Camera dei deputati

Vai al contenuto

Sezione di navigazione

Menu di ausilio alla navigazione

MENU DI NAVIGAZIONE PRINCIPALE

Vai al contenuto

Resoconti delle Giunte e Commissioni

Vai all'elenco delle sedute >>

CAMERA DEI DEPUTATI
Martedì 17 febbraio 2015
389.
XVII LEGISLATURA
BOLLETTINO
DELLE GIUNTE E DELLE COMMISSIONI PARLAMENTARI
Lavoro pubblico e privato (XI)
ALLEGATO

ALLEGATO 1

Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. (Atto n. 134)

PARERE APPROVATO

  La XI Commissione,
   esaminato lo schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti (atto n. 134), che costituisce il primo provvedimento attuativo della delega di cui alla legge 10 dicembre 2014, n. 183;
   evidenziato come le misure relative all'introduzione, per i nuovi assunti, del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, che determinano un ridimensionamento delle tutele in caso di licenziamento illegittimo, trovano un bilanciamento nel quadro di un sistema di interventi più ampio e comprensivo volto, in particolare, a rafforzare le tutele per i lavoratori che abbiano perduto involontariamente l'occupazione e a limitare il ricorso a contratti precari, promuovendo, in coerenza con le indicazioni europee, il contratto a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro, secondo quanto espressamente previsto dal criterio di delega di cui all'articolo 1, comma 7, lettera b), della richiamata legge n. 183 del 2014;
   auspicato che il provvedimento in esame contribuisca a promuovere, unitamente agli altri interventi messi in campo dal Governo, la ripresa dei livelli occupazionali e l'incremento della quota di assunzioni con contratti di lavoro a tempo indeterminato;
   considerata favorevolmente la scelta del Governo di procedere in modo contestuale all'adozione del provvedimento in esame e di quello che rafforza le tutele in caso di disoccupazione involontaria, con ciò rendendo possibile un loro contemporaneo esame da parte della Commissione;
   valutata positivamente, in questo contesto, la scelta compiuta dalla legge di stabilità 2015 in materia di incentivazione sul piano fiscale e contributivo dei contratti di lavoro a tempo indeterminato;
   segnalata l'opportunità di una riconsiderazione delle caratteristiche degli sgravi contributivi ivi previsti per le assunzioni a tempo indeterminato al fine di assicurarne la massima efficacia sotto il profilo della creazione di posti di lavoro stabili e di qualità e di garantirne l'estensione anche agli anni successivi al 2015;
   considerato che il provvedimento introduce esclusivamente una nuova disciplina delle tutele in caso di licenziamento per i lavoratori con qualifica non dirigenziale assunti dopo la sua entrata in vigore e, pertanto, devono intendersi applicabili anche ai nuovi rapporti di lavoro tutte le disposizioni vigenti relative ai contratti a tempo indeterminato che non attengano alla disciplina delle medesime tutele;
   rilevato che il processo di privatizzazione dei rapporti di pubblico impiego comporta la necessità di una tendenziale omogeneità di trattamento tra dipendenti pubblici e privati e che, come già evidenziato dal Governo, la materia dei licenziamenti nel pubblico impiego sarà affrontata nell'ambito del disegno di legge concernente la riorganizzazione delle amministrazioni Pag. 61pubbliche, al momento in discussione al Senato (Atto Senato n. 1577);
   osservato che l'articolo 2, comma 1, nel confermare il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro nei casi di licenziamenti nulli e discriminatori, non riproduce esattamente il contenuto dell'articolo 18, comma 1, primo periodo, della legge n. 300 del 1970, ma apporta alcune semplificazioni, eliminando, tra l'altro, il riferimento ai licenziamenti causati da un motivo illecito determinante ai sensi dell'articolo 1345 del codice civile;
   ritenuto che, per i licenziamenti ingiustificati ai quali non si applica la sanzione conservativa, occorra incrementare la misura minima e la misura massima dell'indennizzo economico dovuto al lavoratore;
   considerato che, ai fini della definizione delle specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato per le quali viene confermato il diritto alla reintegrazione, va assicurata la salvaguardia del principio di proporzionalità tra la gravità dei fatti contestati e la sanzione del licenziamento;
   osservato che l'articolo 3, comma 2, terzo periodo, reca disposizioni relative al calcolo dei contributi previdenziali e assistenziali, nei casi ivi previsti di reintegrazione del lavoratore licenziato per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, che si discostano da quelle attualmente stabilite, per analoghe fattispecie, dall'articolo 18, quarto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni;
   ritenuto, opportuno in relazione a quanto previsto all'articolo 3, comma 3, assicurare una tutela di carattere reintegratorio nelle fattispecie nelle quali, con riferimento a lavoratori assunti con il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, si accerti che il licenziamento sia stato intimato in violazione dell'articolo 2110, secondo comma, del codice civile, in analogia a quanto previsto dall'articolo 18, settimo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni;
   considerata l'opportunità di confermare l'applicazione senza eccezioni, anche per i lavoratori assunti con il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, delle disposizioni in materia di onere della prova per i licenziamenti ingiustificati, con particolare riferimento all'articolo 5 della legge 15 luglio 1966, n. 604, ai sensi del quale l'onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro;
   ritenuto che, come emerge anche dall'esame parlamentare svolto in occasione dell'approvazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183, l'esclusione, per i lavoratori assunti con il nuovo contratto a tutele crescenti, dell'applicazione di sanzioni di tipo conservativo, con la previsione di indennizzi economici certi e crescenti con l'anzianità di servizio, prevista dall'articolo 1, comma 7, lettera c), della medesima legge n. 183 del 2014, deve intendersi riferita alle sole fattispecie relative a licenziamenti individuali, non essendo in discussione la disciplina dei licenziamenti collettivi di cui alla legge 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni;
   rilevato che l'applicazione della disciplina di cui al presente provvedimento anche ai licenziamenti collettivi determinerebbe un indebolimento del ruolo della contrattazione collettiva e delle procedure di confronto con le associazioni sindacali nella gestione dei licenziamenti relativi a esigenze tecnico-produttive e organizzative, che potrebbe rendere più difficoltosa la gestione dei processi di ristrutturazione aziendale;
   esprime

PARERE FAVOREVOLE

  con le seguenti condizioni:
   all'articolo 10, sostituire il comma 1 con il seguente: 1. In caso di licenziamento Pag. 62collettivo ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni, ai lavoratori di cui all'articolo 1 si applicano le disposizioni di cui all'articolo 5, comma 3, della medesima legge;
   all'articolo 3, comma 1, provveda il Governo a incrementare la misura minima e massima delle indennità dovute in caso di licenziamento per giustificato motivo o giusta causa, ferma restando la regola che prevede la corresponsione di un'indennità pari a due mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio;
   provveda il Governo a rivedere la formulazione dell'articolo 3, comma 2, primo periodo, al fine di assicurare la reintegrazione nel posto di lavoro nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo o giusta causa in cui sussista una evidente sproporzione tra la sanzione del licenziamento e l'addebito disciplinare contestato;
   e con le seguenti osservazioni:
    a) valuti il Governo l'opportunità di precisare in modo espresso che le disposizioni di cui al presente provvedimento non si applicano ai rapporti di lavoro di pubblico impiego, in vista del complessivo riordino della disciplina in materia di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, in attuazione della delega di cui al disegno di legge concernente la riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, attualmente all'esame al Senato (Atto Senato n. 1577);
    b) valuti il Governo l'opportunità di escludere l'applicazione della disciplina di cui al presente decreto nei casi di instaurazione di nuovi rapporti di lavoro da parte di lavoratori in servizio all'entrata in vigore del presente provvedimento che passano alle dipendenze di imprese che subentrano in un appalto ovvero di processi di mobilità all'interno di un gruppo di imprese, che determinino la cessazione di un rapporto di lavoro in essere all'entrata in vigore del presente provvedimento e l'instaurazione di un nuovo rapporto nell'ambito di società controllate o collegate;
    c) valuti il Governo l'opportunità di rivedere la formulazione dell'articolo 2, comma 1, primo periodo, dello schema al fine di uniformarla a quella dell'articolo 18, primo comma, primo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300;
    d) con riferimento all'articolo 3, valuti il Governo l'opportunità di prevedere che, anche con riferimento ai licenziamenti di cui al presente provvedimento, l'onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetti, senza eccezioni, al datore di lavoro;
    e) valuti il Governo l'opportunità di chiarire se le modalità di calcolo dei contributi previdenziali e assistenziali di cui all'articolo 3, comma 2, terzo periodo, debbano intendersi equivalenti a quelle previste per analoghe fattispecie dall'articolo 18, quarto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni;
    f) valuti il Governo l'opportunità di prevedere che la tutela di carattere reintegratorio prevista dall'articolo 3, comma 3, si estenda anche ai casi nei quali il licenziamento è stato intimato in violazione dell'articolo 2110, secondo comma, del codice civile;
    g) valuti il Governo l'opportunità di estendere l'applicazione all'intero provvedimento delle disposizioni, recate dall'articolo 6, comma 3, dello schema, in materia di monitoraggio degli interventi, attualmente riferite alle sole norme concernenti l'offerta di conciliazione.

Pag. 63

ALLEGATO 2

Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. (Atto n. 134)

