piena occupazione come obiettivo della politica dell'Unione e venga riconosciuto il principio che essa può essere perseguita efficacemente con politiche pubbliche;
    tra i piani su cui si potrebbe procedere andrebbero collocati integrazioni e modifiche del TUE, nonché dello Statuto del Sistema europeo di Banche centrali (SEBC) e della BCE al fine di collocare la piena occupazione tra i fini preminenti dell'Ue e delle sue istituzioni finanziarie. Inoltre alla BCE andrebbe richiesto di includere tra i principi generali per le operazioni di credito a banche dell'eurozona la condizione per cui un credito viene concesso soltanto se appare sicuramente promuovere l'occupazione netta nel Paese dell'ente richiedente,

impegna il Governo

ad attivarsi formalmente, già nel corso del semestre di presidenza dell'UE, presso le istituzioni dell'Unione europea e gli altri Paesi membri dell'Unione affinché i trattati, il diritto e le politiche dell'Unione vengano modificati nel senso di includere la lotta alla disoccupazione tra gli obiettivi principali delle politiche dell'Unione, come meglio precisato in premessa.
9/2660-A/37Kronbichler, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    le politiche di austerità promosse dai Paesi dell'Unione europea, inclusa l'Italia, hanno portato a una recessione che ha dimostrato tutti i suoi effetti devastanti facendo correre quegli stessi governi a invocare la crescita come rimedio alla crisi e al problema dell'aumento della disoccupazione;
    alla vigilia dell'ultimo Consiglio europeo di Bruxelles, il Presidente del Consiglio Renzi, intervenendo al Senato dichiarava che «L'Europa è la cenerentola dello sviluppo mondiale, bisogna uscire dalle politiche di rigore» e ha aggiunto qualche giorno dopo che «non solo l'austerità, ma anche la crescita, rappresentano due pilastri della politica europea»;
    negli stessi giorni, il Presidente Napolitano sosteneva che: «dopo anni di politiche restrittive e dinanzi a una disoccupazione dilagante, dinanzi alla recessione che rischia di diventare stagnazione è giusto spostare l'attenzione delle istituzioni europee verso la ripresa e lo sviluppo»;
    credere che la crescita possa produrre occupazione rappresenta un errore, perché la scelta delle aziende di aumentare la produzione, facendo crescere l'occupazione e conseguentemente contribuendo ad innalzare il tasso di crescita del PIL, dipende dall'aumento della domanda o da indicatori concreti che mostrino che essa crescerà. L'aumento della domanda, nel contesto attuale, dipende dall'aumento dell'occupazione e delle risorse economiche a disposizione dei lavoratori;
    in un anno nei Paesi dell'Unione europea i disoccupati sono diminuiti tra uno e due milioni, passando dai 25 milioni del 2013, ai 24 milioni di settembre 2014. Tanti disoccupati comportano una riduzione del PIL potenziale dell'intera Unione dell'ordine del 5 per cento l'anno, corrispondente a circa 800 miliardi di euro;
    in Italia, invece, la disoccupazione nell'ultimo anno è aumentata di poco, passando dal 12,5 al 12,6 per cento, comunque in controtendenza rispetto alla diminuzione registrata nell'Unione europea. 3,2 milioni di disoccupati significano per l'Italia 80 miliardi di ricchezza reale che non viene creata;
    molti disoccupati italiani lo sono da tanto tempo. La disoccupazione di lunga durata genera ulteriori costi derivanti dalla perdita di produttività del lavoro e comporta costi sociali quali povertà, perdita della casa, criminalità, denutrizione, abbandoni scolastici, antagonismo etnico, crisi familiari, tensioni sociali potenzialmente esplosive. Il Premio Nobel Amartya Sen ha scritto: «le pene della disoccupazione possono essere enormemente più gravi di quanto possano suggerire le statistiche sulla distribuzione del reddito [...] E i due problemi sono come ovvio, interrelati, ma ciascuno è a modo suo significativo e va distinto dall'altro. I loro effetti negativi sono cumulativi, ed essi agiscono individualmente e congiuntamente nel loro scardinare e sovvertire la vita personale e sociale» (International Labor Review, 1987);
    anche se il quadro economico italiano mutasse e vi fosse un boom non si riuscirebbe a creare lavoro per una mole di 3,2 milioni di lavoratori. Occorrerebbero non meno di 15 anni per riportare la disoccupazione a livelli accettabili, ma non si riuscirebbe comunque a tornare ai livelli precedenti, ad esempio al dato del 2005 che ha costituito l'anno migliore del nuovo secolo per l'occupazione nei Paesi UE, tenendo presente che la maggior parte delle imprese stanno provvedendo a sostituire in misura e rapidità crescente il lavoro umano con varie forme di automazione;
    il lavoro come diritto è solennemente sancito da tutte le Carte fondamentali nazionali e sovranazionali, incluso la nostra Costituzione che include tra i principi fondamentali non solo il riconoscimento a tutti i cittadini del diritto al lavoro, ma anche la promozione effettiva da parte della Repubblica delle condizioni che rendano effettivo questo diritto (articolo 4);
    il Governo italiano dovrebbe sollecitare le istituzioni dell'Unione europea e gli altri Paesi membri dell'Unione, anche approfittando del semestre di presidenza dell'Unione, affinché i trattati e il diritto dell'Unione vengano modificati nel senso di includere la lotta alla disoccupazione tra gli obiettivi principali delle politiche dell'Unione, più che il pareggio di bilancio;
    a tal proposito merita ricordare che nelle versioni consolidate del Trattato sull'Unione europea (TUE) e del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), l'espressione promuovere «un elevato livello di occupazione» ricorre pochissime volte. Inoltre, i testi rendono chiaro che essa non è un impegno dell'Unione, bensì dovrebbe essere l'esito dell'economia sociale di mercato fortemente competitiva, di stampo neo-liberale, che purtroppo l'Unione e le sue istituzioni (BCE in testa) hanno promosso;
    di fronte alla vera e propria emergenza nazionale e europea rappresentata dalla disoccupazione, occorre una inversione di tendenza che abbandoni l'ideologia neo-liberale per contrastare i populismi crescenti, ponendo finalmente la piena occupazione come obiettivo della politica dell'Unione e venga riconosciuto il principio che essa può essere perseguita efficacemente con politiche pubbliche;
    tra i piani su cui si potrebbe procedere andrebbero collocati integrazioni e modifiche del TUE, nonché dello Statuto del Sistema europeo di Banche centrali (SEBC) e della BCE al fine di collocare la piena occupazione tra i fini preminenti dell'Ue e delle sue istituzioni finanziarie. Inoltre alla BCE andrebbe richiesto di includere tra i principi generali per le operazioni di credito a banche dell'eurozona la condizione per cui un credito viene concesso soltanto se appare sicuramente promuovere l'occupazione netta nel Paese dell'ente richiedente,

impegna il Governo

a valutare l'opportunità di attivarsi formalmente, già nel corso del semestre di presidenza dell'UE, presso le istituzioni dell'Unione europea e gli altri Paesi membri dell'Unione affinché i trattati, il diritto e le politiche dell'Unione vengano modificati nel senso di includere la lotta alla disoccupazione tra gli obiettivi principali delle politiche dell'Unione, come meglio precisato in premessa.
9/2660-A/37. (Testo modificato nel corso della seduta) Kronbichler, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    i commi 3 e 4 recano una delega al Governo in materia di servizi per l'impiego e di politiche attive per il lavoro;
    il comma 3 indica le finalità della delega, che sarebbe finalizzata a garantire la fruizione dei servizi essenziali in materia di politiche attive per il lavoro su tutto il territorio nazionale, nonché a garantire l'esercizio unitario delle relative funzioni amministrative. Il comma 4 individua i principi ed i criteri direttivi per l'esercizio della delega;
    in considerazione dell'importanza delle politiche attive, le previsioni contenute nel Jobs Act rappresentano un esempio della volontà del Governo di non cambiare la difficile situazione attuale che, nei fatti, preclude la possibilità di realizzare in Italia politiche attive;
    le politiche attive del lavoro sono costituite dal complesso di misure volte a favorire e promuovere l'inserimento del lavoratore nel mondo del lavoro. Le competenze su di esse appartengono soprattutto ai Centri per l'impiego, la cui riforma, non procrastinabile, avrebbe dovuto essere completata già da tempo e certamente prima che partisse la Garanzia Giovani, l'unica iniziativa degli ultimi anni, con considerevoli risorse economiche a disposizione. Purtroppo per l'incapacità dei Governi Letta e Renzi la Garanzia Giovani è inesorabilmente destinata al fallimento, come più volte denunciato, e non raggiungerà gli obiettivi che si prefiggeva;
    ad eccezione delle risorse a disposizione della Garanzia Giovani, la spesa italiana per le politiche attive è inesistente rispetto a quella per le politiche passive e rispetto alle risorse investite nel resto dell'Europa. In assenza di un incremento delle risorse a favore delle politiche attive, la situazione non migliorerà, neanche se si facesse la migliore delle riforme possibili;
    dall'analisi dei dati elaborati da Eurostat risulta che la spesa dell'Italia per le politiche del lavoro è stata pari all'1,99 per cento del PIL (circa 31 miliardi di euro) nel 2012 (in crescita rispetto all'1,7 per cento del 2011), di poco superiore alla media dei 28 Paesi dell'Unione europea (1,89 per cento) e alla Germania (1,67 per cento). Tuttavia, ciò che differenzia notevolmente l'Italia dagli altri Paesi europei è la ripartizione della spesa per le politiche del lavoro tra le sue diverse componenti (servizi per il lavoro, politiche attive e politiche passive), con una spesa per politiche attive assai ridotta al confronto di quella per politiche passive (sostegni al reddito e prepensionamenti);
    la spesa sostenuta nel 2011 per i servizi per il lavoro è pari solo all'1,8 per cento del totale degli stanziamenti per le politiche del lavoro nel loro complesso (pari allo 0,03 per cento del PIL nel 2011, sceso ulteriormente allo 0,025 nel 2012), del tutto fuori misura rispetto alla media dell'UE a 28 (11,2 per cento) e alla Germania (19,2 per cento). Si tratta di una spesa circa 5 volte inferiore alla media UE e 11 volte inferiore alla Germania (se noi spendiamo 500 milioni, la Germania spende 5 miliardi). Inoltre, la spesa è quasi del tutto assorbita dai costi dei Centri per l'impiego. Tuttavia, nei nostri centri per l'impiego abbiamo in tutto circa 8.600 persone, di cui 1.500 precari, mentre in Germania sono 110.000 i dipendenti pubblici che lavorano per l'agenzia del lavoro;
    le politiche attive del lavoro sono un fattore cruciale per il mercato del lavoro, ma i numeri elencati fanno riflettere sul fatto che l'Italia non destina risorse minimamente sufficienti a svilupparle;
    i lavoratori hanno bisogno di un continuo processo di riqualificazione, di formazione, orientamento, bilancio delle competenze, presa in carico: servono risorse umane e investimenti, che non sono previste né nel Jobs Act, né nella legge di stabilità;
    dal momento che attualmente le risorse destinare alle politiche attive del lavoro non superano i 600 milioni di euro all'anno, servirebbe almeno triplicare lo stanziamento di tale somma,

impegna il Governo

a stanziare, fin dal primo provvedimento utile, anche nella legge di stabilità all'esame del Parlamento, le risorse necessarie per lo sviluppo e l'esercizio effettivo di politiche attive del lavoro.
9/2660-A/38Marcon, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   considerato che:
    la proposta di legge in esame si pone l'obiettivo di incidere in modo sostanziale sul diritto del lavoro e sui diritti dei lavoratori, continuando la stagione dello smantellamento dello Statuto dei lavoratori, proprio nel bel mezzo di una crisi economica e del sistema produttivo senza precedenti, quando più forte è la necessità di tutele e garanzie dei lavoratori;
    le disposizioni della proposta di legge evidenziano, inoltre, una assenza quasi completa del coinvolgimento delle rappresentanze sindacali nei processi che porteranno all'adozione dei decreti delegati, in continuità con i provvedimenti dei precedenti governi della destra e del Governo in carica, che fanno carta straccia delle relazioni sindacali e dimostrano la volontà di avocare al Governo la rappresentanza diretta dei lavoratori, in violazione della Costituzione;
    già con la cosiddetta «manovra-bis», dell'estate 2011, e più precisamente con l'articolo 8 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, rubricato «Sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità», è stato introdotto un nuovo meccanismo di regolazione delle materie inerenti l'organizzazione del lavoro e della produzione, fondato sulla stipulazione di contratti collettivi di livello aziendale o territoriale, cosiddetti «contratti collettivi di prossimità», in grado di derogare alla stessa disciplina legale e alla contrattazione collettiva nazionale;
    l'articolo 8 è intervenuto, quindi, a modificare la gerarchia delle fonti tra norme di legge ed accordi contrattuali e tra livelli contrattuali e la legittimazione dei soggetti negoziali;
    la rappresentatività attribuita dalla citata disposizione alle associazioni sindacali non è qualificata dalle condizioni previste dall'accordo interconfederale del 28 giugno 2011, che prevede una soglia minima del 5 per cento calcolata su iscritti e voti delle associazioni e certificazione degli iscritti. Infatti, il richiamo all'accordo del 2011 nell'articolo 8 è operato solo con riferimento alle rappresentanze sindacali operanti in azienda, di modo che è da escludersi un suo valore generale, tale da potersi riferire anche alla rappresentatività dei sindacati esterni;
    l'articolo 8 incidendo sulla gerarchia delle fonti contravviene, innanzitutto, all'articolo 39 della Costituzione con il rischio di lacerare le norme sulle relazioni dei contratti di lavoro e dei rapporti industriali, oltreché a porsi in totale contrasto con le norme comunitarie che, diversamente, impongono la parità di trattamento fra organizzazioni sindacali;
    così facendo, il Governo dell'epoca ha voluto invadere la sfera negoziale a cui l'accordo del giugno del 2011 voleva dare risalto, imponendo, con una norma di legge, un principio di rappresentatività più ampio e svincolato di quello concordato fra le parti, riconoscendo maggiore forza alla contrattazione cosiddetta di «prossimità», che in questo modo può operare in deroga sia alla legislazione vigente (legge n. 300 del 1970, cosiddetto «Statuto dei lavoratori») che a quanto stabilito dal contratto nazionale, il tutto con l'avvallo della controparte datoriale che, facendo ricorso alla contrattazione aziendale, intravede la possibilità di avere meno vincoli sul futuro delle relazioni sindacali, oltreché in materia di licenziamenti;
    con tale norma, infatti, è stata introdotta per la prima volta nell'ordinamento giuridico italiano la possibilità di una deroga generalizzata ed illimitata ai diritti minimi stabiliti per legge. Non è più necessario stipulare un accordo di estensione nazionale, ma in ogni porzione di territorio, anche piccolissima, e perfino in ogni singola azienda, diventa lecito ciò che ieri non era consentito, travolgendo o eliminando garanzie acquisite in passato;
    altro punto fondamentale della norma è la previsione della facoltà di stipulare accordi in deroga alla legge anche per quanto concerne la cessazione del rapporto di lavoro, visto che il testo normativo riferisce espressamente di intese sindacali che abbiano ad oggetto le «conseguenze» del recesso dal rapporto stesso;
    si rileva altresì che la norma presenta una variegata serie di problemi interpretativi che potrebbero inficiarne l'effettiva utilizzabilità. Innanzitutto sono previsti per i contratti collettivi di prossimità «vincoli di scopo». Detti accordi, infatti, devono essere finalizzati «alla maggiore occupazione» ed alla «crescita dell'occupazione», che la norma, così formulata, pare ritenere condizioni essenziali per l'adozione dei suindicati patti: dunque sarà ammissibile la stipula ex articolo 8 solo in ragione di incrementi di produttività ed occupazione;
    il problema, partendo dalla complessa ampiezza e genericità delle espressioni adottate dallo stesso Governo, nasce laddove si pensi ai potenziali contenziosi promossi dai lavoratori che, licenziati sulla base della disciplina prevista dall'accordo aziendale, potrebbero chiedere giudizialmente l'applicazione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori eccependo che il contratto aziendale non abbia prodotto un reale aumento dell'occupazione della produttività. Si tratterà in tal caso di una questione da gestire in sede giudiziale, ma che presenta indubbie e notevoli problematiche;
    un'ulteriore fonte di controversie potrebbe sorgere dal necessario rispetto dei vincoli comunitari espressamente previsto dal testo normativo. Il problema più immediato sarà dato dal lavoratore che, potendo adire il giudice nazionale, invochi il rispetto del diritto comunitario, situazione in cui si riproporranno tutte le difficoltà di conoscibilità e corretta interpretazione del diritto dell'Unione europea e della giurisprudenza della Corte di giustizia,

impegna il Governo

a prendere le opportune iniziative al fine di abrogare l'articolo 8 del citato decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148.
9/2660-A/39Scotto, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   premesso che:
    il Piano d'Azione governativo adottato con decreto del Presidente della Repubblica 4 ottobre 2013, per la promozione dei diritti e l'integrazione delle persone con disabilità, si occupa, tra l'altro, dei lavoratori «colpiti da malattie ingravescenti/cronico-degenerative», descrivendo le difficoltà derivanti da tali patologie e il loro impatto sulla capacità lavorativa e, dall'altro, indicando gli strumenti del telelavoro, del part-time e di ogni altra forma di flessibilità organizzativa e contrattuale, quali soluzioni necessarie per il mantenimento all'occupazione di queste persone, oltre che di coloro che hanno una patologia oncologica;
    quanto previsto dal Piano governativo trova già forza e sostanza per specifiche condizioni in provvedimenti normativi, come il decreto legislativo n. 61 del 2000 che all'articolo 12-bis sancisce il diritto dei lavoratori con patologie oncologiche di usufruire del tempo parziale al fine di meglio conciliare i tempi di vita, cura e lavoro e in alcuni contratti collettivi come ad esempio il CCNL del settore metalmeccanico, che nella sua versione rinnovata del 2013 prevede espresse clausole di flessibilità per i lavoratori con gravi patologie come la sclerosi multipla;
    patologie di questo tipo, si pongono come condizione di vita che per l'ampiezza delle problematiche, la variabilità dei quadri sintomatici, la variabilità dei decorsi e i differenti livelli di disabilità correlati, rappresentano un paradigma della complessità che ci si trova ad affrontare per conciliare le esigenze di vita, di cura e terapia con quella di mantenimento al lavoro,

impegna il Governo

nell'ambito della delega di cui all'articolo 1, comma 8, del provvedimento in oggetto, volta, tra l'altro, a «favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la generalità dei lavoratori», a disciplinare il suddetto concetto tenendo conto delle esigenze di cura del lavoratore stesso, che dovesse trovarsi in una condizione di grave malattia, promuovendo e favorendo l'estensione di forme di flessibilità contrattuale previste per altre specifiche patologie, alle malattie ingravescenti, croniche progressive come la sclerosi multipla e altre patologie gravi, tenuto conto delle esigenze di terapia, cura e riabilitazione, nonché di lavoratori con handicap con connotazione di gravità, nonché la possibilità di riconoscere l'utilizzo frazionato dei permessi e dei congedi parentali.
9/2660-A/40Boccuzzi, Giacobbe.


   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 1, comma 2, lettera a) dispone l'impossibilità di autorizzare le integrazioni salariali in caso di «cessazione definitiva» di attività aziendale o di un ramo di essa;
    il difficile contesto socio-economico che da anni caratterizza il nostro Paese, ha già determinato un forte indebolimento del sistema produttivo italiano ed è interesse di tutti assicurare non solo la continuità occupazionale, ma anche la conservazione del tessuto produttivo e del patrimonio tecnologico e imprenditoriale che fa del nostro Paese, comunque, la seconda manifattura europea;
    molte esperienze di questi anni dimostrano come l'accesso alla cassa integrazione straordinaria abbia garantito la possibilità delle ripresa produttiva, anche nei casi di passaggio di proprietà o di subentro dei lavoratori stessi nella titolarità dell'impresa,

impegna il Governo

a dare attuazione alla citata delega, assicurando una disciplina volta a garantire le condizioni per la continuità produttiva e occupazionale, in circostanze definite e verificabili.
9/2660-A/41Baruffi, Giacobbe.


   La Camera,
   premesso che:
    oggetto della delega al Governo contenuta nel disegno di legge n. 1428, presentato dal Governo medesimo, sono le materie degli ammortizzatori sociali, dei servizi per l'impiego e delle politiche attive per il lavoro, della semplificazione e razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti relativi alla costituzione e alla gestione dei rapporti di lavoro, del riordino delle tipologie di contratti di lavoro, della revisione delle misure intese a tutelare la maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro;
    il disegno di legge si pone in rapporto di complementarietà con le misure urgenti adottate con il decreto-legge n. 34/2014 dedicate ad introdurre incisive modifiche nella disciplina dei contratti a termine e dell'apprendistato;
    lo scopo è quello di assicurare un sistema di garanzia universale per tutti i lavoratori, con tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori, nonché di razionalizzare la normativa in materia d'integrazione salariale;
    la delega al Governo prevede la razionalizzazione degli incentivi per l'autoimpiego e di quelli per l'autoimprenditorialità, con una cornice giuridica nazionale intesa a costituire il punto di riferimento anche per gli interventi posti in essere da regioni e province autonome;
    il Governo, come dichiarato in più occasioni dal Presidente dal Consiglio dei ministri e dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, intende impegnarsi nella costruzione un modello di welfare inclusivo e universale;
    in particolare, in un momento di crisi economica così generale e diffusa, può essere impostata una rivisitazione dello Stato sociale secondo un modello di welfare generativo, fondato sulla corrispondenza tra esigibilità di diritti e di doveri di solidarietà. Nella prospettiva solidaristica insita nella Costituzione, è rappresentato il principio che tutti i cittadini debbano farsi carico di doveri a vantaggio della collettività intera. Da ciò trae legittimazione la possibilità che a fronte dell'erogazione di una prestazione da parte dello Stato (strumenti di sostegno al reddito, assicurazione sociale per l'impiego) possa corrispondere, da parte dei soggetti beneficiari, una controprestazione che produca utilità sociale e sviluppo;
    l'autoimpiego costituisce nel nostro ordinamento il principale strumento di sostegno alla realizzazione e all'avvio di piccole attività imprenditoriali da parte di disoccupati o persone in cerca di prima occupazione. Specie nei campi dell'assistenza sociale e sanitaria, educazione, formazione, tutela dell'ambiente e del patrimonio culturale, turismo, ricerca, inserimento di lavoratori svantaggiati;
    la razionalizzazione degli incentivi per l'autoimpiego e per l'autoimprenditorialità deve puntare a rafforzate la produzione e lo scambio di beni e servizi, anche di utilità sociale, con grande attenzione all'innovazione, alla competitività, al welfare territoriale, alla capacità di creare nuova occupazione e sviluppo economico nelle zone svantaggiate del paese, comprese quelle a forte vocazione agricola,

impegna il Governo

  a valutare l'opportunità di:
   di prevedere, nell'ambito della riforma degli strumenti di sostegno al reddito e della razionalizzazione degli incentivi per l'autoimpiego e per l'autoimprenditorialità, formule di welfare rigenerativo che producano utilità sociale e sviluppo per la collettività;
   di costruire un modello di welfare rigenerativo che preveda misure di sostegno ai disoccupati, alle persone in cerca di prima occupazione e a tutti quei soggetti esclusi dal mondo del lavoro, che intendano insediarsi nelle zone svantaggiate del paese, in particolare in quelle soggette a fenomeni di grave decremento demografico, anche attraverso l'inserimento socio-lavorativo dei soggetti più deboli.
9/2660-A/42Mura.


