TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 147 di Mercoledì 8 gennaio 2014

 
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MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE ALL'INTRODUZIONE DI UN PRELIEVO STRAORDINARIO SUI REDDITI DA PENSIONE SUPERIORI AD UN DETERMINATO IMPORTO

   La Camera,
   premesso che:
    la questione delle «pensioni d'oro» è oggetto di accese discussioni sia fra i cittadini sia fra le forze politiche, senza che, ad oggi, si sia pervenuti ad una proposta risolutiva;
    un primo tentativo di intervenire con un prelievo straordinario di solidarietà è stato bocciato dalla Consulta che, con la sentenza n. 116 del 2013 depositata il 5 giugno 2013, ha dichiarato incostituzionale il comma 22-bis dell'articolo 18 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, recante «Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria», convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, che aveva introdotto un «contributo di perequazione» nella misura del 5 per cento sulla quota di assegno eccedente i 90.000 euro, del 10 per cento per la parte eccedente i 150.000 euro e del 15 per cento per la parte eccedente i 200.000 euro;
    in precedenza la Corte costituzionale, con la sentenza n. 223 del 2012, aveva già «bollato» e reso incostituzionale il prelievo sugli stipendi pubblici elevati, in quanto giudicato «un intervento impositivo irragionevole discriminatorio ai danni di una sola categoria di cittadini», poiché i provvedimenti colpivano i soli dipendenti pubblici e non anche i lavoratori autonomi o privati, o i pensionati pubblici, lasciando indenni le altre categorie previdenziali;
    come si legge in ambedue le sentenze della Corte costituzionale, «Il risultato di bilancio avrebbe potuto essere ben diverso e più favorevole per lo Stato, laddove il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini e di solidarietà economica»; viceversa, in conseguenza della sentenza della Consulta, lo Stato dovrà restituire circa 84 milioni di euro, con conseguenze negative sull'opinione pubblica;
    permangono i presupposti di eccezionalità della situazione economica, che avevano indotto il Governo, allora in carica, ad adottare il citato prelievo solidale, anzi oggi, rispetto al 2011, la recessione si è acuita e la situazione dei conti pubblici italiani è peggiorata a causa del trend negativo di crescita del prodotto interno lordo;
    a maggior ragione necessitano ulteriori risorse da destinare al sostegno delle fasce più deboli e resta inaccettabile che circa il 44 per cento dei pensionati italiani, quindi oltre 7 milioni di cittadini, riceve oggi dall'Inps un assegno inferiore a mille euro mensili e, nel 13 per cento dei casi, tale assegno non supera l'importo di 500 euro, mentre sussistono pensioni d'oro di importi mensili superiori a 20.000 euro fino al caso eclatante di 90.000 euro mensili;
    il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Enrico Giovannini, ha espresso aperture in merito ad un ventilato prelievo sulle pensioni che superino una determinata soglia di importo, sostenendo che tale intervento «non porterebbe molti soldi, ma sarebbe una misura di giustizia sociale» (intervista su Il Corriere della Sera);
    il Ministro del lavoro e delle politiche sociali ha dichiarato, altresì, la necessità di reperire risorse da destinare ai trattamenti pensionistici minimi;
    è inaccettabile giustificare giuridicamente i trattamenti pensionistici elevati di oltre 20 volte il trattamento minimo in quanto autorizzati da disposizioni di legge antecedenti, perché i suddetti presupposti giuridici non sono più adeguati al contesto economico attuale di grave depressione economica e le decisioni assunte in passato oggi minano il «patto sociale» fra i cittadini e consentono uno spreco di «risorse pubbliche» con grave danno sia per i pensionati che percepiscono il trattamento minimo, sia per le giovani generazioni colpite da tassi di disoccupazione ai massimi storici;
    è auspicabile, invece, sottoporre a valutazione i trattamenti pensionistici di elevato importo per evidenziare la quota di pensione imputabile agli effettivi contributi versati e la quota imputabile al sistema di calcolo retributivo, al fine di assumere decisioni politiche sulle cause degli eccessivi privilegi concessi prima della riforma del sistema pensionistico;
    un eventuale intervento normativo deve essere finalizzato a creare una maggiore equità nell'erogazione dei trattamenti di quiescenza, senza generare situazioni di disparità di trattamento non conformi ai principi della Costituzione;
    per l'anno 2013, l'importo minimo del trattamento corrisponde a 495,43 euro mensili;
    è opportuno consentire un'equa e solidale progressività dell'imposizione sui redditi da pensione, applicando aliquote progressive in base alle classi di pensione mensile contenute nelle tabelle ufficiali dell'Istat per l'anno 2012;
    da proiezioni effettuate, si potrebbe realizzare un maggior gettito non inferiore a 1.142.061.790 euro, da destinare all'aumento dell'importo dei trattamenti minimi, applicando le seguenti aliquote:
     a) da 1 fino a 6 volte il minimo: aliquota dello 0,1 per cento;
     b) oltre 6 fino a 11 volte il minimo: aliquota dello 0,5 per cento;
     c) oltre 11 fino a 15 volte il minimo: aliquota del 5 per cento;
     d) oltre 15 fino a 20 volte il minimo: aliquota del 10 per cento;
     e) oltre 20 fino a 25 volte il minimo: aliquota del 15 per cento;
     f) oltre 25 fino a 31 volte il minimo: aliquota del 20 per cento;
     g) oltre 31 fino a 39 volte il minimo: aliquota del 25 per cento;
     h) oltre 39 fino a 50 volte il minimo: aliquota del 30 per cento;
     i) oltre 50 volte il minimo: aliquota del 32 per cento,

impegna il Governo:

   previa valutazione dei contenuti della sentenza della Corte costituzionale 3 giugno 2013, n. 116, a valutare l'opportunità di assumere iniziative per prevedere, per un periodo limitato di tre anni, sui redditi da pensione lordi annui un contributo solidale suppletivo applicando le indicate aliquote progressive differenziate in base alle classi di importo mensile percepito, al fine di riconoscere un aumento di 518 euro all'anno della pensione minima (ora consistente in 6.440,59 euro all'anno) di cui, in relazione agli ultimi dati aggiornati Istat 2011, potrebbero beneficiare circa 2.219.482 pensionati;
   a valutare l'opportunità di revisionare i trattamenti pensionistici erogati per prestazioni lavorative di elevato importo, al fine di adeguare i trattamenti medesimi all'effettiva contribuzione da parte del lavoratore beneficiario in quiescenza, riducendo la quota di trattamento acquisita in base al sistema retributivo, fissando per ciascuna forma di sistema un tetto massimo di pensione erogabile, onde evitare disparità eccessive nell'erogazione delle pensioni tali da rendere il sistema iniquo ed oramai inaccettabile per i molti cittadini che vivono alle soglie della povertà e percepiscono pensioni minime di importo tale da non consentire nemmeno lo svolgimento di una vita dignitosa.
(1-00194)
(Nuova formulazione) «Sorial, Fraccaro, Villarosa, D'Incà, Nuti, Cecconi, Castelli, Caso, Brugnerotto, Cancelleri, Pesco, Nesci».
(25 settembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    la crisi economica che l'Italia, come le altre economie europee, sta attraversando manifesta i propri effetti negativi in particolare modo nei confronti delle categorie più deboli, alle quali è stato chiesto un enorme sacrificio per il bene dell'Italia, a suono di inasprimenti fiscali (iva, accise sulla benzina ed altro) e dell'applicazione di nuove imposte, tra cui anche quella sul bene primario di ogni famiglia, cioè la prima casa di abitazione;
    in tale contesto spicca la questione delle cosiddette «pensioni d'oro», ovvero quelle pensioni il cui elevato importo, a detta dello stesso Ministro del lavoro e delle politiche sociali, nel corso della discussione in Aula di un question-time presentato sul tema dal gruppo di Fratelli d'Italia, «appare stridente nell'attuale contesto socio-economico e di sacrifici imposti alla generalità della popolazione. È peraltro evidente che non è tanto l'elevato importo a destare l'attenzione, quanto i meccanismi che ad esso hanno dato luogo, in quanto soltanto in minima parte connessi ai contributi effettivamente versati dal lavoratore, e per la maggior parte legati alla peculiarità del sistema»;
    i meccanismi cui il Ministro del lavoro e delle politiche sociali fa riferimento attengono al cosiddetto metodo retributivo di calcolo dei trattamenti pensionistici, cioè alle disposizioni di legge, in vigore fino alla riforma pensionistica del 1995, che prevedevano che l'importo da corrispondere a titolo di pensione non fosse determinato in base ai contributi versati dal lavoratore nell'arco della sua vita professionale, bensì sulla base degli ultimi stipendi percepiti;
    nonostante le numerose critiche levatesi in merito a tali pensioni nel corso degli ultimi anni, sia da alcune forze politiche, sia da parte di autorevoli commentatori sui mezzi d'informazione, sia, non ultimo, da parte dell'opinione pubblica, esse vengono generalmente considerate come diritti acquisiti e, quindi, di fatto, immodificabili, perché frutto di norme legittime che hanno operato nel tempo;
    ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, invece, le pensioni d'oro non possono essere considerate altro che il prodotto di una grave ingiustizia sociale, che agisce in danno soprattutto dei giovani, i quali rischiano di non arrivare mai a percepire una propria pensione e che, ad oggi, versano i propri contributi sociali per sostenere la spesa di un sistema pensionistico volto a mantenere anacronistici privilegi;
    nel nostro Paese vivono oltre 16,5 milioni di pensionati, con una spesa complessiva di 270,5 miliardi annui, oltre dodici dei quali vanno a beneficio di una platea di poco meno di 190.000 soggetti;
    tra questi ve ne sono quasi trecento che percepiscono una pensione superiore a cinquanta volte il minimo, vale a dire che incassano oltre 24 mila euro al mese, e questo, nella stragrande maggioranza dei casi, senza alcuna corrispondenza con i contributi versati;
    con la sentenza del 6 giugno 2013, n. 116, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità del contributo di solidarietà, introdotto nell'estate 2011 dal Governo Berlusconi e poi confermato dal Governo Monti, a carico delle pensioni pubbliche e private superiori ai 90 mila, ai 150 mila e ai 200 mila euro lordi l'anno, dalle quali si tratteneva una somma pari a, rispettivamente, il cinque, il dieci e il quindici per cento;
    nell'introduzione di un contributo di solidarietà a danno degli importi pensionistici più elevati la Corte costituzionale ha ravvisato la violazione sia del principio di uguaglianza, di cui all'articolo 3 della Costituzione, sia dell'articolo 53 della Carta costituzionale, relativo alla proporzionalità e progressività delle imposte, rilevando che «a fronte di un analogo fondamento impositivo, dettato dalla necessità di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, il legislatore ha scelto di trattare diversamente i redditi dei titolari di trattamenti pensionistici: il contributo di solidarietà si applica su soglie inferiori e con aliquote superiori, mentre per tutti gli altri cittadini la misura è ai redditi oltre 300.000 euro lordi annui, con un'aliquota del 3 per cento, salva in questo caso la deducibilità dal reddito»;
    di tutt'altro avviso era, invece, l'Avvocatura dello Stato, che ha dichiarato che «l'intervento censurato appare pienamente rispettoso dei criteri di capacità contributiva e di progressività»;
    a seguito della sentenza della Corte costituzionale, non solo il contributo straordinario di solidarietà è stato disapplicato, ma tutte le somme non erogate sulla base delle disposizioni che lo avevano istituito sono state restituite, vanificando del tutto qualunque beneficio per le casse dello Stato, che, al contrario, ha dovuto reperire, con la legge di stabilità attualmente in discussione al Senato, ben ottanta milioni di euro per i rimborsi, aggiungendo al danno anche la beffa;
    in un'intervista a Il Corriere della Sera del 25 maggio 2013, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, con riferimento all'ipotesi di un taglio delle pensioni più elevate, ha dichiarato che «non si vede perché nel momento in cui si chiedono sacrifici a tutti qualcuno debba essere escluso»;
    nel disegno di legge di stabilità 2014, il contributo di solidarietà a carico degli importi pensionistici più elevati è stato reintrodotto, ma con le medesime modalità di quello giudicato incostituzionale e ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo senza tenere in alcun conto le osservazioni espresse in merito dalla Corte costituzionale, che aveva auspicato che un eventuale prelievo di tipo straordinario fosse disposto a carico non solo dei pensionati ma anche dei lavoratori attivi, ed è perciò con grande probabilità destinato nuovamente a cadere sotto la scure della massima Corte;
    la stessa Corte costituzionale, peraltro, ha adottato una prassi, dai firmatari del presente atto di indirizzo già stigmatizzata in un appello al Presidente della Repubblica, in base alla quale si indica alla carica di presidente il membro più anziano della stessa, il quale, inevitabilmente, cessa dalla carica prima della scadenza del triennio previsto dal dettato costituzionale per sopraggiunti limiti di età, dando spazio al successore anagraficamente più prossimo;
    ne consegue che in molti casi la presidenza è assunta per pochissimi mesi, forse nemmeno necessari per istruire ed organizzare il lavoro connesso alla funzione, e che, salvo rarissime eccezioni, tutti i giudici della Corte costituzionale cessano il loro incarico con la carica di presidente e il conseguente beneficio di ottenere un trattamento pensionistico ed un'indennità maggiorate rispetto al diritto acquisito sino all'assunzione della carica presidenziale;
    attualmente, presso la XI Commissione (lavoro pubblico e privato) della Camera dei deputati, sono in corso di esame tre proposte di legge recanti misure per incidere sui trattamenti pensionistici particolarmente elevati,