PROPOSTA ALTERNATIVA DI PARERE DEI DEPUTATI AIRAUDO E PLACIDO

  La XI Commissione,
   esaminato lo schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (atto n. 134);
   ritenuto che la volontà del Governo di riformare, con il cosiddetto Jobs Act, la disciplina del mercato del lavoro, da un lato, e dei rapporti di lavoro dall'altro, merita un severo giudizio negativo non solo per il valore dei contenuti della proposta, sistematicamente riduttivi se non addirittura distruttivi dell'universo di diritti dei lavoratori, ma anche per il metodo prescelto per attuare l'intervento riformatore, intriso di uno spiccato autoritarismo che ha impedito un serio confronto democratico nelle sedi, sia istituzionali che sindacali, all'uopo preposte;
   considerato che, com'era ampiamente prevedibile, lo schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, con le sue omissioni e, quel che è peggio, le sue aberranti inclusioni, peraltro non previste dalla legge delega, sembra funzionale e giustificabile solo ad una forma di nuovo «malthusianesimo sociale» segnando, soprattutto per le giovani generazioni il passaggio dal diritto al lavoro, costituzionalmente garantito, al lavoro senza diritti;
   preso atto che la generalizzazione della precarietà e la liberalizzazione de facto dei licenziamenti – determinati dallo stesso decreto legislativo e dalla legge 16 maggio 2014, n. 78, cosiddetto «decreto Poletti» sul contratto a termine – saranno un fattore determinante nel danneggiare definitivamente un'intera generazione di giovani, peraltro già provata da una legislazione degli ultimi 15 anni, tutta improntata alla riduzione delle tutele e dei diritti anche retributivi dei lavoratori, che mal si concilia con l'obiettivo dichiarato del cosiddetto Jobs Act di promuovere forme di occupazione stabile attraverso forme di deregolamentazione del mercato che passino da una facilitazione – anzi peggio – dalla legittimazione dei licenziamenti;
   rilevato che tutti gli indicatori economici indicano che non esiste una correlazione univoca e positiva tra la flessibilizzazione del mercato del lavoro e la crescita occupazionale e che quest'ultima, infatti, è strettamente legata ad una domanda di lavoro, a sua volta non dipendente dalle condizioni dell'offerta, anche se precarie e a basso costo, del lavoro, ma dalle prospettive di vendita e di allocazione della produzione industriale;
   osservato atto che l'unico effetto ascrivibile al provvedimento in esame è, al massimo, quello di incentivare il turn over e non già la stabilità dei rapporti di lavoro, con il rischio di moltiplicare la quantità di esclusi dal mercato se non corroborato da una reale ripresa economica;
   fatto notare che il Jobs Act, con tutti i decreti che ne deriveranno, risponde a logiche esattamente contrarie a quelle alle quali dovrebbe uniformarsi il mondo del Pag. 64lavoro, che imporrebbero di superare le divisioni e le contrapposizioni introdotte da una vasta e diffusa legislazione sui rapporti e sulle tipologie di lavoro che fino ad oggi hanno solo contribuito ad indebolirlo ed impoverirlo;
   fatto presente che il provvedimento in esame, anche se combinato alle forme di decontribuzione previste nella legge di Stabilità, come la deducibilità del costo del lavoro dal reddito ai fini IRAP e lo sgravio contributivo per i primi tre anni di assunzione, non pare sufficiente – in costanza di una totale assenza di interventi pubblici e di politiche di sostegno agli investimenti e alla domanda aggregata, volti a stimolare l'innovazione diffusa dei processi produttivi – a determinare la tanto invocata crescita occupazionale;
   considerato che non s'intravede nel dettato dello schema di decreto alcuna minima coerenza con la logica di fondo della norma tesa ad incentivare, con forme premiali o anche penalizzanti, comportamenti virtuosi, che altrimenti non sarebbero spontaneamente adottati da imprese e operatori economici privati;
   valutato, quindi, che – come dimostrato da taluni studi empirici sulle misure di incentivazione economica alla occupazione già promosse nel nostro Paese – vi è il rischio di avviare l'ennesimo piano occupazionale per sovvenzionare assunzioni che, comunque, sarebbero state avviate a prescindere dalla esistenza o meno di forme più o meno generose di esenzione contributiva;
   preso atto che l'articolato dello schema di decreto testimonia che il Governo ha voluto favorire, ribadendolo, il principio secondo il quale un'occupazione può perdersi anche per il più arbitrario dei licenziamenti, eliminando la reintegrazione persino laddove la stessa contrattazione collettiva prevedesse la sola sanzione conservativa e senza alcuna gradualità o proporzionalità, come nel caso di licenziamento disciplinare, tra il fatto commesso dal lavoratore (ad esempio un ritardo) e il provvedimento adottato (ad esempio il licenziamento);
   rilevato che il sostanziale annullamento del ruolo della contrattazione collettiva sulla disciplina dei licenziamenti è estraneo alla legge delega e porrà problemi assai rilevanti non solo sul piano costituzionale, ma anche su quello di diritto comune, dal momento che l'esercizio del potere di recesso al di fuori e contro le ipotesi previste dal contratto collettivo, che per sua natura «ha forza di legge tra le parti», non può mai comportare la risoluzione del contratto;
   fatto notare che, come già rilevato in sede parlamentare in occasione dell'esame della legge delega, la stessa, nel non prevedere interventi diretti né richiami specifici di revisione dell'articolo 18 della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei Lavoratori), contiene alcuni spazi residuali di intervento che il Governo non ha esitato a riempire;
   osservato che tale completa ed evidente indeterminatezza dei confini della legge delega, in materia revisione della disciplina dei licenziamenti, potrebbe dar luogo ad una dichiarazione di illegittimità costituzionale per violazione dell'articolo 76 della Costituzione a fronte dell'impossibilità di individuare nella legge di delegazione un'idonea base della normativa impugnata (così la Corte costituzionale, sentenza n. 251 del 2001);
   preso atto, pertanto, che la Corte costituzionale ha voluto rendere evidente come il riferimento agli obiettivi propri di una delega assuma inevitabilmente il compito di limitare l'oggetto di essa e, conseguentemente, di circoscrivere le opportunità stesse di un intervento regolatorio da parte del Governo in sede di redazione dei decreti attuativi;
   osservato, a tal proposito, che, nell'esercizio della delega, la linea fatta propria dal Governo sembra dirigersi verso la progressiva eliminazione della cosiddetta tutela reale (la reintegrazione nel posto di lavoro), attraverso l'introduzione di un sistema di tutela economica, crescente in base all'anzianità del lavoratore: una sorta di doppio binario nella gestione dei licenziamenti Pag. 65destinato ad introdurre una evidente disparità di trattamento tra i lavoratori, che, diversamente da quanto accaduto fino ad oggi, non dipende dalla consistenza numerica aziendale, dalla natura del datore di lavoro o dalla tipologia della prestazione dedotta in contratto, bensì da una condizione soggettiva del lavoratore, coincidente con la data della sua assunzione;
   rilevato che a tali evidenti disparità di trattamento ne discenderanno, inevitabilmente, altrettante eccezioni di costituzionalità, per violazione dell'articolo 3 della Costituzione, che saranno proposte ai giudici investiti sull'impugnazione dei licenziamenti;
   evidenziato che lo schema di decreto n. 134 sembra eccedere il dettato della delega anche con riferimento all'ambito soggettivo di destinazione della nuova disciplina nonostante non ne consentisse espressamente l'estensione ai lavoratori già occupati; pertanto, diversamente da quanto voluto dalla delega, il nuovo sistema di tutele, così come contenuto nello schema di decreto legislativo in esame all'articolo 1, comma 2, non trova applicazione solo nei confronti dei lavoratori assunti, con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, ma anche nei confronti di quei lavoratori già in forza a quelle imprese che, assumendo nuovi lavoratori a seguito del decreto, mutano i loro requisiti occupazionali così come definiti dall'articolo 18, commi 9 e 10 della legge n. 300 del 1970: si tratta di una previsione evidentemente dettata dall'intento, sotteso alla riforma, di incentivare le assunzioni evitando che l'eventuale superamento della soglia dimensionale di applicabilità dell'articolo 18 del cosiddetto Statuto dei lavoratori possa produrre l'applicazione della relativa tutela reintegratoria;
   osservato che l'evidenziato eccesso di delega caratterizza l'articolato dell'atto del governo n. 134 anche in altri ambiti e, precisamente, all'articolo 9, comma 1, laddove ha inteso intervenire sul sistema di tutela esclusivamente obbligatoria, ed all'articolo 9, comma 2, laddove ha ritenuto di applicare il nuovo sistema di tutele alle cosiddette organizzazioni di tendenza, come associazioni o partiti politici;
   rilevato che l'applicabilità a queste ultime del nuovo regime al pari di quello dettato per le piccole imprese è assai discutibile e contrastante con lo spirito sotteso alla riforma, cioè quello di introdurre il principio di monetizzazione del licenziamento, e pertanto passibile di incostituzionalità, per violazione dell'articolo 76 della Costituzione;
   considerato che anche l'articolo 10 dello schema di decreto legislativo, che interviene sui licenziamenti collettivi escludendo per tutti e categoricamente il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, ad eccezione delle sole ipotesi in cui il licenziamento risulti carente della forma scritta (ipotesi peraltro sostanzialmente, assai remota, considerata la procedimentalizzazione di simile atto di recesso), è una norma dettata al di fuori del perimetro della delega ed unicamente al fine di applicare il principio di monetizzazione del licenziamento anche a tali fattispecie; d'altra parte, l'estensione dell'applicazione dello schema di decreto legislativo anche ai licenziamenti collettivi determinerà un evidente dualismo tra vecchi assunti, per i quali, in caso, di violazione delle disposizioni relative alle procedure sindacali ed ai criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, si applicherebbe la reintegrazione nel posto di lavoro, e nuovi assunti, per i quali sussisterebbe solo una tutela indennitaria;
   osservato che appare inoltre prematuro e socialmente insostenibile l'estensione ai licenziamenti collettivi delle nuove norme sui licenziamenti illegittimi di natura economica e che un cambiamento così radicale nella gestione delle crisi aziendali, dovrebbe, piuttosto, essere accompagnato da un significativo investimento non solo sulle politiche attive, ma anche sui sistemi di protezione sociale;Pag. 66
   valutato che la norma, inoltre, nell'inficiare il valore dell'accordo sindacale al quale la vigente normativa affida i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, rappresenta una ulteriore occasione di indebolimento del ruolo del sindacato contenuta nel provvedimento;
   preso atto che, con riferimento a quanto previsto dall'articolo 6 dell'atto n. 134 in materia di «Offerta di conciliazione», la facoltà di ricorrere ad una procedura conciliativa al fine di evitare l'instaurazione del giudizio relativo alla contestazione del licenziamento dietro la corresponsione al lavoratore di un assegno di importo pari al valore di 1 mensilità per ogni anno di servizio, da una parte conferma volontà del Governo di voler ricoprire un ruolo centrale nelle politiche passive in materia di lavoro, e dall'altra, con l'esclusione di qualsiasi forma di assistenza da parte delle organizzazioni sindacali, materializza la più volte paventata volontà dell'Esecutivo di emarginare le stesse dalle politiche di contrattazione;
   rilevato, inoltre, che, come espressamente previsto dalla legge di stabilità 2015, i costi derivanti dall'esito delle conciliazioni non saranno a carico delle aziende, bensì a carico della fiscalità generale, alla stessa stregua, peraltro, di quanto previsto dall'articolo 11 che prevede il cosiddetto «Contratto di ricollocazione», cioè quel diritto del lavoratore licenziato di ricevere dal Centro per l'impiego territorialmente competente un voucher rappresentativo della dote individuale di ricollocazione, dietro l'espletamento della procedura di definizione del profilo personale di occupabilità, i cui costi, anche in questo caso, cadranno sulla fiscalità generale piuttosto che sulle imprese, non rappresentando, peraltro, una valida soluzione occupazionale per il lavoratore licenziato illegittimamente;
   osservato che le agenzie accreditate, pubbliche e private, godranno infatti del finanziamento consegnato in dote al lavoratore licenziato, senza fornire alcuna garanzia circa le possibilità di risoluzione dello stato di disoccupazione dello stesso;
   preso atto che, con l'intervento sulla rimodulazione del regime sanzionatorio per i licenziamenti illegittimi, come delineato dagli articoli 2 e 3 dello schema di decreto legislativo in esame – che ha ridotto nel minimo l'indennità dovuta lasciando, invece, inalterata quella massima, il diritto alla reintegrazione – resta, de facto, confinato alle sole fattispecie di licenziamenti discriminatori (fede religiosa, politica, appartenenza sindacale, razza, e via discorrendo), mentre per tutti gli altri, e più frequenti casi, il datore di lavoro può liberamente, cioè ad nutum, licenziare il lavoratore dietro l'automatica corresponsione di un'indennità economica crescente in rapporto agli anni di servizio prestati, escludendo quindi qualsiasi riferimento alle situazioni soggettive del lavoratore (anzianità anagrafica, carichi di famiglia) o del datore di lavoro (dimensioni occupazionali e/o di fatturato) che prima consentivano al giudice di individuare la misura della sanzione ed alle parti di negoziare l'indennità più «equa», previa l'accortezza, da parte dello stesso, di ricorrere ad una causale giusta per evitare il rischio di doverlo reintegrare per ordine di un tribunale;
   rilevato che non è più prevista la reintegrazione nei casi in cui il licenziamento per ragioni economiche o organizzative occulta un licenziamento intimato per altri motivi, così come non è ugualmente prevista, in caso di licenziamento disciplinare, alcuna proporzionalità tra il fatto commesso e la sanzione comminata: in astratto si potrà licenziare anche colui che in una sola occasione si è presentato in ritardo al lavoro, disattendendo, in tal caso, la legge delega che all'articolo 1, comma 7, lettera c), seppure in maniera fumosa, chiede di limitare la reintegrazione a «specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato»;
   fatto notare che quello della proporzionalità è un principio inderogabile del nostro ordinamento, con un solido fondamento costituzionale, apparendo difficile che una tale previsione possa superare il vaglio di un qualsiasi tribunale;Pag. 67
   osservato che ad essere ridimensionato dalla riforma delineata dal Jobs Act non è solo il ruolo delle rappresentanze sindacali, ma anche quello dei giudici, dal momento che lo schema di decreto legislativo, all'articolo 3, comma 2, contempla il reintegro per i licenziamenti disciplinari, solo nei casi in cui sia «direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento»;
   rilevato che tale espressione, laddove sottrae al giudice ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, costituisce una incostituzionale limitazione all'esercizio del potere giurisdizionale: il giudice, infatti, deve poter accertare se c’è stata proporzione tra la gravità del fatto commesso e la sanzione inflitta; se gli è preclusa la valutazione della gravità (o sproporzione), egli dovrà commisurare l'indennità a parametri quali ad esempio l'anzianità lavorativa;
   fatto notare che licenziare una persona per ragioni disciplinari e verificare successivamente che il fatto contestato non è stato commesso è un fatto grave, si rileva che escludere che tale gravità sia valutata potrebbe significare che al datore di lavoro viene riconosciuta la libertà di coartare il lavoratore, anche se l'azione del datore di lavoro è condannata con la reintegrazione del lavoratore;
   considerato che, pur non essendo sempre possibile accertare le vere ragioni del licenziamento, escluderlo per legge potrebbe portare il datore di lavoro a reiterare la condotta, affinando le modalità di licenziamento, fino a quando il lavoratore (lo stesso o lavoratori diversi) non siano più in grado di dimostrare l'insussistenza del fatto contestato; pertanto la limitazione del ruolo del giudice nella ponderazione della sproporzione in caso di verifica nei licenziamenti disciplinari di insussistenza del fatto materiale comporta, di fatto, il ritorno del potere unilaterale e tendenzialmente insindacabile dell'imprenditore;
   rilevato che altri problemi potrebbero discendere dalla definizione «neo-assunti», riferibile non alla prima esperienza di lavoro, quanto, piuttosto, a qualunque nuovo rapporto di lavoro che si instauri successivamente alla entrata in vigore dei decreti attuativi del Jobs Act, compresi coloro che provengono da precedenti esperienze di lavorative, come i lavoratori coinvolti nei cambi di appalto;
    preso atto, al riguardo, che l'articolo 7 dello schema di decreto legislativo pone in gioco problematiche delicate connesse al mantenimento delle condizioni economiche, come l'anzianità maturata nella stazione appaltante, e all'applicazione di normative nei confronti di soggetti già particolarmente vulnerabili in considerazione dei frequenti mutamenti che si verificano nei loro rapporti di lavoro, non assicurando loro adeguate garanzie in caso di riassunzione dopo l'entrata in vigore dello stesso;
   rilevato, pertanto, che, alla stessa stregua dei licenziamenti collettivi, anche i licenziamenti operati nei cambi di appalto, soprattutto quelli in cui sussiste conservazione dell'attività economica esercitata, dovrebbero essere esclusi dall'applicazione della nuova normativa, onde evitare una ingiusta ed ingiustificata riduzione di tutele e perdita del diritto al reintegro, per coloro che, senza alcuna interruzione, continuano a prestare la propria opera nel medesimo posto di lavoro;
   segnalato che uno degli aspetti positivi, forse l'unico, che compare all'interno del testo dell'atto n. 134, è rappresentato dalla formale estensione della fattispecie della reintegrazione in caso di licenziamento per discriminazione, che, tuttavia, da solo non è sufficiente per esprimere un giudizio positivo sul provvedimento;
   osservato che tali previsioni, che rappresentano per la storia sindacale del nostro Paese un salto indietro nel tempo di quasi cinquant'anni e che espongono i lavoratori ad una condizione di perenne ricatto demotivandoli fortemente, avranno Pag. 68un prevedibile ed inevitabile impatto negativo in termini di produttività, e quindi di successo, di un'impresa;
   preso atto che quanto fin qui esposto dimostra che la locuzione «tutele crescenti» non serve a definire una nuova tipologia contrattuale a sé stante, piuttosto si traduce in una significativa riduzione dei casi in può operare la cosiddetta tutela reale e in cui dover corrispondere le indennità per licenziamento illegittimo;
   rilevato che lo schema di decreto in esame si limita, pertanto, a disciplinare il nuovo regime sanzionatorio dei licenziamenti ed a ridisegnare, in termini di ampia flessibilità per le imprese, il regime di tutele che accompagna, in caso di licenziamento illegittimo, il lavoratore subordinato assunto a tempo indeterminato, avviando con ciò un processo di superamento, riservato per ora unicamente ai nuovi assunti, dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori;
   osservato che da ciò discende che il contratto «a tutele crescenti» altro non è, se non il normale contratto di lavoro a tempo indeterminato, che contempla una disciplina del licenziamento rivisitata; in altri termini, un incentivo di tipo normativo funzionale ad un maggiore ricorso ad esso, rappresentato da una sostanziale monetizzazione di tutte le forme di licenziamento che non siano discriminatorie a cui si accompagnano le misure di incentivazione economica e di decontribuzione previste della legge di stabilità per il 2015, al fine di relegare in piani sottostanti il più costoso contratto di lavoro a tempo determinato e, quel che è peggio, il contratto di apprendistato a cui era stato affidato il compito di rilanciare, mediante robusti percorsi di transizione dalla scuola al lavoro, l'occupazione giovanile nel nostro Paese;
   considerato che si tratta di un provvedimento, che toglie forza negoziale ai lavoratori ed individua risposte sbagliate ad una crisi occupazionale che trova la sua causa principale non tanto nelle supposte rigidità del mercato del lavoro quanto piuttosto nel perdurante calo della domanda interna,
   esprime