   La Camera,
   premesso che:
    il provvedimento in esame AC 2660/A del Governo recante deleghe in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, prevede al comma 8 dell'articolo 1 una delega affinché siano «revisionate ed aggiornate» le misure volte a tutelare la maternità allo scopo di favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro;
    il successivo comma 9 elenca i criteri di delega ed in particolare con la lettera g) si prevede la «ricognizione» delle misure in materia di tutela della maternità, la «revisione» delle stesse per garantire più flessibilità al fine di «favorire» le opportunità di conciliazione, lasciando aperta la possibilità che la «ricognizione» possa intendersi come la condizione per risparmiare risorse da investire nelle misure di conciliazione realizzando una riforma a «costo zero», mentre è maturo il tempo per reperire nuove risorse sia per estendere ed ampliare i congedi di maternità e paternità, sia per uscire dalla fase sperimentale delle misure di conciliazione previste dalla legge 53/2000 per farle diventare politiche universali di conciliazione,

impegna il Governo

affinché nell'esercizio della delega prevista dal comma 8 dell'articolo 1 ed in particolare nel riordino delle misure a tutela della maternità nonché dei congedi e delle politiche di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, previsto alla lettera g) del comma 9, si proceda nell'ottica della universalizzazione, ancorché graduale delle tutele, reperendo le necessarie risorse aggiuntive ed evitando il rischio di voler compensare eventuali risparmi derivanti dalla prevista «ricognizione» con la estensione delle misure di conciliazione.
9/2660-A/43Miotto.


   La Camera,
   premesso che:
    tra i contenuti dei decreti legislativi delegati dal disegno di legge in esame, vi è anche la «previsione di modalità semplificate per garantire data certa nonché l'autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o dei lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore»;
    tale criterio di delega richiama il tema delle cosiddette dimissioni «in bianco», e si pone correttamente l'obiettivo di porre fine a tale odiosa pratica, riguardante purtroppo prevalentemente le donne lavoratrici, e comunque le categorie di lavoratori più deboli;
    tuttavia, oltre alla garanzia della data certa nonché dell'autenticità della manifestazione di volontà dei lavoratori in relazione alle dimissionari, è opportuno assicurare certezze (a partire proprio dalla data di risoluzione del rapporto di lavoro) anche alle imprese, soggette ad una complessa procedura di convalida delle dimissioni rese dal lavoratore;
    la procedura di convalida delle dimissioni prevista dall'articolo 4, commi da 17 a 23, della legge 92/2012, introduce infatti un preciso obbligo di convalida sia delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, sia delle risoluzioni consensuali verificatesi dall'entrata in vigore della legge 92/2012. La norma – nel richiedere una seconda manifestazione di volontà del lavoratore, che si produce con la convalida dell'atto di recesso – sottopone la risoluzione dei rapporto di lavoro ad una condizione sospensiva legata alla convalida dell'atto stesso;
    in particolare, il datore di lavoro è tenuto – nel tempo massimo di 30 giorni decorrenti dalla fine del rapporto di lavoro – ad invitare il lavoratore a procedere alla convalida delle dimissioni/risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, indicando le modalità con le quali la stessa può essere effettuata. Nel caso in cui il lavoratore non (proceda alla convalida entro sette giorni dalla ricezione dell'invito del datore di lavoro, il rapporto di lavoro si intende risolto, per il verificarsi della condizione sospensiva, qualora la lavoratrice o il lavoratore non aderisca, entro sette giorni dalla ricezione, all'invito a presentarsi presso la Direzione territoriale del lavoro o il Centro per l'impiego territorialmente competenti, ovvero all'invito ad apporre la sottoscrizione di apposita dichiarazione, trasmesso dal datore di lavoro. L'inerzia del datore di lavoro conduce diversamente all'inefficacia delle dimissioni/risoluzione consensuale; nei sette giorni decorrenti dalla ricezione dell'invito, il lavoratore può revocare le dimissioni presentate, anche in forma scritta;
    pertanto, per garantire entrambe le parti, e permettere alle imprese una organizzazione più efficace ed efficiente in caso di dimissioni/risoluzione consensuale, non necessariamente legata a condizioni sospensive e a duplicazioni per quanto riguarda espressioni chiare della volontà del lavoratore, è necessario rivedere e snellire l'intera procedura di convalida delle stesse,

impegna il Governo

ad adottare le opportune iniziative, anche di tipo normativo, volte a prevedere modalità semplificate, anche attraverso l'utilizzo dei moderi sistemi informatici per la revisione delle procedure di dimissione volte a superare le criticità esposte in premessa.
9/2660-A/44Calabria.


   La Camera,
   premesso che:
    il disegno di legge in esame reca «Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro»;
    la riforma del mercato del lavoro, che i decreti delegati hanno come obiettivo, dovrebbe porsi nell'ottica di un definitivo superamento delle diverse situazioni di precarietà che attualmente caratterizzano tale mercato, in particolare nell'utilizzazione dei lavoratori socialmente utili;
    in attesa di una riforma in tal senso, è opportuno rifinanziare le convenzioni che vedono il coinvolgimento di tale tipologia di lavoratori, nate dall'attuazione di una politica attiva dei lavoro, e basate sulla partecipazione ad iniziative di pubblica utilità da parte di soggetti particolarmente svantaggiosi, ovvero lavoratori in mobilità o in cassa integrazione guadagni straordinaria o in disoccupazione speciale, oppure soggetti in cerca di prima occupazione o disoccupati;
    in particolare nel Comune di Napoli, senza un adeguato rifinanziamento, dal prossimo mese di gennaio circa 1.300 lavoratori, che svolgono funzioni essenziali per il Comune metropolitano, rischiano di non essere più retribuiti,

impegna il Governo

nelle more di una razionalizzazione delle convenzioni con lavoratori socialmente utili e nell'ottica di un definitivo superamento delle situazioni di precarietà, ad adottare le opportune iniziative, anche di tipo normativo, volte a proseguire gli interventi già oggetto di finanziamento che impiegano lavoratori socialmente utili.
9/2660-A/45Russo.


   La Camera,
   premesso che:
    il disegno di legge in esame reca «Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro»;
    la riforma del mercato del lavoro, che i decreti delegati hanno come obiettivo, dovrebbe porsi nell'ottica di un definitivo superamento delle diverse situazioni di precarietà che attualmente caratterizzano tale mercato, in particolare nell'utilizzazione dei lavoratori socialmente utili;
    in attesa di una riforma in tal senso, è opportuno rifinanziare le convenzioni che vedono il coinvolgimento di tale tipologia di lavoratori, nate dall'attuazione di una politica attiva dei lavoro, e basate sulla partecipazione ad iniziative di pubblica utilità da parte di soggetti particolarmente svantaggiosi, ovvero lavoratori in mobilità o in cassa integrazione guadagni straordinaria o in disoccupazione speciale, oppure soggetti in cerca di prima occupazione o disoccupati;
    in particolare nel Comune di Napoli, senza un adeguato rifinanziamento, dal prossimo mese di gennaio circa 1.300 lavoratori, che svolgono funzioni essenziali per il Comune metropolitano, rischiano di non essere più retribuiti,

impegna il Governo

a valutare, nelle more di una razionalizzazione delle convenzioni con lavoratori socialmente utili e nell'ottica di un definitivo superamento delle situazioni di precarietà, l'adozione di opportune iniziative, anche di tipo normativo, volte a proseguire gli interventi già oggetto di finanziamento che impiegano lavoratori socialmente utili.
9/2660-A/45. (Testo modificato nel corso della seduta).  Russo.


   La Camera,
   premesso che numerose sentenze pronunciate dai tribunali del lavoro di diverse regioni d'Italia hanno riconosciuto il diritto ai lavoratori con contratto di lavoro parasubordinato, alla trasformazione in contratto di lavoro dipendente nonché le differenti retribuzioni e relativa posizione assicurativa nei regime obg; che la questione è stata sollevata dai lavoratori ricorrenti alla Corte di giustizia europea invocando l'abuso di precariato adottato da troppi anni in Italia nei confronti di chi ha svolto più di 36 mesi di servizio in violazione della normativa europea in materia;
   tenuto conto delle conseguenze della annunciata sentenza della Corte di giustizia europea che si pronunzierà nei prossimi giorni, contro l'abuso da parte del Governo Italiano per la reiterazione dei contratti a termine oltre i 36 mesi, in violazione della direttiva comunitaria 1999/70/CE, le cui motivazioni anche se ancora non pubblicate sono note e definiscono: «arbitrario e vessatorio il comportamento dell'Amministrazione Pubblica italiana nei confronti dei personale da anni in attesa di stabilizzazione»;
   considerato che la stessa pubblica amministrazione (enti locali, stato, regione ...) ancora oggi mantiene tale tipologia contrattuale per circa cinquemila unità, pur lavorando alle dipendenze della stessa pubblica amministrazione la cui natura e modalità di esecuzione dell'attività lavorativa, non lascia dubbi che si tratti di lavoro dipendente subordinato;
   visto l'articolo 1, comma 7, lettere a) e b), del Jobs Act che prevede, entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, il superamento delle forme contrattuali di precariato in essere (Co.co.co. e Co.co.pro.), attraverso decreti legislativi, nel rispetto dei principi e criteri direttivi che tengano altresì conto degli obiettivi indicati dagli orientamenti annuali dell'Unione europea in materia di occupazione,

impegna il Governo

in attuazione dell'articolo 1, comma 7, lettere a) e b), del Jobs Act di procedere all'individuazione e analisi di tutte le forme contrattuali esistenti (Co.co.co., Co.co.pro.) che riguardano la pubblica amministrazione (Ministero Pubblica Istruzione, Enti Locali), che nascondono rapporti di tipo subordinato, al fine di trasformarli in rapporti di lavoro dipendente prima dell'applicazione della suddetta sentenza che aggraverebbe l'onere per la stessa pubblica amministrazione.
9/2660-A/46Ribaudo.


   La Camera,
   premesso che numerose sentenze pronunciate dai tribunali del lavoro di diverse regioni d'Italia hanno riconosciuto il diritto ai lavoratori con contratto di lavoro parasubordinato, alla trasformazione in contratto di lavoro dipendente nonché le differenti retribuzioni e relativa posizione assicurativa nei regime obg; che la questione è stata sollevata dai lavoratori ricorrenti alla Corte di giustizia europea invocando l'abuso di precariato adottato da troppi anni in Italia nei confronti di chi ha svolto più di 36 mesi di servizio in violazione della normativa europea in materia;
   tenuto conto delle conseguenze della annunciata sentenza della Corte di giustizia europea che si pronunzierà nei prossimi giorni, contro l'abuso da parte del Governo Italiano per la reiterazione dei contratti a termine oltre i 36 mesi, in violazione della direttiva comunitaria 1999/70/CE, le cui motivazioni anche se ancora non pubblicate sono note e definiscono: «arbitrario e vessatorio il comportamento dell'Amministrazione Pubblica italiana nei confronti dei personale da anni in attesa di stabilizzazione»;
   considerato che la stessa pubblica amministrazione (enti locali, stato, regione ...) ancora oggi mantiene tale tipologia contrattuale per circa cinquemila unità, pur lavorando alle dipendenze della stessa pubblica amministrazione la cui natura e modalità di esecuzione dell'attività lavorativa, non lascia dubbi che si tratti di lavoro dipendente subordinato;
   visto l'articolo 1, comma 7, lettere a) e b), del Jobs Act che prevede, entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, il superamento delle forme contrattuali di precariato in essere (Co.co.co. e Co.co.pro.), attraverso decreti legislativi, nel rispetto dei principi e criteri direttivi che tengano altresì conto degli obiettivi indicati dagli orientamenti annuali dell'Unione europea in materia di occupazione,

impegna il Governo

in attuazione dell'articolo 1, comma 7, lettere a) e b), del Jobs Act di procedere all'individuazione e analisi di tutte le forme contrattuali esistenti (Co.co.co., Co.co.pro.) che riguardano la pubblica amministrazione (Ministero Pubblica Istruzione, Enti Locali) al fine di trasformarli in rapporti di lavoro dipendente prima dell'applicazione della suddetta sentenza che aggraverebbe l'onere per la stessa pubblica amministrazione.
9/2660-A/46. (Testo modificato nel corso della seduta).  Ribaudo.


   La Camera,
    in sede di esame del disegno di legge recante Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro, dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro;
   premesso che:
    il comma 9 del provvedimento, nel testo licenziato dalla Commissione, contiene una delega al Governo a rivedere le misure volte alta tutela della maternità delle lavoratrici e le forme di conciliazione di tempi di vita e di lavoro, allo scopo di garantire un adeguato sostegno alla genitorialità;
    tra i criteri direttivi cui il Governo deve attenersi nell'esercizio della delega è stato inserito, per volontà della Lega Nord e Autonomie, l'eventuale riconoscimento delle cosiddette «ferie solidali», vale a dire la possibilità di donare i giorni di riposo in più al collega di lavoro genitore di minore malato grave;
    tale misura tuttavia, pur ribadendo che non deve costituire una forma di deresponsabilizzazione dello Stato nel garantire un sistema integrato di welfare ai propri cittadini malati gravi, suona come una beffa nei confronti dei tanti lavoratori e lavoratrici malati oncologici, i quali spesso si trovano ad affrontare un problema dell'insufficienza e quindi del superamento dei giorni di aspettativa con conservazione del posto di lavoro rispetto ai periodi di terapia;
    l'ultimo caso emblematico denunciato a mezzo stampa il 21 novembre scorso riguarda quello di una donna di 52 anni, P.T., da 25 anni al servizio della Basell Poliolefine Italia, azienda americana con stabilimenti a Terni, Sesto San Giovanni e Ferrara ed operante anche all'interno del polo petrolchimico di Brindisi, rientrata al lavoro dopo aver lottato per tre anni contro un cancro al seno; solo per lei il 17 novembre scorso è arrivata la lettera di licenziamento senza preavviso. L'azienda ha precisato che si tratta di «un semplice processo di riorganizzazione», ma la motivazione suscita perplessità trattandosi dell'unico esubero su circa 130 unità,

impegna il Governo

a valutare, nelle more di attuazione del provvedimento ed in fase di stesura dei decreti delegati, la possibilità di estendere la facoltà di cessione tra colleghi dei giorni di riposo e/o permessi giornalieri in favore anche del lavoratore/lavoratrice malati oncologici che, costretti a lunghi periodi di terapia, rischiano di perdere il posto di lavoro.
9/2660-A/47Prataviera.


   La Camera,
    in sede di esame del disegno di legge recante Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro, dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro;
   premesso che:
    il comma 9 del provvedimento, nel testo licenziato dalla Commissione, contiene una delega al Governo a rivedere le misure volte alta tutela della maternità delle lavoratrici e le forme di conciliazione di tempi di vita e di lavoro, allo scopo di garantire un adeguato sostegno alla genitorialità;
    tra i criteri direttivi cui il Governo deve attenersi nell'esercizio della delega è stato inserito, per volontà della Lega Nord e Autonomie, l'eventuale riconoscimento delle cosiddette «ferie solidali», vale a dire la possibilità di donare i giorni di riposo in più al collega di lavoro genitore di minore malato grave;
    tale misura tuttavia, pur ribadendo che non deve costituire una forma di deresponsabilizzazione dello Stato nel garantire un sistema integrato di welfare ai propri cittadini malati gravi, suona come una beffa nei confronti dei tanti lavoratori e lavoratrici malati oncologici, i quali spesso si trovano ad affrontare un problema dell'insufficienza e quindi del superamento dei giorni di aspettativa con conservazione del posto di lavoro rispetto ai periodi di terapia;
    l'ultimo caso emblematico denunciato a mezzo stampa il 21 novembre scorso riguarda quello di una donna di 52 anni, P.T., da 25 anni al servizio della Basell Poliolefine Italia, azienda americana con stabilimenti a Terni, Sesto San Giovanni e Ferrara ed operante anche all'interno del polo petrolchimico di Brindisi, rientrata al lavoro dopo aver lottato per tre anni contro un cancro al seno; solo per lei il 17 novembre scorso è arrivata la lettera di licenziamento senza preavviso. L'azienda ha precisato che si tratta di «un semplice processo di riorganizzazione», ma la motivazione suscita perplessità trattandosi dell'unico esubero su circa 130 unità,

impegna il Governo

a valutare, in fase di stesura dei decreti delegati, la possibilità di estendere la facoltà di cessione tra colleghi dei giorni di riposo e/o permessi giornalieri in favore anche del lavoratore/lavoratrice malati oncologici che, costretti a lunghi periodi di terapia, rischiano di perdere il posto di lavoro.
9/2660-A/47. (Testo modificato nel corso della seduta).  Prataviera.


   La Camera,
    in sede di esame di disegno di legge recante Deleghe al Governo in materia di riforma dell'ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro, dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro,
    premesso che:
    il comma 3 del provvedimento, nel testo licenziato dalla Commissione, contempla il riordino dei servizi essenziali in materia di politica attiva del lavoro;
    il successivo comma 4 prevede, tra i principi e i criteri direttivi cui il Governo deve attenersi nell'esercizio della delega, l'istituzione di un'Agenzia nazionale per l'occupazione;
    senza una puntuale e capillare revisione dell'efficienza e dell'efficacia delle strutture pubbliche già esistenti – ex uffici del collocamento, ora centri per l'impiego – la nuova Agenzia rischia di trasformarsi in un carrozzone pubblico,

impegna il Governo

a valutare, nelle more di attuazione del provvedimento ed in fine di stesura dei decreti delegati, il riordino e la razionalizzazione dei centri per l'impiego, procedendo alla soppressione di quelli che nell'arco solare non abbiano collocato ovvero ricollocato una percentuale di lavoratori pari alla media nazionale ridotta dell'1 per cento, con relativo accorpamento di strutture e di personale a quello territorialmente più vicino.
9/2660-A/48Matteo Bragantini.


   La Camera,
    in sede di esame del disegno di legge recante Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro, dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro;
   premesso che:
    il comma 3 del provvedimento, nel testo licenziato dalla Commissione, contempla il riordino dei servizi essenziali in materia di politica attiva del lavoro ed il successivo comma 4 prevede, tra i princìpi e criteri direttivi cui il Governo deve attenersi nell'esercizio della delega, la valorizzazione delle sinergie tra servizi pubblici e privati;
    per migliorare l'incontro tra domanda ed offerta di lavoro è necessario procedere prima ad una revisione di soggetti privati attualmente accreditati a tal fine,

impegna il Governo

a valutare, in fase di stesura dei decreti delegati secondo il principio di cui alla lettera n) del comma 4 relativamente alla definizione di criteri per l'accreditamento e l'autorizzazione dei soggetti che operano sul mercato del lavoro, la revoca dell'autorizzazione all'esercizio dell'attività per quelle agenzie per il lavoro ex articolo 4 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, che nell'arco solare di un anno non abbiano collocato ovvero ricollocato una percentuale di lavoratori pari alla media nazionale ridotta dell'1 per cento.
9/2660-A/49Invernizzi.


   La Camera,
    in sede di esame del disegno di legge recante Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro, dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro;
   premesso che:
    il comma 7, lettera g) del provvedimento, nel testo licenziato dalla Commissione, prevede il superamento dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa;
    le collaborazioni coordinate e continuative propriamente dette permangono nell'ambito della pubblica amministrazione, giacché nel settore privato sono state sostituite – con il decreto legislativo 276/2003, attuativo dell'articolo 4 della legge delega n. 30/2003, e successive modifiche – dalle collaborazioni a progetto;
    in materia impropria si fanno rientrare nei rapporti di natura collaborativa, pur distinguendosi, anche le prestazioni di lavoro autonomo occasionale di cui all'articolo 70 del decreto legislativo n. 276/2003;
    il criterio di cui alta lettera h) del medesimo comma 7, nel prevedere l'ampliamento delle possibilità di ricorso al cosiddetto lavoro accessorio, lascia intendere l'esplicita volontà del legislatore-Governo di non procedere al superamento anche di questa tipologia contrattuale; tuttavia resta da chiarire gli intenti in merito alle collaborazioni a progetto,

impegna il Governo

a precisare, nelle more di attuazione del provvedimento, se il superamento di cui alla lettera g) del comma 7, citata in premessa, si riferisca alle sole collaborazioni coordinate e continuative propriamente dette ovvero anche ai contratti di collaborazione a progetto.
9/2660-A/50Caon, Grimoldi.