impegna il Governo

ad assumere iniziative volte a prevedere la fissazione di un tetto, pari a dieci volte il trattamento minimo Inps, ai trattamenti pensionistici erogati anche solo in parte in base al metodo retributivo, e il ricalcolo – e la successiva erogazione – degli stessi trattamenti, per la parte eccedente il tetto, secondo il metodo contributivo, di cui alla legge 8 agosto 1995, n. 335, al fine di rendere trasparente e lineare la corrispettività tra retribuzione percepita, contribuzione versata e trattamento corrisposto, nel rispetto dei principi di solidarietà sociale, nonché al fine di realizzare un riequilibrio in favore delle generazioni più svantaggiate nel segno di un indispensabile principio di equità generazionale.
(1-00255)
«Giorgia Meloni, Cirielli, Corsaro, La Russa, Maietta, Nastri, Rampelli, Taglialatela, Totaro».
(25 novembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    il tema della riduzione dei trattamenti pensionistici di importo elevato – le cosiddette «pensioni d'oro» – continua a richiamare una forte attenzione degli organi di informazione e dell'opinione pubblica, stimolando un ampio dibattito sui principi di equità e giustizia nell'erogazione di prestazioni previdenziali, anche in chiave intergenerazionale e di sostenibilità complessiva del sistema pensionistico;
    per quanto riguarda, in particolare, il tema dei trattamenti peggiorativi con effetto retroattivo, la Corte costituzionale ha escluso, in linea di principio, che sia configurabile un diritto costituzionalmente garantito alla «cristallizzazione» normativa – riconoscendo quindi al legislatore la possibilità di intervenire con scelte discrezionali – purché ciò non avvenga in modo irrazionale e, in particolare, frustrando in modo eccessivo l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulla normativa precedente;
    quanto al contributo di solidarietà sulle pensioni di importo elevato, la Corte costituzionale si è a più riprese pronunciata inquadrandolo nel genus delle prestazioni patrimoniali imposte per legge – soggetto per tale ragione al principio di uguaglianza e ai criteri di progressività – da ultimo con la sentenza n. 116 del 2013, con cui ha dichiarato l'illegittimità dell'articolo 18, comma 22-bis, del decreto-legge n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, il quale introduceva un contributo di perequazione, a decorrere dal 1o agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, sui trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie;
    attualmente presso la XI Commissione (lavoro pubblico e privato) della Camera dei deputati è in corso l'esame parlamentare di più proposte di legge abbinate in materia di interventi sui trattamenti pensionistici di importo elevato mentre, sul medesimo argomento, è appena intervenuto anche il disegno di legge di stabilità 2014 (attualmente all'esame del Senato);
    sul tema delle «pensioni d'oro» molti politici stanno alimentando un dibattito propagandistico e privo di una qualsivoglia analisi di quale sia la situazione attuale del sistema pensionistico italiano e cosa sia necessario fare per affermare realmente e concretamente principi di equità e giustizia;
    è necessario partire dalla recente «riforma Fornero» che ha determinato molti guasti e tanti altri ne creerà se non verrà prontamente e strutturalmente riformata a sua volta. Ci sono almeno 390 mila lavoratori cosiddetti esodati ridotti sul lastrico; mancano del tutto meccanismi di solidarietà interni al sistema che sarebbero, invece, necessari soprattutto per i lavoratori giovani, quelli atipici e per le donne che hanno subito la violenza di un innalzamento di 5 anni dell'età pensionabile, misura derivante da un'idea negativa della parità senza riconoscimento alcuno del valore sociale ed economico dei lavori di cura; si è previsto un significativo innalzamento dell'età pensionabile per tutti, creando un sistema rigido che non consente un'uscita flessibile dal mondo del lavoro;
    la «riforma Fornero» contenuta nel decreto-legge cosiddetto «Salva Italia» era accompagnata da una relazione tecnica che indicava risparmi per 22 miliardi di euro circa nel periodo 2012/2021, ma il rapporto dell'area attuariale dell'Inps del giugno 2013 ha indicato risparmi addirittura superiori a 90 miliardi di euro nello stesso periodo;
    il sistema previdenziale è stato utilizzato come bancomat da parte dello Stato e i risparmi non sono stati utilizzati per migliorare la condizione della vastissima platea di pensionati italiani che percepisce pensioni di importi bassi o bassissimi, al di sotto della soglia della povertà;
    è una storia triste che si ripete, peraltro: si deve constatare come tutti gli ingentissimi risparmi successivamente conseguiti con le varie riforme pensionistiche fatte negli ultimi anni sono stati assegnati o alla riduzione del deficit oppure ad esigenze considerate «più importanti». Un caso eclatante è accaduto con i risparmi generati dall'aumento dell'età di pensionamento delle donne che, a norma dell'articolo 22-ter del decreto-legge n. 78 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 102 del 209, dovevano essere destinati a «politiche sociali e familiari»: sono invece finiti nel calderone della finanza pubblica, a finanziare tutt'altro;
    occorre, quindi, cambiare l'inutile «riforma Fornero» e ricordare le importantissime riforme pensionistiche che sono state fatte nei decenni passati e che hanno drasticamente ridotto sia gli andamenti futuri che quelli correnti della spesa. In termini nominali, la spesa pensionistica sta aumentando di anno in anno poco più dell'inflazione e molto meno che negli altri Paesi: fra il 2003 e il 2010, secondo i dati Eurostat, è aumentata in media del 3,8 per cento l'anno in Italia, contro il 6,8 per cento del Regno Unito, il 4,3 per cento della Svezia, il 4,9 per cento della Francia, l'8,1 per cento della Spagna e il 5,5 per cento della Danimarca (fa eccezione la Germania, con un aumento annuo dell'1,4 per cento);
    secondo i più recenti dati Eurostat, relativi al 2010, l'Italia spende per le pensioni il 16 per cento del prodotto interno lordo, contro il 13,2 per cento dell'Europa a 15 e il 13 per cento dell'Europa a 27. Va, tuttavia, considerato che il dato del 16 per cento riferito all'Italia è falsato e la percentuale è decisamente più bassa in quanto:
     a) nel calcolo della spesa previdenziale italiana, ma non in quella degli altri paesi, figura il trattamento di fine rapporto che viceversa rappresenta una parte differita della retribuzione;
     b) si ha una percentuale di ultra sessantacinquenni più elevata degli altri Paesi, il che inevitabilmente determina la presenza di un numero maggiore di pensionati;
     c) si tratta di spesa al lordo delle trattenute fiscali: le pensioni italiane sono invece assoggettate all'imposta sul reddito, a differenza di altri Paesi dove sono praticamente esenti (si veda la Germania);
     d) non si è considerata la spesa per sgravi fiscali alla previdenza privata, particolarmente elevata nei Paesi anglosassoni;
    in rapporto al prodotto interno lordo, a legislazione vigente, la spesa pensionistica è destinata a contrarsi significativamente a partire dal 2014, come si può constatare dalla nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza presentato dal Governo nel mese di settembre 2013. Come per tutti i rapporti al prodotto interno lordo, poi, il rapporto fra spesa pensionistica e prodotto interno lordo risente della contrazione del denominatore, ovvero della crisi economica. Se il prodotto interno lordo non si fosse contratto per la recessione, la spesa pensionistica sarebbe almeno di 1 punto di prodotto interno lordo inferiore. A differenza di quanto si poteva scrivere una decina di anni fa, la spesa pensionistica italiana appare elevata soprattutto perché l'economia non cresce, non perché si è troppo generosi;
    il quadro illustrato denuncia quanto il dibattito sulle cosiddette «pensioni d'oro», così come affrontato, risulti superficiale. Il disegno di legge di stabilità 2014 prevede la sospensione della indicizzazione delle pensioni superiori a 3 mila euro, vale a dire un taglio a una parte delle pensioni in essere. Da più parti si parla e si propone di ridurre le pensioni erogate superiori a un certo limite, considerate in ogni caso pensioni d'oro. La proposta è basata su una confusione evidente tra alto rendimento (dei contributi versati) e alto livello della pensione. Spesso i due aspetti sono disgiunti;
    i sistemi retributivi e contributivi sono due sistemi a ripartizione. Nel sistema retributivo l'obiettivo non è quello di assicurare un uguale tasso di rendimento a tutti i lavoratori, ma di stabilire una relazione tra prima pensione e ultime retribuzioni. Il sistema permette trasferimenti di risorse a fini equitativi. Chi beneficia di questi trasferimenti avrà un rendimento più alto rispetto a chi cede parte delle risorse. Se la media del sistema ha un rendimento dei contributi effettivamente versati pari al tasso di crescita del prodotto interno lordo (o meglio della massa salariale), il sistema è in equilibrio (a parte eventuali fluttuazioni demografiche);
    il nuovo sistema pensionistico contributivo introdotto nel 1995 si basa su un principio di equità attuariale, per cui dovrebbe tendere a erogare prestazioni in linea con i contributi versati. Il fatto, però, è che dietro questa apparenza si nascondono dettagli di non poco conto, anche a prescindere dalla salvaguardia dei diritti acquisiti che, peraltro, in ambito pensionistico, dove i soggetti interessati sono avanti negli anni, richiede necessariamente una particolare attenzione;
    innanzitutto, non è vero che un sistema retributivo, come quello adottato fino al 1995, sia necessariamente più generoso del sistema contributivo: a seconda dei parametri utilizzati, i due sistemi possono produrre risultati equivalenti, mentre, se il sistema retributivo tende a premiare le carriere dinamiche, il sistema contributivo tende a premiare le carriere piatte. Non ci si avvede che è falso che il sistema contributivo restituisce pensioni corrispondenti ai contributi versati: è facile mostrare che, quando si considerano anche le prestazioni assistenziali, il sistema contributivo penalizza soprattutto i più poveri che, malgrado gli anni e decenni di contributi, rischiano di maturare pensioni di poco superiori all'assegno sociale, ovvero di maturare rendimenti addirittura negativi sui propri contributi, con un sostanziale incentivo ad entrare o a rimanere nell'economia sommersa (si veda, ad esempio, Marano, Mazzaferro e Morciano, Rivista degli economisti, 2012, 71);
    secondo gli economisti Paladini e Vincenzo Visco, l'elemento che ha il maggior peso nella differenza tra il sistema retributivo e quello contributivo è costituito dagli anni di vita attesa, cioè dall'età del pensionamento. Questo elemento conta di più della velocità di progressione della retribuzione. A questo proposito non va dimenticato che in molti casi la scelta del pensionamento non è stata spontanea, ma necessitata: infatti, una significativa fetta delle ristrutturazioni industriali sono state fatte nei decenni passati usando il sistema pensionistico a volte con misure ad hoc (prepensionamenti). Operai, impiegati, ma anche dirigenti sono stati messi in pensione che lo volessero o meno;
    l'idea di fissare un limite inferiore (sia esso 3.000 euro o più al mese) e di applicare un taglio solo alle pensioni che superano la soglia è errore logico che diventa un vizio giuridico. Lo stesso vale per il blocco dell'indicizzazione al di sopra di un dato livello;
    va evidenziato che da un prelievo forzoso sulle pensioni elevate non possono derivare grandi risorse; il contributo di solidarietà inserito nel disegno di legge di stabilità 2014 (articolo 12, comma 4), che prevede un contributo del 5 per cento sulle pensioni superiori a 150 mila euro annue, del 10 per cento sulla parte eccedente i 200 mila euro e del 15 per cento sulla parte eccedente i 250 mila euro, avrebbe effetti netti, secondo la relazione tecnica, risibili, pari a 12 milioni l'anno; anche ammettendo soluzioni più radicali, quali quelle ipotizzate da Boeri e Nannicini sul sito lavoce.info, si arriverebbe a un gettito di 800-900 milioni di euro, quasi dimezzato, tuttavia, da quella che sembrerebbe la mancata considerazione da parte degli economisti della lavoce.info della perdita di gettito fiscale associata alla connessa riduzione degli imponibili Irpef;
    con tali risorse non si risolve il problema, né in parte, né in tutto, di innalzare gli importi pensionistici delle pensioni al minimo, considerato che l'idea del contributo di solidarietà è quella di ridistribuirlo all'interno del sistema previdenziale a fini solidaristici;
    quanto all'equità della misura, sembra prevalere un populismo mischiato a falso egualitarismo: coloro che hanno conseguito pensioni elevate – salvo eccezioni rare e davvero scandalose – sono in prevalenza persone che hanno ricevuto redditi molto elevati nel corso della loro vita lavorativa e contribuito conseguentemente, in accordo con regole che già prevedevano forme di solidarietà. Se si ritiene che sia ingiusto che esistano persone molto più ricche di altre, lo strumento a disposizione del pubblico è semplicemente la variazione delle aliquote fiscali: si proponga un aumento dell'aliquota sull'ultimo scaglione di reddito, senza discriminare fra ricchi pensionati e altri precettori di reddito, nel solco dei principi giuridici fissati dalla giurisprudenza costituzionale;
    il riconoscimento di un doveroso contributo di solidarietà ai pensionati più poveri ricade tra le misure assistenziali che devono essere finanziate dalla fiscalità generale e da tutti i cittadini a secondo della loro capacità contributiva;
    dagli anni Ottanta ad oggi, mentre si sono ridimensionati servizi e spese sociali che andavano a beneficio delle fasce deboli della popolazione, in materia di entrate il prelievo fiscale si è spostato dai redditi più alti verso quelli medio bassi, al punto che il rapporto tra aliquote sui redditi minimi ed aliquote sui redditi massimi è passato da 1 a 7 ad 1 a 2;
    in questo periodo, l'aliquota sulle fasce medio basse è salita dal 10 per cento al 23 per cento, mentre per quelli alti è scesa dal 72 per cento al 43 per cento. La progressività del prelievo fiscale è stata, quindi, fortemente ridimensionata e questo è accaduto proprio nell'imposizione diretta che rappresenta il principale strumento per correlare le imposte ai redditi;
    tutti i redditi sopra i 75 mila euro annui lordo sono tassati con un aliquota pari al 43 per cento che rimane tale anche per redditi di molto superiori, facendo venire meno il criterio di progressività del sistema tributario di cui all'articolo 53 della Costituzione;
    con l'innalzamento dell'aliquota sui redditi più alti, applicando il criterio della progressività, si realizzerebbe davvero una maggiore equità del sistema – andando a colpire anche le vere «pensioni d'oro» – e si darebbe corpo e consistenza ai principi di equità e giustizia;
    con il gettito derivante dall'innalzamento dell'aliquota sui redditi più alti si possono aumentare in misura permanente gli importi delle pensioni per tutti i pensionati più poveri, così incrementando i consumi ed alleviando la situazione difficile di molte persone e famiglie;
    inoltre, in via temporanea, si può intervenire proponendo l'erogazione di una sorta di quattordicesima per i pensionati a più basso reddito. In tal senso, i parlamentari del gruppo Sinistra Ecologia Libertà hanno presentato emendamenti sia al decreto-legge n. 102 del 2013 sull'imu (A.C. 1544), convertito, con modificazioni, dalla legge n. 102 del 2013, che al disegno di legge di stabilità 2014 volti a riconoscere un bonus, oscillante tra i 250 ed i 450 euro, a 2,5-3 milioni di pensionati a basso reddito, impegnando risorse per circa un miliardo derivanti da risparmi conseguiti sulle auto blu e dalla modifica della cosiddetta Robin tax e della deducibilità degli interessi passivi per le banche;
    analoga misura era presente all'articolo 5 del decreto-legge n. 81 del 2007 (Governo Prodi), convertito, con modificazioni, dalla legge n. 127 del 2007, che istituì una sorta di quattordicesima per i pensionati a basso reddito, l'erogazione, cioè, di un bonus per quei pensionati che avevano un reddito inferiore a 8.504 euro all'anno (655 euro al mese per 13 mensilità) e almeno 64 anni di età. La norma riguardava circa 3 milioni di persone. L'importo medio previsto fu di 301 euro per una somma totale pari a 926 milioni di euro,

impegna il Governo:

   a valutare l'adozione di iniziative per l'introduzione di ulteriori aliquote impositive progressive, in attuazione dell'articolo 53 della Costituzione, che si applichino ai redditi sopra i 75 mila euro annui lordi, tra cui anche le cosiddette «pensioni d'oro»;
   ad assumere le opportune iniziative, anche normative, al fine di corrispondere, a favore dei soggetti con età pari o superiore a sessantacinque anni e che siano titolari di uno o più trattamenti pensionistici a carico dell'assicurazione generale obbligatoria e delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative della medesima, gestite da enti pubblici di previdenza obbligatoria, a condizione che il soggetto non possieda un reddito complessivo individuale relativo all'anno stesso superiore a una volta e mezzo il trattamento minimo annuo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, in sede di erogazione della tredicesima mensilità, una somma aggiuntiva almeno pari a 500 euro.
(1-00256)
«Di Salvo, Migliore, Paglia, Airaudo, Ragosta, Placido, Lavagno, Aiello, Boccadutri, Franco Bordo, Costantino, Duranti, Daniele Farina, Fava, Ferrara, Giancarlo Giordano, Fratoianni, Kronbichler, Lacquaniti, Marcon, Matarrelli, Melilla, Nardi, Nicchi, Palazzotto, Pannarale, Pellegrino, Piazzoni, Pilozzi, Piras, Quaranta, Ricciatti, Sannicandro, Scotto, Zan, Zaratti».
(25 novembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    i dati Inps relativi al 2012 rilevano che in Italia ci sono un numero di pensioni superiori a 10 volte il minimo, pari a 154.739 euro, per un importo complessivo lordo annuo di 12.753.078.053 euro a carico del sistema pensionistico italiano;
    le «pensioni d'oro» sono figlie del vecchio sistema pensionistico retributivo, che ha generato uno scollamento tra contributi versati e trattamenti pensionistici erogati, dal momento che il calcolo è stato in passato effettuato solo sulle retribuzioni degli ultimi anni di vita lavorativa;
    la riforma Dini (legge n. 335 del 1995) con l'introduzione del sistema contributivo ha attenuato questo problema. L'applicazione graduale del metodo contributivo ha favorito il superamento progressivo delle disparità di trattamento legate ai regimi speciali di pensione provenienti dalla tradizione categoriale italiana, stabilendo l'uniformità delle prestazioni in rapporto ai contributi versati, ma non ha risolto la questione dell'equità dei trattamenti erogati con il vecchio sistema, soprattutto rispetto a quelli erogati sulla base del nuovo sistema basato sulle effettive contribuzioni versate;
    la crisi economica e occupazionale ha acuito non soltanto le tensioni sulla finanza pubblica, ma anche la percezione dell'insostenibilità e dell'ingiustizia di divari così ampi tra i trattamenti previdenziali del nostro Paese;
    il perdurare della crisi ha reso necessario il ricorso al contributo di solidarietà, prelievo previsto dall'articolo 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, che disponeva che, a decorrere dal 1o agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, i trattamenti pensionistici, corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, i cui importi risultassero complessivamente superiori a 90 mila euro lordi annui, fossero assoggettati ad un contributo di perequazione pari al 5 per cento della parte eccedente l'importo fino a 150 mila euro; pari al 10 per cento per la parte eccedente 150 mila euro; e al 15 per cento per la parte eccedente 200 mila euro;
    con la sentenza n. 116 del 2013, la Consulta ha tuttavia stabilito che la legge n. 111 del 2011 viola il principio di eguaglianza dell'articolo 53 della Costituzione, in quanto il taglio viene imposto nei confronti dei soli pensionati, una categoria definita nella sentenza «colpita in misura maggiore rispetto ai titolari di altri redditi e, più specificamente, di redditi da lavoro dipendente». Secondo la Corte Costituzionale, un «contributo di solidarietà» va applicato in maniera equa tra tutti i contribuenti. Il prelievo, ha spiegato la Consulta, ha natura tributaria e deve, per questo, essere commisurato alla «capacità contributiva» dei cittadini, i quali, come stabilisce l'articolo 3 della Carta costituzionale, sono «eguali davanti alla legge»;
    a seguito della predetta sentenza n. 116 del 2013 della Corte costituzionale, si è reso necessario procedere al rimborso delle trattenute effettuate sulle pensioni di importo superiore a 90 mila euro, che graverà sulle casse dello Stato per 80 milioni di euro nel biennio 2014/2015, anche se l'Inps in assenza di copertura finanziaria si è riservato le modalità di restituzione delle trattenute operate dal 1o agosto 2011 fino al 31 dicembre 2012;
    numerose sono le perplessità suscitate dalla citata sentenza n. 116 del 2013 della Corte Costituzionale, anche perché si riferisce a un settore che ha subito provvedimenti restrittivi a carico dei trattamenti medio-bassi. Vi sono nel sistema previdenziale forme di oggettivo privilegio che non sono più sostenibili sul piano economico, né difendibili su quello etico. Ad alimentare le perplessità è l'esistenza di sentenze precedenti che avevano ritenuto legittimi i contributi di solidarietà a carico delle pensioni di importo più elevato, purché si trattasse di una misura improntata a ragionevolezza e disposta per un tempo limitato e previsto;
    con la sentenza n. 173 del 1986 e le sentenze n. 501 del 1988 e n. 96 del 1991, la Corte costituzionale ha inoltre ribadito la natura mutualistica e solidaristica del sistema previdenziale, sostenendo che «il contributo non va a vantaggio del singolo che li versa, ma di tutti i lavoratori e, peraltro, in proporzione del reddito che si consegue, sicché i lavoratori a redditi più alti concorrono anche alla copertura delle prestazioni a favore delle categorie con redditi più bassi», fermo restando il principio della proporzionalità tra contributi versati e prestazioni previdenziali ricevute;
    per quanto riguarda l'annosa questione dei «diritti acquisiti», e alla possibilità di intervenire sulle pensioni attraverso trattamenti peggiorativi con effetto retroattivo, con le sentenze n. 349 del 1985, n. 173 del 1986, n. 822 del 1988, n. 211 del 1997 e n. 416 del 1999, la Corte costituzionale ha escluso, in linea di principio, che sia configurabile un diritto costituzionalmente garantito alla cristallizzazione normativa, riconoscendo quindi al legislatore la possibilità di intervenire con scelte discrezionali, perché ciò non avvenga in modo irrazionale e, in particolare, frustrando in modo eccessivo l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulla normativa precedente;
    la Corte costituzionale, inoltre, con ordinanza n. 22 del 2003, osserva che «il contributo di solidarietà, non potendo essere configurato come un contributo previdenziale in senso tecnico (sentenza n. 421 del 1995), va inquadrato nel genus delle prestazioni patrimoniali imposte per legge, di cui all'articolo 23 della Costituzione, costituendo una prestazione patrimoniale avente la finalità di contribuire agli oneri finanziari del regime previdenziale dei lavoratori (sentenza n. 178 del 2000), con la conseguenza che l'invocato parametro di cui all'articolo 53 Cost. deve ritenersi inconferente, siccome riguardante la materia della imposizione tributaria in senso stretto»;
    alla luce delle sopra citate sentenze della Corte costituzionale e del perdurare della crisi economica ed occupazionale del nostro Paese, che rendono necessari interventi di risparmio sulle fasce più deboli, non appare sostenibile né giustificato il permanere, senza decurtazione alcuna, di trattamenti pensionistici che superano di dieci, venti o anche cinquanta volte il trattamento minimo, quando una parte di tale divario non è legato ai contributi effettivamente versati durante la vita lavorativa dei beneficiari;
    vi è l'esigenza di rivedere l'istituto dei diritti acquisiti, non solo in relazione all'orientamento espresso dalla Corte costituzionale nelle sentenze sopra citate, ma soprattutto in relazione al particolare momento storico in cui ci si trova. I diritti sociali vanno acquisiti in relazione alle mutate condizioni economico-sociali. Occorre impiegare le risorse disponibili secondo una logica chiara, che stabilisca una gerarchia dei diritti acquisiti da tutelare, bilanciando l'effettività di tutela con i principi di gradualità e di criterio di compatibilità economica, secondo quanto sancito dal dettato Costituzionale (articoli 2 e 53);
    si rende, quindi, indispensabile individuare la parte delle rendite previdenziali privilegiate che non corrisponde a contribuzione effettivamente versata, per assoggettarla a un contributo di solidarietà a vantaggio delle posizioni previdenziali più deboli o di altre prestazioni a favore delle fasce più deboli e maggiormente colpite dalla crisi economica. Tutto ciò in linea con quanto dettato dalla Costituzione in attuazione dei principi solidaristici sanciti dall'aricolo 2 della Costituzione stessa,

impegna il Governo:

   a procedere alle operazioni di calcolo e di stima necessarie per individuare la parte delle rendite previdenziali privilegiate che non corrisponde a contribuzione effettivamente versata;
   ad assumere un'iniziativa per disporre in via sperimentale e transitoria l'applicazione a tutte le pensioni superiori all'importo di 60.000 euro annui di un meccanismo caratterizzato da una trattenuta alla fonte, con aliquote progressive per scaglioni, sul differenziale esistente tra l'ammontare della pensione liquidata e l'ammontare della pensione che sarebbe invece liquidata ove la sua quantificazione avesse luogo per intero con il metodo contributivo;
   a destinare il gettito derivante da tali trattenute al finanziamento di misure volte a rafforzare il sostegno alle fasce più deboli e maggiormente colpite dalla crisi, anche attraverso un rafforzamento di servizi di assistenza (servizi per la cura dell'infanzia e di assistenza agli anziani e ai disabili) che il peso della crisi ha reso sempre più inaccessibili per molte famiglie.
(1-00257)
«Tinagli, Zanetti, Mazziotti Di Celso, Antimo Cesaro, Andrea Romano, Cimmino, Causin, D'Agostino, Molea, Librandi, Sottanelli, Vecchio, Catania, Vitelli, Capua».
(25 novembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    a partire dagli anni ’90 il sistema pensionistico italiano è stato interessato da una serie di interventi, volti a garantirne l'equilibrio e la sostenibilità di lungo periodo, quali: il decreto legislativo n. 503 del 1992 (cosiddetta riforma Amato), inteso a stabilizzare il rapporto tra la spesa previdenziale e il prodotto interno lordo, con l'incremento dell'età pensionabile (65 anni per gli uomini, 60 per le donne, con una contribuzione minima di 20 anni) e l'introduzione di forme di previdenza complementare e integrativa; la legge n. 335 del 1995 (cosiddetta riforma Dini), che ha segnato il passaggio dal sistema retributivo al sistema contributivo – applicato ai soggetti che avessero iniziato a lavorare dal 1o gennaio 1996, mantenendo, invece, il sistema retributivo per coloro che avessero maturato al 31 dicembre 1995 almeno 18 anni di lavoro – e introdotto il sistema misto, per coloro che avessero maturato, alla medesima data, meno di 18 anni di lavoro; la legge n. 449 del 1997 (cosiddetta riforma Prodi), che innalzava i requisiti d'età per l'accesso alla pensione di anzianità e con la quale venivano equiparate le aliquote contributive dei fondi speciali di previdenza ed eliminate alcune condizioni riconosciute ai lavoratori durante il periodo di transizione al sistema contributivo; la legge n. 243 del 2004 (cosiddetta riforma Maroni), che ha elevato l'età anagrafica per il pensionamento di anzianità (60 anni per tutti a decorre dal 2008, fermo restando il requisito contributivo 35 anni) e ha disposto la riduzione da 4 a 2 delle cosiddette finestre di uscita; la legge n. 247 del 2007 (cosiddetta riforma Damiano), che ha disposto una modifica dei requisiti per il pensionamento di anzianità (strutturandolo in maniera più graduale), con ciò introducendo, dal 1o luglio 2009, il «sistema delle quote», ulteriormente rivisto con i successivi decreti legge nn. 98 del 2011 e 138 del 2011; da ultimo, l'articolo 24 del decreto-legge n. 201 del 2011 (cosiddetta manovra Fornero), che segna il passaggio al sistema contributivo pro rata per tutti dal 1o gennaio 2012, innalza ulteriormente il livello minimo di età pensionabile (portandola, a regime, a 66 anni) e abolisce il previgente sistema delle quote per il pensionamento anticipato, con un considerevole aumento dei requisiti contributivi (42 anni per gli uomini e 41 anni per le donne) e l'introduzione di penalizzazioni economiche per chi comunque accede alla pensione prima dei 62 anni;
    pur avendo reso il sistema previdenziale italiano uno dei più rigorosi nel panorama europeo ed internazionale, la successione in poco più di venti anni di otto interventi di riforma è sintomatica dell'assenza di un chiaro disegno organico;
    il sistema previdenziale deve essere costantemente monitorato, per garantirne la sostenibilità e, soprattutto, per assicurare ai giovani un ammontare della pensione che consenta loro una vecchiaia dignitosa, mettendolo, al contempo, al riparo dal rischio che ne siano utilizzate le risorse verso esigenze di cassa o di copertura del debito pubblico;
    la legge di riforma n. 247 del 2007, l'unica ad aver trovato consenso dopo un lungo confronto con le parti sociali, aveva posto le basi per affrontare organicamente le criticità del sistema pensionistico, sia rispetto alla sostenibilità finanziaria, sia per approntare idonee misure in grado di garantire alle nuove generazioni un tasso di sostituzione non inferiore al 60 per cento dell'ultima retribuzione, a tal fine tenendo conto:
     a) delle dinamiche delle grandezze macroeconomiche, demografiche e migratorie che incidono sulla determinazione dei coefficienti medesimi;
     b) dell'incidenza dei percorsi lavorativi, anche allo scopo di verificare l'adeguatezza degli attuali meccanismi di tutela delle pensioni più basse e di proporre meccanismi di solidarietà e garanzia per tutti i percorsi lavorativi, nonché di proporre politiche attive che possano favorire il raggiungimento di un tasso di sostituzione al netto della fiscalità non inferiore al 60 per cento, con riferimento all'aliquota prevista per i lavoratori dipendenti;
     c) del rapporto intercorrente tra l'età media attesa di vita e quella dei singoli settori di attività;
    tali aspetti sono stati del tutto elusi proprio dall'ultimo intervento legislativo del 2011, che ha irrigidito irragionevolmente il sistema e prodotto il grave, e ancora irrisolto, fenomeno dei cosiddetti esodati, peraltro durante la più grave crisi economico-finanziaria dal dopoguerra, con tassi di disoccupazione crescenti e drammatici, specie per la componente giovanile e femminile, con punte di vera e propria emergenza sociale in alcune aree del Mezzogiorno;
    da qualche tempo si è tornati a discutere, non sempre in modo appropriato, della questione delle cosiddette «pensioni d'oro»; in particolare, l'articolo 12, comma 4, dell'atto Senato n. 1120 (disegno di legge di stabilità per il 2014), ripropone un contributo di solidarietà, per il periodo 2014-2016, sui trattamenti pensionistici obbligatori nella misura del 5 per cento per le fasce di importo superiori a 150.000 euro lordi annui e fino a 200.000 euro, del 10 per cento per le fasce superiori a 200.000 euro e fino a 250.000 euro e del 15 per cento per le fasce superiori a 250.000 euro. Le somme derivanti dalle trattenute restano acquisite dalla gestione previdenziale che eroga il trattamento;
    al riguardo, va ricordato come in materia di trattamenti peggiorativi con effetto retroattivo, la Corte costituzionale abbia escluso, in linea di principio, che sia configurabile un diritto costituzionalmente garantito alla «cristallizzazione» normativa – riconoscendo, quindi, al legislatore la possibilità di intervenire con scelte discrezionali – purché ciò non avvenga in modo irrazionale e, in particolare, frustrando in modo eccessivo l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulla normativa precedente;
    in tale ottica, sono state considerate costituzionalmente plausibili misure di solidarietà interna al sistema previdenziale, con contributi a carico dei più fortunati e a favore dei lavoratori e dei pensionati più deboli (ordinanza n. 22 del 2003, confermata dall'ordinanza n. 160 del 2007);
    al contrario, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 116 del 2013, ha dichiarato l'illegittimità dell'articolo 18, comma 22-bis, del decreto-legge n. 98 del 2011, il quale introduceva un contributo di perequazione, a decorrere dal 1o agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, sui trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, pari al 5 per cento per gli importi da 90.000 a 150.000 euro lordi annui, del 10 per cento per la parte eccedente i 150.000 euro e del 15 per cento per la parte eccedente i 200.000 euro, configurando tale contributo come misura di natura tributaria e, quindi, da commisurare alla capacità contributiva ai sensi dell'articolo 53 della Costituzione, in violazione del principio di uguaglianza e dei criteri di progressività, dando vita ad un trattamento discriminatorio, trattandosi «di un intervento impositivo irragionevole e discriminatorio ai danni di una sola categoria di cittadini. L'intervento riguarda, infatti, i soli pensionati, senza garantire il rispetto dei principi fondamentali di uguaglianza a parità di reddito, attraverso una irragionevole limitazione della platea dei soggetti passivi»;
    nel rispetto di tali principi, vanno individuati gli strumenti più efficaci per assicurare maggiore equità al sistema previdenziale, con particolare riferimento al fenomeno delle «pensioni d'oro», termine troppo spesso applicato a situazioni reddituali non certo di particolare «privilegio» economico, e tenendo conto del fatto che la maggioranza degli assegni pensionistici, oltre il 91 per cento, è al di sotto della soglia delle cinque volte il trattamento minimo, mentre solo l'1,13 per cento del totale dei trattamenti corrisposti è superiore a 10 volte il trattamento minimo;
    sebbene possa essere auspicabile un contributo di solidarietà sui redditi più elevati, indipendentemente dalla tipologia, se ci si deve ancora una volta riferire alle pensioni, vanno presi in considerazione quei redditi da pensione superiori oltre un certo numero di volte al trattamento minimo; va, tuttavia, evitata ogni forma di surrettizio «scontro generazionale», come se tutte le pensioni calcolate con il sistema retributivo fossero un costo generale per la collettività e, al tempo stesso, va recuperato lo spirito della legge n. 247 del 2007, anche attraverso misure che consentano di recuperare la solidarietà fra le generazioni e permettano di realizzare una redistribuzione della ricchezza e la garanzia di prestazioni pensionistiche dignitose alle future generazioni,