PARERE CONTRARIO

«Airaudo, Placido».

Pag. 69

ALLEGATO 3

Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. (Atto n. 134)

PROPOSTA ALTERNATIVA DI PARERE DEI DEPUTATI PRATAVIERA E FEDRIGA

  La XI Commissione,
   esaminato lo schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Atto n. 134), che consta di 12 articoli, emanato in attuazione dell'articolo 1, comma 7, lettera c), della legge n.183 del 2014;
   considerata la polemica sorta all'indomani delle precisazioni del Ministro Madia, avallate dal Ministro Poletti, in merito alla non applicabilità delle norme recate dal decreto in titolo alla Pubblica amministrazione;
   ricordate le disposizioni di cui all'articolo 2, comma 2, e 51, comma 2, del decreto legislativo n.165 del 2001, che estendono automaticamente al lavoro pubblico le regole non derogate del lavoro privato, ivi incluso lo Statuto dei lavoratori di cui alla legge n.300 del 1970;
   constatato che né il provvedimento all'esame né la legge delega contengono norme che esplicitamente escludano la pubblica amministrazione dal suo campo di applicazione;
   preso atto, pertanto, che il perseverare in tale esclusione crea un dualismo nei rapporti di lavoro tra settore pubblico e settore privato tale da profilare una violazione dell'articolo 3 della Costituzione;
   valutato, altresì, che ai sensi del comma 1 dell'articolo 1 del provvedimento, il nuovo regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo trova applicazione solo per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri assunti con contratto a tempo indeterminato successivamente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo medesimo, con esclusione, quindi, sia delle forze lavoro già impiegate all'interno della stessa realtà produttiva sia dei dirigenti, anche se assunti dopo l'entrata in vigore del provvedimento in esame, ai quali continuerà ad applicarsi la disciplina vigente;
   ritenuta tale asimmetria un'ulteriore violazione del principio costituzionale di uguaglianza, che, di fatto, rischierà di aumentare il contenzioso giurisprudenziale sui rapporti contrattuali;
   considerato, altresì, che all'introduzione nel nostro ordinamento del contratto a tutele crescenti avrebbe dovuto abbinarsi anche l'introduzione delle cosiddette «gabbie salariali» per la parametrazione dei salari sulla base del costo della vita nei diversi luoghi al fine di adeguare le buste paga al livello territoriale dei prezzi e del costo della vita;
   appurato, inoltre, che l'ampliamento della base occupazionale non dipende dalle tipologie contrattuali adottate, bensì da concreti e cospicui interventi di defiscalizzazione per le aziende;Pag. 70
   temuto, infine, che le nuove assunzioni con contratto a tutele crescenti agevolate dall'esonero contributivo, come derivanti dal combinato delle disposizioni contenute nel Jobs Act e nella legge di stabilità per il 2015, avranno effetti negativi sulla determinazione dell'importo pensionistico del lavoratore, in mancanza di garanzie certe dell'accredito figurativo,
   esprime

PARERE CONTRARIO

«Prataviera, Fedriga».

Pag. 71

ALLEGATO 4

Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. (Atto n. 134)