   La Camera,
    in sede di esame del disegno legge recante Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro, dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro;
   premesso che:
    la cosiddetta Legge Mosca, così chiamata dal nome dell'esponente della Cgil, Giovanni Mosca, che ne fu il relatore, nacque con l'intento di garantire una copertura previdenziale a circa un centinaio di persone che nei decenni successivi al dopoguerra avevano prestato la loro opera nei sindacati o nei partiti senza che a loro nome fossero stati versati i contributi all'Inps; bastava la semplice dichiarazione del rappresentante del partito o del sindacato e all'interessato veniva versata la pensione oltre naturalmente gli arretrati a partire dal 1948;
    a beneficiarne sono stati invece oltre 40 mila sindacalisti e/o funzionari di partito, con un costo per lo Stato – e dunque per i contribuenti – calcolato in oltre 12 milioni di euro;
    nell'attuale contesto socio-economico di forte e perdurante crisi, caratterizzato dall'impossibilità di tutelare disoccupati, cassintegrati e esodati per mancanza di risorse e dalla necessità di adottare provvedimenti di spending review, risulta anacronistico al limite dell'imbarazzante mantenere in vita un siffatto beneficio;
    le finalità del provveditorato all'esame sono stati accantonati, in sede di legge di stabilità per il 2015, 2 miliardi di euro ma, con specifico riguardo all'universalizzazione del campo di applicazione dell'ASpI, è già stata palesata dalla maggioranza parlamentare la necessità di reperire nuove ed ulteriori risorse, almeno altri 500 o 600 milioni di euro;
    è indubbio che l'abrogazione della cosiddetta Legge Mosca porterebbe nelle casse dello Stato un considerevole risparmio utilizzabile per garantire trattamenti di sostegno al reddito di importi consoni al costo della vita,

impegna il Governo

ad adottare, nelle more di attuazione del provvedimento con l'emanazione dei decreti delegati, atti di propria competenza contemplanti l'abrogazione della legge 11 giugno 1974, n. 252.
9/2660-A/51Guidesi.


   La Camera,
   premesso che:
    valutato nel dettaglio la delega di cui al comma 1 in materia di ammortizzatori sociali e, con riferimento agli strumenti di tutela in costanza di lavoro, il criterio di cui alla lettera a), numero 5) del provvedimento, che prevede una maggiore compartecipazione delle imprese utilizzatrici;
    ricordato che da una elaborazione della CGIA di Mestre su dati della World Bank «Doing Business 2011» emerge una pressione fiscale sulle imprese italiane tra le più alte in Europa, superiore al 68,6 per cento, non riscontrabile neanche tra i grandi paesi industrializzati extra UE;
    atteso che una reale riforma del mercato del lavoro che rilanci l'occupazione e crei nuovi posti deve essere accompagnata da una politica di drastica riduzione del carico fiscale per le imprese,

impegna il Governo

a garantire che il criterio di cui al numero 5) della lettera a) del comma 1 del provvedimento, citato in premessa, non si traduca in un aumento della tassazione per le nostre imprese, specie per quelle di piccole e medie dimensioni, linfa vitale del nostro tessuto produttivo.
9/2660-A/52Allasia, Busin.


   La Camera,
   premesso che:
    valutati nel dettaglio i criteri di delega cui il Governo deve attenersi per la revisione e l'aggiornamento delle misure volte a tutelare la maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro;
    preso atto che la lettera c) del comma 9 del provvedimento all'esame recita: «introduzione del tax credit, quale incentivo al lavoro femminile, per le donne lavoratrici, anche autonome, con figli minori o disabili non autosufficienti e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito individuale complessivo, e armonizzazione del regime delle detrazioni per il coniuge a carico»;
    temuto che l'espressione «armonizzazione» sia un eufemismo per celare la volontà di procedere all'abrogazione della detrazione per coniuge a carico, come peraltro era esplicitato in una primissima bozza del disegno di legge delega;
    ricordato che l'abolizione della detrazione significa un taglio dello stipendio o della pensione di circa mille euro annui per chi ha un reddito compreso tra gli 8 e i 20 mila euro annui e di circa 700 euro per chi ha un reddito da 21 a 25 mila euro annui, il che significherebbe una batosta per tutte le famiglie di lavoratori e pensionati monoreddito;
    rammentato che secondo le stime dell'Agenzia dell'Entrate sono circa 5 milioni i contribuenti italiani ai quali viene riconosciuto in media un bonus di 65 euro al mese;
    constatato che persino l'Avvenire ha definito la paventata abrogazione come «il contrario delle pari opportunità e come l'ennesimo passo indietro nella tutela della famiglia»,

impegna il Governo

a far salvo, nelle more di attuazione del provvedimento con l'emanazione dei decreti delegati, il vigente regime delle detrazioni per il coniuge a carico.
9/2660-A/53Rondini.


   La Camera,
   con particolare riguardo alla delega conferita dal comma 8 del provvedimento;
   considerata l'importanza che rivestono le politiche di sostegno alla genitorialità, specie alla luce del continuo aumento del tasso delle «nascite zero»,

impegna il Governo

a garantire la destinazione vincolata dei contributi di maternità confluiti nella apposita gestione INPS esclusivamente alle prestazioni in materia, senza distrazioni verso altre gestioni in disavanzo.
9/2660-A/54Marcolin.


   La Camera,
   con particolare riguardo alla delega in materia di ammortizzatori sociali conferita dai commi 1 e 2 del provvedimento;
   considerato il criterio di delega di cui alla lettera d) del comma 2 nel testo licenziato dalla Commissione, relativamente alla previsione di coinvolgere i soggetti beneficiari dei trattamenti di sostegno al reddito nello svolgimento di attività a beneficio delle comunità locali;
   ritenuto importante l'impiego dei soggetti beneficiari di ammortizzatori sociali in attività socio-assistenziali nel comune di residenza,

impegna il Governo

a valutare la possibilità di prevedere una disponibilità dei soggetti di cui in premessa anche per esigenze della Protezione civile nell'ipotesi di eventi calamitosi.
9/2660-A/55Simonetti.


   La Camera,
   premesso che:
    valutati gli interventi che esso contempla in materia di revisione della disciplina dei rapporti di lavoro, allo scopo dichiarato di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro e di riordinare i contratti di lavoro vigenti;
    ricordata l'esistenza della platea dei cosiddetti «precari della giustizia», ovvero quei lavoratori cassintegrati, in mobilità, lsu, disoccupati o inoccupati che hanno svolto un tirocinio formativo presso il Ministero della Giustizia in virtù dello stanziamento di cui all'articolo 1, comma 344, della legge 27 dicembre 2013, n. 147;
    ritenuto che una riforma del mercato del lavoro che sbandiera il superamento del precariato non può ignorare l'esercito di tirocinanti «rolling»,

impegna il Governo

a valutare la possibilità di impiegare la platea dei soggetti richiamati in premessa in attività di smaltimento dell'arretrato civile.
9/2660-A/56Molteni.


   La Camera,
   con particolare riguardo ai criteri di delega contenuti nel comma 7 del provvedimento;
   premesso che:
    il comparto delle regioni negli ultimi anni è quello che ha subito i maggiori tagli di risorse finanziarie sia in termini assoluti che in termini relativi, operati da parte dello Stato centrale che ha scaricato sugli enti territoriali la gran parte dei provvedimenti di revisione della spesa;
    nonostante si stia sperimentando almeno sui fondi sanitari un criterio di ripartizione basato sui costi standard, in tutti gli altri settori di competenza regionale poco o nulla è stato fatto al fine di operare una ricognizione completa delle efficienze e delle inefficienze, con il risultato che i tagli sono stati imposti in maniera lineare a regioni virtuose e meno virtuose, con il risultato grottesco di penalizzare di più chi già operava con responsabilità e quindi senza margini di ulteriore risparmio;
    in attesa della messa a punto completa e dell'applicazione del federalismo fiscale basato sui costi e sui fabbisogni standard, è necessario utilizzare da subito un metodo teso a premiare, nel trasferimento di fondi alle regioni al fine di attuare politiche attive del lavoro, gli enti che hanno attuato nel tempo una organizzazione efficiente,

impegna il Governo

a favorire le amministrazioni maggiormente virtuose nei trasferimenti erariali da destinare a politiche attive e passive del lavoro premiando quelle che evidenziano un rapporto tra numero dei dipendenti e numero dei residenti inferiore alla media nazionale.
9/2660-A/57Giancarlo Giorgetti.


   La Camera,
   premesso che:
    il criterio di cui al comma 2, lettera a), numero 2), intende prevedere con riguardo agli strumenti di tutela in costanza di rapporto di lavoro, la semplificazione delle procedure burocratiche considerando anche la possibilità di introdurre meccanismi standardizzati di concessione dei trattamenti prevedendo strumenti certi ed esigibili;
    le lungaggini delle vigenti procedure burocratiche di concessione dei trattamenti comporta per i lavoratori e le relative famiglie di ritrovarsi per mesi senza alcun sostegno economico;
    un intervento alquanto valido per ovviare problema della tempistica è stato in passato il cosiddetto «istituto dell'anticipazione» che prevedeva, con riguardo alla cassa in deroga, che l'INPS potesse anticipare i relativi trattamenti sulla base della domanda corredata dagli accordi conclusi dalle parti sociali e dell'elenco dei beneficiari, in attesa dell'emanazione dei provvedimenti di autorizzazione dei predetti trattamenti;

impegna il Governo

a valutare, nelle more di attuazione del provvedimento, la possibilità di prevedere meccanismi oltre che standardizzati anche di anticipazione nella concessione dei trattamenti di sostegno al reddito, al fine di garantire tempi certi nell'erogazione del trattamento medesimo e tutelare i lavoratori colpiti da crisi aziendali dallo spettro di rimanere a lungo senza alcuna copertura reddituale.
9/2660-A/58Caparini.


   La Camera,
   premesso che:
    esaminato il disegno di legge recante Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro, dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, con particolare riguardo alla delega in materia di riforma degli ammortizzatori sociali;
    valutati nel dettaglio i criteri ed i principi direttivi cui il Governo deve attenersi nell'esercizio delle delega per riformare gli strumenti di sostegno in caso di disoccupazione involontaria;
    preso atto del criterio di cui al numero 6) della predetta lettera b) del citato comma 2), relativamente all'eliminazione dello stato di disoccupazione come requisito per l'accesso a servizi di carattere assistenziale;
    riscontrato che l'attuale maggioranza governativa e parlamentare antepone le esigenze degli extracomunitari alle necessità ed ai bisogni dei propri cittadini italiani, rinviando il reperimento di risorse per la soluzione della vicenda esodati e di quella dei cosiddetti «quota 96» ma stanziando nella legge di stabilità ben 187 milioni di euro, aggiuntivi alle risorse già assegnate a legislazione vigente in favore di politiche assistenziali per gli immigrati;
    temuto, pertanto, che la predetta eliminazione possa pertanto costituire un ulteriore canale privilegiato per gli extracomunitari a danno dei lavoratori e delle lavoratrici italiane,

impegna il Governo

a valutare, nelle more di attuazione del provvedimento, la possibilità di prevedere un canale prioritario per i lavoratori e le lavoratrici italiane nell'accesso ai servizi di carattere assistenziale.
9/2660-A/59Gianluca Pini.


   La Camera,
   premesso che:
    esaminato il disegno di legge recante Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro, dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, con particolare riguardo alla delega in materia di riforma degli ammortizzatori sociali;
    valutato che per tutte le finalità contenute nel disegno di legge delega il Governo ha previsto in sede di legge di stabilità per il 2015 un accantonamento pari a 2 miliardi di euro, senza peraltro chiarire e specificare la ripartizione tra le diverse materie oggetto di delega;
    preso atto delle dichiarazioni dei giorni scorsi del Ministro Poletti e del presidente della Commissione lavoro Damiano circa la necessità di mettere maggiori risorse sugli ammortizzatori sociali, pari ad almeno ulteriori 500/600 milioni di euro;
    temuto che, essendo il riordino degli ammortizzatori oggetto di una delega in bianco, il nuovo sussidio universale – definito a mezzo stampa NASPI – non possa riconoscere ai lavoratori trattamenti di pari importo rispetto a quelli attualmente garantiti dall'indennità di disoccupazione;
    ritenuto peraltro assurdo il meccanismo con cui si intende procedere alla revisione degli ammortizzatori sociali, ovvero tagliare prima gli strumenti esistenti e con le risorse derivanti dal predetto taglio procedere ad innovare le tutele di sostegno al reddito;
    secondo quanto enunciato e non esplicitato nei criteri di delega, infatti, il nuovo ammortizzatore sociale sarebbe finanziato dalla scomparsa della cassa integrazione in deroga:

impegna il Governo

a garantire la continuità nell'erogazione delle prestazioni di sostegno al reddito a tutti i lavoratori beneficiari nelle more di attuazione della riforma degli ammortizzatori sociali, assicurando altresì che i nuovi trattamenti non offrano prestazioni al ribasso e siano adeguatamente rapportati al costo della vita.
9/2660-A/60Fedriga.


   La Camera,
   premesso che:
    i commi 3 e 4 recano una delega al Governo in materia di servizi per l'impiego e di politiche attive per il lavoro;
    il comma 3 indica le finalità della delega, che sarebbe finalizzata a garantire la fruizione dei servizi essenziali in materia di politiche attive per il lavoro su tutto il territorio nazionale, nonché a garantire l'esercizio unitario delle relative funzioni amministrative. Il comma 4 individua i princìpi ed i criteri direttivi per l'esercizio della delega;
    in considerazione dell'importanza delle politiche attive, le previsioni contenute nel Jobs Act rappresentano un esempio della volontà del Governo di non voler migliorare la situazione attuale, determinando una inversione di tendenza;
    le politiche attive del lavoro sono costituite dal complesso di misure volte a favorire e promuovere l'inserimento del lavoratore nel mondo del lavoro. Le competenze su di esse appartengono soprattutto ai centri per l'impiego, la cui riforma, non procrastinabile, avrebbe dovuto essere completata già da tempo e certamente prima che partisse la Garanzia Giovani, l'unica iniziativa degli ultimi anni con considerevoli risorse economiche a disposizione. Purtroppo per l'incapacità dei Governi Letta e Renzi la Garanzia Giovani è inesorabilmente destinata al fallimento, come più volte denunciato, e non raggiungerà gli obiettivi che si prefiggeva;
    i centri per l'impiego operano a livello provinciale, nel quadro dell'attività di programmazione definita dalle regioni. Il livello minimo delle prestazioni che devono garantire è stato ridefinito dalla legge Fornero sul mercato del lavoro. Anche se il sistema di collocamento è stato liberalizzato dalla legge Biagi e con il decreto-legge 98 del 2011 sono stati ulteriormente ampliati i soggetti che possono fare da intermediari, permane la preminenza dei centri per l'impiego in materia di politiche attive;
    di recente una iniziativa dell'Unione Europea sul miglioramento dei servizi di intermediazione, soprattutto attraverso la messa in comune delle buone prassi, ha portato – a giugno 2014 – alla decisione n. 573/2014/UE, su una cooperazione rafforzata dei servizi per l'impiego (SPI). Lo scopo è quello di formalizzare la rete di collaborazione attualmente esistente e funzionante su base volontaria. Gli SPI devono anche contribuire alla riforma di EURES, la piattaforma informatica comune che ha la finalità di permettere l'incontro, da un lato, delle offerte di lavoro e, dall'altro, delle domande di lavoro e dei curricula (CV);
    ad eccezione delle risorse a disposizione della Garanzia Giovani, la spesa italiana per le politiche attive è inesistente rispetto a quella per le politiche passive e rispetto alle risorse investite nel resto dell'Europa. In assenza di un incremento delle risorse a favore delle politiche attive, la situazione non migliorerà, neanche se si facesse la migliore delle riforme possibili;
    dall'analisi dei dati elaborati da Eurostat risulta che la spesa dell'Italia per le politiche del lavoro è stata pari all'1,99 per cento del PIL (circa 31 miliardi di euro) nel 2012 (in crescita rispetto all'1,7 per cento del 2011), di poco superiore alla media dei 28 Paesi dell'Unione europea (1,89 per cento) e alla Germania (1,67 per cento). Tuttavia, ciò che differenzia notevolmente l'Italia dagli altri Paesi europei è la ripartizione della spesa per le politiche del lavoro tra le sue diverse componenti (servizi per il lavoro, politiche attive e politiche passive), con una spesa per politiche attive assai ridotta al confronto di quella per politiche passive (sostegni al reddito e prepensionamenti);
    la spesa sostenuta nel 2011 per i servizi per il lavoro è pari solo all'1,8 per cento del totale degli stanziamenti per le politiche del lavoro nel loro complesso (pari allo 0,03 per cento del PIL nel 2011 sceso ulteriormente allo 0,025 nel 2012), del tutto fuori misura rispetto alla media dell'UE a 28 (19,2 per cento) e alla Germania (19,2 per cento). Si tratta di una spesa circa 5 volte inferiore alla media UE e 11 volte inferiore alla Germania (se noi spendiamo 500 milioni, la Germania spende 5 miliardi);
    le politiche attive del lavoro sono un fattore cruciale per il mercato del lavoro, ma i numeri elencati fanno riflettere sul fatto che l'Italia non dispone di risorse umane sufficienti a svilupparle presso i centri per l'impiego;
    i lavoratori hanno bisogno di un continuo processo di riqualificazione, di formazione, orientamento, bilancio delle competenze, presa in carico: servono risorse umane e investimenti, che non sono previste né nel Jobs Act, né nella legge di stabilità;
    la spesa attuale per le politiche attive, essendo irrisoria, è quasi del tutto assorbita dai costi dei centri per l'impiego. Tuttavia, nei nostri centri per l'impiego lavorano in tutto circa 8.600 persone, di cui 1.500 precari, mentre in Germania i dipendenti pubblici che lavorano per l'agenzia del lavoro sono 110.000;
    il Rapporto sul Mercato del Lavoro CNEL del 30 settembre 2014 a pag. 207-208 sottolinea: “Andando ad osservare la componente dello sforzo (lo staff) risulta che anche in questo caso, chi ha investito di più sono stati Francia e Germania, che hanno incrementato, rispettivamente, il numero di operatori dei Servi” per l'impiego (Spi) di circa 22 mila e di 18 mila unità. Anche per questa componente Irlanda e Italia si distinguono per una riduzione dell'impegno: circa 300 unità in meno la prima e oltre l.500 per la seconda (ndr. L'Italia). Queste ultime informazioni consentono di rimeditare le evidenze relative alla capacità collocativa degli Spi analizzata in precedenza. Se infatti si rapporta il numero di quanti hanno trovato un'occupazione tramite il canale pubblico con la spesa ad esso dedicata, le evidenze mutano notevolmente. [...] su questo fronte, la vera sorpresa è il nostro Paese, ove il costo per singolo intermediato è tra i più bassi. Sia detto per inciso che i dati relativi all'Italia smentiscono ampiamente recenti analisi, rimbalzate sulla stampa, che hanno lamentato lo spreco delle risorse pubbliche destinate agli Spi (Servizi per l'impiego).”;
    si può concludere che i centri per l'impiego svolgono un lavoro encomiabile pur con risorse umane ridottissime, in presenza di un aumento consistente dell'utenza (percettori di ammortizzatori sociali in deroga e gestione programma Garanzia Giovani);
    tuttavia, continuando a tagliare le risorse umane, ad esempio non rinnovando i contratti del personale precario occupato presso i centri, molti dei quali scadranno il 31 dicembre 2014, si otterrà l'effetto di distruggere quanto oggi viene fatto e di non consentire un'espansione delle politiche attive;
    infatti, il mancato rinnovo dei predetti contratti determinerà la dispersione delle competenze acquisite da lavoratori che da così tanto tempo svolgono servizio presso i centri per l'impiego;
    invece, serve garantire che i loro contratti vengano tutti effettivamente rinnovati, fino alla stabilizzazione con il passaggio dei dipendenti, per effetto di trasferimento di attività, da un ente pubblico ad un altro, garantendo l'applicazione dell'articolo 2112 del codice civile, con conseguente mantenimento da parte del dipendente trasferito dei diritti acquisiti in precedenza e la stabilizzazione dei loro contratti;
    pochi mesi fa, l'accordo tra Stato e Regioni, in attuazione del comma 91 dell'articolo 1 della Legge 56/2014, ha mantenuto la situazione dei lavoratori dei centri per l'impiego ancori ad enti senza prospettive come le province. Per le quali non solo si riafferma – nella Legge di Stabilità – l'impossibilità di procedere ad assunzioni a tempo indeterminato, ma che spesso non sono neppure in grado di garantire economicamente la proroga dei predetti contratti in scadenza, nonostante la presenza di requisiti di legge per la stabilizzazione;
    i numeri elencati e la situazione descritta sono molto eloquenti e dimostrano quanto improbabili sono i confronti fatti con la Germania, dalla quale si vogliono importare modelli e sistemi che in Italia non hanno possibilità di innestarsi, in assenza di riforme strutturali e complessive che siano accompagnate dallo stanziamento delle risorse necessarie,

impegna il Governo

ad adottare un provvedimento con carattere di urgenza che disponga la stabilizzazione di tutti gli operatori dei centri per l'impiego con contratti a tempo indeterminato, prevedendo altresì un aumento del personale impiegato presso i centri per l'impiego, al fine di impedire la Garanzia Giovani fallisca i suoi obiettivi, come sta avvenendo, e garantire un vero sviluppo delle politiche attive del lavoro.
9/2660-A/61Ferrara, Daniele Farina, Airaudo, Placido, Sannicandro.


   La Camera,
   premesso che:
    in Italia 19 milioni di persone utilizzano i mezzi di trasporto per raggiungere il luogo di lavoro (di questi 16 milioni utilizzano l'auto). Il tempo impiegato per raggiungere il luogo di lavoro è di 15 minuti per 9.5 milioni di persone, oltre 30 minuti per 4 milioni di persone (dati ISTAT);
    una maggiore diffusione del telelavoro consentirebbe di ridurre drasticamente gli spostamenti legati alla necessità di recarsi sul luogo di lavoro, con indubbi vantaggi a favore del lavoratore e delle imprese;
    i vantaggi connessi alla diffusione del telelavoro sono infatti molteplici: miglioramento della qualità della vita lavorativa (riduzione dello stress, possibilità di autogestirsi), maggiore equilibrio tra lavoro, famiglia e tempo libero, riduzione degli spostamenti quotidiani che si riflettono positivamente sull'ambiente, oltre ad una maggiore qualità delle prestazioni lavorative;
    i vantaggi individuali si traducono anche in vantaggi sociali; riduzione del traffico, superamento dei limiti legati ai trasporti, i costi sociali degli stessi, riduzione degli impatti ambientali per le emissioni delle CO2, riduzione degli incidenti e dello stress dovuti agli spostamenti quotidiani;
    una recente ricerca prodotta dall'Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano stima che l'adozione di pratiche di smart working in Italia potrebbe significare 27 miliardi in più di produttività e 10 miliardi in meno di costi fissi;
    dall'altra, però, nonostante i comprovati benefici, la forma principale per lavorare a distanza, il telelavoro, è effettivamente uno strumento ancora scarsamente utilizzato nelle imprese italiane: lo studio del Politecnico riporta che il telelavoro è presente nel 20 per cento delle imprese ma disponibile a tutti i lavoratori solo nel 2 per cento dei casi e nel 2013 la percentuale dei telelavoratori per più di un quarto del loro tempo lavorativo è stata appena il 6,1 per cento;
    il motivo di tale scarso utilizzo del telelavoro è riconducibile, oltre che ad alcune resistenze culturali legate all'impossibilità del datore di lavoro di controllare il dipendente, anche ad una normativa molto rigida e restrittiva sull'argomento, che non tiene conto dell'evoluzione degli strumenti tecnologici a disposizione e che espone l'impresa interessata ad adottare il telelavoro a costi e rischi troppo elevati, ad esempio in materia di sicurezza sul lavoro,

impegna il Governo

a introdurre incentivi di natura fiscale e contributiva a favore delle aziende che facciano ricorso allo strumento del telelavoro per almeno il 20 per cento dei propri dipendenti assunti a tempo indeterminato.