impegna il Governo:

   a favorire l'adozione di misure che, nel rispetto dei principi indicati dalla Corte costituzionale, creino le condizioni per realizzare forme di solidarietà ed equità previdenziale attraverso l'istituzione di appositi fondi all'interno dei diversi enti previdenziali, alimentati con contributi di importo crescente al crescere del trattamento pensionistico, applicati su quelli di importo superiore a dodici volte il trattamento minimo, da destinare a interventi in favore dei pensionati e dei lavoratori più deboli e per contribuire alla realizzazione di un sistema di prestazioni pensionistiche dignitose per le future generazioni;
   a valutare l'assunzione di iniziative volte a modificare i criteri di calcolo dei coefficienti di trasformazione di cui all'articolo 1, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335, nel rispetto degli andamenti e degli equilibri della spesa pensionistica di lungo periodo e nel rispetto delle procedure europee, che tengano conto:
    a) delle dinamiche delle grandezze macroeconomiche, demografiche e migratorie che incidono sulla determinazione dei coefficienti medesimi;
    b) dell'incidenza dei percorsi lavorativi, anche al fine di verificare l'adeguatezza degli attuali meccanismi di tutela delle pensioni più basse e di proporre meccanismi di solidarietà e garanzia per tutti i percorsi lavorativi, nonché di proporre politiche attive che possano favorire il raggiungimento di un tasso di sostituzione al netto della fiscalità non inferiore al 60 per cento, con riferimento all'aliquota prevista per i lavoratori dipendenti;
    c) del rapporto intercorrente tra l'età media attesa di vita e quella dei singoli settori di attività;
   a valutare la possibilità di assumere iniziative per aumentare la misura della «quattordicesima» prevista dal Governo Prodi per le pensioni basse, al fine di compensare la perdita del potere d'acquisto delle pensioni, che si è particolarmente aggravata in questi anni di crisi economica.
(1-00258)
«Gnecchi, Damiano, Marchi, Albanella, Baruffi, Bellanova, Boccuzzi, Casellato, Faraone, Cinzia Maria Fontana, Giacobbe, Gregori, Gribaudo, Incerti, Madia, Maestri, Martelli, Miccoli, Paris, Giorgio Piccolo, Simoni, Zappulla, Taricco, Amoddio, Carra».
(25 novembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    nell'attuale contesto di crisi economica che colpisce il Paese, che porta il legislatore ad adottare misure di contenimento della spesa fortemente penalizzanti per i cittadini, la questione delle cosiddette «pensioni d'oro» è argomento di acceso dibattito tra gli organi di informazione, le forze politiche e l'opinione pubblica, in relazione al rispetto dei principi di equità e giustizia sociale, del patto intergenerazionale e della sostenibilità del nostro sistema previdenziale;
    da un'inchiesta condotta dal quotidiano Libero e pubblicata sulla prima pagina dell'edizione del 12 novembre 2013 emerge che una pensione su due è «regalata», nel senso che solo il 54 per cento dei trattamenti corrisposti è coperto dai contributi effettivamente versati;
    urge, pertanto, un intervento normativo teso a contenere i trattamenti previdenziali di importo elevato, prevedendo che, laddove questi siano calcolati con il metodo retributivo, i relativi importi non debbano superare un limite prefissato e garantendo, invece, i trattamenti pensionistici calcolati esclusivamente con il metodo contributivo;
    un intervento in un'ottica di solidarietà era stato attuato con il decreto-legge n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011, che, all'articolo 18, comma 22-bis, aveva previsto in via provvisoria dal 1o agosto 2011 fino al 31 dicembre 2014 un contributo di perequazione pari, rispettivamente, al 5 per cento della parte eccedente l'importo fino a 90.000 euro, al 10 per cento per la parte eccedente 150.000 euro e al 15 per cento per la parte eccedente 200.000;
    la Corte costituzionale, però, con la sentenza n. 116 del 2013, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del predetto comma 22-bis, rilevando che il prelievo straordinario su tali pensioni costituiva un intervento impositivo «irragionevole e discriminatorio», realizzato ai danni di una sola categoria di cittadini, i pensionati, e che si poneva in contrasto con gli articoli 3 e 53 della Costituzione, rispettivamente sul principio di uguaglianza e sulla capacità contributiva come fondamento del prelievo tributario;
    a parere dei firmatari del presente atto di indirizzo, le motivazioni addotte dalla Corte costituzionale sono capziose e discutibili, ritenendo invero che si rispetti il dettame costituzionale e si risponda ad un'esigenza di giustizia ed eguaglianza dei cittadini intervenendo laddove si annidano privilegi;
    le pensioni di importo elevato erogate con il calcolo retributivo, infatti, secondo i firmatari del presente atto di indirizzo rappresentano già in sé una violazione dei principi costituzionali di parità ed eguaglianza, in quanto non sono frutto di accantonamenti «personali», secondo la ratio per cui un pensionato percepisce quanto versato nell'arco della vita lavorativa, bensì vengono pagate dai versamenti dei lavoratori attivi e rappresentano un trattamento di miglior favore rispetto alle generazioni successive, che, a seguito delle riforme pensionistiche, possono accedere alla pensione solo con il calcolo contributivo;
    il Ministro del lavoro e delle politiche sociali ha recentemente definito questi trattamenti «quelle pensioni il cui elevato importo appare stridente nell'attuale contesto socio-economico e di sacrifici imposti alla generalità della popolazione»;
    eppure il disegno di legge di stabilità attualmente all'esame dell'altro ramo del Parlamento reca all'articolo 12, comma 4, un intervento sul tema in questione valutato dai firmatari del presente atto di indirizzo insufficiente rispetto alla reale possibilità di incidere stabilmente sui privilegi esistenti,

impegna il Governo:

   ad intervenire sui trattamenti pensionistici di importo elevato, assumendo iniziative per prevedere che le pensioni ed i vitalizi erogati da gestioni previdenziali pubbliche in base al metodo retributivo non possano superare un limite prefissato, pari, ad esempio, a cinquemila euro netti mensili;
   ad assumere iniziative per prevedere una soglia prestabilita di ammontare pensionistico, pari, ad esempio, ad ottomila euro netti mensili, anche nel caso di cumulo di più trattamenti pensionistici corrisposti da gestioni previdenziali pubbliche in base al metodo retributivo;
   ad utilizzare gli eventuali risparmi derivanti dagli interventi sulle pensioni di importo elevato in favore dello sblocco delle indicizzazioni delle pensioni e della salvaguardia dei lavoratori esodati dalle disposizioni in materia pensionistica, di cui all'articolo 24 del decreto-legge n. 201 del 2011, e successive integrazioni e modificazioni.
(1-00259)
«Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini».
(25 novembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    la questione delle cosiddette «pensioni d'oro» deve inquadrarsi nel contesto complessivo del sistema previdenziale e delle criticità che si pongono in relazione ad esso;
    la più recente riforma del sistema previdenziale ha determinato, in un contesto regolatorio già ritenuto sostenibile dal punto di vista finanziario, un immediato innalzamento dell'età di pensione senza disporre una fase transitoria e, non a caso, senza uguali in Europa;
    in un mercato del lavoro contratto dalla crisi e dalla nuova regolazione si è prodotta l'insostenibile condizione di molte lavoratrici e di molti lavoratori che in buona fede – sulla base della regolazione vigente – hanno accettato accordi collettivi o individuali di conclusione precoce del rapporto di lavoro, spesso accompagnata da versamenti volontari;
    la vita lavorativa si è positivamente allungata sulla base delle nuove regole previdenziali, ma l'inclusione di molte persone adulte nel mercato del lavoro rimane difficile in relazione alla crisi, alla debolezza dei servizi di formazione e ricollocamento e alle dinamiche retributive influenzate prevalentemente dall'età, con la conseguenza per cui si determina il brusco impoverimento di persone senza lavoro, senza pensione e senza sussidio;
    nuove diseguaglianze si sono aggiunte a quelle preesistenti anche nell'ambito della stessa generazione, sia dal punto di vista del calcolo della prestazione che da quello dell'età di pensione;
    in questo contesto, si sono determinate molte disparità ed incongruenze di trattamento pensionistico tra le pensioni più basse e quelle più alte, dove in molti hanno goduto di prestazioni più favorevoli per metodo di calcolo, per età di accesso o per appartenenza a fondi speciali,

impegna il Governo:

   a considerare in questo contesto, senza sollecitare conflitti tra generazioni che hanno vissuto condizioni complessivamente diverse e senza produrre radicali cambiamenti nelle legittime aspettative indotte dalle regole del passato, modalità di concorso solidale agli obiettivi di cui sopra da parte dei percettori di prestazioni più favorevoli o per metodo di calcolo o per età di accesso alle prestazioni stesse, con particolare attenzione a quelle provenienti da fondi speciali che hanno goduto di un rapporto particolarmente conveniente con le contribuzioni versate;
   a presentare quanto prima al Parlamento un progetto organico di completamento della riforma previdenziale in funzione della migliore conciliazione tra i criteri della sostenibilità finanziaria e quelli della sostenibilità sociale, introducendo flessibilità nel sistema previdenziale, proteggendo il reddito dei cosiddetti «esodati» sulla base di parametri certi e consentendo l'accumulo in unico conto di tutte le contribuzioni reali e figurative della previdenza, secondo regole semplici ed omogenee.
(1-00260)
«Pizzolante, Costa, Bosco, Dorina Bianchi».
(25 novembre 2013)

MOZIONI SULL'ETICHETTATURA DEI PRODOTTI AGROALIMENTARI

   La Camera,
   premesso che:
     in un momento di grave crisi in cui il nostro Paese è alla ricerca di azioni e risorse per il rilancio dell'economia e della crescita occupazionale, il made in Italy e, in particolare, quello agroalimentare, è universalmente riconosciuto come straordinaria leva competitiva «ad alto valore aggiunto» per lo sviluppo del Paese;
    l'etichettatura dei prodotti alimentari è un procedimento per cui i produttori dei cibi confezionati sono tenuti a riportare, integralmente, tutti gli ingredienti presenti nei loro preparati alimentari;
    la normativa sull'etichettatura dei prodotti alimentari nasce nel 1978 con la direttiva 79/112/CEE, recepita in Italia mediante il decreto legislativo n. 109 del 1992;
    la legislazione in materia, naturalmente, si è aggiornata nel corso del tempo, in particolare con il decreto legislativo n. 181 del 2003, che recepiva una norma europea che aveva, come obiettivo, quello dell'armonizzazione delle normative a livello europeo;
    la legge 3 febbraio 2011, n. 4, reca disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari e offre l'opportunità di anticipare l'applicazione della normativa comunitaria, introducendo l'obbligo di indicare l'esatta provenienza dell'origine degli alimenti nei settori delle carni suine, del latte e di tutti i prodotti trasformati a garanzia del corretto funzionamento del mercato e dell'adozione di scelte informate da parte dei consumatori;
    alla luce delle citate disposizioni, le finalità dell'etichettatura in sintesi sono quelle di non indurre in errore l'acquirente sulle caratteristiche del prodotto alimentare e precisamente sulla natura, sulla identità, sulla qualità, sulla composizione, sulla quantità, sulla conservazione, sull'origine o sulla provenienza, sul modo di fabbricazione o di ottenimento del prodotto stesso ovvero non attribuire al prodotto alimentare effetti o proprietà che non possiede;
    il 22 novembre 2011 è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell'Unione europea il regolamento (UE) n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, che introduce alcuni cambiamenti in merito alla fornitura di informazioni sugli alimenti;
    scopo del regolamento è garantire un elevato livello di protezione dei consumatori in materia di informazioni sugli alimenti;
    tra le principali novità previste dalla nuova normativa comunitaria, si può ricordare, tra le tante, che diventa obbligatorio indicare alcune informazioni nutrizionali fondamentali e di impatto sulla salute, quali: il valore energetico e la quantità di grassi, acidi grassi saturi, carboidrati, zuccheri, proteine e sale. Tali indicazioni dovranno essere indicate sull'imballaggio in una tabella comprensibile, insieme e nel medesimo campo visivo;
    relativamente all'entrata in vigore, i soggetti preposti all'etichettatura dei prodotti alimentari possono usufruire di un periodo transitorio di tre anni per adeguarsi, con eccezione della novità riguardante l'indicazione dell'obbligatorietà della dichiarazione nutrizionale, la cui cogenza è prevista entro un periodo di cinque anni dall'entrata in vigore del regolamento;
    raccogliendo le sollecitazioni che hanno condotto all'approvazione del citato regolamento comunitario è stato da poco adottato nel Regno Unito un tipo di etichettatura per alimenti da supermercato che utilizza i colori del semaforo – verde, giallo e rosso – in una scala in cui il primo colore racconta che il prodotto contiene un ingrediente «sano» e l'ultimo un componente «pericoloso»;
    il sistema, che ora dovrà essere utilizzato ufficialmente da tutte le industrie e non solo in maniera discrezionale dai dettaglianti, è definito «ibrido» perché prevede un'informazione mista, composta da due parti: una tabella con le assunzioni di riferimento (ovvero in quale percentuale cento grammi di prodotto contribuiscono al raggiungimento del fabbisogno giornaliero raccomandato – meglio noto con la sigla gda, guideline daily amounts) e un'indicazione visiva «ad alto impatto» che si serve dei colori del semaforo per segnalare la presenza adeguata (verde) o in eccesso (rossa) di nutrienti critici per la salute, quali grassi, grassi saturi, sale/iodio e zuccheri;
    il colore associato viene scelto in base ai valori di riferimento indicati dalla sintetica tabella guida fornita nel 2007 dalla Food standard agency, l'agenzia responsabile della salubrità del cibo nel Regno Unito;
    il sistema britannico ha suscitato notevoli perplessità che si fondano sul fatto che non ci sono alimenti buoni o cattivi in assoluto, perché molto dipende dalle quantità e dalle combinazioni: in sintesi è il pasto nel suo complesso che classifica una dieta come equilibrata o squilibrata;
    i colori del semaforo prescindono dalle quantità delle porzioni, per cui una persona può paradossalmente consumare una quantità elevata di alimenti «verdi», assumendo calorie e nutrienti in quantità maggiore rispetto a porzioni più contenute di alimenti «gialli» o «rossi». Il sistema potrebbe risultare diseducativo rispetto all'attenzione verso una dieta equilibrata, dove è buona regola fare un bilancio tra energie assunte e consumate;
    il livello di informazione e consapevolezza del consumatore europeo ed italiano, in particolare, consentirà, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, di accogliere questa novità non come un pericolo ma come un'opportunità per il sistema agricolo ed agroalimentare italiano e lombardo, purché, considerato che l'obbligatorietà di questa procedura creerebbe un'eccessiva rigidità del sistema imponendo alle imprese ulteriori adempimenti, il sistema «semaforo» rimanga volontario e facoltativo;
    indubbiamente è importante che il consumatore sia informato del contenuto nutrizionale dei prodotti in vendita, ma questa informazione dovrà essere completata da quella sull'origine dei prodotti;
    il made in Italy agroalimentare si caratterizza per le sue eccellenze in termini di maggior valore aggiunto per ettaro in Europa, livello di sicurezza e sistema dei controlli alimentari, prodotti a denominazione e produzioni biologiche;
    la crescita costante dell’export testimonia l'indiscutibile ruolo dell'agroalimentare del nostro Paese e del valore attribuito al marchio made in Italy;
    l'agroalimentare made in Italy registra un fatturato nazionale superiore ai 266 miliardi di euro e rappresenta oltre il 17 per cento del prodotto interno lordo;
    invece che alla valorizzazione ed alla promozione del vero made in Italy, si assiste ad una vera e propria svendita dell'economia e dei territori italiani, che rischia di danneggiare irrimediabilmente il vero grande patrimonio del Paese;
    occorre prevenire e contrastare l'usurpazione del made in Italy, assicurando la qualità, la salubrità, le caratteristiche e l'origine dei prodotti alimentari, in quanto elementi funzionali a garantire la salute ed il benessere dei consumatori ed il diritto ad un'alimentazione sana, corretta e fondata su scelte di acquisto e di consumo consapevoli;
    le produzioni italiane caratterizzate dall'alta qualità costituiscono da sempre l'eccellenza del mercato agroalimentare e sono unanimemente inserite nei regimi alimentari corretti (dieta mediterranea);
    solo la tutela rigida dell'autenticità dell'indicazione di provenienza potrà consentire una scelta consapevole relativamente alle componenti di un regime alimentare equilibrato;
    pertanto, è fondamentale che il consumatore sia informato al fine di poter compiere scelte alimentari mirate e consapevoli che garantiscano uno stile di vita sano. Questa informazione dovrà essere completa: non solo il contenuto dei vari alimenti in termini di contenuto, ma anche la provenienza di questi alimenti;
    è sempre opportuno tener presente come la garanzia della provenienza dei vari prodotti tuteli la salute dei consumatori quanto, se non più, della consapevolezza sulla composizione degli stessi alimenti: è inutile conoscere il contenuto in grassi di un alimento se lo stesso è adulterato o sofisticato oppure se ne sono state falsificate le origini o le modalità di produzione;
    la commercializzazione di prodotti di imitazione, ovvero che evocano una origine ed una fattura italiana, ma senza possederne le caratteristiche, provocano un danno all'immagine del Paese, come espressione dell'identità culturale dei territori, con grave nocumento alle imprese a causa della concorrenza sleale derivante dalla sottrazione di spazi di mercato e dall'inganno a danno dei consumatori;
    molti controlli operati, soprattutto nel settore delle carni suine, hanno già evidenziato la violazione della disciplina in materia di presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari e condotte poste in essere in maniera ingannevole, fraudolenta e scorretta, allo specifico scopo di far intendere al consumatore che i prodotti acquistati sono di origine e di tradizione italiana;
    l'articolo 26, comma 2, lettera b), del regolamento (UE) n. 1169/2011, oltre che inserire come obbligatoria l'indicazione di alcune informazioni nutrizionali fondamentali, impone come obbligatoria l'indicazione del Paese di origine o del luogo di provenienza per una serie di prodotti, tra cui le carni di animali della specie suina, fresche, refrigerate o congelate, rinviando l'applicazione della norma a successivi atti di esecuzione da adottare entro il 13 dicembre 2013;
    l'articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n.1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, nel disciplinare le relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli ed agroalimentari, vieta condotte commerciali sleali al fine di impedire che un contraente con maggiore forza commerciale possa abusarne, imponendo condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose per la controparte più debole;
    in Italia, la produzione di carni suine è stimata in 1.299.000 tonnellate l'anno e sono oltre 26.200 gli allevamenti di suini ampiamente diffusi su tutto il territorio nazionale;
    in Italia, rispetto a 73,5 milioni di cosce suine consumate, 57,3 milioni sono di importazione, 24,5 milioni sono di produzione nazionale e 8,3 milioni vengono avviate all'esportazione;
    i dati relativi alle importazioni di cosce fresche riportano percentuali altissime riferite alla provenienza di prodotti da alcuni Stati dell'Unione europea;
    sulla base di dati elaborati dall'Associazione nazionale allevatori di suini (Anas) risulta che l'Italia, nel 2012, ha importato, solo dalla Germania, il 52 per cento di suini vivi e carni suine, per un totale di 535.309 tonnellate;
    da articoli apparsi sulla stampa europea è emerso che l'efficienza dell'industria della carne suina in Germania è basata su prodotti a basso costo, operai sottopagati, falde acquifere inquinate e tecniche di allevamento non sostenibili, con gravi ripercussioni sulla salute dei consumatori legate all'eccessivo impiego di antibiotici,