PROPOSTA ALTERNATIVA DI PARERE DEI DEPUTATI TRIPIEDI, CIPRINI, COMINARDI, CHIMIENTI, LOMBARDI E DALL'OSSO

  La XI Commissione,
   esaminato lo schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (atto n. 134);
   premesso che:
    la disposizione di delega di cui all'articolo 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 stabilisce la «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l'impugnazione del licenziamento»;
    preliminarmente, è da sottolineare come già dal titolo risulti evidente la discrasia esistente tra la norma di delega e il contenuto dello schema di decreto in esame;
    se il titolo dello schema di decreto riprende infatti letteralmente il testo della citata disposizione di delega, il complesso normativo che emerge dalla lettura delle disposizioni in esso contenute appare non come l'istituzione di una nuova figura contrattuale caratterizzata appunto dalla durata a tempo indeterminato e dalla previsione di «tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio» ma come una mera revisione della disciplina della tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, peraltro assai peggiorativa rispetto alla normativa vigente;
    per essere ancor più chiari, contrariamente a quanto mediaticamente annunciato a più riprese e finanche indicato dal titolo del decreto in oggetto, questo provvedimento non definisce alcun tipo di contratto di lavoro a tutele crescenti, non solo non tipizza un nuovo contratto di lavoro che offra un'idea di, pur progressiva, stabilizzazione del lavoratore, bensì disciplina esclusivamente il nuovo regime dei licenziamenti illegittimi individuali e collettivi di fatto liberalizzandoli;
    la disposizione di delega contiene dunque un riferimento di tipo soggettivo, relativo ai destinatari della nuova regolamentazione, individuati nei neoassunti, ed uno di tipo oggettivo, attinente all'introduzione delle nuove tutele in caso di vizio dell'atto di risoluzione del rapporto;
    nei confronti dei nuovi assunti, ai quali avrebbe dovuto trovare applicazione la tutela prevista dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, la linea fatta propria dal legislatore delegato, nella prosecuzione del cammino già avviato dalla legge n. 92 del 2012, è diretta verso la progressiva eliminazione della reintegrazione, introducendo un sistema di tutela economica, crescente in base all'anzianità del lavoratore;Pag. 72
    a differenza di quanto operato nel 2012, però, il legislatore delegato ha inteso introdurre il nuovo sistema ponendo come discrimine, tra la nuova e la vecchia disciplina, non la data dell'intimato recesso, bensì quella dell'assunzione, con contratto a tempo indeterminato, del lavoratore;
    questa scelta introduce una evidente disparità di trattamento tra i lavoratori, disparità che, diversamente da quanto accaduto fino ad ora, non dipende dalla consistenza numerica aziendale, dalla natura del datore di lavoro o dalla tipologia della prestazione, bensì da una condizione soggettiva del lavoratore, coincidente con la data di assunzione;
    di qui, come peraltro rilevato da vari studiosi della materia, inevitabili saranno le disparità di trattamento che verranno a determinarsi e, di conseguenza, le eccezioni di costituzionalità, per violazione dell'articolo 3 della Costituzione, che saranno proposte dai giudici investiti sull'impugnazione dei licenziamenti;
    accadrà, infatti, che due licenziamenti, intimati nello stesso momento e nell'ambito della medesima unità produttiva, affetti dal medesimo vizio, saranno tutelati in base a due diversi regimi, a seconda che uno dei due lavoratori sia stato assunto prima o dopo l'entrata in vigore del decreto in esame;
   considerato che:
    diversamente da quanto stabilito dalla disposizione di delega, il nuovo sistema di tutele, così come contenuto nel presente schema di decreto, non trova applicazione solo nei confronti dei lavoratori assunti, con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto;
    infatti, l'articolo 1 dello schema di decreto in esame ne prevede l'estensione anche nei confronti di quei lavoratori che, seppure assunti precedentemente all'entrata in vigore del decreto stesso, siano dipendenti di datori di lavoro che successivamente all'entrata in vigore del decreto, abbiano superato il requisito dimensionale, di cui al nono e al decimo comma dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori;
    simile previsione sarebbe dettata, secondo il legislatore delegato, dall'intento, sotteso alla riforma, di incentivare le assunzioni evitando che l'eventuale superamento della soglia dei quindici dipendenti possa produrre l'applicazione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e, quindi, della relativa tutela reintegratoria;
    lo schema di decreto in esame, così concepito, eccede nettamente il dettato della delega, il cui ambito soggettivo non consente l'estensione della riforma ai lavoratori già in forza all'azienda.
    in tal modo, nei fatti, viene a determinarsi un sistema tripartito di tutela:
     una tutela forte basata sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro che ne siano già destinatari al momento di entrata in vigore del decreto in esame;
     una tutela mediana basata sul decreto in esame, che trova applicazione sia nei confronti dei lavoratori assunti successivamente all'entrata in vigore del decreto medesimo (dipendenti da datori di lavoro nei cui confronti avrebbe dovuto trovare applicazione l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori) sia nei confronti dei datori di lavoro che abbiano un numero di lavoratori eccedenti il numero di 15 a seguito delle assunzioni avvenute successivamente all'entrata in vigore del decreto;
     una tutela debole basata sull'articolo 8 della legge n. 604 del 1966, sul cui contenuto è intervenuto l'articolo 9 dello schema di decreto in esame;
   l'evidenziato eccesso di delega, però, caratterizza lo schema di decreto in esame anche in altri ambiti e, precisamente, laddove esso:Pag. 73
     ha inteso intervenire sul sistema di tutela esclusivamente obbligatoria, di cui all'articolo 8 della legge n. 604 del 1966 (articolo 9, comma 1);
     ha ritenuto di applicare il nuovo sistema di tutele «ai datori di lavoro non imprenditori, che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto» (articolo 9, comma 2);
     relativamente a tali aspetti, non risulta chiaro se l'innovazione riguardi solamente i nuovi assunti o se, invece, l'apparato sanzionatorio sia applicabile ai tutti i lavoratori destinatari di quell'ambito di tutela;
     occorre notare, sul punto, che il riferimento alle piccole imprese e alle organizzazioni di tendenza non è contenuto nell'articolo 1 dello schema di decreto in esame, relativo all'ambito soggettivo di applicazione, bensì nell'articolo 9, costituendo, pertanto, norma a sé stante, apparentemente svincolata dalla sfera soggettiva di applicabilità del decreto, riservata ai nuovi assunti;
     affinché il nuovo regime sanzionatorio possa essere ritenuto conforme alla disposizione di delega è necessario che il suo ambito di applicazione sia limitato, comunque, ai lavoratori assunti successivamente all'entrata in vigore del decreto, i quali, secondo la disposizione di delega, devono essere ritenuti gli unici destinatari della riforma. Diversamente, il testo potrebbe essere passibile di una eccezione di incostituzionalità per violazione dell'articolo 76 della Costituzione, dato che per alcuni versi, il decreto finisce per determinare effetti diametralmente opposti a quelli voluti dalla legge delega;
     alquanto discutibile, in quanto escluso dalla legge delega, appare la disposizione del decreto in esame riservata ai datori di lavoro con meno di quindici dipendenti, un numero tale da escludere l'applicazione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, destinatari, pertanto, del regime sanzionatorio di cui all'articolo 8 della legge n. 604 del 1966;
   ai sensi di questa norma al lavoratore, in conseguenza del licenziamento illegittimo, è riconosciuto il diritto alla riassunzione o, in alternativa, a scelta del datore di lavoro, al risarcimento del danno che, nella quantificazione ordinaria, è compreso fra 2,5 a 6 mensilità;
   l'articolo 9 dello schema di decreto in esame prevede che i licenziamenti intimati dai predetti datori di lavoro, qualora dichiarati illegittimi, possano essere tutelati con il riconoscimento di una indennità, dimezzata rispetto a quella contemplata dagli articoli 3, comma 1, 4, comma 1, e 6, comma 1, del decreto stesso ed in ogni caso non superiore a sei mensilità;
   l'impatto dell'innovazione, indipendentemente dai soggetti che ne saranno considerati i destinatari, riguarda due aspetti:
    a) le modalità di determinazione del risarcimento del danno. In base alla riforma, l'entità del risarcimento del danno potrà oscillare tra una e sei mensilità e, pertanto, il minimale di tutela sarà inferiore rispetto all'attuale sistema. Una mensilità sarà l'ammontare minimo dell'indennità spettante in ipotesi di violazione connessa alla forma ed al procedimento presupposto del licenziamento di cui all'articolo 2 della legge n. 604 del 1966 e all'articolo 7 dello Statuto dei lavoratori, dal momento che, in simili ipotesi, l'ordinaria entità del risarcimento, così come previsto dall'articolo 4 dello schema di decreto in esame, ammonta a due mensilità. Due mensilità, invece, costituiranno l'entità minima dell'indennità dovuta in caso di illegittimo licenziamento (l'articolo 3 dello schema di decreto in esame ne stabilisce infatti quattro). In ogni caso, la base indennitaria è fissata a 0,5 mensilità, per ogni anno di anzianità, per le violazioni formali e ad una mensilità, per ogni anno di anzianità, negli altri casi di illegittimità del licenziamento. Il nuovo impianto sanzionatorio pone un dubbio interpretativo rispetto alla possibile applicazione della maggiorazione indennitaria, prevista dall'ultimo periodo dell'articolo 8 Pag. 74della legge n. 604 del 1966, ai sensi del quale «la misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a dieci mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a quattordici mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro». Da un lato, infatti, si può ritenere che la limitazione, nel massimo, dell'indennità, così come voluta dal decreto in commento, costituisca una nuova definizione dell'entità del risarcimento conseguente all'illegittimo licenziamento. Dall'altro, invece, si può interpretare il suddetto limite alla stregua di quanto già disposto dall'articolo 8 della legge n. 604 del 1966 e, cioè che il numero di sei mensilità rappresenti la tutela massima ordinaria, derogata in presenza di particolari condizioni soggettive del lavoratore (l'anzianità lavorativa) e della consistenza numerica dell'azienda. In questo senso, pertanto, l'assenza di una esplicita abrogazione della disciplina contenuta nell'articolo 8 della legge n. 604 del 1966, porta a ritenere che la maggiorazione ivi contemplata venga a porsi come disciplina speciale derogatoria di quella ordinaria e, pertanto, non investita dalla modifica in commento. Diversamente, anche sul punto, rilevanti appaiono i dubbi di costituzionalità dello schema di decreto in esame. La delega, infatti, non ha ad oggetto una rideterminazione della indennità in sede di regime obbligatorio di tutela.
    b) la tutela rispetto ai licenziamenti considerati inefficaci. Ai sensi dello schema di decreto in esame, la violazione dell'articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966, come già previsto attualmente dall'articolo 18, comma 6, dello Statuto dei lavoratori, costituisce una ipotesi di inefficacia-illegittimità, sanzionata, come tale, con il riconoscimento di una indennità che, come detto, nell'ipotesi in esame non può superare, il predetto massimo di sei mensilità. Simile regime sanzionatorio rappresenta una svolta strutturale rispetto al passato, in quanto riduce a mera illegittimità un vizio incidente sulla stessa esistenza dell'atto risolutivo del rapporto, atto che, per la norma di riferimento (l'articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966), doveva qualificarsi come tamquam non esset; l'omessa comunicazione dei motivi era equiparata ad un licenziamento intimato in forma verbale e, come tale incideva sulla idoneità dell'atto alla risoluzione del rapporto di lavoro. La conseguente inefficacia del provvedimento comportava il diritto del lavoratore al ripristino del rapporto di lavoro in base alle ordinarie regole dell'inadempimento civile. La riforma del 2012, però, ha riguardato solamente l'ambito della cosiddetta tutela reale, riferendosi solamente ai soggetti destinatari del regime di cui all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. A seguito di quella riforma, pertanto, si è creato un effetto paradossale, in base al quale, la sanzione dell'inefficacia-inesistenza dell'atto, dovuta all'omessa comunicazione dei motivi del recesso, ha continuato a trovare applicazione nei confronti dei rapporti assistiti dalla tutela obbligatoria di cui all'articolo 8 della legge n. 604 del 1966. Lo schema di decreto in esame, seppure, come già rilevato, applicabile ai neo assunti, interviene su questa discrasia del sistema, equiparando gli effetti del vizio formale in ogni contesto aziendale, anche se la discrasia permane per i lavoratori esclusi dalla riforma, cioè per coloro che al momento dell'entrata in vigore del decreto siano già lavoratori dipendenti presso datori di lavoro estranei all'applicazione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. L'articolo 9 dello schema di decreto in esame, nel quantificare le spettanze indennitarie potenzialmente fruibili dai dipendenti delle cosiddette piccole imprese, menziona espressamente l'articolo 6, comma 1, del medesimo schema di decreto, il quale ha ad oggetto l'offerta di conciliazione che, pertanto, risulta applicabile nei confronti di tutti i licenziamenti nei cui confronti troverà applicazione la riforma in esame, esclusi, pertanto, quelli che restano assoggettati alle tutele dell'articolo 18 dello Statuto dei Pag. 75lavoratori e quelli destinatari del regime di cui all'articolo 8 della legge n. 604 del 1966;
   considerato inoltre che:
    ulteriore elemento di novità, per i licenziamenti, riguarda il tentativo di ridurre al minimo, sino ad eliminarla nei fatti, la possibilità di reintegrare il lavoratore licenziato in mancanza di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo;
    l'articolo 3 dello schema di decreto in esame recita: «Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria»;
    in base alla disposizione citata, soltanto nel caso in cui, in giudizio, venga direttamente dimostrato che il fatto materiale addebitato al lavoratore, tanto grave da giustificarne il licenziamento, in realtà non sussiste, quest'ultimo potrà essere reintegrato, altrimenti egli avrà diritto solo al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro, e non superiore a ventiquattro mensilità;
    tale disposizione presenta evidenti profili di illegittimità costituzionale;
    anzitutto appare necessario precisare cosa intenda il legislatore delegato quando stabilisce che «l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore» debba essere «direttamente dimostrata». Non si comprende infatti cosa possa avvenire nel caso in cui nel corso del processo si pervenga indirettamente a dimostrare che il fatto contestato non sussiste;
    nell'ordinamento italiano esistono le prove dirette e quelle indirette, le prime idonee a dimostrare immediatamente un fatto senza alcuna operazione logica, le seconde, viceversa, sono gli indizi, sulla base dei quali opera la «presunzione semplice». L'articolo 2727 del codice civile dispone che «le presunzioni sono le conseguenze che il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto», che si aggiungono all'interpretazione degli indizi come presunzioni «gravi, precise e concordanti» ai sensi dell'articolo 2729 del codice civile;
    ulteriore problema è costituito dalla impossibilità per il giudice di una valutazione secondo equità, in ordine alla sproporzione del licenziamento rispetto ad altre sanzioni conservative quali il richiamo, la multa o la sospensione;
    la «proporzionalità» delle sanzioni, infatti, è un principio direttamente desumibile dall'articolo 2106 del codice civile per cui l'applicazione delle sanzioni disciplinari deve avvenire «secondo la gravità dell'infrazione»;
    volendo applicare letteralmente la disposizione di cui allo schema di decreto in esame, sembrerebbe non aver diritto alla reintegrazione, ad esempio, il lavoratore cui verrà contestato il ritardo sul luogo di lavoro anche di solo un minuto. Infatti, sebbene la sanzione sia evidentemente sproporzionata rispetto all'addebito, il giudice non potrà applicare il principio, costituzionalmente orientato, dell'equità e proporzione, ma, accertato il ritardo, potrà, al massimo, condannare il datore di lavoro al pagamento dell'indennità;
    in tal modo, tuttavia, la sanzione risulterà arbitraria e irragionevole;
    la disposizione in esame, ignora come, almeno nei licenziamenti per giusta causa, il fatto materiale imputabile di per sé, non giustifichi il recesso, ma vada analizzato ed interpretato alla luce di criteri soggettivi ed oggettivi che devono Pag. 76accertare l'irrimediabile frattura del vincolo fiduciario tra lavoratore e datore;
    in particolare, come ha recentemente ricordato la Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 1459/2011), ai fini della valutazione della legittimità del licenziamento per giusta causa, è necessario accertare se, in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso fra le parti, e alla qualità ed al grado di fiducia che il rapporto comporta, la specifica mancanza risulti oggettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo grave, così da far venir meno, la fiducia che il datore ripone nel proprio dipendente, senza che possa assumere rilievo l'assenza o la modesta entità del danno patrimoniale subito dal datore;
    l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ovvero di un comportamento tale che non consenta la prosecuzione del rapporto di lavoro;
    l'ambito di applicazione della reintegrazione, peraltro, viene ulteriormente ristretto, non potendo applicarsi nel caso della cosiddetta sproporzionalità qualificata, integrata nell'ipotesi in cui, per il medesimo fatto, il contratto collettivo preveda una sanzione disciplinare solamente conservativa. L'attuale formulazione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori stabilisce che, qualora il fatto contestato e posto alla base del licenziamento sussista, ma il contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria preveda sanzioni di tipo conservativo, il datore di lavoro debba reintegrare il dipendente;
   considerato, infine, che:
    l'articolo 10 dello schema di decreto in esame disciplina le conseguenze del licenziamento collettivo illegittimo, nel senso di una riduzione dell'area della tutela reale e, contemporaneamente, di un ampliamento dell'area della tutela obbligatoria;
    in particolare, la disposizione prevede l'applicazione della tutela reale nel solo caso in cui il licenziamento sia stato intimato senza l'osservanza della forma scritta e l'applicazione della tutela obbligatoria di cui all'articolo 3, comma 1, nel caso di violazione delle disposizioni relative alla procedura sindacale e ai criteri di scelta dei lavoratori da licenziare;
    per quanto riguarda tale previsione, è alquanto dubbio che l'espressione «licenziamenti economici», contenuta nella disposizione di delega, possa ritenersi riferibile anche i licenziamenti collettivi. Si è dunque in presenza di un chiaro eccesso di delega che configura una violazione dell'articolo 76 della Costituzione;
    peraltro, deve considerarsi che, nel corso della discussione svoltasi in ambito parlamentare in occasione dell'approvazione della legge delega, si è sempre considerato che l'esclusione, per i lavoratori assunti con il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, dell'applicazione di sanzioni di tipo conservativo per i licenziamenti economici, si riferisse alle sole fattispecie relative a licenziamenti individuali, non essendo in discussione la disciplina dei licenziamenti collettivi di cui alla legge 23 luglio 1991, n. 223;
    anche al di là di tali considerazioni, appare tuttavia come l'effetto delle nuove disposizioni sia tutt'altro che ragionevole rischiando, al contrario, di determinare disparità di trattamento e situazioni di difficile gestione: in un'azienda con più di quindici dipendenti che effettui licenziamenti collettivi che riguardino tanto lavoratori già in servizio quanto lavoratori assunti successivamente all'entrata in vigore del decreto in esame, in caso di mancato rispetto dei criteri di scelta previsti dalla legge n. 223 del 1991, si creerebbe la paradossale situazione per la quale i vecchi assunti sarebbero reintegrati, mentre ai nuovi assunti sarebbe riconosciuta solo una tutela indennitaria;
    sostenere che la facilità di licenziamento stimoli l'impresa ad attivare assunzioni stabili è un principio sconfessato Pag. 77dal ricorso massivo a contratti precari proprio in quelle realtà produttive sotto i quindici dipendenti ove l'articolo 18 non è stato mai applicato, così come sconfessabile è il sostenere che tali misure possano ovviare alla perdurante assenza di cospicui investimenti nel bel paese da parte di investitori stranieri;
    poca trasparenza, difficoltà nel reperire informazioni, asimmetria nel livello e nella facilità d'accesso consentita allo Stato e ai suoi organi amministrativi rispetto a quella dei normali cittadini, malagiustizia, carenze infrastrutturali, sono questi gli elementi che influenzano in maniera rilevante le decisioni delle aziende straniere che vogliono investire in Italia, non altri;
    la dovuta adesione ai principi costituzionali di tutela del lavoro, seppur nell'ambito di un itinerario di riforma della disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, non può non avere il fine di promuovere per ciascun cittadino la continuità della sussistenza di un posto di lavoro e individuando le doverose garanzie e gli opportuni temperamenti per i casi in cui si renda necessario adottare i licenziamenti; tale traccia è completamente assente nel provvedimento in esame;
   esprime