9/2660-A/62Cristian Iannuzzi.


   La Camera,
   premesso che:
    legalità e lavoro sono due beni comuni irrinunciabili della nostra società, radici di uno sviluppo capace di garantire benessere e coesione;
    le mafie sono prosperate anche in ragione della loro capacità di offrire lavoro a molte persone, cui non sono state spesso date altre prospettive e speranze di vita;
    combattere la criminalità organizzata con il lavoro è il nostro obiettivo e per realizzare questa missione è essenziale tutelare sotto il profilo economico i lavoratori e le lavoratrici sostenendo i costi delle aziende confiscate per le ristrutturazioni aziendali e l'emersione alla legalità;
    la confisca dei patrimoni mafiosi e la restituzione alla collettività dei beni sequestrati devono essere il prodromo di un'iniziativa più ampia, perché la repressione è necessaria, ma nel lungo periodo potrebbe dimostrarsi inefficace se i beni o le aziende confiscati sono abbandonati al loro destino dopo la loro confisca;
    la perdita del posto di lavoro che consegue in molte occasioni alla confisca dell'azienda è spesso accompagnata, nell'attuale sistema normativo, dal negato accesso agli ammortizzatori sociali, un diniego che amplifica il già ampio disagio sociale che caratterizza i territori dove la presenza della criminalità organizzata si fa sentire più forte,

impegna il Governo

   nell'ambito della delega di cui all'articolo 1, comma 2, a prestare particolare attenzione ai lavoratori, anche irregolari, delle aziende soggette a sequestro o confisca dei beni, ai sensi della normativa di contrasto alla criminalità mafiosa, affinché possano accedere agli strumenti di sostegno e di tutela;
   nell'ambito della delega di cui all'articolo 1, commi 4 e 5, a predisporre misure di carattere sanzionatorio tese ad applicare, anche retroattivamente, l'inquadramento giuridico ed economico previsto dai contratti collettivi nazionali del lavoro ai lavoratori delle aziende soggette a sequestro o confisca dei beni, ai sensi della normativa di contrasto alla criminalità mafiosa, anche attingendo dalle risorse economiche dell'azienda soggetta alla misura giudiziaria;
   nell'ambito della medesima delega di cui al periodo precedente a predisporre misure di carattere sanzionatorio tese a garantire il recupero dei mancati contributi previdenziali e assistenziali versati, per i lavoratori di cui in argomento;
   nell'ambito delle deleghe di cui all'articolo 1, a predisporre incentivi, anche di natura non fiscale, tesi a promuovere programmi formativi rivolti ai lavoratori provenienti da aziende soggette a sequestro o confisca dei beni, ai sensi della normativa di contrasto alla criminalità mafiosa.
9/2660-A/63Gadda, Fossati, Dallai, Vazio, Ermini, Beni, Morani, Famiglietti.


   La Camera,
   premesso che:
    legalità e lavoro sono due beni comuni irrinunciabili della nostra società, radici di uno sviluppo capace di garantire benessere e coesione;
    le mafie sono prosperate anche in ragione della loro capacità di offrire lavoro a molte persone, cui non sono state spesso date altre prospettive e speranze di vita;
    combattere la criminalità organizzata con il lavoro è il nostro obiettivo e per realizzare questa missione è essenziale tutelare sotto il profilo economico i lavoratori e le lavoratrici sostenendo i costi delle aziende confiscate per le ristrutturazioni aziendali e l'emersione alla legalità;
    la confisca dei patrimoni mafiosi e la restituzione alla collettività dei beni sequestrati devono essere il prodromo di un'iniziativa più ampia, perché la repressione è necessaria, ma nel lungo periodo potrebbe dimostrarsi inefficace se i beni o le aziende confiscati sono abbandonati al loro destino dopo la loro confisca;
    la perdita del posto di lavoro che consegue in molte occasioni alla confisca dell'azienda è spesso accompagnata, nell'attuale sistema normativo, dal negato accesso agli ammortizzatori sociali, un diniego che amplifica il già ampio disagio sociale che caratterizza i territori dove la presenza della criminalità organizzata si fa sentire più forte,

impegna il Governo

a valutare l'opportunità di prestare particolare attenzione ai lavoratori delle aziende soggette a sequestro o confisca dei beni, ai sensi della normativa di contrasto alla criminalità mafiosa, affinché possano accedere agli strumenti di sostegno e di tutela.
9/2660-A/63. (Testo modificato nel corso della seduta).  Gadda, Fossati, Dallai, Vazio, Ermini, Beni, Morani, Famiglietti.


   La Camera,
   premesso che:
    in sede di esame dell'atto Camera n. 2660-A (Deleghe al Governo in materia di riforma, degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino dei rapporti di lavoro e di sostegno alla maternità e alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro); il comma 7, lettera c), prevede l'adozione di un contratto unico a tutele progressive e stabilisce nuovi criteri di valutazione per le differenti fattispecie di licenziamenti disciplinari, escludendo dalla opzione della reintegra ogni tipologia di licenziamento economico individuale anche se «manifestamente infondato» per i quali è previsto unicamente un indennizzo di carattere economico,

impegna il Governo

   a prevedere, prima dell'adozione del decreto attuativo in materia, un monitoraggio del numero di cause effettivamente avviate nel corso degli ultimi due anni sulla casistica specifica dei licenziamenti economici e disciplinari e a riferire al Parlamento circa gli esiti di tale consultazione;
   a realizzare, sulla base del citato monitoraggio, una consultazione formale delle rappresentanze economiche e sociali al fine di cogliere eventuali suggerimenti in merito alla stesura del decreto relativo.
9/2660-A/64Cuperlo.


   La Camera,
   premesso che:
    in sede di esame dell'atto Camera n. 2660-A (Deleghe al Governo in materia di riforma, degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino dei rapporti di lavoro e di sostegno alla maternità e alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro); il comma 7, lettera c), prevede l'adozione di un contratto unico a tutele progressive e stabilisce nuovi criteri di valutazione per le differenti fattispecie di licenziamenti disciplinari, escludendo dalla opzione della reintegra ogni tipologia di licenziamento economico individuale anche se «manifestamente infondato» per i quali è previsto unicamente un indennizzo di carattere economico,

impegna il Governo

ad adoperarsi al fine di effettuare un monitoraggio del numero di cause effettivamente avviate nel corso degli ultimi due anni sulla casistica specifica dei licenziamenti economici e disciplinari e a mettere a disposizione delle competenti Commissioni parlamentari gli esiti di tale consultazione.
9/2660-A/64. (Testo modificato nel corso della seduta).  Cuperlo.


   La Camera,
   premesso che:
    all'articolo 1 vengono previste disposizioni in materia di riordino dei contratti di lavoro;
   considerato che le situazioni di disagio lavorativo sono in costante aumento: una percentuale compresa tra il 50 e il 60 per cento delle giornate lavorative perse in un anno è correlata allo stress lavorativo;
    secondo studi condotti dalla «European Agency for Safety and Health at Work» sono cinque le aree di variabili che rendono emergenti i rischi psicosociali e al primo posto c’è: 1) l'utilizzo di nuove forme di contratto di lavoro (contratti flessibili) e l'incertezza e l'insicurezza del lavoro stesso; 2) forza lavoro sempre più vecchia per mancanza di adeguato turn over; 3) gli alti carichi di lavoro; 4) la tensione emotiva elevata; 5) le interferenze e squilibrio tra lavoro e vita privata;
    il ricorso a forme di contratto di lavoro a tempo determinato e flessibile costituisce dunque un fattore di rischio per il lavoratore;
    è necessario conoscere e monitorare i fattori lavorativi di stress ed in particolare lo stress derivante dall'utilizzo dei contratti di lavoro flessibile e le conseguenze sulla qualità della vita e sul benessere psicosociale del lavoratore anche al fine di prevenire pesanti ricadute economiche sulle aziende e sulle economie nazionali derivanti dal rischio psicosociale di stress che subisce il lavoratore precario,

impegna il Governo

a valutare l'opportunità di istituire – senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica – una Commissione di analisi e studio formata da esperti per le finalità di monitoraggio, contrasto e prevenzione delle conseguenze sulla qualità della vita, sui fattori lavorativi di stress e sugli effetti derivanti dalla condizione sociale di lavoratore assunto a tempo determinato e flessibile.
9/2660-A/65Agostinelli.


   La Camera,
   premesso che:
    il comma 9, lettera g) prevede la ricognizione delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, ai fini di poterne valutare la revisione, per garantire una maggiore flessibilità dei relativi congedi favorendo le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, anche tenuto conto della funzionalità organizzativa all'interno delle imprese,

impegna il Governo

a prevedere, nell'ambito della definizione dei decreti attuativi della delega di cui al comma 9 in parola, un tavolo di confronto con le parti sociali al fine di predisporre una disciplina, coerente con quella vigente in altri Stati dell'Unione europea in materia di congedi parentali.
9/2660-A/66Cancelleri.


   La Camera,
   premesso che:
    il comma 9, lettera g) prevede la ricognizione delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, ai fini di poterne valutare la revisione, per garantire una maggiore flessibilità dei relativi congedi favorendo le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, anche tenuto conto della funzionalità organizzativa all'interno delle imprese,

impegna il Governo

a valutare l'opportunità di istituire un tavolo di confronto con le parti sociali al fine di predisporre una disciplina, coerente con quella vigente in altri Stati dell'Unione europea in materia di congedi parentali.
9/2660-A/66. (Testo modificato nel corso della seduta).  Cancelleri.


   La Camera,
   premesso che:
    in relazione alla formulazione delle norme di delega, il disegno di legge, come sottolineato dal comitato per la legislazione, contiene disposizioni nelle quali i principi e criteri direttivi appaiono presentare elementi di sovrapposizione con l'oggetto della delega; disposizioni nelle quali i principi e criteri direttivi appaiono generici; disposizioni nelle quali i principi e criteri direttivi sono indicati in termini di finalità della delega; disposizioni che non individuano con precisione l'effettiva portata dell'oggetto della delega,

impegna il Governo

a tenere in considerazione, in sede di emanazione dei decreti legislativi, ulteriori elementi emersi successivamente all'espressione del parere da parte delle competenti Commissioni parlamentari.
9/2660-A/67Pesco.


   La Camera,
   premesso che:
    in relazione alla formulazione delle norme di delega, il disegno di legge, come sottolineato dal comitato per la legislazione, contiene disposizioni nelle quali i principi e criteri direttivi appaiono presentare elementi di sovrapposizione con l'oggetto della delega; disposizioni nelle quali i principi e criteri direttivi appaiono generici; disposizioni nelle quali i principi e criteri direttivi sono indicati in termini di finalità della delega; disposizioni che non individuano con precisione l'effettiva portata dell'oggetto della delega,

impegna il Governo

a valutare l'opportunità di prendere in considerazione, in sede di emanazione dei decreti legislativi, ulteriori elementi emersi successivamente all'espressione del parere da parte delle competenti Commissioni parlamentari.
9/2660-A/67. (Testo modificato nel corso della seduta).  Pesco.


   La Camera,
   premesso che:
    il comma 7 reca una delega al Governo per il riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e delle tipologie dei relativi contratti,

impegna il Governo

  ad attivarsi per la creazione di nuovi posti di lavoro tramite il telelavoro, prevedendo in particolare:

   b) l'adozione del telelavoro nella pubblica amministrazione e nelle aziende private;
   c) l'aumento delle competenze e le capacità professionali dei lavoratori tramite meccanismi tradizionali ed innovativi di formazione ed orientamento;
   d) la promozione di nuove forme di organizzazione del lavoro basate sulla conciliazione tra vita e lavoro nel settore pubblico e privato, anche attraverso lo smart working e il co-working.
9/2660-A/68Cozzolino.


   La Camera,
   premesso che:
    il comma 7 reca una delega al Governo per il riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e delle tipologie dei relativi contratti,

impegna il Governo

   a) a promuovere il ricorso allo strumento del telelavoro nella pubblica amministrazione e nelle aziende private;
   b) a favorire l'aumento delle competenze e delle capacità professionali dei lavoratori;
   c) a promuovere nuove forme di organizzazione del lavoro.
9/2660-A/68. (Testo modificato nel corso della seduta).  Cozzolino.


   La Camera,
   premesso che:
    il comma 3 reca una delega al Governo in materia di servizi per l'impiego e di politiche attive per il lavoro. La delega deve essere esercitata entro sei mesi dall'entrata in vigore della presente legge;
    si stabilisce che detto riordino debba essere inteso, in generale, a garantire la fruizione dei servizi essenziali in materia di politica attiva per il lavoro su tutto il territorio nazionale, attraverso l'esercizio unitario delle relative funzioni amministrative. Qualora non si raggiunga l'intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome, il Consiglio dei ministri provvede con deliberazione motivata. Il comma 4, alla lettera u) prevede il mantenimento in capo alle regioni ed alle Province autonome delle competenze in materia di programmazione delle suddette politiche attive del lavoro,

impegna il Governo

ad adottare nell'ambito delle proprie competenze iniziative normative volte a prevedere che le regioni, nell'esercizio delle proprie competenze legislative e amministrative, utilizzino, nell'ambito della copertura dei costi, i contributi del Fondo sociale europeo, provvedendo al rimborso alle imprese di quote predeterminate, corrispondenti al costo standard di mercato dei servizi di assistenza intensiva all'incontro fra domanda e offerta nel mercato del lavoro.
9/2660-A/69Colonnese.


   La Camera,
   premesso che:
    all'articolo 1 vengono previste disposizioni in materia di sostegno alla genitorialità; la funzione sociale della maternità continua ad essere penalizzata rispetto all'accesso e alla permanenza nel mercato del lavoro, ciò è imputabile a diversi fattori quali l'iniqua distribuzione dei carichi di lavoro familiare, la persistente carenza dei servizi per l'infanzia, le forme di discriminazione sul lavoro subite dalle donne madri o in gravidanza, l'insufficienza delle reti di aiuto formale (asili nido e strutture per l'infanzia);
    la peculiarità del nostro Paese è ravvisabile nel ricorso intenso alla rete di aiuti informale e alla solidarietà intergenerazionale. Sei bambini su dieci sono affidati ai nonni quando la madre lavora. Questo avviene principalmente per la carenza di servizi per l'infanzia;
    l'offerta di asili nido, misurata rispetto al numero dei bambini di età inferiore ai tre anni, mostra tuttavia differenze rilevanti nel livello di attivazione territoriale del servizio. La loro carenza, soprattutto al Sud e nelle Isole, condiziona decisamente il rapporto con il lavoro delle donne, al punto tale che 564 mila donne inattive hanno dichiarato che sarebbero disponibili a lavorare e a cercare lavoro, in presenza di servizi sociali adeguati; tra le donne occupate, 160 mila passerebbero da un regime orario part-time a full-time;
    l'interruzione dell'attività lavorativa dovuta alla nascita di un figlio può comportare un rischio elevato di non reinserirsi nel mondo del lavoro, o di rimanerne a lungo al di fuori. Tra le donne che nel corso della vita hanno smesso di lavorare, il 17,7 per cento lo ha fatto per la nascita del figlio;
    emerge in tutta evidenza la necessità di tutelare i diritti della donna nella fase della vita in cui deve conciliare l'essere madre con la sua partecipazione alla vita attiva e produttiva,

impegna il Governo

a porre in essere stringenti e specifiche iniziative di carattere normativo volte ad agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro delle donne.
9/2660-A/70Carinelli.


   La Camera,
   premesso che:
    all'articolo 1 vengono previste disposizioni in materia di sostegno alla genitorialità; la funzione sociale della maternità continua ad essere penalizzata rispetto all'accesso e alla permanenza nel mercato del lavoro, ciò è imputabile a diversi fattori quali l'iniqua distribuzione dei carichi di lavoro familiare, la persistente carenza dei servizi per l'infanzia, le forme di discriminazione sul lavoro subite dalle donne madri o in gravidanza, l'insufficienza delle reti di aiuto formale (asili nido e strutture per l'infanzia);
    la peculiarità del nostro Paese è ravvisabile nel ricorso intenso alla rete di aiuti informale e alla solidarietà intergenerazionale. Sei bambini su dieci sono affidati ai nonni quando la madre lavora. Questo avviene principalmente per la carenza di servizi per l'infanzia;
    l'offerta di asili nido, misurata rispetto al numero dei bambini di età inferiore ai tre anni, mostra tuttavia differenze rilevanti nel livello di attivazione territoriale del servizio. La loro carenza, soprattutto al Sud e nelle Isole, condiziona decisamente il rapporto con il lavoro delle donne, al punto tale che 564 mila donne inattive hanno dichiarato che sarebbero disponibili a lavorare e a cercare lavoro, in presenza di servizi sociali adeguati; tra le donne occupate, 160 mila passerebbero da un regime orario part-time a full-time;
    l'interruzione dell'attività lavorativa dovuta alla nascita di un figlio può comportare un rischio elevato di non reinserirsi nel mondo del lavoro, o di rimanerne a lungo al di fuori. Tra le donne che nel corso della vita hanno smesso di lavorare, il 17,7 per cento lo ha fatto per la nascita del figlio;
    emerge in tutta evidenza la necessità di tutelare i diritti della donna nella fase della vita in cui deve conciliare l'essere madre con la sua partecipazione alla vita attiva e produttiva,

impegna il Governo

ad adottare iniziative normative volte ad agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro delle donne.
9/2660-A/70. (Testo modificato nel corso della seduta).  Carinelli.


   La Camera,
   premesso che:
    è nota la necessità di riformare e di rendere più efficienti i centri per l'impiego, i cui servizi sono carenti e spesso non idonei a contrastare l'attuale grave crisi economica e occupazionale. Le criticità rilevate nelle procedure dei centri per l'impiego dipendono, in particolare, dall'assenza di idonei standard minimi di prestazione dei servizi, nonché dalla mancanza di una chiara definizione delle competenze che il personale deve possedere per erogare servizi orientati alla persona, che deve essere sostenuta nelle difficili e diverse fasi di transizione del proprio percorso professionale e lavorativo. Queste attività, che hanno lo scopo di orientare l'individuo e di stabilire un progetto per il reinserimento al lavoro, devono essere svolte esclusivamente da personale in possesso di idonee competenze;
    a tale riguardo, i dati emersi da un'indagine svolta nel 2013 dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, relativa al livello di istruzione dei dipendenti dei centri per l'impiego rileva, per l'appunto, la bassa percentuale di dipendenti che hanno completato un percorso di laurea e di post laurea, con una divergenza significativa dei dati percentuali tra le regioni;
    dunque, nella riforma dei centri per l'impiego obiettivo fondamentale deve essere quello di adottare misure che agiscano sulla qualità delle prestazioni offerte, nell'ambito delle quali il personale deve essere in grado di favorire efficacemente l'incontro tra offerta e domanda di lavoro garantendo standard minimi di prestazioni,

impegna il Governo

a stabilire le specifiche competenze e i titoli abilitanti che deve possedere il personale che svolge i servizi orientati alla persona e la gestione dell'insieme dei sistemi e delle procedure destinate al supporto e all'orientamento al lavoro ai fini del ricollocamento degli iscritti nel mercato del lavoro.
9/2660-A/71Dell'Orco.


   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 1, comma 9, reca disposizioni in materia di flessibilità dell'orario di lavoro al fine di favorire la conciliazione tra l'esercizio delle responsabilità genitoriali e l'attività lavorativa anche tenuto conto della funzionalità organizzativa all'interno delle imprese;
    l'articolo 2109 del codice civile prevede disposizioni in materia di ferie e il decreto legislativo n. 66 del 2003 disposizioni in materia di orario di lavoro;
    il lavoro e in particolare l'organizzazione del lavoro è fortemente cambiata per effetto delle nuove tecnologie: per molti lavoratori non sarebbe più necessario recarsi direttamente sul posto di lavoro per «timbrare il cartellino» ma l'avvento delle nuove tecnologie consente al dipendente di poter svolgere la medesima prestazione lavorativa anche fuori dai locali dell'azienda e in orari «non convenzionali» purché il lavoratore porti a termine l'obiettivo stabilito alle scadenze previste;
   in tali casi si parla di smart working che consente una nuova modalità di esecuzione della prestazione lavorativa al di fuori dei locali dell'azienda ma anche con una flessibilità in particolare dell'orario di lavoro scelto liberamente e determinato dal prestatore di lavoro;
   è dunque necessario un intervento che rafforzi non solo la possibilità e le modalità di esecuzione della prestazione al di fuori dei locali dell'azienda ma anche le modalità di organizzazione della prestazione lavorativa in termini di flessibilità dell'orario di lavoro consentendo al lavoratore – compatibilmente con le esigenze produttive del datore di lavoro – di liberamente determinare e scegliere i tempi e gli orari di esecuzione della propria prestazione lavorativa anche in funzione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e degli obiettivi stabiliti e senza pregiudizio dell'attività produttiva: in tali casi si parla di «orario scorrevole»,

impegna il Governo

ad adottare ogni iniziativa, anche di tipo normativo, volta ad introdurre la possibilità per il lavoratore di determinare liberamente l'inizio e il termine dell'orario di lavoro giornaliero per lo svolgimento della prestazione lavorativa nell'ambito di una fascia di presenza obbligatoria compatibilmente con le esigenze organizzative e produttive del datore di lavoro.
9/2660-A/72Chimienti.


   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 1, comma 9, reca disposizioni in materia di flessibilità dell'orario di lavoro al fine di favorire la conciliazione tra l'esercizio delle responsabilità genitoriali e l'attività lavorativa anche tenuto conto della funzionalità organizzativa all'interno delle imprese;
    l'articolo 2109 del codice civile prevede disposizioni in materia di ferie e il decreto legislativo n. 66 del 2003 disposizioni in materia di orario di lavoro;
    il lavoro e in particolare l'organizzazione del lavoro è fortemente cambiata per effetto delle nuove tecnologie: per molti lavoratori non sarebbe più necessario recarsi direttamente sul posto di lavoro per «timbrare il cartellino» ma l'avvento delle nuove tecnologie consente al dipendente di poter svolgere la medesima prestazione lavorativa anche fuori dai locali dell'azienda e in orari «non convenzionali» purché il lavoratore porti a termine l'obiettivo stabilito alle scadenze previste;
   in tali casi si parla di smart working che consente una nuova modalità di esecuzione della prestazione lavorativa al di fuori dei locali dell'azienda ma anche con una flessibilità in particolare dell'orario di lavoro scelto liberamente e determinato dal prestatore di lavoro;
   è dunque necessario un intervento che rafforzi non solo la possibilità e le modalità di esecuzione della prestazione al di fuori dei locali dell'azienda ma anche le modalità di organizzazione della prestazione lavorativa in termini di flessibilità dell'orario di lavoro consentendo al lavoratore – compatibilmente con le esigenze produttive del datore di lavoro – di liberamente determinare e scegliere i tempi e gli orari di esecuzione della propria prestazione lavorativa anche in funzione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e degli obiettivi stabiliti e senza pregiudizio dell'attività produttiva: in tali casi si parla di «orario scorrevole»,

impegna il Governo

a favorire la flessibilità dell'orario di lavoro compatibilmente con le esigenze organizzative e produttive del datore di lavoro.
9/2660-A/72. (Testo modificato nel corso della seduta).  Chimienti.


   La Camera,
   premesso che:
    la parità di genere è uno dei capisaldi dell'Unione europea. In particolare, la parità retributiva è un principio sancito dai trattati sin dal 1957 e trova attuazione nella direttiva 2006/54/CE sull'uguaglianza di trattamento fra uomini e donne, in materia di occupazione e impiego. Tuttavia, nonostante la parità salariale sia già prevista dalla legislazione vigente, sussiste di fatto un netto divario salariale tra donne e uomini, che riflette le discriminazioni e le disuguaglianze sul mercato del lavoro che colpiscono ancora e soprattutto le donne. Difatti, si registra che le donne percepiscono in media il 16 per cento in meno all'ora rispetto agli uomini; mentre su base annuale il divario raggiunge addirittura il 31 per cento, considerando che il lavoro a tempo parziale molto più diffuso tra le donne. È, dunque, inaccettabile che, a parità di qualifiche o anche rispetto a posizioni lavorative migliori rispetto a quelle degli uomini, le competenze delle donne non ricevano lo stesso riconoscimento e la loro carriera professionale sia più lenta. Tra l'altro, poiché le donne percepiscono una retribuzione oraria inferiore e accumulano un minor numero di ore di lavoro nel corso della loro vita rispetto agli uomini, anche l'importo delle loro pensioni è ridotto. Di conseguenza, tra gli anziani vi sono più donne che uomini in stato di povertà. Ad oggi, ogni iniziativa per contrastare la discriminazione in questione è risultata vana, e a tale scopo, si evidenzia che è risultato inidoneo anche l'insediamento di un Comitato pari opportunità presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. È quindi necessario accrescere la trasparenza salariale e adottare concrete iniziative, anche di controllo, per contrastare il fenomeno della disparità salariale di genere, contribuendo a promuovere e facilitare l'effettiva applicazione del principio della parità retributiva,

impegna il Governo

a promuovere iniziative concrete che prevedano un periodico monitoraggio e verifica da parte del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dei contratti di lavoro stipulati da soggetti privati, al fine di rimuovere le discriminazioni retributive dei contratti di lavoro, anche disponendo la pubblicazione di un rapporto semestrale sullo stato di attuazione dell'uguaglianza salariale tra uomo e donna in conformità alla normativa vigente.
9/2660-A/73Rizzetto.


   La Camera,
   premesso che:
    la parità di genere è uno dei capisaldi dell'Unione europea. In particolare, la parità retributiva è un principio sancito dai trattati sin dal 1957 e trova attuazione nella direttiva 2006/54/CE sull'uguaglianza di trattamento fra uomini e donne, in materia di occupazione e impiego. Tuttavia, nonostante la parità salariale sia già prevista dalla legislazione vigente, sussiste di fatto un netto divario salariale tra donne e uomini, che riflette le discriminazioni e le disuguaglianze sul mercato del lavoro che colpiscono ancora e soprattutto le donne. Difatti, si registra che le donne percepiscono in media il 16 per cento in meno all'ora rispetto agli uomini; mentre su base annuale il divario raggiunge addirittura il 31 per cento, considerando che il lavoro a tempo parziale molto più diffuso tra le donne. È, dunque, inaccettabile che, a parità di qualifiche o anche rispetto a posizioni lavorative migliori rispetto a quelle degli uomini, le competenze delle donne non ricevano lo stesso riconoscimento e la loro carriera professionale sia più lenta. Tra l'altro, poiché le donne percepiscono una retribuzione oraria inferiore e accumulano un minor numero di ore di lavoro nel corso della loro vita rispetto agli uomini, anche l'importo delle loro pensioni è ridotto. Di conseguenza, tra gli anziani vi sono più donne che uomini in stato di povertà. Ad oggi, ogni iniziativa per contrastare la discriminazione in questione è risultata vana, e a tale scopo, si evidenzia che è risultato inidoneo anche l'insediamento di un Comitato pari opportunità presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. È quindi necessario accrescere la trasparenza salariale e adottare concrete iniziative, anche di controllo, per contrastare il fenomeno della disparità salariale di genere, contribuendo a promuovere e facilitare l'effettiva applicazione del principio della parità retributiva,

impegna il Governo

a promuovere iniziative che prevedano un periodico monitoraggio e verifica da parte del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dei contratti di lavoro stipulati da soggetti privati, anche disponendo la pubblicazione di un rapporto che tenga conto dell'effettiva uguaglianza di condizioni di lavoro tra uomo e donna.
9/2660-A/73. (Testo modificato nel corso della seduta).  Rizzetto.


   La Camera,
   premesso che:
    è caratteristica comune di ogni tecnologia quella di cambiare, talvolta sensibilmente, talvolta in maniera radicale, il modo di produrre, di organizzare e di fare lavoro;
    il mondo dell'impresa sta cambiando in maniera profonda attraverso utilizzo sempre più frequente e integrato di dispositivi con tecnologia mobile, quali smartphone e tablet;
    quello che in lingua inglese viene definito bring your own device (BYOD) non è altro che il fenomeno, già in voga da alcuni anni, soprattutto nel mondo anglosassone e nel nord Europa, che permette ai lavoratori d'azienda di portare i propri dispositivi personali nel posto di lavoro;
    l'adozione di tale pratica permette la creazione di nuove opportunità per la forza lavoro, incrementa la soddisfazione dei lavoratori e riduce i costi evitando altre spese, secondo un rapporto Gartner (maggio 2013);
    la tendenza è in costante crescita tanto che entro il 2017 il 38 per cento delle imprese a livello globale prevede di interrompere la fornitura di dispositivi aziendali ai dipendenti introducendo programmi BYOD (dati Gartner);
    il più grande deterrente da parte delle aziende ad applicare tale policy è rappresentato dal timore di perdita di dati aziendali. Infatti a livello europeo la sicurezza delle informazioni è la preoccupazione maggiore delle imprese: 145 per cento degli intervistati (report Oracle 2014) teme per la sicurezza dei dispositivi, il 53 per cento per quella delle applicazioni e il 63 per cento per quella dei dati;
   considerato che:
    stando all'European BYOD index di Oracle, l'Italia è il Paese fanalino di coda in Europa per quanto riguarda adozione di politiche aziendali BYOD, dovuto soprattutto ad una mancanza di educazione digitale e di scarsa conoscenza sui sistemi per a protezione dei dati, a differenza di Paesi come Germania e Svizzera, in testa alle classifiche di utilizzo;
    a beneficiare di questa organizzazione sono soprattutto medie e grandi imprese, ma, ad esempio, solo una grande azienda italiana su quattro ha confermato di aver aggiornato la propria policy sul Byod (il 17 per cento) o ha in programma di farlo (il 10 per cento) (fonte Il Sole 24 Ore);
    sempre secondo Gartner, come riportato da La Stampa «negli Stati Uniti le probabilità che un'azienda assuma una strategia BYOD sono doppie rispetto all'Europa che ha il tasso di introduzione più bassa a livello globale» e ancora «in India, Cina e Brasile i dipendenti hanno più chance di ottenere il permesso di utilizzare il proprio dispositivo»;
    il mancato adeguarsi delle nostre aziende rischia di porle in una situazione di svantaggio competitive che è destinato ad aumentare in maniera esponenziale con il passare del tempo, condizionando così il sistema produttivo;
    per garantire il successo di una gestione di tipo BYOD è fondamentale che le aziende si dotino di un sistema di sussidio per non gravare in maniera discriminante sui propri dipendenti, dunque guadagnando riducendo i costi di gestione, ma che, sempre secondo i dati Gartner, la diffusione del modello BYOD accompagnata ad una riduzione delle tariffe su mobile porterà ad un abbattimento dei costi di acquisto di dispositivi che nel medio periodo faranno venir meno la necessità dei contributi aziendali;
    una variazione del modello BYOD è rappresentata dalla tendenza riconosciuta con l'acronimo COPE (Corporate Owned Personally Enabled) che prevede l'acquisto del dispositivo da parte dell'azienda, poi personalizzabile ad utilizzabile anche in privato da parte del dipendente, garantendo una maggior sicurezza delle informazioni,

impegna il Governo

a valutare l'opportunità di emanare appositi provvedimenti per incentivare la Pubblica Amministrazione e le imprese a permettere ai lavoratori di utilizzare dispositivi elettronici personali, o personalizzabili di proprietà aziendale e concessi in comodato d'uso gratuito al lavoratore, sul posto di lavoro al fine di migliorarne la condizione lavorativa e di conseguenza la produttività, a meno che non vi siano particolari necessità di sicurezza che ne impediscano l'uso.
9/2660-A/74Coppola, Quintarelli.


   La Camera,
   premesso che all'articolo 1 vengono previste disposizioni in materia di riordino dei contratti di lavoro;
   considerato che:
    il telelavoro rappresenta una fattispecie poco utilizzata, ma interessante dal punto di vista della qualità della vita e dei conseguenti risparmi da parte della collettività, nonché sul piano della salute, riducendosi di circa 1,5 milioni di tonnellate, le emissioni di CO2;
    la possibilità per un datore di lavoro di installare postazioni all'esterno dell'azienda, in situazioni di co-working, ovverosia di condivisione degli spazi lavorativi, migliora la conciliazione dei tempi di lavoro e di vita del lavoratore, producendo un notevole risparmio per il datore di lavoro, che può beneficiare dell'aumento della produttività, stimata in media del 5,5 per cento, il che assicurerebbe una maggiore ricchezza per 27 miliardi alle aziende interessate, a cui bisognerebbe aggiungere 10 miliardi di costi in meno, derivanti dai suddetti spazi aziendali ridotti;
    in Italia esiste un numero esiguo di imprenditori che abbia utilizzato il telelavoro;
    uno dei maggiori fornitori di spazi per il lavoro flessibile, Regus, ha esaminato il grado di diffusione del telelavoro, analizzando le risposte date da 26 mila dirigenti d'azienda di 90 Paesi diversi. Tale indagine ha evidenziato che quasi la metà (il 46 per cento) dei manager ha dichiarato di lavorare in maniera flessibile per il 50 per cento delle ore settimanali, con un rimbalzo di produttività fino a + 76 per cento registrato dalle società italiane che hanno adottato schemi più elastici nell'organizzazione della giornata lavorativa;
   i feedback sono anche emotivi: il 66 per cento degli intervistati si dice più motivato nell'alternanza casa-azienda, il 25 per cento la ritiene cruciale per la responsabilizzazione di giovani alla prima esperienza contrattuale,

impegna il Governo

a valutare le misure applicative della suddetta tipologia contrattuale, prevedendo strumenti incentivanti a favore del datore di lavoro disposto a ricorrere o implementare il telelavoro.
9/2660-A/75Mantero.


   La Camera,
   premesso che:
    all'articolo 1 vengono previste disposizioni in materia di riordino dei contratti di lavoro;
    le supposte «azioni riformatrici» contenute nel provvedimento in titolo appaiono interventi di destrutturazione della certezza del diritto del lavoro e di, conseguente, ulteriore precarizzazione;
    la situazione economica e finanziaria del nostro Paese è molto preoccupante e le iniziative finora assunte dal Governo hanno rappresentato una risposta debole e non sono del tutto adeguata alle aspettative dell'intero tessuto sociale e produttivo del Paese;
    l'incapacità di mantenere alti livelli di competitività e la mancanza di attrazione del mercato interno si sta inesorabilmente riflettendo sull'andamento del mercato del lavoro;
    la situazione del mercato del lavoro è alquanto drammatica: secondo gli ultimi dati Istat (febbraio 2014) il numero di disoccupati è pari a 3 milioni 307 mila, con un aumento dello 0,2 per cento rispetto al mese precedente(8 mila) e del 9 per cento su base annua (272 mila). Il tasso di disoccupazione giovanile (fascia 15-24 anni) è pari al 42,3 per cento (678 mila) senza conteggiare nella disoccupazione anche i lavoratori cassintegrati, i quali difficilmente torneranno ad occupare il proprio posto di lavoro o troveranno nuovi posti di lavoro e gli inattivi; si tratta di 15 milioni di persone, prevalentemente giovani, donne e, lavoratori maturi (50 e 60 anni d'età);
   l'obiettivo del tasso di occupazione al 75 per cento indicato dalla Unione europea appare, per tutte queste ragioni, lontanissimo, a partire dall'attuale 57,2 per cento, in riduzione di 0,8 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente; anche la sua rimodulazione al 67-69 per cento in ragione dei bassi livelli di partenza appare difficilmente raggiungibile; essa implicherebbe infatti una crescita di occupati di quasi 2 milioni e settecentomila unità nel periodo, a fronte di centinaia di migliaia di persone che escono dal mercato del lavoro;
   un contributo significativo all'andamento negativo del sistema Paese è dato, poi, dall'accentuazione degli squilibri territoriali e dai cronici problemi del Mezzogiorno che dopo anni di costante riduzione del gap con le altre aree territoriali del Paese è tornato ora a regredire in tutti fondamentali macroeconomici;
   valutato che:
    il decreto legge 25 giugno 2013, n. 76, «Primi interventi urgenti per la promozione dell'occupazione, in particolare giovanile, della coesione sociale, nonché in materia di imposta sul valore aggiunto (IVA) e altre misure» all'articolo 4, ai commi 1 e 2, reca misure dirette ad accelerare procedure per la riprogrammazione dei programmi nazionali cofinanziati dai Fondi strutturali europei 2007-2013 e per la rimodulazione del Piano di Azione Coesione, al fine di rendere disponibili le risorse necessarie per il finanziamento degli interventi a favore dell'occupazione giovanile e dell'inclusione sociale nel Mezzogiorno (disposti, rispettivamente, dall'articolo 1, comma 12, lett. a), e dall'articolo 3, commi 1 e 2, del decreto-legge) per un importo complessivo pari a 995 milioni di euro negli anni 2013-2016. L'operatività delle suddette misure incentivanti decorre soltanto dalla data di perfezionamento dei rispettivi atti di riprogrammazione;
    l'inclusione sociale e l'occupazione sono strettamente connessi con la ripresa imprenditoriale;
    è necessario incentivare i datori di lavoro che effettuano assunzioni, con contratto di lavoro a tempo indeterminato,

impegna il Governo

a rendere cogenti e disporre provvedimenti che rendano applicate le raccomandazioni dell'Unione europea in tempi certi.
9/2660-A/76Nesci.


   La Camera,
   premesso che:
    all'articolo 1 vengono previste disposizioni in materia di riordino dei contratti di lavoro;
    le supposte «azioni riformatrici» contenute nel provvedimento in titolo appaiono interventi di destrutturazione della certezza del diritto del lavoro e di, conseguente, ulteriore precarizzazione;
    la situazione economica e finanziaria del nostro Paese è molto preoccupante e le iniziative finora assunte dal Governo hanno rappresentato una risposta debole e non sono del tutto adeguata alle aspettative dell'intero tessuto sociale e produttivo del Paese;
    l'incapacità di mantenere alti livelli di competitività e la mancanza di attrazione del mercato interno si sta inesorabilmente riflettendo sull'andamento del mercato del lavoro;
    la situazione del mercato del lavoro è alquanto drammatica: secondo gli ultimi dati Istat (febbraio 2014) il numero di disoccupati è pari a 3 milioni 307 mila, con un aumento dello 0,2 per cento rispetto al mese precedente(8 mila) e del 9 per cento su base annua (272 mila). Il tasso di disoccupazione giovanile (fascia 15-24 anni) è pari al 42,3 per cento (678 mila) senza conteggiare nella disoccupazione anche i lavoratori cassintegrati, i quali difficilmente torneranno ad occupare il proprio posto di lavoro o troveranno nuovi posti di lavoro e gli inattivi; si tratta di 15 milioni di persone, prevalentemente giovani, donne e, lavoratori maturi (50 e 60 anni d'età);
   l'obiettivo del tasso di occupazione al 75 per cento indicato dalla Unione europea appare, per tutte queste ragioni, lontanissimo, a partire dall'attuale 57,2 per cento, in riduzione di 0,8 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente; anche la sua rimodulazione al 67-69 per cento in ragione dei bassi livelli di partenza appare difficilmente raggiungibile; essa implicherebbe infatti una crescita di occupati di quasi 2 milioni e settecentomila unità nel periodo, a fronte di centinaia di migliaia di persone che escono dal mercato del lavoro;
   un contributo significativo all'andamento negativo del sistema Paese è dato, poi, dall'accentuazione degli squilibri territoriali e dai cronici problemi del Mezzogiorno che dopo anni di costante riduzione del gap con le altre aree territoriali del Paese è tornato ora a regredire in tutti fondamentali macroeconomici;
   valutato che:
    il decreto legge 25 giugno 2013, n. 76, «Primi interventi urgenti per la promozione dell'occupazione, in particolare giovanile, della coesione sociale, nonché in materia di imposta sul valore aggiunto (IVA) e altre misure» all'articolo 4, ai commi 1 e 2, reca misure dirette ad accelerare procedure per la riprogrammazione dei programmi nazionali cofinanziati dai Fondi strutturali europei 2007-2013 e per la rimodulazione del Piano di Azione Coesione, al fine di rendere disponibili le risorse necessarie per il finanziamento degli interventi a favore dell'occupazione giovanile e dell'inclusione sociale nel Mezzogiorno (disposti, rispettivamente, dall'articolo 1, comma 12, lett. a), e dall'articolo 3, commi 1 e 2, del decreto-legge) per un importo complessivo pari a 995 milioni di euro negli anni 2013-2016. L'operatività delle suddette misure incentivanti decorre soltanto dalla data di perfezionamento dei rispettivi atti di riprogrammazione;
    l'inclusione sociale e l'occupazione sono strettamente connessi con la ripresa imprenditoriale;
    è necessario incentivare i datori di lavoro che effettuano assunzioni, con contratto di lavoro a tempo indeterminato,

impegna il Governo

a valutare l'opportunità di adottare provvedimenti che rendano applicate le raccomandazioni dell'Unione europea in tempi certi.
9/2660-A/76. (Testo modificato nel corso della seduta).  Nesci.


   La Camera,
   premesso che all'articolo 1 vengono previste disposizioni in materia di riordino dei contratti di lavoro;
   il provvedimento impatta in maniera poco incisiva sul settore del lavoro agricolo che al contrario, merita una revisione attenta specie in considerazione delle particolari caratteristiche sia contrattuali che in termini di retribuzione che esso presenta;
   il caporalato è un fenomeno criminale avente ad oggetto lo sfruttamento della manodopera con metodi illegali e la sua forma più diffusa è quella che riguarda la manodopera agricola nella quale, secondo il primo Rapporto su caporalato e agromafie realizzato da Flai Cgil, sarebbero coinvolti circa 400 mila lavoratori, il più delle volte braccianti stagionali;
   il caporalato è un reato perseguibile penalmente essendo considerato un «reato spia» di infiltrazioni criminali nel settore agricolo: si stima che il giro d'affari connesso alle agromafie sia compreso tra i 12 e i 17 miliardi di euro, il 5-10 per cento di tutta l'economia mafiosa, per la maggior parte giocato tra la contraffazione dei prodotti alimentari e il caporalato;
   quello del lavoro nero è un fenomeno che offende la dignità delle persone e che per questo, in un Paese civile, merita di essere contrastato in ogni modo;
   con il fine di contrastare il fenomeno del caporalato la Camera dei Deputati, lo scorso 7 agosto 2013, ha approvato un ordine del giorno che impegna il Governo ad avviare azioni concrete, ma sinora nessun atto ufficiale è stato posto in essere,

impegna il Governo

a prevedere urgentemente incentivi ad hoc per la manodopera agricola così da abbassare il costo del lavoro e disincentivare il ricorso al lavoro nero da parte degli imprenditori agricoli.
9/2660-A/77Gagnarli.


   La Camera,
   premesso che all'articolo 1 vengono previste disposizioni in materia di riordino dei contratti di lavoro;
   il provvedimento impatta in maniera poco incisiva sul settore del lavoro agricolo che al contrario, merita una revisione attenta specie in considerazione delle particolari caratteristiche sia contrattuali che in termini di retribuzione che esso presenta;
   il caporalato è un fenomeno criminale avente ad oggetto lo sfruttamento della manodopera con metodi illegali e la sua forma più diffusa è quella che riguarda la manodopera agricola nella quale, secondo il primo Rapporto su caporalato e agromafie realizzato da Flai Cgil, sarebbero coinvolti circa 400 mila lavoratori, il più delle volte braccianti stagionali;
   il caporalato è un reato perseguibile penalmente essendo considerato un «reato spia» di infiltrazioni criminali nel settore agricolo: si stima che il giro d'affari connesso alle agromafie sia compreso tra i 12 e i 17 miliardi di euro, il 5-10 per cento di tutta l'economia mafiosa, per la maggior parte giocato tra la contraffazione dei prodotti alimentari e il caporalato;
   quello del lavoro nero è un fenomeno che offende la dignità delle persone e che per questo, in un Paese civile, merita di essere contrastato in ogni modo;
   con il fine di contrastare il fenomeno del caporalato la Camera dei Deputati, lo scorso 7 agosto 2013, ha approvato un ordine del giorno che impegna il Governo ad avviare azioni concrete, ma sinora nessun atto ufficiale è stato posto in essere,

impegna il Governo

ad adoperarsi al fine di prevedere agevolazioni per la manodopera agricola.
9/2660-A/77. (Testo modificato nel corso della seduta).  Gagnarli.