PARERE CONTRARIO

«Tripiedi, Ciprini, Cominardi, Chimienti, Lombardi, Dall'Osso».

Pag. 78

ALLEGATO 5

Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. (Atto n. 134)

PROPOSTA ALTERNATIVA DI PARERE DEI DEPUTATI PIZZOLANTE E BOSCO

  La XI Commissione
   esaminato lo schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (atto n. 134);
   esprime

PARERE FAVOREVOLE

«Pizzolante, Bosco».

Pag. 79

ALLEGATO 6

Schema di decreto legislativo recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati (Atto n. 135)

PARERE APPROVATO

  La XI Commissione,
   esaminato lo schema di decreto legislativo recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Atto n. 135);
   rilevato con favore che il provvedimento, nel rimodulare la disciplina dell'ASpI e della mini-ASpI, individua requisiti per l'accesso alla NASpI meno stringenti di quelli previsti a legislazione vigente per il riconoscimento dell'ASpI;
   osservato, in particolare, che, secondo i dati riportati nella relazione tecnica allegata allo schema in esame, per effetto delle innovazioni introdotte dal provvedimento, il numero dei soggetti che presentano requisiti utili ai fini della percezione della prestazione di assicurazione sociale per l'impiego aumenterebbe dal 96 al 97,2 per cento del totale dei lavoratori assicurati e crescerebbe sensibilmente la frequenza nell'accesso a detta prestazione;
   valutato che la previsione di uno strumento di sostegno al reddito in caso di disoccupazione involontaria di carattere tendenzialmente universale assume particolare rilievo nel quadro di progressiva ridefinizione dell'ambito di applicazione degli ammortizzatori sociali;
   giudicate, altresì con favore le disposizioni concernenti l'istituzione, in via sperimentale di un nuovo trattamento di sostegno al reddito destinato ai lavoratori titolari di un contratto di collaborazione, che presenta caratteristiche ispirate a quelle della NASpI e richiede il possesso di requisiti inferiori rispetto a quelli previsti a legislazione vigente per l'accesso alla indennità una tantum di cui all'articolo 2, commi da 51 a 56, della legge 28 giugno 2012, n. 92;
   considerata positivamente l'introduzione, ancorché in via sperimentale, di un assegno di disoccupazione, che assicura, al termine della fruizione degli ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria, una prestazione di carattere assistenziale per i lavoratori in condizioni di maggior bisogno che non abbiano trovato una nuova occupazione;
   segnalata, con riferimento all'articolo 14, l'opportunità di evitare il rinvio all'applicazione di altre disposizioni «in quanto compatibili», in linea con le raccomandazioni in materia di formulazione tecnica dei testi legislativi;
   considerato che l'articolo 15 dello schema dà parzialmente attuazione al criterio direttivo di cui all'articolo 1, comma 2, lettera b), numero 3, della legge 10 dicembre 2014, n. 183, relativo all'universalizzazione del campo di applicazione dell'ASpI, con estensione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, fino al loro superamento, mediante l'abrogazione degli attuali strumenti di sostegno del reddito, l'eventuale modifica delle modalità di accreditamento Pag. 80dei contributi e l'automaticità delle prestazioni, e la previsione, prima dell'entrata a regime, di un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite;
   rilevato che la disciplina di cui all'articolo 15 può considerarsi esaustiva della delega di cui alla legge n. 183 del 2014 nella misura in cui essa si intenda riferita ad una fase di sperimentazione a risorse definite da esaurirsi all'atto del superamento dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa;
   ritenuto che, anche al fine di corrispondere al criterio direttivo della delega contenuta nella legge n. 183 del 2014, sia opportuno assicurare l'estensione della DIS-COLL fino al superamento dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa;
   osservato che l'articolo 15, comma 15, e l'articolo 16, comma 8, rinviano, per la copertura degli oneri finanziari derivanti dall'estensione a periodi successivi a quelli considerati nel provvedimento delle disposizioni in materia di DIS-COLL e di ASDI, a stanziamenti previsti da successivi provvedimenti legislativi che rendano disponibili le occorrenti risorse finanziarie, richiamando in particolare quelle derivanti dai decreti legislativi di cui alla legge n. 183 del 2014;
   segnalato che, nella relazione approvata dalla Commissione, nel corso dell'esame in seconda lettura della manovra di bilancio per il triennio 2015-2017, con riferimento allo stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017, si è evidenziata l'esigenza che, nel corso del presente esercizio, fosse effettuato un attento monitoraggio della spesa destinata al finanziamento degli ammortizzatori sociali e fosse garantita l'effettiva disponibilità di un ammontare di risorse tale da assicurare, da un lato, la copertura finanziaria degli interventi previsti dalla legge 10 dicembre 2014, n. 183, e, dall'altro, una adeguata tutela dei lavoratori beneficiari dei trattamenti, anche in deroga alla normativa vigente, attualmente previsti;
   rilevato che, per effetto del provvedimento in esame e dello schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Atto n. 134), si determina un consistente utilizzo della dotazione del fondo di cui all'articolo 1, comma 107, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, finalizzato a fare fronte agli oneri derivanti dall'attuazione dei provvedimenti normativi di riforma in materia di lavoro;
   considerato, pertanto, essenziale individuare già nel corso dell'anno 2015 le risorse necessarie ad assicurare la prosecuzione degli interventi di cui all'articolo 15, fino al superamento del contratto di collaborazione coordinata e continuativa, e all'articolo 16, anche al fine di assicurare la piena attuazione dei criteri di delega di cui all'articolo 1, comma 2, lettera b), numeri 3 e 5;
   evidenziato che l'articolo 17, comma 2, riconosce ai lavoratori illegittimamente licenziati il diritto a ricevere un voucher rappresentativo della dote individuale di ricollocazione, mentre il comma 1 del medesimo articolo 17 prevede uno stanziamento limitato a 50 milioni di euro nell'anno 2015 e a 20 milioni di euro nell'anno 2016;
   rilevato che, in assenza di un rifinanziamento della misura ad opera di uno dei decreti legislativi attuativi dei criteri di delega di cui alla legge n. 183 del 2014, secondo quanto stabilito dall'articolo 17, comma 5, del provvedimento, tale diritto avrebbe nel 2016 una portata assai più limitata di quella riconosciuta nell'anno 2015, mentre nell'anno 2017 sarebbe sostanzialmente privo di effettività;
   evidenziato, altresì, che la piena operatività del contratto di ricollocazione di cui all'articolo 17 è subordinata all'adozione di un ulteriore decreto legislativo attuativo dell'articolo 1, comma 4, della legge n. 183 del 2014, che dovrà regolamentare la definizione del profilo personale di occupabilità dei lavoratori, i diritti Pag. 81e i doveri connessi alla stipula dei contratti di ricollocazione tra lavoratori e agenzie per il lavoro, l'ammontare del voucher, nonché il risultato occupazionale che l'agenzia deve conseguire per incassare il medesimo voucher;
   segnalata l'esigenza di recepire il contenuto dell'intesa sancita dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano il 12 febbraio 2015;
   esprime

PARERE FAVOREVOLE

  con le seguenti condizioni:
   all'articolo 7, comma 3, dopo le parole: entrata in vigore del presente decreto aggiungere le seguenti: , sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano,;
   all'articolo 11, comma 1, alinea, premettere le parole: Ferme restando le sanzioni previste dal decreto di cui all'articolo 7, comma 3.

  Conseguentemente, al medesimo comma 1, sopprimere la lettera b).
   all'articolo 16, comma 6, alinea, dopo le parole: Ministro dell'economia e delle finanze aggiungere le seguenti: , sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano,;
   sostituire l'articolo 17 con il seguente:
  Art. 17. – (Contratto di ricollocazione). – 1. Il Fondo per le politiche attive del lavoro, istituito dall'articolo 1, comma 215, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, è incrementato per l'anno 2015 di 32 milioni di euro provenienti dal gettito relativo al contributo di cui all'articolo 2, comma 31, della legge 28 giugno 2012, n. 92. Nel rispetto dei principi del presente decreto, le Regioni, nell'ambito della programmazione delle politiche attive del lavoro, di cui all'articolo 1, comma, lettera u), della legge 10 dicembre 2014, n. 183, possono attuare e finanziare il contratto di ricollocazione.
  2. Il soggetto in stato di disoccupazione, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, ha diritto di ricevere dai servizi per il lavoro pubblici o dai soggetti privati accreditati un servizio di assistenza intensiva nella ricerca del lavoro attraverso la stipulazione del contratto di ricollocazione, finanziato ai sensi del comma 1, a condizione che il soggetto effettui la procedura di definizione del profilo personale di occupabilità, ai sensi del decreto legislativo di cui all'articolo 1, comma 4, della legge 10 dicembre 2014, n. 183, in materia di politiche attive per l'impiego.
  3. A seguito della definizione del profilo personale di occupabilità, al soggetto è riconosciuta una dote individuale di ricollocazione spendibile presso i soggetti accreditati.
  4. Il contratto di ricollocazione prevede:
   a) il diritto del soggetto a un'assistenza appropriata nella ricerca della nuova occupazione, programmata, strutturata e gestita secondo le migliori tecniche del settore, da parte del soggetto accreditato;
   b) il dovere del soggetto di rendersi parte attiva rispetto alle iniziative proposte dal soggetto accreditato;
   c) il diritto del soggetto a partecipare alle iniziative di ricerca, addestramento e riqualificazione professionale mirate a sbocchi occupazionali coerenti con il fabbisogno espresso dal mercato del lavoro, organizzate e predisposte dal soggetto accreditato.

  5. L'ammontare della dote individuale è proporzionato in relazione al profilo personale di occupabilità e il soggetto accreditato ha diritto di incassarlo soltanto a risultato occupazionale ottenuto, secondo quanto stabilito dal decreto legislativo di cui al comma 2.Pag. 82
  6. Il soggetto decade dalla dote individuale in caso di:
   a) mancata partecipazione alle iniziative previste dalle lettere b) e c) del comma 4;
   b) rifiuto senza giustificato motivo di una congrua offerta di lavoro ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, pervenuta in seguito all'attività di accompagnamento attivo al lavoro;
   c) perdita dello stato di disoccupazione.