   La Camera,
   premesso che all'articolo 1 vengono previste disposizioni in materia di riordino dei contratti di lavoro;
   considerato che si rende necessario rafforzare la tutela dei lavoratori al momento della cessazione del rapporto di lavoro in caso di mancata trasformazione del contratto a tempo determinato di cui al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, incrementando la quota del trattamento di fine rapporto di cui all'articolo 2120 del codice civile,

impegna il Governo

a disciplinare la cessazione del rapporto di lavoro a tempo determinato riconoscendo un aumento della quota del trattamento di fine rapporto per queste categorie di lavoratori.
9/2660-A/78Crippa.


   La Camera,
   premesso che:
    all'articolo 1 vengono previste disposizioni in materia di riordino dei contratti di lavoro;
    che secondo l'ISFOL la media delle retribuzioni dei lavoratori, con contratto a termine sono inferiori del 28 per cento rispetto a quelle dei lavoratori subordinati con contratto a tempo indeterminato;
    tenuto conto che l'istituzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti amplierà i rischi derivanti dall'instabilità nel posto di lavoro,

impegna il Governo

a prevedere normative che regolino le retribuzioni dei lavoratori, anche sotto forma di indennità e bonus temporanei, ricollegabili e proporzionati alla tipologia precaria del contratto di lavoro.
9/2660-A/79Di Battista.


   La Camera,
   premesso che:
    all'articolo 1 vengono previste disposizioni in materia di riordino dei contratti di lavoro;
    che secondo l'ISFOL la media delle retribuzioni dei lavoratori, con contratto a termine sono inferiori del 28 per cento rispetto a quelle dei lavoratori subordinati con contratto a tempo indeterminato;
    tenuto conto che l'istituzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti amplierà i rischi derivanti dall'instabilità nel posto di lavoro,

impegna il Governo

a valutare l'opportunità di adoperarsi al fine di prevedere normative che regolino le retribuzioni dei lavoratori, anche sotto forma di indennità e bonus temporanei, ricollegabili e proporzionati alla tipologia precaria del contratto di lavoro.
9/2660-A/79. (Testo modificato nel corso della seduta)  Di Battista.


   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 3 del disegno di legge in esame reca disposizioni di delega al Governo in materia di semplificazione delle procedure e degli adempimenti;
   considerato che:
    il decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, all'articolo 10, comma 1, istituisce, al fine di razionalizzare gli interventi ispettivi di tutti gli organi di vigilanza sul territorio, una banca dati telematica che raccoglie le informazioni e approfondimenti sulle dinamiche del mercato del lavoro e strutture materie oggetto di aggiornamento e di formazione permanente del personale ispettivo;
    il decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, all'articolo 8, istituisce, il sistema informativo nazionale per la prevenzione (SINP) nei luoghi di lavoro al fine di fornire dati utili per orientare, programmare, pianificare e valutare l'efficacia dell'attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, relativamente ai lavoratori iscritti e non iscritti agli enti assicurativi pubblici, e per indirizzare le attività di vigilanza, attraverso l'utilizzo integrato delle informazioni disponibili negli attuali sistemi informativi, anche tramite l'integrazione di specifici archivi e la creazione di banche dati unificate;
    la situazione attuale del sistema di vigilanza in materia di lavoro e previdenza presenta una sovrapposizione e duplicazione di controlli da parte dei diversi soggetti istituzionali, dotati attualmente di analoghi poteri;
    attualmente, con riferimento alla vigilanza in materia di lavoro si delineano diverse sovrapposizioni: per quanto concerne l'azione di contrasto al lavoro nero può intervenire il personale ispettivo del Ministero del lavoro, dell'Inps, dell'Inail, della Guardia di Finanza mentre, con riferimento alla vigilanza in materia di salute e sicurezza sul Lavoro, possono sovrapporsi il personale ispettivo del Ministero del lavoro, dell'Inail e dei Servizi per la prevenzione e la sicurezza negli ambienti di lavoro (SPSAL) delle ASL;
    la molteplicità di soggetti coinvolti è causa di confusione di ruoli, sovrapposizione di interventi, disomogeneità di valutazione e incertezza da parte delle aziende, disuguaglianza di trattamento per imprese e lavoratori;
    l'esperienza dell'Agenzia delle Entrate, disciplinata con il decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, potrebbe essere una esperienza positiva da cui trarre best practice;
    sono passati dieci anni dall'istituzione della banca dati telematica di cui all'articolo 10, comma 1, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, senza che sia ancora stata messa in funzione e se ne possa beneficiare al fine di razionalizzare gli interventi ispettivi di tutti gli organi di vigilanza sul territorio;
    sono passati sei anni dall'istituzione del Sistema Informativo Nazionale per la Prevenzione (SINP) di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, senza che se ne possa beneficiare al fine di fornire dati utili per orientare, programmare, pianificare e valutare l'efficacia dell'attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali,

impegna il Governo:

   a valutare l'opportunità di porre in essere ogni atto necessario al fine di unificare tutta la materia dei controlli in tema di lavoro in un'unica struttura esclusiva – sul modello delle Agenzie istituite con il decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 – al fine di razionalizzare le ispezioni svolte e dare una maggiore sicurezza agli imprenditori nella corretta gestione delle loro imprese e delle conseguenze derivanti dalla violazione delle norme;
   a porre in essere nell'immediato, e comunque entro e non oltre il gennaio 2015, ogni atto necessario a rendere effettiva l'operatività del Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro (SINP);
   a porre in essere nell'immediato e comunque entro e non oltre il 1o gennaio 2015, ogni atto necessario a rendere effettiva l'operatività della banca dati telematica di cui all'articolo 10, comma 1, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124.
9/2660-A/80Barbanti.


   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 3 del disegno di legge in esame reca disposizioni di delega al Governo in materia di semplificazione delle procedure e degli adempimenti;
   considerato che:
    il decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, all'articolo 10, comma 1, istituisce, al fine di razionalizzare gli interventi ispettivi di tutti gli organi di vigilanza sul territorio, una banca dati telematica che raccoglie le informazioni e approfondimenti sulle dinamiche del mercato del lavoro e strutture materie oggetto di aggiornamento e di formazione permanente del personale ispettivo;
    il decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, all'articolo 8, istituisce, il sistema informativo nazionale per la prevenzione (SINP) nei luoghi di lavoro al fine di fornire dati utili per orientare, programmare, pianificare e valutare l'efficacia dell'attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, relativamente ai lavoratori iscritti e non iscritti agli enti assicurativi pubblici, e per indirizzare le attività di vigilanza, attraverso l'utilizzo integrato delle informazioni disponibili negli attuali sistemi informativi, anche tramite l'integrazione di specifici archivi e la creazione di banche dati unificate;
    la situazione attuale del sistema di vigilanza in materia di lavoro e previdenza presenta una sovrapposizione e duplicazione di controlli da parte dei diversi soggetti istituzionali, dotati attualmente di analoghi poteri;
    attualmente, con riferimento alla vigilanza in materia di lavoro si delineano diverse sovrapposizioni: per quanto concerne l'azione di contrasto al lavoro nero può intervenire il personale ispettivo del Ministero del lavoro, dell'Inps, dell'Inail, della Guardia di Finanza mentre, con riferimento alla vigilanza in materia di salute e sicurezza sul Lavoro, possono sovrapporsi il personale ispettivo del Ministero del lavoro, dell'Inail e dei Servizi per la prevenzione e la sicurezza negli ambienti di lavoro (SPSAL) delle ASL;
    la molteplicità di soggetti coinvolti è causa di confusione di ruoli, sovrapposizione di interventi, disomogeneità di valutazione e incertezza da parte delle aziende, disuguaglianza di trattamento per imprese e lavoratori;
    l'esperienza dell'Agenzia delle Entrate, disciplinata con il decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, potrebbe essere una esperienza positiva da cui trarre best practice;
    sono passati dieci anni dall'istituzione della banca dati telematica di cui all'articolo 10, comma 1, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, senza che sia ancora stata messa in funzione e se ne possa beneficiare al fine di razionalizzare gli interventi ispettivi di tutti gli organi di vigilanza sul territorio;
    sono passati sei anni dall'istituzione del Sistema Informativo Nazionale per la Prevenzione (SINP) di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, senza che se ne possa beneficiare al fine di fornire dati utili per orientare, programmare, pianificare e valutare l'efficacia dell'attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali,

impegna il Governo:

   a valutare l'opportunità di porre in essere ogni atto necessario al fine di unificare tutta la materia dei controlli in tema di lavoro in un'unica struttura esclusiva – sul modello delle Agenzie istituite con il decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 – al fine di razionalizzare le ispezioni svolte e dare una maggiore sicurezza agli imprenditori nella corretta gestione delle loro imprese e delle conseguenze derivanti dalla violazione delle norme;
   a porre in essere nell'immediato, e comunque entro e non oltre il gennaio 2015, ogni atto necessario a rendere effettiva l'operatività del Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro (SINP);
   a porre in essere in tempi congrui ogni atto necessario a rendere effettiva l'operatività della banca dati telematica di cui all'articolo 10, comma 1, del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124.
9/2660-A/80. (Testo modificato nel corso della seduta)  Barbanti.


   La Camera,
   premesso che:
    sono circa 200.000 i lavoratori autonomi iscritti alla gestione previdenziale separata dell'INPS (disciplinata all'articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335);
    i lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata INPS sono da sempre una categoria previdenziale residuale rispetto agli iscritti all'assicurazione generale obbligatoria e agli altri lavoratori autonomi iscritti in altre casse previdenziali;
    molte delle figure professionali rientranti nella summenzionata categoria operano nell'ambito dell'economia della conoscenza (informatici, consulenti, grafici, interpreti) e si contraddistinguono per una elevata professionalità e capacità di innovazione;
    questa categoria di lavoratori, obbligata al versamento nella gestione separata, rappresenta realtà diversificate e contraddistinte da una pervadente precarietà ed è quindi tra quelle maggiormente colpite dalla crisi economica e dai suoi effetti a lungo termine;
   i lavoratori autonomi titolari di partite IVA individuali versano una contribuzione pari al 27,72 per cento del reddito (aliquota modificata dall'articolo 22, comma 1, della Legge n. 183 del 2011) e che tale aliquota è destinata ad aumentare al 33 per cento progressivamente fino al 2018 in applicazione delle disposizioni contenute nella legge n. 92 del 2012;
   considerato che:
    gli iscritti alla gestione separata sono in maggioranza lavoratori autonomi che percepiscono meno di 30.000 euro l'anno e lavorano con pubbliche amministrazioni e aziende;
    il carico fiscale e contributivo complessivo nei confronti di tali soggetti ammonta a circa 60 per cento delle loro entrate, rendendo particolarmente gravoso l'ulteriore aumento della contribuzione previdenziale;
    il versamento della contribuzione previdenziale per i lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata è demandato interamente al lavoratore stesso, senza diritto di rivalsa obbligatoria da parte del committente;
    il progressivo aumento comporterà ulteriori chiusure di partite IVA causa insostenibilità dei costi in relazione al fatturato;
    un sondaggio svolto dall'Associazione Consulenti del Terziario Avanzato condotto nel 2012 svela che circa un quarto degli interpellati sostiene di non avere un reddito sufficiente a mantenersi, un altro 47,7 per cento di avere un reddito appena sufficiente a sopravvivere e che complessivamente il 27 per cento dichiara di riuscire ad arrivare a fine mese solo grazie al reddito del partner; il 12,8 per cento grazie ai genitori;
    la categoria summenzionata non gode di alcuna forma di ammortizzatori sociali, e le relative associazioni di rappresentanza sono di fatto escluse dai tavoli di concertazione,

impegna il Governo

a impedire l'aumento dell'aliquota contributiva previsto dalle disposizioni della legge n. 92 del 2012; a riordinare l'intero sistema delle aliquote contributive per la categoria dei lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata, in vista di una perequazione con i restanti lavoratori autonomi.
9/2660-A/81Alberti.


   La Camera,
   premesso che:
    sono circa 200.000 i lavoratori autonomi iscritti alla gestione previdenziale separata dell'INPS (disciplinata all'articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335);
    i lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata INPS sono da sempre una categoria previdenziale residuale rispetto agli iscritti all'assicurazione generale obbligatoria e agli altri lavoratori autonomi iscritti in altre casse previdenziali;
    molte delle figure professionali rientranti nella summenzionata categoria operano nell'ambito dell'economia della conoscenza (informatici, consulenti, grafici, interpreti) e si contraddistinguono per una elevata professionalità e capacità di innovazione;
    questa categoria di lavoratori, obbligata al versamento nella gestione separata, rappresenta realtà diversificate e contraddistinte da una pervadente precarietà ed è quindi tra quelle maggiormente colpite dalla crisi economica e dai suoi effetti a lungo termine;
   i lavoratori autonomi titolari di partite IVA individuali versano una contribuzione pari al 27,72 per cento del reddito (aliquota modificata dall'articolo 22, comma 1, della Legge n. 183 del 2011) e che tale aliquota è destinata ad aumentare al 33 per cento progressivamente fino al 2018 in applicazione delle disposizioni contenute nella legge n. 92 del 2012;
   considerato che:
    gli iscritti alla gestione separata sono in maggioranza lavoratori autonomi che percepiscono meno di 30.000 euro l'anno e lavorano con pubbliche amministrazioni e aziende;
    il carico fiscale e contributivo complessivo nei confronti di tali soggetti ammonta a circa 60 per cento delle loro entrate, rendendo particolarmente gravoso l'ulteriore aumento della contribuzione previdenziale;
    il versamento della contribuzione previdenziale per i lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata è demandato interamente al lavoratore stesso, senza diritto di rivalsa obbligatoria da parte del committente;
    il progressivo aumento comporterà ulteriori chiusure di partite IVA causa insostenibilità dei costi in relazione al fatturato;
    un sondaggio svolto dall'Associazione Consulenti del Terziario Avanzato condotto nel 2012 svela che circa un quarto degli interpellati sostiene di non avere un reddito sufficiente a mantenersi, un altro 47,7 per cento di avere un reddito appena sufficiente a sopravvivere e che complessivamente il 27 per cento dichiara di riuscire ad arrivare a fine mese solo grazie al reddito del partner; il 12,8 per cento grazie ai genitori;
    la categoria summenzionata non gode di alcuna forma di ammortizzatori sociali, e le relative associazioni di rappresentanza sono di fatto escluse dai tavoli di concertazione,

impegna il Governo

a valutare l'opportunità di impedire l'aumento dell'aliquota contributiva previsto dalle disposizioni della legge n. 92 del 2012 e di riordinare l'intero sistema delle aliquote contributive per la categoria dei lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata, in vista di una perequazione con i restanti lavoratori autonomi.
9/2660-A/81. (Testo modificato nel corso della seduta)  Alberti.


   La Camera,
   in sede di esame di Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro;
   premesso che:
    con il referendum del 1995 è stata prevista l'abrogazione dell'articolo 26, comma 2 e comma 3 della legge 20 maggio 1970, n. 300;
    tuttavia, l'istituto del rinnovo tacito delle deleghe sindacali e del versamento dei contributi sindacali da parte dei lavoratori è in alcuni casi disciplinato dalla contrattazione collettiva;
    tale istituto incide fortemente sulla capacità negoziale delle associazioni sindacali e quindi sulla gestione dei rapporti di lavoro,

impegna il Governo

a subordinare il versamento dei contributi sindacali al consenso, rinnovato annualmente, del lavoratore e del pensionato, prevedendo espressamente il divieto per la rinnovazione tacita delle deleghe sindacali, in attuazione del referendum del 1995, tutelando tutte le organizzazioni sindacali, anche minori, esistenti sul territorio italiano.
9/2660-A/82Cominardi.


   La Camera,
   premesso che:
    nel nostro ordinamento non è prevista una clausola di salvaguardia a tutela dei diritti dei lavoratori, al fine del mantenimento del trattamento retributivo e normativo maturato dai lavoratori, in caso di subentro di nuovo appaltatore;
    in questo senso, l'articolo 2112 del codice civile riconosce la tutela del lavoratore in caso di trasferimento d'azienda ovvero di ramo d'azienda, ma non in caso di successione d'imprese nel caso di appalto con il medesimo committente, anche pubblica amministrazione,

impegna il Governo

a prevedere l'introduzione di una legislazione volta a salvaguardare i livelli occupazionali, ed i trattamenti retributivi e normativi dei lavoratori, maturati e previsti dalla contrattazione collettiva, in caso di successione di imprese nel contratto di appalto con il medesimo committente.
9/2660-A/83Prodani.


   La Camera,
   premesso che:
    nel nostro ordinamento non è prevista una clausola di salvaguardia a tutela dei diritti dei lavoratori, al fine del mantenimento del trattamento retributivo e normativo maturato dai lavoratori, in caso di subentro di nuovo appaltatore;
    in questo senso, l'articolo 2112 del codice civile riconosce la tutela del lavoratore in caso di trasferimento d'azienda ovvero di ramo d'azienda, ma non in caso di successione d'imprese nel caso di appalto con il medesimo committente, anche pubblica amministrazione,

impegna il Governo

ad adoperarsi al fine di prevedere l'introduzione di una legislazione volta a salvaguardare i livelli occupazionali, ed i trattamenti retributivi e normativi dei lavoratori, maturati e previsti dalla contrattazione collettiva, in caso di successione di imprese nel contratto di appalto con il medesimo committente.
9/2660-A/83. (Testo modificato nel corso della seduta)  Prodani.


   La Camera,
   premesso che:
    al comma 9 dell'articolo 1, non sono state previste norme volte a migliorare la conciliazione dei tempi di lavoro e vita privata del lavoratore per quanto concerne la determinazione del periodo di riposo previsto dall'articolo 2109 del codice civile; in particolare, la legge riconosce all'imprenditore la determinazione delle ferie da comunicarsi al prestatore di lavoro, tenuto conto delle esigenze dello stesso; pertanto, vi è la necessità, anche mediante lo strumento del telelavoro e la riduzione dell'orario di lavoro, di permettere una maggiore conciliazione tra vita e lavoro modificando l'istituto della determinazione delle ferie,

impegna il Governo

al fine di migliorare la qualità e la quantità del lavoro, prevedere una legislazione volta ad invertire il principio espresso dall'articolo 2109 del codice civile, riconoscendo al prestatore di lavoro il diritto di determinare il proprio periodo di riposo, senza pregiudizio per l'azienda e di concerto con gli altri dipendenti.
9/2660-A/84Artini.


   La Camera,
   premesso che:
    il comma 4, lettera b) prevede la razionalizzazione degli incentivi per l'autoimpiego e l'autoimprenditorialità, (di cui al decreto legislativo n. 185 del 2000) con una cornice giuridica nazionale intesa a costituire il punto di riferimento anche per gli interventi posti in essere da regioni e province autonome;
    considerato che gli incentivi a favore dell'autoimprenditorialità sono destinati prevalentemente ai giovani ed alle donne, ai fini della costituzione di imprese di piccola dimensione o ai fini di ampliamenti aziendali; gli incentivi messi a disposizione per l'autoimpiego sono invece destinati prevalentemente ai soggetti privi di occupazione residenti nelle aree depresse, ai fini della creazione di attività di lavoro autonomo o della costituzione di microimprese o della creazione di iniziative di autoimpiego in forma di franchising,

impegna il Governo

a prevedere, in uno dei decreti attuativi della delega di cui al citato comma 4, lettera b), l'attuazione di misure finanziarie per il potenziamento di programmi regionali in favore delle piccole e medie imprese femminili, finalizzate al cofinanziamento di appositi programmi regionali per lo sviluppo dell'imprenditoria femminile.
9/2660-A/85Cariello.


   La Camera,
   premesso che:
    il comma 4, lettera b) prevede la razionalizzazione degli incentivi per l'autoimpiego e l'autoimprenditorialità, (di cui al decreto legislativo n. 185 del 2000) con una cornice giuridica nazionale intesa a costituire il punto di riferimento anche per gli interventi posti in essere da regioni e province autonome;
    considerato che gli incentivi a favore dell'autoimprenditorialità sono destinati prevalentemente ai giovani ed alle donne, ai fini della costituzione di imprese di piccola dimensione o ai fini di ampliamenti aziendali; gli incentivi messi a disposizione per l'autoimpiego sono invece destinati prevalentemente ai soggetti privi di occupazione residenti nelle aree depresse, ai fini della creazione di attività di lavoro autonomo o della costituzione di microimprese o della creazione di iniziative di autoimpiego in forma di franchising,

impegna il Governo

a valutare l'opportunità di prevedere, in uno dei decreti attuativi della delega di cui al citato comma 4, lettera b), l'attuazione di misure finanziarie per il potenziamento di programmi regionali in favore delle piccole e medie imprese femminili, finalizzate al cofinanziamento di appositi programmi regionali per lo sviluppo dell'imprenditoria femminile.
9/2660-A/85. (Testo modificato nel corso della seduta)  Cariello.


   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 1, comma 4, 6 e 7, reca disposizioni in materia di razionalizzazione degli enti strumentali e degli uffici del Ministero del lavoro e delle politiche sociali allo scopo di aumentare l'efficienza e l'efficacia dell'azione amministrativa, mediante l'utilizzo delle risorse umane, strumentali e finanziarie già disponibili a legislazione vigente nonché disposizioni volte a prevenire e scoraggiare il lavoro sommerso con la razionalizzazione dell'attività ispettiva;
    l'attività ispettiva con funzioni in materia di vigilanza e controllo dell'applicazione delle norme in materia di lavoro e di sicurezza e igiene sul lavoro è fondamentale per prevenire e scoraggiare il cosiddetto «lavoro nero» o lavoro sommerso nonché la piaga degli infortuni sul lavoro;
    è necessario un intervento che preveda la razionalizzazione dell'attività ispettiva e di vigilanza in materia di lavoro con la previsione di un Ruolo Unico dei funzionari di vigilanza dotati di adeguate competenze e preparazione presso una unica struttura pubblica senza maggiori o nuovi oneri per la finanza pubblica,

impegna il Governo

ad assumente le necessarie iniziative di tipo normativo finalizzate alla razionalizzazione dell'attività ispettiva e di vigilanza in materia di lavoro con la previsione di un Ruolo Unico dei funzionari di vigilanza presso una unica struttura pubblica senza maggiori o nuovi oneri per la finanza pubblica.

9/2660-A/86Lombardi.


   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 1, comma 4, 6 e 7, reca disposizioni in materia di razionalizzazione degli enti strumentali e degli uffici del Ministero del lavoro e delle politiche sociali allo scopo di aumentare l'efficienza e l'efficacia dell'azione amministrativa, mediante l'utilizzo delle risorse umane, strumentali e finanziarie già disponibili a legislazione vigente nonché disposizioni volte a prevenire e scoraggiare il lavoro sommerso con la razionalizzazione dell'attività ispettiva;
    l'attività ispettiva con funzioni in materia di vigilanza e controllo dell'applicazione delle norme in materia di lavoro e di sicurezza e igiene sul lavoro è fondamentale per prevenire e scoraggiare il cosiddetto «lavoro nero» o lavoro sommerso nonché la piaga degli infortuni sul lavoro;
    è necessario un intervento che preveda la razionalizzazione dell'attività ispettiva e di vigilanza in materia di lavoro con la previsione di un Ruolo Unico dei funzionari di vigilanza dotati di adeguate competenze e preparazione presso una unica struttura pubblica senza maggiori o nuovi oneri per la finanza pubblica,

impegna il Governo

a valutare l'opportunità di assumente le necessarie iniziative di tipo normativo finalizzate alla razionalizzazione dell'attività ispettiva e di vigilanza in materia di lavoro eventualmente con la previsione di un Ruolo Unico dei funzionari di vigilanza presso una unica struttura pubblica senza maggiori o nuovi oneri per la finanza pubblica.

9/2660-A/86. (Testo modificato nel corso della seduta)  Lombardi.


   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 1, comma 4, reca disposizioni in materia di razionalizzazione e revisione delle procedure e degli adempimenti in materia di inserimento mirato delle persone con disabilità di cui alla legge 12 marzo 1999, n. 68, e degli altri soggetti aventi diritto al collocamento obbligatorio al fine di favorire l'inserimento e l'integrazione nel mercato del lavoro;
    la legge n. 68 del 1999 è apparsa in numerosi casi inadeguata all'obiettivo della piena integrazione ed inserimento lavorativo del disabile e recentemente – con sentenza n. C-312/11 del 4 luglio 2013 della Corte di Giustizia dell'Unione europea – l'Italia è stata condannata per essere venuta meno al suo obbligo di recepire correttamente e completamente la direttiva n. 2000/78/CE che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro;
    in particolare, nel sanzionare l'Italia, la Corte europea ha osservato che è compito degli Stati membri imporre a tutti i datori di lavoro l'obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici (ad esempio sistemando i locali, adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti) in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti dell'occupazione e delle condizioni di lavoro e che consentano a tali persone di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione;
    l'insufficienza della legge n. 68 del 1999 mette in evidenza una grave discriminazione ai danni dei disabili che si vedono negato il diritto al lavoro;
    è necessario un intervento che promuova ed incentivi la assunzione e l'inserimento dei lavoratori disabili anche tramite sgravi contributi e che agiscano in maniera permanente tramite la riduzione del cosiddetto «cuneo fiscale» a favore del datore che assume lavoratori disabili,

impegna il Governo

ad adottare ogni iniziativa, anche di tipo normativo, volta a incentivare le assunzioni dei lavoratori disabili di cui alla legge 12 marzo 1999, n. 68 e degli altri soggetti aventi diritto al collocamento obbligatorio con sgravi contributi e la riduzione del cosiddetto «cuneo fiscale» a favore dei datori di lavoro che assumono lavoratori disabili.
9/2660-A/87Brugnerotto.


   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 1, comma 9, reca disposizioni in materia di flessibilità dell'orario di lavoro al fine di favorire la conciliazione tra l'esercizio delle responsabilità genitoriali e l'attività lavorativa anche tenuto conto della funzionalità organizzativa all'interno delle imprese;
    l'articolo 2109 del codice civile prevede disposizioni in materia di ferie e il decreto legislativo n. 66 del 2003 disposizioni in materia di orario di lavoro;
    il lavoro e in particolare l'organizzazione del lavoro è fortemente cambiata per effetto delle nuove tecnologie: per molti lavoratori non sarebbe più necessario recarsi direttamente sul posto di lavoro per «timbrare il cartellino» ma l'avvento delle nuove tecnologie consente al dipendente di poter svolgere la medesima prestazione lavorativa anche fuori dai locali dell'azienda e in orari «non convenzionali» purché il lavoratore porti a termine l'obiettivo stabilito alle scadenze previste;
    in tali casi si parla di smart working che consente una nuova modalità di esecuzione della prestazione lavorativa al di fuori dei locali dell'azienda ma anche con una flessibilità in particolare dell'orario di lavoro scelto liberamente e determinato dai prestatori di lavoro anche mettendo a disposizione tra di loro un monte ore;
    tale nuova modalità di organizzazione dell'orario di lavoro consentirebbe anche una migliore armonizzazione tra tempi di vita e di lavoro;
    è dunque necessario un intervento che rafforzi non solo la possibilità e le modalità di esecuzione della prestazione al di fuori dei locali dell'azienda ma anche la possibilità di organizzazione della prestazione lavorativa in termini di flessibilità dell'orario di lavoro prevedendo la possibilità di introdurre una «banca ore» che permetta all'impresa, ferma restando la retribuzione mensile, di utilizzare il lavoratore in modo variabile (a seconda delle esigenze produttive) nell'ambito di archi temporali predefiniti, e al lavoratore di godere di periodi di non lavoro da utilizzare per esigenze personali,

impegna il Governo

al fine di migliorare la qualità della vita del lavoratore e di conciliare il rapporto tra tempi di vita e di lavoro, ad adottare interventi normativi volti a introdurre la possibilità in capo al lavoratore di mettere a disposizione del datore di lavoro un monte ore per svolgere l'attività lavorativa da utilizzare in modo variabile a seconda delle esigenze produttive nell'ambito di archi temporali predefiniti ferma restando la retribuzione del lavoratore anche per i periodi di non lavoro da utilizzare per esigenze personali.
9/2660-A/88Busto.


   La Camera,
   premesso che:
    in sede di esame di Delega al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, all'articolo 1, comma 7, lettera c), sono state previste per i lavoratori norme volte alla reintegra limitate ai licenziamenti «nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato»;
    per i licenziamenti economici la possibilità di reintegra è esclusa ed è previsto «un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio»;
    in tutti i casi, saranno previsti «termini certi» per impugnare il licenziamento,

impegna il Governo

a valutare gli effetti applicativi della norma richiamata al fine di adottare ulteriori iniziative normative volte a ripristinare la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro per tutte le ipotesi di licenziamento così come stabilito all'articolo 18 della Legge 20 maggio 1970, n.300.

9/2660-A/89De Lorenzis.


   La Camera,
   premesso che:
    in sede di esame di Delega al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, non sono state previste norme volte all'abrogazione dell'articolo 8 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148;
    tale norma ha introdotto la possibilità di stipulare contratti collettivi di livello aziendale o territoriale (cosiddetti «contratti collettivi di prossimità») in grado di derogare alla legge e alla contrattazione collettiva nazionale, facilitando, tra le altre cose, i licenziamenti dei lavoratori ed aggirando l'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300;
    tale norma mette in discussione la legislazione del diritto del lavoro e indebolisce il quadro di tutele sancite nei contratti collettivi, violando, di fatto, l'accordo interconfederale unitario del 28 giugno 2011, che definisce la gerarchia delle fonti contrattuali e i riferimenti alla titolarità dei soggetti sindacali a negoziare, nonché le regole di validazione dei contratti previste nell'accordo, annullando i riferimenti per misurare la rappresentatività dei soggetti sindacali;
    in sostanza, vi un è palese svilimento dei diritti fondamentali del lavoratore, compreso il licenziamento senza giusta causa,

impegna il Governo

a valutare di poter abrogare l'articolo 8 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148.
9/2660-A/90Toninelli.


   La Camera,
   premesso che:
    in sede di esame di Delega al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, non sono state previste norme volte alla riduzione della durata del periodo dei tirocini formativi stabilita in sei mesi, dall'articolo 11, comma 1 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138;
    non sono state previste eventuali sanzioni nei casi di prolungato utilizzo del periodo stabilito per legge da parte degli imprenditori nei confronti dei tirocinanti,

impegna il Governo

a valutare di ridurre la durata dei tirocini formativi a quattro mesi prevedendo, nei casi di inosservanza di tali disposizioni, la sanzione della trasformazione dei tirocini in rapporti di lavoro subordinati a tempo indeterminato.
9/2660-A/91Dieni.


   La Camera,
   premesso che:
    in sede di esame di Delega al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, non ha previsto un miglioramento di frequenza inerente all'alternanza scuola-lavoro;
    l'articolo 4 della legge n. 53 del 28 marzo 2003, e successive modifiche riportate all'articolo 5 della legge 12 settembre 2013, n. 104, prevede per tutti gli studenti delle scuole secondarie di ogni ordine che abbiano età compresa tra i 15 e i 18 anni, la formazione attraverso l'alternanza di periodi di studio e di lavoro, sotto la responsabilità dell'istituzione scolastica o formativa, sulla base di convenzioni con imprese o con le rispettive associazioni di rappresentanza o con le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, o con enti pubblici e privati ivi inclusi quelli del terzo settore, disponibili ad accogliere gli studenti per periodi di tirocinio che non costituiscono rapporto individuale di lavoro,

impegna il Governo

a valutare di aumentare le possibilità per tutti gli studenti di età compresa tra i 15 e i 18 anni di età, di svolgere l'alternanza scuola-lavoro, al fine di migliorare l'apprendimento e i legami tra scuola e mondo del lavoro per lo sviluppo culturale, sociale ed economico; di favorire le vocazioni, gli interessi e gli stili di apprendimento individuali; di sostenere l'innovazione metodologica e didattica.
9/2660-A/92Marzana.


   La Camera,
   premesso che:
    in sede di esame di Delega al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, non ha previsto norme che vadano ad aumentare i congedi di paternità così come previsti dall'articolo 4, comma 24, lettera a), della legge 28 giugno 2012, n. 92;
    tale norma determina, per il padre lavoratore dipendente, entro i cinque mesi dalla nascita del figlio, l'obbligo di astenersi dal lavoro per un periodo limitato di un giorno e, previo accordo con la madre e in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest'ultima, di astenersi per un ulteriore periodo di due giorni anche continuativi;
    il congedo di paternità viene equiparato al congedo di maternità solo nei casi eccezionali dovuti a morte o grave infermità della madre; abbandono del figlio da parte della madre; affidamento esclusivo del figlio al padre; rinuncia totale o parziale della madre lavoratrice al congedo di maternità alla stessa spettante in caso di adozione o affidamento di minori,

impegna il Governo

a valutare l'introduzione del congedo di paternità obbligatorio, che preveda l'astensione dal lavoro per un periodo fino a 30 giorni fruibili in modo continuativo o frazionato, da concordare con l'azienda, durante il periodo del congedo di maternità,
9/2660-A/93Tripiedi.


   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 1, comma 9, reca disposizioni in materia di flessibilità dell'orario di lavoro al fine di favorire la conciliazione tra l'esercizio delle responsabilità genitoriali e l'attività lavorativa anche tenuto conto della funzionalità organizzativa all'interno delle imprese;
    il decreto legislativo n. 66 del 2003 prevede disposizioni in materia di orario di lavoro;
    il lavoro e in particolare l'organizzazione del lavoro è fortemente cambiata per effetto delle nuove tecnologie: per molti lavoratori non sarebbe più necessario recarsi direttamente sul posto di lavoro per «timbrare il cartellino» ma l'avvento delle nuove tecnologie consente al dipendente di poter svolgere la medesima prestazione lavorativa anche fuori dai locali dell'azienda e in orari «non convenzionali» purché il lavoratore porti a termine l'obiettivo stabilito alle scadenze previste anche distribuendo l'orario di esecuzione della prestazione tra più lavoratori;
    in tali casi si parla di smart working che consente una nuova modalità di esecuzione della prestazione lavorativa al di fuori dei locali dell'azienda ma anche con una flessibilità in particolare dell'orario di lavoro scelto liberamente e determinato dal prestatore di lavoro;
    tale nuova modalità di organizzazione dell'orario di lavoro consentirebbe anche una migliore armonizzazione tra tempi di vita e di lavoro;
    è dunque necessario un intervento che preveda non solo la possibilità e le modalità di esecuzione della prestazione al di fuori dei locali dell'azienda ma anche la possibilità di organizzazione della prestazione lavorativa in termini di flessibilità dell'orario di lavoro consentendo ad un gruppo di lavoratori (team) di svolgere un determinato compito o obiettivo lasciando gli stessi liberi di determinare la distribuzione oraria della prestazione,

impegna il Governo

ad adottare ogni iniziativa, anche di tipo normativo, volta a introdurre la possibilità in capo ad un gruppo (team) di lavoratori di determinare e stabilire la distribuzione oraria della propria prestazione lavorativa in funzione delle esigenze di vita di ciascuno di essi ed in funzione del raggiungimento di un determinato compito o obiettivo affidatogli dal datore di lavoro senza diminuzione della retribuzione.
9/2660-A/94Ciprini.


   La Camera,
   premesso che:
    i lavoratori a part-time verticale ciclico annuale sono lavoratori che si trovano a non aver garantita nessuna tutela nei periodi di sospensione del contratto di lavoro;
    si ritiene che non sia più rinviabile una modifica della normativa al fine di garantire l'accesso agli ammortizzatori sociali ai lavoratori suddetti in rispetto della clausola 6 dell'accordo quadro sul lavoro a tempo parziale allegato alla direttiva del consiglio 15.12.1997, 97/81/CE che permette alle legislazioni dei singoli Stati membri di attuare condizioni di maggior favore rispetto alla stessa direttiva,

impegna il Governo

a valutare l'opportunità di prevedere l'accesso alla indennità di disoccupazione per i periodi di sospensione del contratto di lavoro per i lavoratori a part-time verticale ciclico annuale.
9/2660-A/95Spessotto.


   La Camera,
   premesso che:
    nonostante i pur significativi progressi fatti negli ultimi anni, l'Italia ancora sconta un grave ritardo nell'adozione di politiche di sostegno al reddito, alla famiglia, alla maternità e della conciliazione tra vita familiare e lavoro: ciò determina, tra l'altro un aumento della disoccupazione, in particolare femminile, producendo effetti negativi per lo sviluppo e la competitività del nostro Paese;
    ancor peggiore appare il dato che vede protagonisti gli autonomi, ai quali purtroppo la legislazione non dedica la giusta attenzione: mancano ad oggi, per questa fetta di lavoratori, le giuste tutele riguardanti la malattia e la maternità;
    un autonomo/a (sia esso iscritto alla gestione separata, ad un ordine professionale, alla gestione commercianti o artigiana) per avere le relative indennità per eventi quali malattia, degenza ospedaliera e maternità, a differenza dei lavoratori subordinati devono fare i conti non solo con i minimali di contribuzione, ma anche con i mesi di contribuzione e con la natura del reddito prodotto;
    le differenze di tutele tra un subordinato e un autonomo si hanno sia riguardo l'importo erogato dall'istituto per lo stesso evento che per i giorni/periodi coperti: l'indennità di malattia, ad esempio, nell'ambito di un rapporto subordinato, è corrisposta per un massimo di 180 giorni contro i 61 previsti per il lavoratore autonomo;
    l'assegno al nucleo familiare nell'ambito del lavoro autonomo, è ridotto in base ai mesi di contribuzione, ed è erogato solo se il nucleo familiare produce un reddito composto per almeno il 70 per cento da lavoro dipendente;
    l'indennità di maternità per un autonoma è corrisposta solo in caso di effettiva sospensione dell'attività lavorativa (senza considerare i rischi in perdita di clienti che si riscontrano a seguito della sospensione dell'attività lavorativa) e nessun congedo è previsto per il padre autonomo;
    tali differenze non fanno altro che creare ancor di più lavoratori di serie A e lavoratori di serie B,

impegna il Governo:

   ad adottare in tempi rapidi le opportune iniziative legislative volte a introdurre misure di sostegno al reddito e alla famiglia uniformi e omogenee per tutte le categorie di lavoratori, equiparando, in ambito di tutele, il lavoratore autonomo a quello subordinato;
   a prevedere l'universalità dell'assegno al nucleo familiare per tutti i soggetti che creano famiglia, prescindendo dal reddito prodotto e dai mesi di contribuzione, al fine di ridurre le disuguaglianze sociali e sostenere la genitorialità;
   ad adottare e sostenere ogni iniziativa normativa volta a riformare l'attuale disciplina concernente i congedi obbligatori e parentali, prevedendone la concessione ai lavoratori autonomi, al pari dei dipendenti.
9/2660-A/96Rostellato.


   La Camera,
   premesso che:
    nel 2008 con decreto legislativo del 9 aprile, n. 81 (testo unico sicurezza lavoro) viene istituito il S.I.N.P. cioè il Sistema Informativo Nazionale per la Prevenzione nei luoghi di lavoro;
    il SINP è un programma informatico che nasce al fine di fornire dati utili per orientare, programmare, pianificare e valutare l'efficacia dell'attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, con la finalità di indirizzare le attività di vigilanza attraverso l'utilizzo integrato delle informazioni disponibile negli attuali sistemi informativi;
    dopo ben sei anni il sistema non risulta ancora attivo;
    nonostante l'impegno preso dal Governo a porre in essere entro e non oltre il 31 dicembre 2013 il funzionamento del SINP con relativa eliminazione del registro infortuni cartaceo, il 6 maggio 2014, i colleghi ricevono una nota dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali in cui si spiega che «nonostante gli sforzi di questo Governo, non è stato possibile rispettare tale termine, sia per la complessità dell'iter di approvazione sia per l'elevato numero di soggetti coinvolti in tale iter» – prosegue – «al fine dell'approvazione definitiva degli ordini del giorno espressi in premessa, rileva la mancanza di un ultimo e definitivo passaggio relativo all'acquisizione del parere positivo del garante per la protezione dei dati»;
    a seguito della nota, si richiedono ancora una volta le tempistiche previste per l'attivazione;
    in data 10 settembre, il Ministro interrogato risponde all'interrogazione confermando che il parere «condizionante» dell'Autorità della Privacy era stato già espresso il 12 giugno ma che, in ogni caso, bisognava attendere in quanto il Ministero stava predisponendo le ulteriori modifiche allo schema di decreto affinché lo stesso potesse risultare conforme alle indicazioni fornite dall'Autorità Garante;
    data l'improcrastinabile messa in funzione del sistema SINP istituito nel 2008,

impegna il Governo

a rendere operativo il SINP entro e non oltre il 31 dicembre 2014 con la relativa abrogazione della tenuta del registro infortuni.
9/2660-A/97Baldassarre, Rostellato.


   La Camera,
   premesso che:
    l'INPS, Istituto nazionale della previdenza sociale è l'ente che gestisce il sistema previdenziale in termini di imposizione, riscossione e recupero dei contributi ed in termini di erogazione di prestazioni pensionistiche sia per la generalità dei lavoratori dipendenti del settore privato e del parastatale attraverso il FPLD ovvero fondo pensioni lavoratori dipendenti sia i lavoratori autonomi (gestioni previdenziali dei lavoratori autonomi artigiani e commercianti) e sia per i parasubordinati, venditori a domicilio, professionisti senza cassa lavoratori autonomi occasionali ed associati in partecipazione attraverso la gestione separata. La gestione separata è un fondo pensionistico finanziato con i contributi previdenziali obbligatori dei lavoratori assicurati e nasce con la legge n. 335 del 1995 (articolo 2, comma 26) di riforma del sistema pensionistico, anche nota come «riforma Dini» che dispone l'iscrizione alla gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, di tutte le categorie residuali di liberi professionisti, per i quali non è prevista una specifica cassa previdenziale, delle forme di collaborazione coordinata e continuativa (cosiddetta co.co.co.), della categoria dei venditori a domicilio, ex articolo 36 della legge n. 426 del 1971;
    a tale gestione è attualmente applicato il contributo del 27,72 per cento (per i collaboratori il 28,72). Nelle collaborazioni coordinate e continuative i contributi sono per 2/3 a carico del committente e per 1/3 a carico del collaboratore. L'obbligo di versamento compete tuttavia al committente anche per la quota a carico del lavoratore, che viene pertanto trattenuta in busta paga all'atto della corresponsione del compenso;
    la «Riforma Fornero» (legge n. 92 del 2012) ha apportato delle importanti novità il cui obiettivo è stato quello di limitare l'utilizzo improprio di questa tipologia, prevedendo disincentivi sia di carattere normativo che contributivo; nello specifico, infatti, è stato previsto un graduale allineamento del costo contributivo a quello del lavoro dipendente, tale da portare tale aliquota, nel 2018 al 33 per cento;
    va sottolineato che i lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata dell'INPS, chiamati al versamento integrale di tutti i contributi a differenza di quanto avviene per i parasubordinati, continuano a versare contributi più elevati rispetto a tutti gli altri lavoratori indipendenti, liberi professionisti, commercianti, artigiani;
    è evidente che non è sostenibile l'equiparazione del professionista al parasubordinato,

impegna il Governo

ad assumere iniziative atte a creare un'unica cassa nella quale far confluire sia la gestione degli autonomi, artigiani e commercianti con la previsione di un'unica aliquota contributiva, prevedendo un aumento graduale dei contributi per i nuovi lavoratori autonomi per i primi 3/5 anni di attività in modo da agevolare l'inserimento di tali imprenditori nel mercato del lavoro sia per giovani che per soggetti di qualsiasi età che a seguito della perdita di lavoro (magari dipendente) iniziano una propria attività autonoma.
9/2660-A/98Bechis, Rostellato.


   La Camera,
   premesso che:
    l'AC 2660 reca la delega al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro;
    la semplificazione delle modalità organizzative e gestionali deve prevedere sempre più l'utilizzo dei sistemi informatici, a scapito di quelli cartacei,

impegna il Governo

ad assicurare sull'intero territorio nazionale l'utilizzo esclusivo in materia di certificazione, delle assenze dal lavoro per malattia, della certificazione in formato elettronico, evitando che si continui a mantenere in essere sia l'invio dei medico all'INPS della certificazione digitale e la presentazione della certificazione cartacea al datore di lavoro da parte della lavoratrice o lavoratore come ancora accade in alcune situazioni.
9/2660-A/99Grillo.