  7. All'eventuale estensione del rifinanziamento del Fondo di cui al comma 1 per gli anni successivi al 2015 si provvede con quota parte delle risorse derivanti dai decreti legislativi attuativi dei criteri di delega di cui alla legge 10 dicembre 2014, n. 183.
   e con le seguenti osservazioni:
   valuti il Governo l'esigenza di individuare le risorse necessarie ad assicurare il riconoscimento della contribuzione figurativa, senza limiti di retribuzione, nei casi di fruizione della NASpI e della DIS-COLL, anche al fine di garantire adeguati trattamenti pensionistici grazie alla creazione di montanti contributivi più rilevanti e meno frammentati;
   valuti il Governo l'esigenza di introdurre correttivi ai criteri di calcolo della durata della NASpI previsti dall'articolo 5 che tengano conto della necessità di non penalizzare i lavoratori stagionali, eventualmente prevedendo una disciplina transitoria per la detrazione, ai fini di tale calcolo, dei periodi che hanno già dato luogo ad erogazioni di prestazioni di assicurazione per l'impiego
   con riferimento ai criteri di calcolo della durata della NASpI di cui all'articolo 5, valuti il Governo l'esigenza di garantire adeguate tutele per i lavoratori con età anagrafica più elevata che negli anni considerati ai fini della determinazione della durata del trattamento abbiano avuto una carriera contributiva discontinua, tenuto conto delle maggiori difficoltà esistenti ai fini di una loro ricollocazione;
   con riferimento all'attuazione del principio di condizionalità ai fini dell'erogazione della NASpI, valuti il Governo l'opportunità di prevedere nel decreto di cui all'articolo 7, comma 3, che nell'ambito dei percorsi di riqualificazione professionale sia favorito il conseguimento, da parte dei lavoratori interessati, di qualifiche e diplomi di istruzione e formazione professionale, nonché di certificati e diplomi di specializzazione tecnica superiore, anche mediante il riconoscimento di specifici crediti formativi;
   valuti il Governo l'opportunità di prevedere, all'articolo 16, comma 1, che, fermo restando l'ammontare delle risorse stanziate nell'ambito del Fondo di cui all'articolo 16, comma 7, l'ASDI sia riconosciuta anche a quanti nell'anno 2015 abbiano completato la fruizione dell'ASpI per la sua intera durata, siano privi di occupazione e si trovino in una condizione economica di bisogno;
   valuti il Governo l'opportunità di rivedere i criteri di determinazione dell'ammontare dell'ASDI, individuati dall'articolo 16, comma 3, al fine di stabilire, fermo restando l'ammontare delle risorse stanziate nell'ambito del Fondo di cui all'articolo 16, comma 7, un importo in valore assoluto dell'assegno, correlato all'esigenza di garantire un livello di vita decoroso, escludendo un rapporto diretto tra l'ammontare della prestazione e quello dell'ultima indennità NASpI percepita;
   con riferimento alla formulazione del provvedimento valuti il Governo l'opportunità di:
   a) prevedere che il decreto di cui all'articolo 7, comma 3, individui le sanzioni anche per l'inottemperanza agli obblighi di partecipazione alle azioni di politica attiva di cui al comma 2 del medesimo articolo 7;
   b) fare riferimento, all'articolo 13, comma 1, ai fini della corresponsione della NASpI nella misura di cui all'articolo 4, non solo al personale artistico, ma al personale artistico, teatrale e cinematografico, Pag. 83in conformità alla disciplina prevista a legislazione vigente in attuazione di quanto disposto dall'articolo 2, commi 1, 2, 38 e 69, lettera c), della legge 28 giugno 2012, n. 92;
   c) individuare in modo puntuale, all'articolo 14, le disposizioni in materia di ASpI che permangono applicabili alla NASpI, anche al fine di agevolare la ricostruzione della nuova disciplina ed escludere incertezze nella sua applicazione, assicurando in particolare che:
    1) l'ASpI continui ad essere riconosciuta fino al termine dell'anno 2015 ai lavoratori sospesi per crisi aziendali o occupazionali, secondo quanto previsto dall'articolo 3, commi 17 e 18, della legge 28 giugno 2012, n. 92;
    2) ai fini del riconoscimento del diritto alla NASpI continuino a essere considerate equivalenti alla perdita involontaria dell'occupazione le dimissioni volontarie di cui all'articolo 55 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, nonché quelle avvenute per giusta causa;
   d) rivedere le disposizioni dell'articolo 15, che introducono, per gli eventi di disoccupazione verificatisi nell'anno 2015, una indennità di disoccupazione per i lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, al fine di assicurare un loro migliore coordinamento con la disciplina prevista a legislazione vigente dall'articolo 2, commi da 51 a 56, della legge 28 giugno 2012, n. 92, stabilendo in particolare che:
    1) al primo periodo del comma 13, sia stabilito che i soggetti di cui all'articolo 2, commi da 51 a 56, della legge 28 giugno 2012, n. 92, fruiscano esclusivamente delle prestazioni dell'articolo 15 per gli eventi di disoccupazione relativi all'anno 2015 e non solamente fino al 31 dicembre 2015;
    2) al secondo periodo del comma 13, vengano fatti salvi anche i diritti maturati in base alla legislazione vigente in relazione a eventi di disoccupazione verificatisi nell'anno 2014;
   e) rivedere le ipotesi di decadenza dalla DIS-COLL previste dall'articolo 15, al fine di renderle omogenee a quelle previste, con riferimento alla NASpI, dall'articolo 11;
   f) precisare che le disposizioni di cui all'articolo 16, comma 2, relative all'individuazione dei beneficiari del nuovo assegno di disoccupazione, si riferiscano al periodo di sperimentazione di cui al comma 1, anziché al primo anno di applicazione della nuova normativa;
   g) chiarire che il decreto legislativo in materia di politiche attive per l'impiego assicuri, in conformità al criterio di delega di cui all'articolo 1, comma 4, lettera p), della legge n. 183 del 2014, che la remunerazione delle agenzie per il lavoro sulla base del risultato ottenuto, di cui all'articolo 17, sia corrisposta in presenza dell'effettivo inserimento per un congruo periodo del lavoratore ricollocato.

Pag. 84

ALLEGATO 7

Schema di decreto legislativo recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati (Atto n. 135)