   La Camera,
   premesso che:
    all'articolo 1 comma 4 lettera aa) si prevede nell'ambito della valorizzazione del sistema informativo di cui alla lettera z) che questi veda la raccolta sistematica dei dati disponibili nel collocamento mirato nonché di dati relativi alle buone pratiche di inclusione lavorativa delle persone con disabilità e agli ausili e adattamenti utilizzati sui luoghi di lavoro,

impegna il Governo

ad assicurare che la raccolta dei dati previsti dall'articolo 1 comma 4 lettera aa) sia integrata anche dai dati disponibili su eventuali disservizi o inadempimenti in relazione alla normativa vigente.
9/2660-A/100Dall'Osso.


   La Camera,
   premesso che:
    all'articolo 1 comma 4 lettera g), dell'AC 2660, prevede tra i criteri della delega al Governo quella della razionalizzazione e revisione delle procedure e degli adempimenti in materia di inserimento mirato delle persone con disabilità di cui alla legge 12 marzo 1999, n. 68 al fine di favorire l'inserimento e l'integrazione nel mercato del lavoro;
    quanto proposto dal citato articolo 1 comma 4 si riscontra anche nelle linee di intervento 1 e 2 del piano d'azione biennale sulla disabilita in corso di attuazione,

impegna il Governo

a conformare l'attuazione, di quanto previsto dall'articolo 1 comma 4 lettera g), alle linee 1 e 2 del piano d'azione biennale sulla disabilità.
9/2660-A/101Di Vita.


   La Camera,
   premesso che:
    all'articolo 1 comma 4 lettera m), dell'AC 2660, si prevedono come criteri direttivi della delega il rafforzamento delle funzioni di monitoraggio e valutazione delle politiche e dei servizi;
    l'11 giugno 2011 sulla Gazzetta Ufficiale veniva pubblicato l'atto con il quale venivano istituiti i Comitati Unici di Garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni;
    tra i compiti dei Comitati Unici di Garanzia; prevenire e battere le discriminazioni dovute non soltanto al genere, ma anche all'età, alla disabilità, alla lingua, all'etnia nonché all'orientamento sessuale,

impegna il Governo:

   nell'ambito del rafforzamento delle funzioni di monitoraggio e valutazione delle politiche e dei servizi a tenere conto e sviluppare l'attività dei Comitati Unici di Garanzia;
   a fornire la relazione dettagliata dei dati relativi ai rapporti prodotti dal Gruppo di monitoraggio e supporto alla costituzione e sperimentazione dei Comitati unici di garanzia per le pari opportunità ai sensi dell'articolo 4, comma 2, del decreto interdipartimentale [dipartimenti della funzione pubblica e delle pari opportunità) del 18 aprite 2012, illustrando, più in generale, gli eventuali risultati prodotti e i conseguenti miglioramenti delle condizioni lavorative, nonché l'andamento delle attività in corso, a distanza di tre anni dalla costituzione dei C.U.G.
9/2660-A/102Silvia Giordano, Di Vita.


   La Camera,
   premesso che:
    all'articolo 1 comma 4 lettera m), dell'AC 2660, si prevedono come criteri direttivi della delega il rafforzamento delle funzioni di monitoraggio e valutazione delle politiche e dei servizi;
    l'11 giugno 2011 sulla Gazzetta Ufficiale veniva pubblicato l'atto con il quale venivano istituiti i Comitati Unici di Garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni;
    tra i compiti dei Comitati Unici di Garanzia; prevenire e battere le discriminazioni dovute non soltanto al genere, ma anche all'età, alla disabilità, alla lingua, all'etnia nonché all'orientamento sessuale,

impegna il Governo

   ad adoperarsi al fine:
    nell'ambito del rafforzamento delle funzioni di monitoraggio e valutazione delle politiche e dei servizi, di tenere conto e sviluppare l'attività dei Comitati Unici di Garanzia;
   di fornire la relazione dettagliata dei dati relativi ai rapporti prodotti dal Gruppo di monitoraggio e supporto alla costituzione e sperimentazione dei Comitati unici di garanzia per le pari opportunità ai sensi dell'articolo 4, comma 2, del decreto interdipartimentale [dipartimenti della funzione pubblica e delle pari opportunità) del 18 aprite 2012, illustrando, più in generale, gli eventuali risultati prodotti e i conseguenti miglioramenti delle condizioni lavorative, nonché l'andamento delle attività in corso, a distanza di tre anni dalla costituzione dei C.U.G.
9/2660-A/102. (Testo modificato nel corso della seduta)  Silvia Giordano, Di Vita.


   La Camera,
   premesso che:
    con il disegno di legge AC 2660 vengono conferite deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro;
    merita particolare attenzione anche la tutela dei lavoratori invalidi che si assentano per motivi di salute dal luogo di lavoro, ai quali viene effettuata una ritenuta economica relativa ai primi dieci giorni di ogni periodo di assenza per malattia;
    considerato che la normativa attuale esclude da tale ritenuta economica le assenze dovute ad infortunio sul lavoro certificate dall'Inail, a ricovero ospedaliero o di day-hospital e le assenze dovute a patologie gravi che necessitano di terapie salvavita;
    considerato che nella seduta del 07/08/2014 è stato accolto l'ordine del giorno 9/02486-B/065,

impegna il Governo

ad attivarsi, in tempi brevi, affinché all'interno della legge n. 133 del 6 agosto 2008 vengano tutelati i diritti dei lavoratori, affetti da patologie gravi e invalidanti e di quelli ai quali è riconosciuto almeno il 75 per cento di invalidità, che si assentano dal lavoro per motivi di salute con lo stesso regime giuridico previsto per i soggetti che si sottopongono alle terapie salvavita.
9/2660-A/103Lorefice.


   La Camera,
   premesso che:
    all'articolo 1 vengono previste disposizioni in materia di sostegno alla genitorialità; la funzione sociale della maternità continua ad essere penalizzata rispetto all'accesso e alla permanenza nel mercato del lavoro, ciò è imputabile a diversi fattori quali l'iniqua distribuzione dei carichi di lavoro familiare, la persistente carenza dei servizi per l'infanzia, le forme di discriminazione sul lavoro subite dalle donne madri o in gravidanza, l'insufficienza delle reti di aiuto formale (asili nido e strutture per l'infanzia); la peculiarità del nostro Paese è ravvisabile nel ricorso intenso alla rete di aiuti informale e alla solidarietà intergenerazionale. Sei bambini su dieci sono affidati ai nonni quando la madre lavora. Inoltre l'interruzione dell'attività lavorativa dovuta alla nascita di un figlio può comportare un rischio elevato di non reinserirsi nel mondo del lavoro, o di rimanerne a lungo al di fuori. Tra le donne che nel corso della vita hanno smesso di lavorare, il 17,7 per cento lo ha fatto per la nascita del figlio; emerge in tutta evidenza la necessità di tutelare i diritti della donna nella fase della vita in cui deve conciliare l'essere madre con la sua partecipazione alla vita attiva e produttiva anche nell'ambito del lavoro autonomo,

impegna il Governo

a prevedere la revisione delle disposizioni di cui agli articoli 17 e 22 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, a tutela e sostegno della maternità e paternità nei confronti delle lavoratrici iscritte alla gestione separata di cui all'articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, con particolare riguardo all'obbligo di astensione dell'attività lavorativa previsto per la corresponsione dell'indennità, prevedendo che l'indennità medesima sia svincolata dall'effettiva astensione dall'attività lavorativa.
9/2660-A/104Mucci.


   La Camera,
   premesso che:
    secondo uno studio commissionato nel 2007 dal Dipartimento Pari opportunità della Presidenza del consiglio, l'esercizio dell'attività di prostituzione coinvolge 70 mila persone in Italia per un mercato di clienti pari a 9 milioni; per attività di prostituzione si intende la volontaria offerta a scopo di lucro di prestazioni sessuali che vedano coinvolte persone maggiorenni consenzienti; nessun controllo medico viene esercitato nei confronti di chi esercita l'attività di prostituzione, se non quelli affidati alla stessa sensibilità (spesso assai differente) degli esercenti, né è attivata alcuna opera di educazione alla corretta profilassi delle malattie a trasmissione venerea, la cui severa attuazione riguarderebbe sia l'esercente che il fruitore dell'attività di prostituzione;
    la necessità di un controllo scrupoloso sulle suddette condizioni igienico-sanitarie emerge anche dalle abitudini di consumo dei clienti. Infatti, come rileva un'indagine condotta dalla Asl Roma E nel 2005, 8 clienti su 10 chiedono di consumare la prestazione sessuale senza il ricorso al preservativo; analoga oscurità si riscontra in materia fiscale, dove, né illegale né regolamentata, l'attività di prostituzione viene riconosciuta dal fisco come fonte di reddito, dal momento che i giudici tributari e la corte di Cassazione hanno più volte stabilito che i redditi derivanti da prestazioni sessuali sono imponibili e risulta dunque urgente chiarire la categoria fiscale a cui collegarli;
    il giro di affari stimato dell'attività di prostituzione è pari a 3,5 miliardi, come certificato dalle nuove stime del Pil per il 2011 elaborato attraverso il sistema di misurazione Sec 2010;
    alla lettera h) del comma 7 dell'articolo 1, il presente disegno di legge delega il Governo ad adottare, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi, che prevedano la possibilità di estendere ricorso a prestazioni di lavoro accessorio per le attività lavorative discontinue e occasionali nei diversi settori produttivi, tenuto conto di quanto disposto dall'articolo 70 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276,

impegna il Governo:

   a valutare l'opportunità di riconoscere in maniera esplicita in fase di emanazione del decreto o dei decreti legislativi, nelle more di un provvedimento legislativa quadro più completo e coerente, l'esercizio dell'attività di prostituzione come prestazione di lavoro accessorio per attività lavorative discontinue e occasionali, e a regolarla in maniera puntuale garantendo la piena tutela della dignità della persona;

   a predisporre contestualmente un piano di interventi di prevenzione e sensibilizzazione, promossi congiuntamente dal Ministero dell'interno, del lavoro e delle politiche sociali e della salute, volti a
    a) incoraggiare e tutelare i percorsi di reinserimento sociale dei soggetti che intendono cessare l'attività di prostituzione;
    b) formare il personale sanitario e di pubblica sicurezza che interagisce con i soggetti che esercitano attività di prostituzione;
    c) informare sui rischi socio-sanitari connessi al fenomeno della prostituzione, con particolare attenzione alle attività di prevenzione nei giovani di età inferiore a diciotto anni;
    d) sostenere le iniziative di educazione sessuale e di valorizzazione del ruolo e della dignità della donna e promuovere la repressione della tratta degli esseri umani, dello sfruttamento della prostituzione e della prostituzione minorile.
9/2660-A/105Vargiu.


   La Camera,
   premesso che:
    i cittadini che intendono svolgere un'attività autonoma professionale devono sottoporsi al vaglio delle commissioni istituite presso le Camere di Commercio esibendo titoli o attestati provenienti o dalla scuola statale o dalla formazione professionale regionale;
    per svolgere una qualunque attività impiantistica, ai sensi del decreto ministeriale 37/2008 deve essere in possesso alternativamente dei seguenti requisiti:
     a) diploma di laurea in materia tecnica specifica conseguito presso una università statale o legalmente riconosciuta;
     b) diploma o qualifica conseguita al termine di scuola secondaria del secondo ciclo con specializzazione relativa al settore delle attività di cui all'articolo 1, presso un istituto statale o legalmente riconosciuto, seguiti da un periodo di inserimento, di almeno due anni continuativi, alle dirette dipendenze di una impresa del settore. Il periodo di inserimento per le attività di cui all'articolo 1, comma 1, lettera d) è di un anno;
     c) titolo o attestato conseguito ai sensi della legislazione vigente in materia di formazione professionale, previo un periodo di inserimento, di almeno quattro anni consecutivi, alle dirette dipendenze di una impresa del settore. Il periodo di inserimento per le attività di cui all'articolo 1, comma 2, lettera d) è di due anni;
     d) prestazione lavorativa svolta, alle dirette dipendenze di una impresa abilitata nel ramo di attività cui si riferisce la prestazione dell'operaio installatore per un periodo non inferiore a tre anni, escluso quello computato ai fini dell'apprendistato e quello svolto come operaio qualificato, in qualità di operaio installatore con qualifica di specializzato nelle attività di installazione, di trasformazione, di ampliamento e di manutenzione degli impianti di cui all'articolo 1.2. I periodi di inserimento di cui alle lettere b) e c) e le prestazioni lavorative di cui alla lettera d) del comma 1 possono svolgersi anche in forma di collaborazione tecnica continuativa nell'ambito dell'impresa da parte del titolare, dei soci e dei collaboratori familiari. Si considerano, altresì, in possesso dei requisiti tecnico-professionali ai sensi dell'articolo 4 il titolare dell'impresa. I soci ed i collaboratori familiari che hanno svolto attività di collaborazione tecnica continuativa nell'ambito di imprese abilitate del settore per un periodo non inferiore a sei anni. Per le attività di cui alla lettera d) dell'articolo 1,comma 2, tale periodo non può essere inferiore a quattro anni;
    dal decreto ministeriale 37/2008 sono escluse le certificazioni che il MISE, per il tramite dell'ente di accreditamento ACCREDIA, rilascia con validità internazionale, in quanto conformi alle norme tecniche internazionali di riferimento (Iso-En-Uni-Cei ecc.);
    in sostanza, un manutentore elettrico le cui competenze siano certificate ai sensi della iso 17024, potrebbe operare in tutto il mondo e presso qualunque multinazionale, ma non avrebbe titolo per essere iscritto e abilitato presso il Registro delle imprese della Camera di Commercio in Italia;
    quanto sopra si applica a tutte le arti, i mestieri e le professioni non regolamentate,

impegna il Governo

a valutare l'opportunità di una iniziativa normativa tesa a rimuovere gli ostacoli che determinano un danno per tutti coloro che vorrebbero ricorrere all'auto impiego, (pensiamo ai lavoratori disoccupati o sottoccupati e ai tanti giovani che cercano di individuare una propria strada), investendo anche in proprio in percorsi formativi finalizzati alla certificazione delle proprie competenze, ma che non avrebbero speranza alcuna allo stato attuale, di vedersi approvare la domanda di iscrizione al Registro delle Imprese presso le Camere di Commercio.
9/2660-A/106Marrocu.


   La Camera,
   premesso che:
    la migrazione dei bambini e degli adolescenti reca in sé una particolare vulnerabilità. Drammatica, in particolare, è la condizione dei bambini e degli adolescenti soli, come i minori stranieri non accompagnati e i cosiddetti «orfani bianchi» (children left behind);
    questi ultimi sono i minorenni rimasti nel Paese di origine mentre uno o entrambi i genitori sono migrati per necessità di reddito, alla ricerca di un lavoro, per una vita migliore anche per i propri figli;
    questi orfani della migrazione sono affidati alle cure di terzi (nonni, parenti, vicini). Il problema è grave anche nell'Unione europea. In Romania, secondo le stime dell'UNICEF – Alternative sociale association, questi bambini o adolescenti soli sarebbero circa 350,000 – ossia il 7 per cento della popolazione tra 0 e 18 anni di età – di cui 157.000 con il solo padre all'estero, 67.000 con la sola madre e circa 126.000 con entrambi i genitori all'estero;
    in Italia l'articolo 29 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998 prevede il diritto al ricongiungimento familiare, ottenuto il quale il minore arriva nel Paese senza che esistano norme che consentano ai suoi genitori di accompagnarlo nel processo di integrazione;
    manca, per esempio, la previsione di un congedo dal lavoro per motivi di ricongiungimento familiare simile a quello contemplato in caso di adozione o di affidamento dal testo unico di cui al decreto legislativo n. 151 del 2001 e dalla circolare n. 16/2008 dell'Istituto nazionale della previdenza sociale;
    varie associazioni di donne immigrate suggeriscono il congedo come fondamentale rimedio per ricostruire il rapporto genitore-figlio dopo una lunga separazione, per consentire al bambino di integrarsi, adattarsi alle nuove condizioni di vita e superare i sentimenti di perdita e di sradicamento che conseguono al viaggio. I minori immigrati infatti, cambiano Paese, cultura familiare, scuola e lingua. Sono viaggiatori non per scelta, rappresentano una génération involontaire, come l'ha definita Tahar Ben Jelloun, che negli ultimi anni in Europa è cresciuta notevolmente; secondo i dati del Ministero dell'interno, nel 2012 sono state presentate 63.779 domande di ricongiungimento familiare per un totale di 90.826 familiari da ricongiungere (una media di 1,42 familiari per domanda). Di queste solo 400 (lo 0,6 per cento) riguardavano familiari al seguito di uno straniero entrante in Italia, mentre la quasi totalità, il 99,4 per cento, riguardava il ricongiungimento di familiari residenti all'estero;
    il 47 per cento dei familiari di cui si richiede il ricongiungimento è costituito da figli dei richiedenti e, tra questi, i minori di 18 anni rappresentano il 38 per cento del totale;
    l'articolo 28, comma 1, del testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998 riconosce agli stranieri titolari di permesso o carta di soggiorno il diritto a mantenere o a riacquistare l'unità familiare. Riconosce, altresì, al comma 3, come prioritario il superiore interesse del fanciullo in tutti i procedimenti amministrativi e giurisdizionali finalizzati a dare attuazione al diritto all'unità familiare e riguardanti i minori;
    per rendere effettivo il diritto al ricongiungimento disciplinato dall'articolo 29 del medesimo testo unico è necessario introdurre nell'ordinamento il diritto al congedo parentale, affinché i genitori possano accompagnare il figlio nel percorso di inserimento e prevenire i costi sociali che possono derivare da emarginazione o mancata messa a frutto delle proprie capacità il Jobs act prevede l'aggiornamento delle misure di conciliazione tra vita e lavoro,

impegna il Governo

a valutare l'opportunità di prevedere una forma di congedo parentale per i genitori migranti che ottengono il ricongiungimento familiare con i propri figli minori, modificando, in tal senso, l'articolo 28 del decreto legislativo n. 286 del 1998, per rendere più efficaci le politiche di integrazione anche nella scuola e sul lavoro.
9/2660-A/107Scuvera, Amoddio.


   La Camera,
   premesso che:
    tra gli obiettivi prioritari del presente disegno di legge delega vi è quello di migliorare gli strumenti finalizzati all'incontro tra domanda e offerta di lavoro;
    a tale scopo è finalizzata anche la prevista istituzione della Agenzia nazionale di cui al comma 4 dell'articolo 1;
    i centri per l'impiego fino ad ora non sono riusciti a svolgere pienamente questo ruolo per una serie di motivazioni spesso legate alla disorganizzazione e al sovrapporsi di competenze nonché di alcuni fattori culturali che condizionano il mercato del lavoro;
    la realizzazione di una «infrastruttura» come l'Agenzia ha quindi un compito fondamentale e strategico per quanto riguarda la modernizzazione del mercato del lavoro nel nostro Paese;
    particolare attenzione deve essere prestata al Mezzogiorno in considerazione della drammaticità dei dati relativi alla disoccupazione,

impegna il Governo

in vista della emanazione dei decreti delegati di attuazione a prevedere per le regioni del Mezzogiorno, in relazione alla costituenda nuova Agenzia un rafforzamento dei servizi per l'incontro tra domanda e offerta di lavoro sulla base delle unioni dei comuni.
9/2660-A/108Covello, Burtone, Amoddio.


   La Camera,
   premesso che:
    con il decreto interministeriale 83473 del 1°agosto 2014 ha introdotto criteri maggiormente restrittivi per l'accesso agli ammortizzatori sociali in deroga:
     tali criteri sono particolarmente stringenti per la platea dei beneficiari della indennità di mobilità in deroga;
     tale decreto prevede che, coloro che alla data di entrata in vigore del citato provvedimento avessero maturato più di tre anni di beneficio la proroga per il corrente anno non superasse gli 8 mesi con conseguente cessazione;
    con la successiva pubblicazione di una errata corrige per quanto riguarda il citato decreto, in particolare con raggiunta del riferimento all'indennità di mobilità all'articolo 6 comma 3 questo ha consentito di introdurre un elemento di maggiore flessibilità consentendo la possibilità alle regioni di prorogare almeno fino al 31 dicembre p.v. I trattamenti in essere anche per coloro che hanno maturato più di tre anni di mobilità in deroga;
    è indispensabile che nella fase di transizione tra il vecchio regime degli ammortizzatori sociali e il nuovo profilo di tutele previste dal presente disegno di legge delega nessun lavoratore venga lasciato senza protezione,

impegna il Governo

a prevedere la possibilità in accordo con le regioni di prorogare i trattamenti in essere almeno fino all'entrata in vigore dei decreti delegati relativi ai nuovi ammortizzatori in deroga.
9/2660-A/109Bruno Bossio, Aiello, Battaglia, Censore, Covello, D'Attorre, Magorno, Stumpo, Antezza.


   La Camera,
   premesso che:
    con il decreto interministeriale 83473 del 1°agosto 2014 ha introdotto criteri maggiormente restrittivi per l'accesso agli ammortizzatori sociali in deroga:
     tali criteri sono particolarmente stringenti per la platea dei beneficiari della indennità di mobilità in deroga;
     tale decreto prevede che, coloro che alla data di entrata in vigore del citato provvedimento avessero maturato più di tre anni di beneficio la proroga per il corrente anno non superasse gli 8 mesi con conseguente cessazione;
    con la successiva pubblicazione di una errata corrige per quanto riguarda il citato decreto, in particolare con raggiunta del riferimento all'indennità di mobilità all'articolo 6 comma 3 questo ha consentito di introdurre un elemento di maggiore flessibilità consentendo la possibilità alle regioni di prorogare almeno fino al 31 dicembre p.v. I trattamenti in essere anche per coloro che hanno maturato più di tre anni di mobilità in deroga;
    è indispensabile che nella fase di transizione tra il vecchio regime degli ammortizzatori sociali e il nuovo profilo di tutele previste dal presente disegno di legge delega nessun lavoratore venga lasciato senza protezione,

impegna il Governo

a verificare la possibilità in accordo con le regioni di prorogare i trattamenti in essere almeno fino all'entrata in vigore dei decreti delegati relativi ai nuovi ammortizzatori in deroga.
9/2660-A/109. (Testo modificato nel corso della seduta)  Bruno Bossio, Aiello, Battaglia, Censore, Covello, D'Attorre, Magorno, Stumpo, Antezza.