PROPOSTA ALTERNATIVA DI PARERE DEI DEPUTATI AIRAUDO E PLACIDO

  La XI Commissione,
   esaminato lo schema di decreto legislativo recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Atto n. 135);
   premesso che la legge n. 183 del 2014 (Jobs Act) stabilisce che il Governo adotti uno o più decreti legislativi «allo scopo di assicurare, in caso di disoccupazione involontaria, tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori, di razionalizzare la normativa in materia di integrazione salariale e di favorire il coinvolgimento attivo di quanti siano espulsi dal mercato del lavoro ovvero siano beneficiari di ammortizzatori sociali, semplificando le procedure amministrative e riducendo gli oneri non salariali del lavoro». I decreti legislativi devono tenere conto delle peculiarità dei diversi settori produttivi;
   valutato che per l'attuazione della delega la legge reca principi e criteri direttivi divisi in due punti, a) e b), il primo dedicato al sostegno al reddito in costanza di lavoro, il secondo alla disoccupazione involontaria. Lo schema di decreto legislativo sottoposto al parere reca interventi solo per la disoccupazione involontaria. La scelta di intervenire con due diversi decreti legislativi non contestuali è di per sé motivo di preoccupazione;
   considerato che il sistema di ammortizzatori sociali che è stato ridisegnato dallo schema di decreto legislativo esaminato manca di qualsiasi raccordo con la parte relativa alle misure di sostegno al reddito in costanza di lavoro, che al momento sono state ridotte e non sembra che l'intenzione del Governo sia quella di andarle a rafforzare. Tale situazione finirà con il determinare una diminuzione complessiva delle tutele in favore dei lavoratori che incolpevolmente abbiano perduto il posto del lavoro. Infatti la CIG in deroga è già stata dimezzata, l'indennità di mobilità cessa con il 2016, con il contratto a tutele crescenti il licenziamento diventa di fatto libero, i contratti di solidarietà di tipo B, quei contratti cioè che riguardano le imprese con meno di 15 dipendenti o che non rientrano nel campo di applicazione della cassa integrazione straordinaria, non sono stati rifinanziati, l'indennità dei contratti di solidarietà di tipo A è stata ridotta, la CIG straordinaria resta applicabile per le sole ristrutturazioni e quindi diventa irrilevante. A tale proposito, è sufficiente guardare ai dati del rapporto 2014 sulla cassa integrazione dell'Osservatorio CIG della CGIL Nazionale. Il bilancio del 2014 della cassa integrazione straordinaria conferma la tendenza in aumento (+16,91 per cento) sullo stesso periodo del 2013. Tuttavia diminuiscono le domande di ristrutturazione aziendale (202 per un –7,34 per cento) come quelle di riorganizzazione aziendale (231 per un –6,85 Pag. 85per cento). Nello studio della CGIL si osserva che «gli interventi che prevedono percorsi di reinvestimento e rinnovamento strutturale delle aziende continuano ad essere irrilevanti, pari al 5,42 per cento del totale dei decreti (erano il 6,81 per cento nel 2013)»;
   evidenziato che la principale novità dello schema di decreto delegato è l'introduzione della NASpI (Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l'Impiego), dell'ASDI (Assegno di Disoccupazione) e della DIS-COLL (Indennità di disoccupazione per i lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa e a progetto), che sostituiranno le indennità di disoccupazione ASpI e Mini ASpI, a distanza di poco più di due anni dalla loro introduzione da parte della legge n. 92 del 2012 (riforma del mercato del lavoro). In tal modo si intenderebbe procedere all'azzeramento di esperienze che spesso hanno prodotto confusione nella loro applicazione, ma solo parzialmente e senza realizzare quella riforma universale degli ammortizzatori sociali di cui il mondo del lavoro e i lavoratori hanno necessità;
   valutato che l'articolo 14 opera un generico rinvio alle disposizioni in materia di ASpI in quanto compatibili, senza meglio specificare quali siano le norme effettivamente applicabili. Inoltre, lo schema di decreto legislativo non procede all'abrogazione di alcuna precedente disposizione: il combinato disposto di queste due circostanze determinerà una sicura situazione di incertezza applicativa che porterà a forti disagi per i lavoratori e ulteriori ritardi nell'erogazione delle indennità rispetto a quanto accade già oggi;
   osservato che la NASpI, poi, non rappresenta una forma di tutela universale nei confronti della disoccupazione, né il decreto complessivamente assolve alla funzione di rendere le misure veramente universali. In particolare per i lavoratori e le lavoratrici parasubordinati si rimarcano notevoli differenze, sia per requisiti che per durata, rispetto ai lavoratori subordinati. Aver limitato il sostegno per i collaboratori coordinati e continuativi al mero superamento della «legge Fornero» che prevedeva una indennità una tantum collegata ad una eventuale disponibilità finanziaria per il solo collaboratore a progetto in regime di mono-committenza e con precise condizioni di reddito e contrazione di lavoro è del tutto inadeguato e non corrispondente al contenuto della delega;
   considerato che lo schema di decreto legislativo non contiene una vera riforma degli ammortizzatori sociali, che introduca un sussidio unico di disoccupazione, esteso a tutte le categorie di lavoratori in stato di disoccupazione, indipendentemente dalla tipologia contrattuale di provenienza e dall'anzianità contributiva e assicurativa; per realizzare tale indispensabile e indifferibile riforma è necessario ispirarsi al reddito minimo garantito, al fine di dare attuazione al diritto fondamentale sancito dall'articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e ai principi di cui agli articoli 2, 3, 4 e 38 della Costituzione;
   tenuto conto che la tutela universalistica nei confronti della disoccupazione deve essere finalizzata a garantire la dignità della persona e a favorire il contrasto alla marginalità, rafforzando le politiche finalizzate al reinserimento nel mercato del lavoro: niente di tutto ciò è presente nello schema di decreto legislativo, nel quale non solo non si fa alcun riferimento al reperimento di maggiori risorse finanziarie necessarie ad assicurare il sostegno al reddito, ma non si provvede ad incrementare le irrisorie risorse a favore delle politiche attive del lavoro;
   preso atto che la spesa sostenuta nel 2011 per le politiche attive è pari solo all'1,8 per cento del totale degli stanziamenti per le politiche del lavoro nel loro complesso (pari allo 0,03 per cento del PIL nel 2011, sceso ulteriormente allo 0,025 nel 2012), del tutto fuori misura rispetto alla media dell'UE a 28 (11,2 per cento) e alla Germania (19,2 per cento). Parliamo di una spesa circa 5 volte inferiore alla Pag. 86media dell'Unione europea e 11 volte inferiore alla Germania (se noi spendiamo 500 milioni di euro, la Germania spende 5 miliardi). La spesa per i servizi per il lavoro è quasi del tutto assorbita dai costi dei Centri per l'impiego. Tuttavia, nei nostri centri per l'impiego lavorano in tutto circa 8.600 persone, di cui 1.500 precari, mentre in Germania sono 110.000 i dipendenti pubblici che lavorano nell'agenzia del lavoro. Questi numeri devono far riflettere sul fatto che i Governi italiani, e quello Renzi tra essi, non fanno nulla per le politiche attive del lavoro, nonostante ci sia un grande problema di ricollocazione dei lavoratori e di sostegno ai lavoratori discontinui. Per il processo di riqualificazione, formazione, orientamento, bilancio delle competenze, presa in carico servono risorse umane e investimenti che non c'erano nel Jobs Act e non ci sono nel decreto attuativo esaminato;
   considerato che, solo per il 2015, a fronte di una spesa complessiva di 2.200 milioni di euro destinati alle politiche passive è prevista una spesa di soli 50 milioni per il contratto di ricollocazione. Il contratto di collocazione – presente nello schema di decreto – è stato configurato come una prestazione puramente accessoria, collegata alle fattispecie del licenziamento illegittimo per motivi oggettivi o collettivi. Con tale configurazione, l'unica misura di politica attiva capace di imporre una condizionalità positiva per affermare il diritto alla riattivazione attraverso reali percorsi di riqualificazioni e reimpiego, si risolve nella somministrazione di un voucher. Il contratto di collocazione va riscritto come misura generalizzata di politica attiva per tutti i lavoratori che perdono il lavoro, che rappresenti un vero «contratto» tra il centro per l'impiego e il lavoratore licenziato (tutti i licenziamenti senza giusta causa e quelli collettivi) e non una mera prestazione accessoria (voucher) e va prevista l'introduzione di una corresponsabilità e partecipazione nel placement del lavoratore anche dell'impresa che lo licenzi, come sostegno alle politiche di workfare;
   osservato che il provvedimento non presenta un'estensione tale da superare i limiti della vecchia mini-ASpI, tant’è che per i lavoratori stagionali il nuovo meccanismo risulta penalizzante;
   valutato che il diritto alla NASpI viene riconosciuto a fronte di risoluzione consensuale, ove la stessa avvenga nell'ambito delle procedure per i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, mentre ingiustificatamente non è riconosciuta nel caso di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro concordata nel rispetto di accordi collettivi stipulati nell'ambito di procedure finalizzate alla riduzione dei livelli occupazionali qualora sia previsto l'intervento di prestazioni a sostegno del reddito, ivi comprese quelle a carico dei fondi di solidarietà;
   rilevato che l'importo della NASpI nel 2015 verrà decurtato progressivamente del 3 per cento mensile a partire dal quinto mese l'importo. Nel 2016, invece, la decurtazione viene anticipata al quarto mese. La decurtazione dell'indennità in caso di disoccupazione involontaria è una ingiustizia sorretta dall'idea che quando il lavoratore permanga nella situazione di inoccupato per più mesi la responsabilità sia sua o anche sua. La decurtazione contrasta con l'articolo 38 della Costituzione che richiede di assicurare i mezzi adeguati al lavoratore in caso di disoccupazione involontaria. Inoltre, l'aver previsto che già dopo 3 mesi di fruizione si introduca una penalizzazione mensile del 3 per cento non tiene conto delle reali e attuali disagiate condizioni occupazionali e sociali e ciò tanto più vista la conferma del permanere di tali circostanze per altri due anni, come previsto dallo stesso Governo nella Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza 2014 (disoccupazione che rimane sopra il 12 per cento fino a fine 2016). La decurtazione va eliminata;
   tenuto conto che l'articolo 5 precisa che la NASpI viene corrisposta per un numero di settimane pari alla metà di quelle lavorate negli ultimi 4 anni. Quindi, Pag. 87al massimo, si potrà percepire l'indennità per 24 mesi, ma questo solo fino al 2016. Invece, a partire dal 2017, l'indennità potrà essere percepita al massimo per 78 settimane (quasi 18 mesi). Non aver tenuto conto nel calcolo della durata dell'indennità dell'età anagrafica del soggetto espone a maggior rischio sociale persone con maggiori difficoltà di ricollocazione. Considerata l'aumento dell'età pensionistica prodotto dalla «manovra» Fornero, la situazione – già difficile per gli ultracinquantenni – sarà drammatica per il reinserimento lavorativo degli ultra-sessantenni che perdano il lavoro. Per tale gruppo di lavoratori andrebbero stabilito un aumento della durata della NASpI, rispetto ai 24 mesi o alle 78 settimane. In generale, per le stesse ragioni esposte al punto precedente (situazione sociale e disoccupazione sopra il 12 per cento fino a fine 2016) la NASpI andrebbe estesa per tutti almeno fino a 24 mesi anche per il 2017;
   considerato che, sebbene sia stato introdotto il calcolo settimanale o in alternativa in giornate ai fini dell'accesso alla NASpI, il computo dei periodi di fruizione continua a fare riferimento alle settimane lavorative;
   preso atto che, per quanto concerne la «contribuzione figurativa», l'aver fissato un tetto per la NASpI oltre il quale non viene riconosciuta e averla esclusa per la DIS-COLL e l'ASDI, rappresenta una pesante penalizzazione per il futuro previdenziale dei lavoratori con un sistema totalmente contributivo in cui gli eventi di disoccupazione sono ricorrenti. Con riferimento al tetto introdotto per la NASpI, il riferimento deve essere l'intera retribuzione in quanto ai lavoratori la cui pensione è soggetta al regime di calcolo contributivo ne consegue un abbassamento del montante sul quale calcolare l'ammontare della prestazione pensionistica e di seguito una perdita economica. Per evitare che ciò accada, non è sufficiente il meccanismo di «neutralizzazione» previsto dall'articolo 12. In più, il tetto individuato (1,4 volte l'indennità NASpI) è decisamente basso e colpisce soprattutto i lavoratori della fascia medio-bassa. Se anche si volesse immaginare l'introduzione di un tetto, questo dovrebbe essere fissato ben più in alto;
   rilevato che l'ASDI è una misura del tutto inadeguata. Viene erogata per una durata massima di sei mesi ed è pari al 75 per cento dell'ultima indennità NASpI percepita e, comunque in misura non superiore all'ammontare dell'assegno sociale. Il riferimento alla quota dell'assegno sociale, pari a 447,61 euro mensili, circa 5.800 annui, comporta che chi ne usufruirà sarà al di sotto del livello della soglia di povertà relativa, dati ISTAT, che per il 2014 è pari a 7.200 euro,
   esprime

PARERE CONTRARIO

«Airaudo, Placido».

Pag. 88

ALLEGATO 8

Schema di decreto legislativo recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati (Atto n. 135)

PROPOSTA ALTERNATIVA DI PARERE DEI DEPUTATI PRATAVIERA E FEDRIGA

  La XI Commissione,
   esaminato lo schema di decreto legislativo in materia di ammortizzatori sociali (Atto Governo n.135), che consta di diciotto articoli, emanato in attuazione dell'articolo 1, comma 2, lettera b), numeri da 1 a 5, della legge n. 183 del 2014;
   preso atto del contenuto dello schema, che prevede l'entrata in vigore del nuovo ammortizzatore sociale, cosiddetto NASpI (Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l'Impiego), in sostituzione delle vigenti ASpI e mini-ASpI, della DIS-COLL (Indennità di disoccupazione per i collaboratori) e dell'ASDI (Assegno di Disoccupazione) in luogo della vigente indennità di disoccupazione;
   ritenuti tutti questi nuovi acronimi più catchword elettorali che effettive e concrete rivoluzioni delle forme di sostegno al reddito, salvo prevedere una reformatio in peius;
   valutato in particolare l'articolo 4 del provvedimento in materia di calcolo e misura della NASpI, ai sensi del quale l'indennità è rapportata alla retribuzione imponibile ai fini previdenziali degli ultimi quattro anni, divisa per il numero di settimane di contribuzione e moltiplicata per il numero 4,33 ed è ridotta progressivamente nella misura del 3 per cento al mese dal primo giorno del quarto mese di fruizione;
   considerato, poi, che l'articolo 5 prevede che la NASpI venga corrisposta mensilmente per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione degli ultimi quattro anni;
   constatato, dunque, che tali disposizioni confermano i timori denunciati dalla Lega Nord in sede di approvazione della legge delega, ovvero che i nuovi trattamenti offrono prestazioni al ribasso rispetto a quelli previgenti e non sono adeguatamente rapportati al costo della vita;
   tenuto conto che l'introduzione nel nostro ordinamento della DIS-COLL si applica ai soli eventi di disoccupazione verificatisi tra il 1o gennaio 2015 ed il 31 dicembre 2015, mantenendo l'attuale forma di tutela contro la disoccupazione per gli eventi verificatisi entro il 2013 e non chiarendo quale copertura si preveda per i casi di disoccupazione relativi al 2014;
   preso atto che ai sensi del comma 2 dell'articolo 16 il sostegno economico dell'ASDI non potrà essere erogato qualora fossero esaurite le risorse del Fondo ad hoc e che in virtù del successivo comma 7, il beneficio è riconosciuto dall'INPS in base all'ordine cronologico delle domande e, nell'ipotesi di insufficienza delle risorse, l'Istituto non prenderà in considerazione ulteriori domande;
   ricordato che già in sede di esame della legge di stabilità del 2015 tutte le Pag. 89forze politiche hanno denunciato insufficienza degli stanziamenti ivi previsti per i nuovi ammortizzatori, pari a 2,2 miliardi di euro per gli anni 2015 e 2016 e 2 miliardi di euro a partire dal 2017;
   ricordato, infatti, che, secondo i dati INPS, il costo degli ammortizzatori sociali nel 2013 è stato di 7,5 miliardi di euro;
   esprime
   PARERE CONTRARIO

«Prataviera, Fedriga».

Pag. 90

ALLEGATO 9

Schema di decreto legislativo recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati (Atto n. 135)

PROPOSTA ALTERNATIVA DI PARERE DEI DEPUTATI TRIPIEDI, CIPRINI, COMINARDI, CHIMIENTI, LOMBARDI E DALL'OSSO

  La XI Commissione,
   esaminato lo schema di decreto legislativo recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Atto n. 135);
   rilevato che:
   a decorrere dal 1o maggio 2015 sarà istituita presso la Gestione prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti e nell'ambito dell'Assicurazione sociale per l'impiego (ASpI), un'indennità mensile di disoccupazione, denominata Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l'Impiego (NASpI), avente la funzione di fornire una tutela di sostegno al reddito ai lavoratori con rapporto di lavoro subordinato che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione. La NASpI sostituisce le prestazioni di ASpI e miniASpI introdotte dall'articolo. 2 della legge n. 92 del 2012 con riferimento agli eventi di disoccupazione verificatisi dal 1o maggio 2015;
   la NASpI è riconosciuta ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione e che presentino congiuntamente i seguenti requisiti:
   a) siano in stato di disoccupazione ai sensi dell'articolo 1, comma 2, lettera c), del decreto legislativo n. 181 del 2000, e successive modificazioni;
   b) possano far valere, nei quattro anni precedenti l'inizio del periodo di disoccupazione, almeno 13 settimane di contribuzione; e che possano far valere 18 giornate di lavoro effettivo o equivalenti, a prescindere dal minimale contributivo, nei 12 mesi che precedono l'inizio del periodo di disoccupazione. La NASpI è riconosciuta anche ai lavoratori che hanno rassegnato le dimissioni per giusta causa e nei casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro;
   l'erogazione della NASpI è condizionata, a pena di decadenza dalla prestazione:
   a) alla permanenza dello stato di disoccupazione di cui all'articolo 1, comma 2, lettera c), del decreto legislativo n. 181 del 2000;
   b) alla regolare partecipazione alle iniziative di attivazione lavorativa nonché ai percorsi di riqualificazione professionale proposti dai servizi competenti;
   alla luce di quanto sopra appare evidente la necessità di apportare significative modifiche in melius rispetto al tetto previsto per la contribuzione figurativa e, soprattutto, rimediare al grave errore di fissare a 18 mesi la durata massima, già a partire dal 2017, anno in cui verrà definitivamente cancellata l'indennità di mobilità;
   ulteriori perplessità suscita la previsione contenuta all'articolo 3, comma 1 Pag. 91lettera c), che introduce tra i requisiti necessari per accedere alla prestazione in NASPI, un periodo pari a 30 giornate di «lavoro effettivo»;
   tale previsione rischia di escludere i lavoratori provenienti da un periodo di cassa integrazione al termine del quale siano destinatari di un provvedimento di licenziamento;
   molti aspetti critici sul tema degli ammortizzatori sono dovuti anche dalle scelte compiute con la legge di stabilità 2015 con particolare riguardo alla contraddittoria scelta di non stanziare risorse aggiuntive per le diverse tipologie di contratti di solidarietà, e alla eliminazione delle risorse destinate alla integrazione degli interventi di fondi ed enti bilaterali in presenza di una sospensione temporanea del lavoro;
   dal punto di vista finanziario va rilevato che il totale degli oneri del provvedimento, indicato nell'articolo 18, ammonta, in termini di saldo netto da finanziare, a 869 milioni di euro nel 2015, al netto di 114 milioni di euro già stanziati per i Co.co.co che vengono destinati alle finalità del presente schema di decreto, a 1.774 milioni di euro nel 2016, a 1.902 milioni di euro nel 2017, a 1.794 milioni di euro nel 2018, a 1.707 milioni di euro nel 2019, a 1.706 milioni di euro nel 2020, a 1.709 milioni di euro nel 2021, a 1.712 milioni di euro nel 2022, a 1.715 milioni di euro nel 2023 e a 1.718 milioni di euro nel 2024;
   ai suddetti oneri si provvede mediante le risorse che con il comma 107 dell'articolo 1 della legge di stabilità 2005 sono state stanziate nell'ambito di un apposito Fondo con dotazione di 2.200 milioni di euro per ciascuno degli anni 2015 e 2016 e di 2.000 milioni a decorrere dal 2017, istituito per la realizzazione della riforma degli ammortizzatori sociali;
   dalla relazione tecnica allegata al provvedimento si desume che i calcoli degli oneri presunti si basano sui dati dei beneficiari della ASPI nel 2013 a cui sono stati aggiunti le maggiori numerosità presunte pari a 100.000 nuovi beneficiari;
   nella relazione tecnica per l'anno 2015 si prevede che il nuovo istituto possa coprire con il sussidio 1.540.000 soggetti, assumendo come tasso di disoccupazione pari al 13 per cento;
   è interessante confrontare il numero dei beneficiari previsti con il numero dei disoccupati, che l'ISTAT calcola essere a dicembre 2014 pari a 3.322.000 unità.
   per il 2016 detto numero verrà adeguato in base alla variazione del tasso di disoccupazione previsto nel DEF 2014.
   nell'anno 2013 i beneficiari sono stati 1.360.397;
   nel 2017, anno in cui il nuovo istituto è esteso anche ai soggetti della ex mobilità, già fruitori dell'ASPI, la platea dei beneficiari aumenta, ma il maggior numero di nuovi entrati è compensato dalla riduzione a 18 mesi della prestazione, che attenua l'onere finanziario.
   nell'ambito degli oneri totali individuati, sono compresi anche quelli connessi alla richiesta di liquidazione anticipata in un'unica soluzione dell'indennità, come previsto la nota tecnica depositata dal Governo durante l’iter al Senato.
   si evidenzia che, nel caso di un numero superiore a quello prevedibile di richiesta di anticipazioni, gli effetti non considerati dal Governo potrebbero, al contrario, provocare una accelerazione consistente di spesa, come rileva la documentazione predisposta dagli uffici della Camera;
   l'anticipazione delle indennità, come prevista dalla legge n. 92 del 2012 era finanziata nel limite di spesa di 20 milioni di euro per ciascun anno del triennio di riferimento;
   per quanto riguarda l'eventuale estensione dopo il 2015 della indennità DIS-COLL, di cui all'articolo 15, il Servizio Bilancio dello Stato della Camera rileva l'opportunità di chiedere chiarimenti al Pag. 92Governo in merito al comma 15, che per la copertura degli oneri, oltre agli stanziamenti da adottare con successivi provvedimenti, fa riferimento alle risorse derivanti dai decreti legislativi di cui alla legge delega n. 183 del 2014, senza specificare a quali specifici criteri di delega ci si riferisca;
   inoltre, il medesimo comma dispone «l'eventuale estensione» senza specificare la platea dei beneficiari per gli anni successivi al 2015, quindi, nel caso fossero i medesimi, è necessario inserire «ai soggetti di cui al presente articolo»;
   per l'assegno di disoccupazione, previsto dall'articolo 16, sono stanziati 200 milioni di euro per il 2015 e 200 milioni di euro per il 2016, risorse iscritte in apposito Fondo creato presso lo stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali;
   l'assegno verrà erogato nei limiti dei suddetti stanziamenti, fino ad esaurimento risorse;
   anche in questo caso il comma 8 dell'articolo 16, che prevede una possibile estensione dell'assegno anche dopo il 2015, in merito alla copertura fa riferimento alle risorse derivanti dai decreti legislativi attuativi della delega, senza specificare di quali decreti si tratti;
   medesima osservazione è riferibile anche all'istituto del contratto di ricollocazione, di cui all'articolo 17, nel caso di estensione agli anni successivi al 2015;
   il questo caso, la norma per il 2015 stanzia un limite di spesa di 32 milioni di euro a valere sulle risorse versate dai datori di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato;
   preso atto che il Servizio Bilancio dello Stato della Camera rileva che in sede di relazione tecnica non vengono indicati i parametri per quantificare gli oneri. Peraltro, il principio del limite di spesa mal si concilia con il qualificare come «diritti» i voucher da spendere presso le agenzie per il lavoro;
   quanto sopra esposto non assume mero valore descrittivo di una nuova situazione giuridica, ma è utile a mettere in luce il farraginoso e caotico tentativo dell'Esecutivo di sostenere il reddito dei lavoratori attraverso modalità che devono evidentemente considerarsi superate; infatti, per quanto presenti, i miglioramenti al regime delle assicurazioni sociali per l'impiego, non colgono l'effettivo bisogno di un radicale mutamento di tendenza nelle prospettive di welfare del nostro paese, ancor più viste alla luce dell'attuale congiuntura economica;
   occorre prendere coscienza che, con la detta congiuntura nonché il persistente stato di crisi finanziaria, risulterà – come peraltro già risulta – estremamente complicato creare lavoro stabile e garantito per tutti;
   la conseguenza di tutto ciò è una progressiva ed irreversibile esclusione di tanti dal tessuto sociale e dunque un depauperamento generale della società, una perdita progressiva di inclusione e di comunità il cui contraltare è un aumento del rischio sociale, della violenza, dell'insicurezza sociale, fonti di rabbia ed arroccamento individuale di alcuni privilegiati sulle proprie posizioni acquisite.
   se mai ce ne fosse bisogno, la criticità della situazione attuale è confermata dai dati: nel primo decennio degli anni duemila l'Italia è risultata il paese dell'Eurozona che è cresciuto al ritmo più lento, circa un terzo della media, meno della metà della Germania, quasi un terzo della Francia; rispetto al picco toccato sei anni fa, il prodotto interno lordo italiano si è ridotto del 9 per cento, il PIL pro capite è diminuito del 10,4 per cento, pari a circa 2.700 euro in meno per abitante, ed è così tornato ai livelli del 1997, costituendo un caso unico (e perciò ancora più preoccupante) tra i Paesi dell'area dell'euro;
   le tabelle ISTAT sul secondo trimestre 2013 rilevano che sono circa 3 milioni i disoccupati e circa 3 milioni le persone che non cercano impiego ma sono disponibili a lavorare; in ambito pensionistico si Pag. 93rileva che su 7,2 milioni di pensionati, il 17 per cento può contare su un reddito sotto i 500 euro, il 35 per cento ha una pensione tra 500 e 1.000 euro e solo il 2,9 per cento ha una pensione che va oltre i 3.000 euro;
   nel 2013 sono quattro milioni i cittadini italiani che, per sfamarsi, sono costretti a chiedere aiuto, con un aumento del 10 per cento rispetto allo scorso anno e del 4 per cento rispetto al 2010;
   le persone che si trovano al di sotto della soglia di povertà relativa sono 9.563.000, pari al 15,8 per cento della popolazione;
   nel biennio 2012-2014 la contrazione complessiva dei consumi delle famiglie italiane ammonterà a circa 60 miliardi di euro, influendo in modo significativamente negativo sulla produzione e sull'occupazione;
   la contrazione del potere di acquisto delle famiglie si è determinata anche in relazione all'incremento dell'IVA le cui ricadute in termini annui comporteranno un aggravio per ogni famiglia di 207 euro pari allo 0,80 per cento di aumento del tasso di inflazione;
   la riduzione della domanda interna è stata la determinante del calo dell'attività economica: in seguito alla caduta del reddito disponibile, che in termini reali è sceso dell'11,1 per cento, la contrazione dei consumi delle famiglie è risultata pari al 7,8 per cento;
   l'occupazione è calata del 7,2 per cento, pari a 1,8 milioni di unità di lavoro in meno, e la produzione industriale è a un livello inferiore del 24,2 per cento (con punte del 40 per cento in alcuni settori) rispetto al terzo trimestre del 2007;
   alla luce di questi dati, si ritiene necessaria la semplificazione del welfare al fine di renderlo al contempo più certo ed essenziale, più concretamente presente nella vita dei cittadini, molti dei quali sono costretti a sopravvivere al problema occupazionale dovendosi al contempo confrontare con un sistema eccessivamente frammentato e non in grado di fornire certezze;
   il pur ragionevole intento di estendere l'ASpI e migliorarla non assicura il radicale mutamento di tendenza che si rende necessario;
   uno Stato, il cui scopo è prendersi cura dei cittadini che ne fanno parte, non deve lasciare nessuno indietro; quindi, in una prima fase, deve porre al centro della bussola politica un reddito minimo garantito per chiunque viva sotto la soglia di povertà relativa;
   ogni cittadino deve poter contare su un reddito minimo indispensabile per vivere dignitosamente, sul diritto alla casa, al riscaldamento, al cibo, all'istruzione, all'informazione, su un reddito minimo utile ad ottenere un lavoro congruo, nel rispetto della formazione scolastica e delle competenze professionali acquisite.
   è pertanto evidente che la NASpI o qualsivoglia idea di ammortizzatore sociale non universale riflette un modo di guardare al precariato come un problema sostanzialmente transitorio;
   oggi, invece, il reddito deve essere considerato una precondizione della cittadinanza, uno strumento per affermare la pienezza della vita di una persona; riguarda anche i lavoratori che si trovano in difficoltà, ma è un diritto di tutti i cittadini.
   ripristinare il diritto all'esistenza che passa attraverso il reddito di cittadinanza è una questione di cui non possiamo liberarci poiché nella società c’è più di qualcosa che non funziona; Dobbiamo pensare a una trasformazione radicale, proprio come accadde con lo Statuto dei lavoratori negli anni ’70.
   peraltro, in una delle sue carte fondative, l'Unione europea si impegna a riconoscere il diritto all'assistenza sociale e abitativa e a garantire un'esistenza dignitosa ai cittadini e c’è un'assonanza molto forte con uno dei più bei articoli Pag. 94della nostra Costituzione, il 36; considerati insieme, questi articoli offrono una chiave per considerare il reddito fuori dalla prospettiva riduzionistica con la quale di solito viene considerata; diversamente dall'approccio del salario minimo, o di quello del «reddito di sopravvivenza», il reddito non può essere considerato solo come uno strumento di lotta contro la marginalità e l'esclusione sociale che non potrà che passare attraverso l'adozione del reddito di cittadinanza;
   tenuto conto delle esplicitate considerazioni, si richiede un radicale mutamento di prospettiva politica e sociale e pertanto si ritengono inadeguate le misure adottate nel provvedimento in esame,
   esprime

PARERE CONTRARIO

«Tripiedi, Ciprini, Cominardi, Chimienti, Lombardi, Dall'Osso»