impegna il Governo:

   a promuovere tutte le iniziative più opportune al fine di prevenire le pratiche fraudolente o ingannevoli ai danni del made in Italy o, comunque, ogni altro tipo di operazione o attività commerciale in grado di indurre in errore i consumatori e, ancora, ad assicurare la più ampia trasparenza delle informazioni relative ai prodotti alimentari ed ai relativi processi produttivi e l'effettiva rintracciabilità degli alimenti;
   ad intervenire nelle sedi opportune affinché il tipo di etichettatura per alimenti da supermercato che utilizza i colori del semaforo utilizzato nel Regno Unito trovi diffusione solo come opzione volontaria e facoltativa e venga necessariamente abbinato agli strumenti per la tutela dell'origine degli alimenti, con particolare riferimento alla tutela del made in Italy;
   a chiedere, in sede europea, il rispetto del termine del 13 dicembre 2013, imposto dal regolamento (UE) n. 1169/2011, per l'attuazione dell'obbligo di indicazione del Paese d'origine o del luogo di provenienza, con particolare riferimento alle carne suine;
   ad emanare, nelle more dell'approvazione a livello comunitario dei suddetti provvedimenti di esecuzione, i decreti attuativi della legge n. 4 del 2011 per introdurre l'obbligo di etichettatura, in particolare delle carni suine, avviando, altresì, opportune campagne di informazione per gli organi di controllo e per i consumatori sulle normative in materia di etichettatura dei prodotti alimentari e di indicazioni di origine;
   a rendere noti e pubblici i riferimenti delle società eventualmente coinvolte in pratiche commerciali ingannevoli, fraudolente o scorrette finalizzate ad immettere sui mercati finti prodotti made in Italy ed i dati dei traffici illeciti accertati;
   a dare attuazione, con specifico riferimento al commercio delle carni suine, all'articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n.27, al fine di contrastare pratiche commerciali sleali poste in essere, ai danni degli allevatori, in contrasto con il principio della buona fede e della correttezza;
   ad adottare, anche per le carni suine, un sistema analogo a quello previsto dall'articolo 10 della legge 14 gennaio 2013, n. 9, che reca norme sulla qualità e sulla trasparenza della filiera degli oli di oliva vergini, al fine di rendere accessibili a tutti gli organi di controllo ed alle amministrazioni interessate le informazioni ed i dati sulle importazioni e sui relativi controlli, concernenti l'origine di tutti i prodotti alimentari, nonché ad assicurare l'accesso ai relativi documenti da parte dei consumatori, anche attraverso la creazione di collegamenti a sistemi informativi ed a banche dati elettroniche gestiti da altre autorità pubbliche.
(1-00227)
(Nuova formulazione) «Rondini, Giancarlo Giorgetti, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Grimoldi, Guidesi, Cristian Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera».
(30 ottobre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    il sistema agroalimentare italiano è un'eccellenza riconosciuta a livello mondiale e la tutela dei prodotti agroalimentari è condizione indispensabile non solo alla difesa delle nostre produzioni, ma anche alla conservazione e promozione delle identità dei territori e delle sapienti tecniche di produzione strettamente legate alle aree geografiche di provenienza;
    il contrasto alla contraffazione è uno degli elementi essenziali della strategia di difesa delle produzioni tipiche e passa necessariamente attraverso l'informazione ai consumatori, posto che l'agropirateria è uno degli aspetti maggiormente lesivi della competitività internazionale dei prodotti italiani di qualità e che circa tre prodotti su quattro sono venduti come made in Italyi, pur essendo ottenuti da materia prima straniera;
    l'uso ingannevole di nomi, denominazioni, immagini e loghi, allo scopo di falsificare l'identità merceologica degli alimenti, è ormai un'emergenza in continuo aumento unitamente al dilagare di pratiche commerciali sleali nella presentazione degli alimenti, in particolare per quanto concerne la reale origine geografica degli ingredienti utilizzati;
    al fine di contenere tale fenomeno, assume un'importanza vitale la questione dell'etichettatura d'origine dei prodotti alimentari. L'indicazione in etichetta del luogo di origine o di provenienza delle materie prime utilizzate e dell'eventuale impiego di ingredienti in cui vi sia presenza di organismi geneticamente modificati è, infatti, l'unica informazione che garantisca sicurezza e trasparenza ai consumatori;
    la legge 3 febbraio 2011, n. 4, disponendo l'obbligo di riportare in etichetta l'indicazione del luogo di origine o di provenienza dei prodotti alimentari commercializzati, trasformati, parzialmente trasformati o non trasformati e prevedendo adeguate sanzioni in caso di violazione degli obblighi prescritti, è un riferimento normativo essenziale a limitare e contrastare i fenomeni di contraffazione e pirateria commerciale, ancorché la sua effettiva applicazione risulti al momento sospesa in attesa della emanazione dei decreti ministeriali di attuazione;
    sarebbe, inoltre, opportuno che i suddetti decreti disponessero, per talune tipologie di prodotti, modalità di inserimento volontario in etichetta di specifici sistemi di sicurezza realizzati mediante elementi di identificazione elettronica e telematica;
    particolarmente allarmante è, inoltre, il fenomeno della contraffazione on line, posto che la rete offre anonimato, costi bassi e possibilità di una veloce e facile scomparsa dal mercato; dati aggiornati evidenziano che il commercio on line nel settore alimentare risulta quello in maggior crescita, tanto che si stima, per il 2013, un balzo del 18 per cento;
    tale situazione genera ancor più preoccupazione alla luce delle nuove iniziative che potrebbero essere intraprese a breve dalla società americana Icann, ovvero l'autorità che genera il rilascio dei suffissi internet, che ha attivato le procedure per assegnare, dietro pagamento, a soggetti privati, indipendentemente se siano, ad esempio, viticoltori o utilizzatori riconosciuti delle denominazioni, domini di primo livello generico, tra i quali: «wine» e «vin», oltre a «food» e «organic»;
    i titolari dei suddetti domini potrebbero, infatti, attraverso l'abbinamento a domini di secondo livello, registrare indirizzi come «baroloclassico.wine» o anche «prosciuttodiparma.food» e sovrapporli agli indirizzi dei prodotti originali, generando totale confusione nelle piattaforme di commercio elettronico, con danni incalcolabili per il sistema di qualità agroalimentare italiano;
    è indispensabile assicurare che l'assegnazione di nomi generici, accordati in via esclusiva a privati e senza particolari garanzie, quali domini di primo livello, sia improntata al rispetto delle norme dell'Organizzazione mondiale del commercio, posto che il loro utilizzo, peraltro esclusivo, ha implicazioni commerciali, di relazioni tra Paesi e di immagine, con effetti devastanti in ambito commerciale internazionale e in grado di attivare infiniti e costosi contenziosi;
    il 19 giugno 2013 il Dipartimento della salute britannico ha annunciato l'introduzione di un nuovo sistema volontario di etichettatura nutrizionale basato sulla colorazione «semaforica» del packaging dei prodotti alimentari sulla base del contenuto di sale, zucchero, grassi e grassi saturi presente in 100 grammi di prodotto. Lo schema inglese si basa sulla schedatura degli alimenti: verde uguale cibo «buono», rosso uguale cibo «cattivo», mettendo a rischio i prodotti di qualità e non considerando il fatto che non esistono cibi «buoni» o «cattivi», ma solo regimi alimentari corretti o scorretti;
    l'etichettatura agroalimentare è regolamentata a livello europeo dal regolamento (UE) n. 1169/2011, attraverso il quale la Commissione europea ha razionalizzato e armonizzato la legislazione sulle informazioni al consumatore, al fine di garantire il buon funzionamento del mercato interno. Alla luce di ciò lo schema britannico – per il quale il Governo italiano ha formalmente espresso la propria posizione contraria – appare in palese contrasto con gli obiettivi di armonizzazione del suddetto regolamento dell'Unione europea e rappresenta un pericoloso precedente che potrebbe preludere alla proliferazione di una molteplicità di differenti schemi nazionali,

impegna il Governo:

   ad adottare con la massima urgenza i decreti ministeriali di attuazione dell'articolo 4 della legge 3 febbraio 2011, n. 4, al fine di rendere immediatamente applicabile la normativa sull'etichettatura di origine dei prodotti agroalimentari a tutela dei consumatori e degli operatori della filiera e a prevedere, per talune tipologie di prodotti, modalità di inserimento volontario in etichetta di specifici sistemi di sicurezza realizzati mediante elementi di identificazione elettronica e telematica;
   ad intervenire con determinazione nelle competenti sedi internazionali e prioritariamente in ambito Gac (Government advisory committee), anche in collaborazione con gli altri Stati membri interessati e con la Commissione europea, per bloccare l'introduzione di nomi generici a domini internet e la loro assegnazione a soggetti privati non utilizzatori delle denominazioni, a garanzia di tutela del sistema agroalimentare di qualità italiano;
   a promuovere, a livello di unione europea, un'azione comune a difesa della posizione della «non concedibilità» dei nomi generici e della necessità di rivedere la governance di internet con la definizione di regole condivise a livello internazionale;
   ad assumere tutte le iniziative di competenza affinché la Commissione europea avvii una rapida verifica sulla compatibilità del sistema di etichettatura inglese con la normativa europea relativa alle indicazioni nutrizionali degli alimenti, così come previste dal regolamento (UE) n. 1169/2011, nonché sul rispetto da parte del Governo britannico dell'obbligo di previa notifica previsto per l'introduzione di nuove regolamentazioni in materia di etichettatura;
   a tutelare l'immagine e il valore economico dell’export agroalimentare (come il contrasto all’italian sounding) dei prodotti made in Italy, evitando che i sistemi di etichettatura volontaria siano utilizzati a fini discriminatori e distorsivi del mercato nei confronti delle imprese agricole e agroalimentari italiane;
   a diffondere, tramite puntuali campagne informative, l'importanza di una dieta varia ed equilibrata insieme ad una regolare attività fisica, esprimendo contrarietà a qualsiasi sistema di etichettatura alimentare basato su approcci che tendono a confondere i consumatori;
   a sostenere progetti per la promozione del consumo di prodotti agroalimentari italiani nella ristorazione italiana all'estero, attraverso la predisposizione di un documento di reciproci impegni e garanzie tra imprese agroalimentari, Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali e ristoranti interessati.
(1-00274)
«Gallinella, L'Abbate, Lupo, Parentela, Gagnarli, Massimiliano Bernini, Benedetti, Villarosa, Brugnerotto, D'Incà, Castelli, Fico».
(3 dicembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    l'agroalimentare made in Italy rappresenta oltre il 17 per cento del prodotto interno lordo, di cui oltre 53 miliardi di euro provengono dal settore agricolo;
    il successo dell'agroalimentare italiano nel mondo e l'accreditamento attribuito al marchio «Italia» non conoscono arretramenti, come dimostra la crescita costante dell’export, ma anche la diffusione dei fenomeni di imitazione e pirateria commerciale;
    il made in Italy agroalimentare è la leva esclusiva per una competitività «ad alto valore aggiunto» e per lo sviluppo sostenibile del Paese, grazie ai suoi primati in termini di qualità, livello di sicurezza e sistema dei controlli degli alimenti, riconoscimento di denominazioni geografiche protette e produzione biologica;
    il settore agricolo ha una particolare importanza non solo per l'economia nazionale – considerati la percentuale di superficie coltivata, il più elevato valore aggiunto per ettaro in Europa ed il maggior numero di lavoratori occupati nel settore – ma, altresì, come naturale custode del patrimonio paesaggistico, ambientale e sociale;
    in agricoltura sono presenti circa 820 mila imprese, vale a dire il 15 per cento del totale di quelle attive in Italia;
    sulla base dei dati dell'Agenzia europea per la sicurezza alimentare – Efsa – l'Italia risulta prima, nel mondo, in termini di sicurezza alimentare, con oltre 1 milione di controlli l'anno, il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici oltre il limite (0,3 per cento), con un valore inferiore di cinque volte rispetto a quelli della media europea (1,5 per cento di irregolarità) e addirittura di 26 volte rispetto a quelli extracomunitari (7,9 per cento di irregolarità);
    la libera circolazione di alimenti sicuri e sani è un aspetto fondamentale del mercato interno, ma, sempre più spesso, la salute dei consumatori e la corretta e sana alimentazione appaiono compromesse da cibi anonimi, con scarse qualità nutrizionali, o addizionati e di origine per lo più sconosciuta;
    la circolazione di alimenti che evocano un'origine ed una fattura italiana che non possiedono costituisce una vera e propria aggressione al patrimonio agroalimentare nazionale, che, come espressione dell'identità culturale dei territori, rappresenta un bene collettivo da tutelare ed uno strumento di valorizzazione e di sostegno allo sviluppo rurale;
    continuano a crescere le importazioni provenienti da Paesi, tra i quali la stessa Germania, in cui ci si basa su produzioni a basso costo, operai sottopagati, falde acquifere inquinate e tecniche di allevamento, come quello suinicolo, non sostenibili e con gravi ripercussioni sulla salute dei consumatori legate all'eccessivo impiego di antibiotici;
    relativamente al settore zootecnico, si ricorda che gli allevamenti italiani di suini, presenti prevalentemente in Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte, Veneto, Umbria e Sardegna, sono oltre 26.200 e la produzione di carni suine è stimata in 1.299.000 tonnellate l'anno;
    il settore suinicolo rappresenta una voce importante dell'agroalimentare italiano. La suinicoltura italiana, infatti, occupa il 7o posto in Europa per numero di capi mediamente presenti e offre occupazione, lungo l'intera filiera, a circa 105 mila addetti, di cui 50 mila nel solo comparto dell'allevamento: in Italia nel 2012 la consistenza è stata di 9,279 milioni di capi, preceduta da Germania (28,1 milioni), Spagna (25,2 milioni), Francia (13,7 milioni), Danimarca (12,4 milioni), Olanda (12,2 milioni) e Polonia (11,9 milioni di capi);
    secondo analisi ed elaborazioni dell'Associazione nazionale allevatori suini (Anas), riferiti al primo semestre 2013, il valore dell'allevamento riconosciuto nella fase della distribuzione è stato del 17,28 per cento. Sempre secondo la predetta Associazione nazionale allevatori suini, l'Italia, nel 2012, ha importato complessivamente 1.020.425 tonnellate di suini vivi e carni suine, di cui il 52 per cento dalla Germania, pari a 535.309 tonnellate;
    dalle stesse elaborazioni si rileva che il costo medio di produzione del suino pesante (peso medio 160/170 chilogrammi) è di 1,56 euro al chilogrammo;
    i medesimi dati evidenziano che il prezzo medio riconosciuto all'allevatore per il suino pesante (peso medio 160/170 chilogrammi) è stato di 1,4 euro al chilogrammo;
    articoli di stampa europei hanno recentemente messo in luce che l'industria della carne suina tedesca è efficiente ed è basata su prodotti a basso costo, ma che, dietro questo sistema, ci sono operai sottopagati, falde acquifere inquinate e tecniche di allevamento che usano enormi quantità di antibiotici;
    molti controlli operati sul settore delle carni suine hanno evidenziato la violazione della disciplina in materia di presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari e condotte poste in essere in maniera ingannevole, fraudolenta e scorretta, allo specifico scopo di far intendere al consumatore che i prodotti acquistati sono di origine e di tradizione italiana;
    l'attuale situazione del mercato risulta complicata dalla mancanza di trasparenza sull'indicazione di origine delle carni suine, che rischia di creare confusione tra i prodotti di provenienza nazionale – che assicurano, tra l'altro, elevati standard di sicurezza e qualità – ed i prodotti di importazione che invece, spesso, presentano minori garanzie per il consumatore;
    l'articolo 26, comma 2, lettera b), del regolamento (UE) n. 1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, prevede che l'indicazione del Paese d'origine o del luogo di provenienza è obbligatoria per le carni dei codici della nomenclatura combinata elencati all'allegato XI del regolamento medesimo – tra le quali sono contemplate le carni di animali della specie suina, fresche, refrigerate o congelate – rinviando l'applicazione della norma a successivi atti di esecuzione da adottare entro il 13 dicembre 2013;
    molti controlli operati sulle filiere del latte e dei prodotti lattiero-caseari, dei cereali, con particolare riferimento al grano duro, dei pomidoro non destinati a passata e delle carni suine hanno evidenziato la violazione della disciplina in materia di presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari e condotte poste in essere in maniera ingannevole, fraudolenta e scorretta, allo specifico scopo di far intendere al consumatore che i prodotti acquistati sono di origine e di tradizione italiana;
    l'articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, nel disciplinare le relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli ed agroalimentari, vieta condotte commerciali sleali, al fine di impedire che un contraente con maggiore forza commerciale possa abusarne, imponendo condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose per la controparte più debole;
    l'articolo 10 della legge 14 gennaio 2013, n. 9, «Norme sulla qualità e la trasparenza della filiera degli oli di oliva vergini», introduce un sistema al fine di rendere accessibili a tutti gli organi di controllo ed alle amministrazioni interessate le informazioni ed i dati sulle importazioni e sui relativi controlli, concernenti l'origine degli oli di oliva vergini, anche attraverso la creazione di collegamenti a sistemi informativi ed a banche dati elettroniche gestiti da altre autorità pubbliche;
    l'usurpazione del made in Italy minaccia la solidità e provoca gravi danni alle imprese agricole insediate sul territorio, violando il diritto dei consumatori ad alimenti sicuri, di qualità e di origine certa;
    il codice del consumo, recependo la disciplina comunitaria in materia, attribuisce ai consumatori ed agli utenti: i diritti alla tutela della salute; alla sicurezza ed alla qualità dei prodotti; ad un'adeguata informazione e ad una pubblicità veritiera; all'esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà; all'educazione al consumo; alla trasparenza ed all'equità nei rapporti contrattuali;
    la disciplina a tutela dei prodotti di origine italiani introduce norme specifiche per contrastare la contraffazione ed evitare qualunque fraintendimento nell'indagine di provenienza falsa e fallace;
    di fronte alle numerose problematicità sopra enunciate ed alla luce dei danni provocati all'economia agroalimentare nazione, alla tutela dei consumatori ed alla capacità competitiva del settore rurale nazionale, dai richiamati comportamenti sleali, se non illeciti, che si verificano nel campo commerciale delle produzioni agricole ed alimentari indicate come di origine italiana mentre non lo sono, sarebbe inderogabile attivare un'organica politica di contrasto e di repressione;
    in particolare, andrebbero intraprese misure adeguate per stroncare tali presunti comportamenti contrari alla trasparenza ed alle norme di tutela dei consumatori e delle produzioni agroalimentari aventi un'origine da cui traggono particolare reputazione e rinomanza, qual è l'indicazione made in Italy,

impegna il Governo:

   ad intraprendere tutte le occorrenti iniziative volte a rafforzare la tutela della denominazione made in Italy nel campo delle produzioni agroalimentari, dando particolare priorità all'attivazione di misure dirette a contrastare l'utilizzo della stessa denominazione in maniera falsa o ingannevole relativamente alla provenienza, all'origine, alla natura o alle qualità essenziali dei prodotti agroalimentari di origine italiana;
   per le medesime finalità di cui al capoverso precedente, ad adottare iniziative dirette a:
    a) prevedere l'adozione, anche per il latte ed i suoi derivati, per le carni suine e per tutte le altre produzioni importate, di un sistema analogo a quello previsto per gli oli di oliva vergini, dalla legge n. 9 del 2013 citata, per assicurare l'accessibilità delle informazioni e dei dati sulle importazioni e sui relativi controlli, concernenti l'origine delle carni suine e promuovere, a tale scopo, la creazione di collegamenti a sistemi informativi ed a banche dati elettroniche gestiti da altre autorità pubbliche;
    b) con specifico riferimento al settore del commercio nel settore delle carni suine, consentire la piena attuazione all'articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, nella parte in cui vieta pratiche commerciali sleali che possano determinare, in contrasto con il principio della buona fede e della correttezza, il riconoscimento di prezzi agli allevatori palesemente inferiori ai costi di produzione medi da essi sostenuti;
    c) fare in modo di promuovere, in sede di Unione europea, il rispetto del termine del 13 dicembre 2013, imposto dal regolamento (UE) n. 1169/2011, per l'attuazione dell'obbligo di indicazione del Paese d'origine o del luogo di provenienza, con riferimento al latte ed ai prodotti lattiero-caseari, alle carni suine fresche, refrigerate o congelate ed altre produzioni interessate dal suddetto regolamento;
    d) rendere noti e pubblici i riferimenti delle società eventualmente coinvolte in pratiche commerciali ingannevoli, fraudolente o scorrette finalizzate ad immettere sui mercati finti prodotti made in Italy ed i dati dei traffici illeciti accertati;
    e) fornire alle autorità di controllo e, in particolare, al Corpo forestale dello Stato, indicazioni operative finalizzate a fare applicare la definizione precisa dell'effettiva origine degli alimenti, secondo quanto stabilito dall'articolo 4, commi 49 e 49-bis della legge 24 dicembre 2003, n. 350, sulla tutela del made in Italy.
(1-00276)
«Mongiello, Oliverio, Realacci, Patriarca, Covello, Di Gioia, Cera, Scanu, Stumpo, Amendola, Folino, Marrocu, Antezza, Tentori, Piccione, Mognato, Ventricelli, Melilli, Mazzoli, Manzi, Moretti, Rubinato, Fauttilli, Palma, Montroni, Del Basso De Caro, Sberna, Iacono, Venittelli, Basso, Parisi, Marzano, Sannicandro, Blazina, Biondelli, Biasotti, Pastorelli, Censore, Manfredi, Taricco, Fitzgerald Nissoli, Grassi, D'Ottavio, Valiante, Nardella, Monaco, Mariano, Pagani, Petitti, Vezzali, Bruno Bossio, Marguerettaz, Bargero, Ghizzoni, Lodolini, Petrini, Terrosi, Ascani, Morani, Pelillo, Carra».
(5 dicembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    il sistema agroalimentare italiano è una delle più importanti risorse da salvaguardare e potenziare perché rappresenta l'eccellenza dei territori italiani nella misura in cui non è solamente un settore destinato alla produzione di alimenti, ma identifica un patrimonio unico di valori e tradizioni di cultura e qualità di notevoli potenzialità;
    il valore della produzione agroalimentare può essere tutelato solo attraverso la promozione della qualità, della tracciabilità degli alimenti e dell'ampliamento delle informazioni ai consumatori, anche al fine di contrastare il dilagare delle pratiche commerciali sleali e di contraffazione dei prodotti agroalimentari;
    analizzando il comparto dell'agroalimentare italiano, sia a livello nazionale che internazionale, emerge il dato che, ad essere maggiormente premiato è il prodotto genuino; infatti, le cifre dicono che il comparto agroalimentare italiano vale più del 15 per cento di prodotto interno lordo e ogni anno arriva a muovere 245 miliardi di euro fra consumi, export, distribuzione ed indotto. La quota del made in Italy destinata all'esportazione, secondo i dati forniti dalla Confederazione italiana agricoltori, Cia, nel 2012 ha raggiunto una percentuale record del 20 per cento. Ad essere maggiormente presenti sul mercato sono i prodotti tipici e di qualità certificata;
    l'Italia vanta il primato, fra i Paesi dell'Unione europea, di una tutela della qualità delle produzioni agroalimentari elevata: si pensi che il Paese ha il maggior numero di prodotti a marchio registrato come la denominazione d'origine protetta, dop, l'indicazione geografica e protetta, igp, e la specialità tradizionale garantita, stg, che sono oggetto di numerosi e sofisticati tentativi di contraffazione;
    il 25 settembre 2013 la Camera dei deputati ha nuovamente istituito, nell'intento di proseguire il lavoro istruttorio svolto nel corso della XVI Legislatura, una Commissione d'inchiesta sui fenomeni della contraffazione, della pirateria in campo commerciale e del commercio abusivo;
    la Commissione agricoltura della Camera dei deputati ha iniziato l'esame di talune proposte sul tema dell'obbligatorietà dell'indicazione di origine della materia agricola nell'etichetta, del coordinamento e del rafforzamento dei controlli per la tutela dei prodotti agricoli di qualità, nonché della promozione di prodotti provenienti da «filiera corta» o a «chilometro zero»;
    in merito all'indicazione in etichetta dell'origine del prodotto, gli interventi del legislatore italiano si sono scontrati nel corso degli anni con l'impostazione, ancora prevalente in sede europea, tendente a ritenere incompatibile con il mercato unico la presunzione di qualità legate alla localizzazione nel territorio nazionale di tutto o di parte del processo produttivo di un prodotto alimentare. A tale principio hanno fatto eccezione solo le regole relative alle denominazioni di origine e alle indicazioni di provenienza;
    per i restanti prodotti alimentari è stato sinora fissato il principio che l'indicazione del luogo d'origine o di provenienza possa essere resa obbligatoria solo nell'ipotesi che l'omissione dell'indicazione stessa possa indurre in errore il consumatore circa l'origine o la provenienza effettiva del prodotto alimentare (articolo 3 della direttiva 2000/13/CE, recepito dall'articolo 3 del decreto legislativo n. 109 del 1992). Il principio è stato confermato anche con il regolamento (UE) n. 1169/2011, che, in sostituzione della precedente direttiva, ha, tuttavia, esteso a talune carni l'obbligo di indicarne l'origine (articolo 26, paragrafo 2);
    il legislatore nazionale ha tradizionalmente attribuito, invece, grande rilievo alla possibilità di definire una legislazione che consentisse di indicare l'origine nazionale della produzione agroalimentare. La produzione nazionale alimentare è considerata una delle eccellenze e, pertanto, il suo legame territoriale è stato ritenuto costantemente elemento di pregio, quindi degno di segnalazione al consumatore anche per le produzioni non «a denominazione protetta»;
    con l'approvazione nel 2004 dell'articolo 1-bis del decreto-legge n. 157 del 2004, venne introdotto per la prima volta l'obbligo generalizzato di indicare il luogo di origine della componente agricola incorporata in qualsiasi «prodotto alimentare», trasformato e non trasformato. Alla luce, tuttavia, della legislazione europea, la circolare del 1o dicembre 2004 del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali rilevò che il decreto legge «conteneva molteplici principi e disposizioni richiedenti una corretta interpretazione»; pertanto, non potevano ritenersi immediatamente operative le disposizioni sull'indicazione obbligatoria in etichetta dell'origine dei prodotti;
    nella XVI legislatura, la Commissione agricoltura della Camera dei deputati, in sede legislativa, ha approvato all'unanimità la legge 3 febbraio 2011, n. 4, in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari. Il testo della legge risulta, pertanto, incentrato sull'esigenza di promuovere il sistema produttivo nazionale nel quale la qualità dei prodotti è frutto del legame con i territori di origine e sulla pari necessità di trasmettere al consumatore le informazioni sull'origine territoriale del prodotto, alla base delle dette qualità. Il fine di assicurare una completa informazione ai consumatori è, infatti, alla base delle norme (articoli 4 e 5) che dispongono l'obbligo, per i prodotti alimentari posti in commercio, di riportare nell'etichetta anche l'indicazione del luogo di origine o di provenienza. Specificatamente, per i prodotti alimentari non trasformati, il luogo di origine o di provenienza è il Paese di produzione dei prodotti; per i prodotti trasformati la provenienza è da intendersi come il luogo in cui è avvenuta l'ultima trasformazione sostanziale, il luogo di coltivazione e allevamento della materia prima agricola prevalente utilizzata nella preparazione o nella produzione. L'etichetta deve, altresì, segnalare l'eventuale utilizzazione di ingredienti in cui vi sia presenza di organismi geneticamente modificati, dal luogo di produzione iniziale fino al consumo finale. Le norme, che demandano sostanzialmente alle regioni l'attività di controllo, sono, peraltro, rafforzate da disposizioni sanzionatorie (così il comma 10 dell'articolo 4), che prevedono l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria compresa fra 1.600 euro e 9.500 euro per i prodotti non etichettati correttamente. Le modalità applicative dell'indicazione obbligatoria d'origine sono state demandate a decreti interministeriali chiamati a definire, all'interno di ciascuna filiera alimentare, quali prodotti alimentari saranno assoggetti all'etichettatura d'origine;
    i decreti attuativi non sono stati a tutt'oggi emanati da parte dei Ministeri delle politiche agricole, alimentari e forestali e dello sviluppo economico, proprio a causa della difficile applicazione della asserita «obbligatorietà» dell'indicazione di provenienza, laddove le norme europee prevedono, allo stato, solo regimi «facoltativi». Le disposizioni nazionali non possono, infatti, che essere coerenti con la normativa approvata dall'Europa che, prima con la direttiva 2000/13/CE, poi con il regolamento (UE) n. 1169/2011, ha disciplinato le modalità e i contenuti informativi da trasmettere ai consumatori. In particolare, l'articolo 26 stabilisce le condizioni e le modalità dell'indicazione del Paese d'origine o luogo di provenienza degli alimenti; l'articolo 45 regola, poi, la procedura con la quale le norme nazionali debbono essere notificate alla Commissione europea e agli altri Stati membri;
    per sollecitare l'attuazione dell'articolo 4 della legge n. 4 del 2011 e, quindi, l'introduzione dell'obbligo di indicazione dell'origine del prodotto nell'etichetta, sul finire della XVI legislatura è stato presentato un disegno di legge, approvato dal Senato e trasmesso alla Camera (atto Camera 5559), nel quale si stabiliva, tra l'altro, che i decreti attuativi dovessero essere adottati entro due mesi dall'entrata in vigore del provvedimento. La fine anticipata della legislatura non ha consentito la conclusione dell’iter parlamentare;
    recentemente l'Unione europea ha apportato, in tema di indicazioni, delle modifiche al regime di etichettatura dei prodotti agroalimentari. In particolare, il regolamento (UE) n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, ha modificato la precedente normativa, al fine di semplificarla e migliorare il livello d'informazione e di protezione dei consumatori europei. Le nuove disposizioni, che entreranno in vigore dal 13 dicembre 2014 – ad eccezione delle disposizioni relative all'etichettatura nutrizionale che entreranno in vigore a partire dal 13 dicembre 2016 – rispondono alla necessità di aumentare la chiarezza e la leggibilità delle etichette. Il regolamento si applica a tutti gli operatori del settore alimentare in tutte le fasi della catena e a tutti gli alimenti destinati al consumo finale, compresi quelli forniti dalle collettività (ristoranti, mense, catering) e quelli destinati alla fornitura delle collettività. Esso introduce alcune novità di rilievo, quali l'obbligo di indicare la provenienza e l'origine dei prodotti e la leggibilità dell'etichetta, e consente agli Stati membri di adottare «disposizioni ulteriori» (articolo 39 del regolamento) per specifici motivi: protezione della salute pubblica e dei consumatori, prevenzione delle frodi, repressione della concorrenza sleale, protezione dei diritti di proprietà industriale e commerciale e tutela delle indicazioni di provenienza e denominazioni di origine controllata. Lo Stato membro che voglia introdurre un provvedimento nazionale dovrà notificare il progetto alla Commissione europea e attendere tre mesi per approvarlo, salvo parere negativo della stessa;
    l'esigenza di una ricomposizione tra le regole del mercato interno comunitario e la protezione della qualità delle produzioni locali è stata esplicitata nella risposta fornita dal Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali pro tempore ad un'interrogazione presentata sull'argomento al Senato della Repubblica nella seduta del 20 settembre 2012; il Ministro pro tempore ha, in tale occasione, affermato che: «(...) occorre tener presente che la legge n. 4 del 2011 sull'etichettatura dei prodotti agroalimentari si inserisce in un quadro normativo regolato a livello sovrastante dall'Unione europea e che, quindi, la redazione dei decreti attuativi pone problemi di compatibilità con la normativa comunitaria vigente (...)». Il Ministro annunciò, in tale occasione, di aver predisposto il decreto attuativo per il settore lattiero-caseario (sul latte a lunga conservazione, uht, pastorizzato microfiltrato e latte pastorizzato ad elevata temperatura), il più importante segmento di mercato tra quelli nei quali non è già in vigore un obbligo di indicazione dell'origine, e che sarebbe stato di prossima definizione un altro decreto per le carni lavorate. Il processo si è poi interrotto perché la Commissione europea, comunicatole lo schema di decreto per il settore lattiero-caseario, con decisione del 28 agosto 2013 (notificata con il numero C(2013) 5517), ha ritenuto che le giustificazioni fornite dall'Italia, legate all'esigenza di protezione degli interessi dei consumatori e di prevenzione e repressione delle frodi comunitaria, non risultassero sufficientemente dimostrabili;
    la Commissione agricoltura della Camera dei deputati ha ripreso nella XVII legislatura la problematica in esame, inserendo in calendario l'esame di due proposte di legge (atti Camera 1173 e 427), le quali intervengono nuovamente proprio sul problema dei tempi di emanazione dei decreti attuativi della legge n. 4 del 2011, prevedendo, anche in questo caso, che gli stessi siano emanati entro il termine perentorio di due mesi dalla data di entrata in vigore delle medesime proposte di legge;
    numerose associazioni, fondazioni e realtà legate al mondo agricolo hanno già introdotto delle proposte utili a facilitare la lettura in etichetta da parte del consumatore e rendere il prodotto immediatamente visibile;
    inoltre, accanto alle indicazioni previste dalla legge, è da considerare la possibilità di avvalersi della cosiddetta etichetta narrante, che fornisce informazioni precise sui produttori, sulle loro aziende, sulle varietà vegetali o sulle razze animali impiegate, sulle tecniche di coltivazione, allevamento e lavorazione, sul benessere animale, sui territori di provenienza e sul dato di non utilizzare pesticidi in dosi massicce, con limiti e regolamentazioni conformi – anche se non certificate – ai disciplinari dell'agricoltura biologica o biodinamica. Le aziende che non si certificano biologiche, ma adottano tale etichetta sono sottoposte a controlli da parte delle autorità competenti per dimostrare la veridicità delle informazioni in essa riportate;
    il 19 giugno 2013 il Dipartimento della salute britannico ha annunciato l'introduzione di un nuovo sistema volontario di etichettatura nutrizionale basato sulla colorazione semaforica (verde-giallo-rosso) del packaging dei prodotti alimentari sulla base del contenuto di sale, zucchero, grassi e grassi saturi presente in 100 grammi di prodotto, che ha destato molte critiche e disapprovazioni;
    lo schema inglese del «semaforo» si basa sulla schedatura degli alimenti: verde uguale cibo «buono», rosso uguale cibo «cattivo», mettendo a rischio i prodotti di qualità e non considerando il fatto che non esistono cibi «buoni» o «cattivi», ma solo regimi alimentari corretti o scorretti;
    schedare cibi e bevande in questo modo, a parere dei firmatari del presente atto di indirizzo, è pericoloso e fuorviante, perché si offre al consumatore soltanto un'informazione parziale ed erronea, che non tiene più conto della dieta complessiva e, soprattutto, non considera il regime alimentare nel suo insieme e, quindi, il modo in cui gli alimenti vengono integrati fra loro;
    il Governo britannico, peraltro, non ha notificato all'Unione europea l'introduzione del nuovo sistema di etichettatura;
    contro l'introduzione di questo sistema si sono espresse le maggiori sigle dei produttori alimentari italiani e anche associazioni di altri Paesi, in particolare del Sud Europa;
    ovviamente, questo scenario vede penalizzati innanzitutto i prodotti alla base della dieta mediterranea, il cui valore come «patrimonio immateriale dell'umanità» è stato ufficialmente riconosciuto dall'Unesco nel 2010: un vero attacco alla tradizione agroalimentare del Sud;
    al fine di verificare la compatibilità del sistema di etichettatura nutrizionale inglese con la normativa europea e per la tutela dei prodotti agroalimentari italiani, la Commissione affari sociali e la Commissione agricoltura della Camera dei deputati hanno adottato una risoluzione unitaria in data 23 ottobre 2013;
    in data 4 dicembre 2013, la Coldiretti ha promosso al passo del Brennero una forte campagna di protesta e sensibilizzazione nei confronti delle istituzioni governative italiane ed europee per il continuo e spregiudicato attacco da parte di altri Paesi europei al made in Italy nell'agroalimentare. La protesta è consistita con il blocco dei tir provenienti dall'Austria che trasportavano prodotti agroalimentari con l'etichettatura made in Italy, i cui prodotti agroalimentari non sono stati prodotti in Italia. Si pensi, che l'uso improprio del nome made in Italy, conosciuto come italian sounding, costa al nostro sistema di impresa del settore primario oltre 60 miliardi di euro di perdite l'anno,

impegna il Governo:

   a promuovere in sede comunitaria le idonee iniziative al fine di poter consentire al nostro Paese di tutelare il made in Italy con un sistema di etichettatura dei prodotti agroalimentari che consenta di salvaguardare la biodiversità agroalimentare nella sua interezza culturale;
   ad avviare, nelle opportune sedi europee, tutte le trattative politico-istituzionali al fine di veder riconosciuta all'Italia la possibilità di utilizzare le «disposizioni ulteriori» stabilite dall'articolo 39 del regolamento (UE) n. 1169/2011 per specifici motivi, quali: la protezione della salute pubblica e dei consumatori, la prevenzione delle frodi, la repressione della concorrenza sleale, la protezione dei diritti di proprietà industriale e commerciale, nonché la tutela delle indicazioni di provenienza e denominazioni di origine controllata;
   a procedere speditamente all'emanazione dei decreti attuativi della legge 3 febbraio 2011, n. 4, affinché si possa applicare la «obbligatorietà» dell'indicazione di provenienza, laddove le norme europee prevedono, allo stato, solo regimi «facoltativi»;
   ad assumere le opportune iniziative con la Commissione europea sulla compatibilità del sistema di etichettatura inglese – «etichettatura semaforica» – con la normativa europea relativa alle indicazioni nutrizionali degli alimenti, in particolare con i criteri previsti dall'articolo 35 del regolamento (UE) n. 1169/2011, e sul rispetto da parte del Governo inglese dell'obbligo di previa notifica previsto per l'introduzione di nuove regolamentazioni in materia di etichettatura;
   a chiedere alle autorità europee la sospensione del sistema di «etichettatura semaforica» della Gran Bretagna, in quanto il sistema si basa su considerazioni che non tengono conto del mix di alimenti che quotidianamente forniscono i nutrienti di cui si ha bisogno, ma si basa su criteri di definizione e indicazione apodittici e privi di qualsivoglia dato empirico, posto che tutto questo distrugge la caratteristica principale dei prodotti agroalimentari italiani che hanno quale «humus organolettico» la biodiversità del territorio nazionale;
   a tutelare in ogni modo l'immagine e il valore culturale ed economico dell’export agroalimentare dei prodotti made in Italy, evitando che i sistemi di etichettatura volontaria vengano utilizzati a fini discriminatori e distorsivi del mercato nei confronti delle imprese agricole e agroalimentari italiane;
   a farsi garante ed essere attore attivo nelle campagne di sensibilizzazione contro le contraffazioni dei prodotti italiani attraverso le sedi estere della televisione pubblica nazionale, promuovendo in modo più incisivo il vero made in Italy;
   a difendere e tutelare giuridicamente il valore indisponibile e immateriale della «dieta mediterranea» quale patrimonio dell'umanità, così come dichiarato nel 2010 dall'Unesco.
(1-00277)
«Franco Bordo, Migliore, Palazzotto, Ferrara, Lacquaniti, Zan, Pellegrino, Zaratti, Nicchi, Aiello, Piazzoni, Matarrelli».
(6 dicembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    in seguito alla proposta inglese di «etichettatura semaforica», con il presente atto di indirizzo, oltre che stigmatizzare l'infondatezza scientifica di tale sistema d'informazione al consumatore e di come possa provocare effetti distorsivi sul mercato per prodotti italiani di sicura genuinità e salubrità se assunti in combinazioni dietetiche idonee e tradizionali, si vuole sottolineare la necessità di predisporre un quadro organico nell'ambito del quale definire una puntuale articolazione e un maggiore dettaglio del sistema di etichettatura, da adottare ai sensi dell'articolo 39 del regolamento (UE) n. 1169/2011, «Informazioni alimentari ai consumatori». Esso consente, infatti, agli Stati membri di adottare disposizioni che richiedono ulteriori indicazioni obbligatorie per tipi o categorie specifici di alimenti per determinate motivazioni;
    l'intenzione è di ribaltare l'approccio inglese meramente quantitativo ed evidenziare, invece, un approccio italiano o semplicemente di «buon senso» (da portare in sede europea e all'Expo 2015 «Nutrire il pianeta»), mostrando come l'informazione al consumatore si debba caratterizzare per esplicitazione di dati scientifici del prodotto e di caratteristiche che possano descriverne i processi produttivi e le qualità finali in modo accertato;
    il sistema agroalimentare italiano è una delle più importanti risorse da salvaguardare e potenziare; rappresenta l'eccellenza dei territori italiani, nella misura in cui non è solo il settore destinato alla produzione di alimenti, ma rappresenta un patrimonio unico di valori e tradizioni di cultura e qualità e di grandi potenzialità;
    a fronte di una globalizzazione alimentare che impone standard di competitività molto alta, il nostro Paese deve far leva sulle peculiarità originali delle sue produzioni agroalimentari, esaltando i tratti della tipicità, della genuinità, del legame inscindibile col territorio. Il valore della produzione può essere tutelato solo attraverso la promozione della qualità, la tracciabilità degli alimenti e l'ampliamento delle informazioni ai consumatori, anche al fine di contrastare il dilagare delle pratiche commerciali sleali nella presentazione degli alimenti, la contraffazione dei prodotti e le varietà transgeniche provenienti da Usa e Cina (in particolare, di queste ultime si ha scarsa conoscenza);
    analizzando il comparto dell'agroalimentare italiano, sia a livello nazionale sia internazionale, emerge il dato che ad essere maggiormente premiato è il prodotto genuino. In cifre, il comparto agroalimentare italiano vale più del 15 per cento di prodotto interno lordo ed ogni anno arriva a muovere 245 miliardi di euro fra consumi, export, distribuzione ed indotto, la quota del made in Italy destinata all'esportazione, secondo i dati forniti dalla Confederazione italiana agricoltori (Cia), nel 2012 ha raggiunto una percentuale record del 20 per cento; ad essere maggiormente presenti sul mercato sono i prodotti tipici. L'Italia può vantare il primato, fra i Paesi dell'Unione europea, come numero di prodotti riconosciuti con la qualifica di denominazione d'origine protetta (dop), indicazione geografica protetta (igp) e specialità tradizionale garantita (stg). La valorizzazione del patrimonio agroalimentare italiano costituisce, al pari di quello artistico-culturale ed ambientale, una grande potenzialità di sviluppo economico dell'intero Paese. Attraverso la tutela delle denominazioni di origine è possibile incoraggiare le produzioni agricole ed i prodotti, proteggendo i nomi dei prodotti, contro imitazioni ed abusi, aiutando contemporaneamente il consumatore a riconoscere e a scegliere consapevolmente le qualità anche in campo agroalimentare;
    in tema di indicazioni del prodotto agroalimentare l'Unione europea ha apportato, di recente, modifiche al regime di etichettatura dei prodotti agroalimentari. In particolare, il regolamento (UE) n. 1169 del 2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, ha modificato la precedente normativa, al fine di semplificarla e migliorare il livello di informazione e di protezione dei consumatori europei. Le nuove disposizioni che entreranno in vigore dal 13 dicembre 2014 – ad eccezione delle disposizioni relative all'etichettatura nutrizionale che entreranno in vigore a partire dal 13 dicembre 2016 – rispondono alla necessità di aumentare la chiarezza e la leggibilità delle etichette;
    il regolamento si applica a tutti gli operatori del settore alimentare in tutte le fasi della catena e a tutti gli alimenti destinati al consumo finale, compresi quelli forniti dalle collettività (ristoranti, mense, catering);
    esso introduce alcune novità di rilievo, quali l'obbligo di indicare la provenienza e l'origine dei prodotti e la leggibilità dell'etichetta, e consente agli Stati membri di adottare disposizioni ulteriori (articolo 39) per specifici motivi: la protezione della salute pubblica e dei consumatori, la prevenzione delle frodi e la repressione della concorrenza sleale, la protezione dei diritti di proprietà industriale e commerciale, la tutela delle indicazioni di provenienza e denominazioni di origine controllata;
    lo Stato membro che voglia introdurre un provvedimento nazionale dovrà notificare il progetto alla Commissione europea e attendere tre mesi per approvarlo, salvo parere negativo della stessa;
    l'Italia, Paese ricco di biodiversità, può in questa fase storica, alla luce anche delle indicazioni date dal mercato che premia il prodotto tipico e ecocompatibile, dare compiuta attuazione al richiamato regolamento sull'etichettatura, avvalendosi della facoltà di cui all'articolo 39, alla luce della necessità di valorizzazione i prodotti made in Italy e i processi ecocompatibili di produzione agroalimentare, al fine di renderli ancora più concorrenziali e appetibili;
    peraltro, atteso che numerose associazioni, fondazioni e realtà legate al mondo agricolo hanno già introdotto delle proposte utili a facilitare la lettura in etichetta da parte del consumatore e rendere il prodotto immediatamente visibile, sarà fondamentale addivenire ad un'armonizzazione a livello europeo;
    inoltre, accanto alle indicazioni previste dalla legge, è da considerare la possibilità di avvalersi della cosiddetta etichetta narrante, che fornisce informazioni precise sui produttori, sulle loro aziende, sulle varietà vegetali o sulle razze animali impiegate, sulle tecniche di coltivazione, allevamento e lavorazione, sul benessere animale, sui territori di provenienza e sul dato di non utilizzare pesticidi in dosi massicce, con limiti e regolamentazioni conformi (anche se non certificate) ai disciplinari dell'agricoltura biologica o biodinamica. Le aziende che non si certificano biologiche, ma adottano tale etichetta, sono sottoposte a controlli da parte delle autorità competenti per dimostrare la veridicità delle informazioni riportate;
    l'etichettatura concernente la presenza di organismi geneticamente modificati negli alimenti a livello europeo è disciplinata da due regolamenti: regolamento (CE) 1829/2003, su alimenti e mangimi, e regolamento (CE) n. 1830/2003 sulla tracciabilità e l'etichettatura degli organismi geneticamente modificati. L'etichetta deve chiaramente riportare la dicitura «geneticamente modificato» o «prodotto da (nome dell'ingrediente) geneticamente modificato». Ciò assume particolare rilevanza per i Paesi che, come l'Italia, tradizionalmente sono ogm free;
    per gli alimenti che contengono organismi geneticamente modificati in una proporzione non superiore allo 0,9 per cento per ciascun ingrediente non è obbligatoria l'etichettatura come organismo geneticamente modificato (nonostante tale percentuale corrisponda a circa 1 grammo di prodotto geneticamente modificato ogni chilo, una quantità molto elevata e non riconducibile ad esclusiva causa accidentale, necessitando, dunque, una chiara informazione al consumatore), purché la presenza di organismi geneticamente modificati sia accidentale o tecnicamente inevitabile;
    la normativa sull'etichettatura di alimenti e mangimi provenienti da organismi geneticamente modificati fa perno, quindi, su una soglia per la presenza accidentale di organismi geneticamente modificati. Tracce minime di organismi geneticamente modificati nei prodotti alimentari sono tollerate se la loro presenza è accidentale o se è da una contaminazione tecnicamente inevitabile nel corso della coltivazione, del raccolto, del trasporto o della lavorazione;
    gli operatori devono essere in grado di dimostrare alle autorità la natura accidentale o tecnicamente inevitabile della presenza di organismi geneticamente modificati in un prodotto alimentare;
    l'apporre un determinato marchio, arricchendo in tal modo le indicazioni in etichetta, significa consentire, pertanto, di valorizzare a pieno quei prodotti che nascono da aziende che hanno scelto di non utilizzare organismi geneticamente modificati in tutte le fasi della filiera agroalimentare, compresa la mangimistica per l'allevamento. Inoltre, significa fornire al consumatore un'informazione più completa, rassicurandolo dell'origine della mangimistica per la produzione di carne, uova, latte e derivati (l'approvvigionamento della mangimistica geneticamente modificata proviene totalmente dall'estero, essendo l'Italia ogm free, di fatto, fino al limitato caso friulano dell'estate 2013);
    nella legislazione europea vi è, pertanto, un vuoto normativo rispetto ai criteri uniformi cui ispirarsi per predisporre un'etichetta che indichi la presenza o meno di organismi geneticamente modificati anche al di sopra o al di sotto della soglia minima ed accidentale attualmente prevista;
    è da sottolineare, altresì, come tale meccanismo possa incentivare la produzione e la vendita del mangime nazionale e/o europeo da sementi tradizionali;
    inoltre, i prodotti con il marchio volontario «ogm zero» potranno favorire sul mercato tutte quelle piccole e medie aziende agricole, che per filosofia di vita non hanno usato organismi geneticamente modificati e che, per ragioni economiche o di altra natura, non possono permettersi il costo della certificazione biologica, la quale, peraltro, non esclude che possano essere etichettati come biologici prodotti contenenti la soglia minima di tracce di organismi geneticamente modificati prevista dalla normativa dell'Unione europea;
    occorre, altresì, considerare l'opportunità, in assenza di una specifica disposizione nel regolamento (CE) n. 1829 del 2003, di prevedere un'etichettatura per i prodotti derivanti dall'allevamento animale per le aziende che utilizzano mangimistica geneticamente modificata come nutrimento per gli animali stessi;
    in questo modo, informando il consumatore sull'intera filiera di produzione del prodotto agroalimentare, lo si avverte di come alcuni prodotti (come il latte o le uova) provengano da allevamenti cui sono somministrati mangimi geneticamente modificati (e implicitamente importati da Paesi che coltivano organismi geneticamente modificati massicciamente e che non rientrano in criteri ecocompatibili e con indirizzi agronomici rivolti alla tutela della biodiversità);
    si viene anche a creare un effetto incentivante per la promozione dei prodotti locali senza organismi geneticamente modificati e si rilancia la coltivazione di soia e altre leguminose in Italia (filiera prioritaria da promuovere in Italia anche attraverso la corretta allocazione dei fondi della politica agricola comune dal 2014 al 2020);
    tutte le aziende, che intendono avvalersi dell'etichetta «ogm zero» e non vogliono sottostare al regime obbligatorio d'etichettatura quali allevamenti con «presenza di organismi geneticamente modificati nel mangime animale», innescherebbero un processo di domanda del prodotto per la mangimistica privo da organismi geneticamente modificati e, conseguentemente, la promozione della filiera della coltivazione di leguminose da foraggio in Italia (filiera presente adeguatamente per il fabbisogno nazionale fino agli anni ’90);
    è prevista anche la possibilità di informare il consumatore della distanza limitata del prodotto, etichetta che permette il riconoscimento di un prodotto locale e del territorio d'appartenenza del consumatore, garantendo così il sostegno e la promozione dell'economia agricola locale e nazionale; tale etichetta «filiera corta» si può applicare volontariamente se il luogo in cui viene effettuata la vendita finale del prodotto e l'azienda di produzione (ricompresa l'attività di imballaggio iniziale, intermedio e finale) siano a una distanza ricompresa in un raggio di massimo 70 chilometri;
    se la distanza è di massimo 10 chilometri può, invece, essere apposta un'etichetta volontaria che recita «chilometro zero». Quest'ultima etichetta renderebbe il consumatore consapevole che ha la possibilità di acquistare un prodotto agroalimentare di un'azienda agricola in prossimità del suo comune d'appartenenza e con il più basso dispendio possibile di anidride carbonica,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per predisporre un'etichetta volontaria detta «etichetta narrante» esclusivamente per aziende che rispettino i disciplinari del biologico (anche se non certificate) e utilizzino quantitativi di pesticidi conformi all'agricoltura biologica, facendo sì che i controlli del rispetto dei criteri biologici per chi utilizza tale etichetta siano a carico delle autorità competenti in materia di frodi e contraffazione e che questa etichetta integri l'informazione al consumatore mediante l'applicazione sulle confezioni di ulteriori informazioni e approfondimenti sulle varietà e sulle razze protagoniste dei progetti, sulle tecniche di coltivazione, sulla lavorazione dei trasformati e sui territori di provenienza, sul benessere animale e sulle modalità di conservazione e consumo;
   ad assumere iniziative per prevedere un'indicazione in etichetta, ex articolo 39 del regolamento (UE) n. 1169/2011, che faciliti la comprensione della distanza del luogo di produzione e imballaggio da quello di vendita finale e, in particolare, a predisporre l'etichetta volontaria «filiera corta» se l'azienda di produzione (e anche quella che opera tutte le fasi di imballaggio) si trovi entro un raggio di 70 chilometri, così come ad assumere iniziative per normare l'etichetta volontaria «chilometro zero» se la distanza fra azienda produttrice (fasi d'imballaggio comprese) e luogo di vendita finale è riconducibile a un raggio di 10 chilometri;
   a predisporre e attuare e l'utilizzo di un regime più dettagliato di indicazioni in etichetta per informare i consumatori ai sensi dell'articolo 39 del regolamento (UE) n. 1169/2011, «Informazioni alimentari ai consumatori», tale da consentire di verificare, anche attraverso puntuali controlli, l'applicazione del regolamento (CE) n. 1829/2003 che indica un'etichetta obbligatoria per la soglia di presenza accidentale di organismi geneticamente modificati con un'indicazione chiara e di facile lettura, che contraddistingua gli alimenti che «contengono organismi geneticamente modificati in misura superiore allo 0,9 per cento», o diciture descriventi i casi specifici di cui al sopra citato regolamento dell'Unione europea;
   ad assumere iniziative per predisporre un'etichetta volontaria «ogm zero» per gli alimenti che non hanno utilizzato organismi geneticamente modificati in nessuna delle fasi della filiera (nemmeno per il mangime animale) e per le aziende che possano dimostrare (se richiesto per controllo con analisi PCR) alle autorità competenti di non avere nessuna presenza accidentale di organismi geneticamente modificati (0,0 per cento);
   ad assumere iniziative per predisporre un'etichetta obbligatoria «presenza di organismi geneticamente modificati nei valori della soglia di tolleranza» o «presenza di organismi geneticamente modificati <0,9 per cento» per gli alimenti e prodotti che contengono organismi geneticamente modificati in misura minore dello 0,9 per cento (semplice criterio di analisi quantitativa PCR test presenza/assenza), ovvero con percentuali ricomprese nella soglia di tolleranza, per dare piena informazione ai consumatori e possibilità di acquisto consapevole e informato;
   ad assumere iniziative per predisporre un'etichetta obbligatoria, estendendo il contenuto del regolamento (CE) n. 1829/2003, con la dicitura «prodotto con presenza di organismi geneticamente modificati nel mangime animale» (o diciture similari) per i prodotti da allevamento animale quali carne, uova, latte e derivati nei quali è utilizzata mangimistica geneticamente modificata, allo scopo di informare chiaramente i consumatori della presenza nella catena alimentare dell'allevamento di mangimistica geneticamente modificata.
(1-00278) «Zaccagnini, Pisicchio».
(9 dicembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    alla fine del 2012 il fatturato complessivo del settore agroalimentare ha raggiunto i 130 miliardi di euro, con un'occupazione globale di 405.000 addetti distribuiti in 6.250 piccole, medie e grandi aziende. L'industria alimentare italiana – che insieme ad agricoltura, indotto e distribuzione rappresenta la prima filiera economica del Paese – acquista e trasforma circa il 72 per cento delle materie prime nazionali. Inoltre, è ambasciatrice del made in Italy nel mondo, dal momento che il 76 per cento dell’export alimentare è costituito da prodotti industriali di marca. L’export ha raggiunto complessivamente i 24,8 miliardi di euro mentre l’import si è fermato a 18,7 miliardi di euro, con un saldo positivo della bilancia commerciale di ben 6,1 miliardi di euro, cresciuto di quasi il 40 per cento nel 2012;
    il ruolo dell'industria alimentare come galleggiante anticiclico si è rivelato anche sul fronte dell'occupazione in una fase di crescente perdita di posti di lavoro come quella attuale;
    tuttavia, quando le crisi assumono connotati vasti e duraturi come quella attuale non esistono «isole felici». Così, al di là della grande solidità dimostrata dal settore a livello produttivo e occupazionale, va detto che la crisi dei consumi interni ha colpito il settore in modo molto pesante e aggiuntivo rispetto alla media dei consumi del Paese. Certo, alcuni comparti industriali (da quello automobilistico a quelli legati ai prodotti per l'edilizia) stanno subendo ben più vistose e pesanti perdite delle vendite, ma pochi sanno che i consumi alimentari, sull'arco 2007-2012, sono scesi di 10 punti percentuali e hanno cominciato la loro rapida discesa già nel 2007-2008, a inizio crisi;
    il calo dell'alimentare si lega alla perdita di capacità di acquisto delle famiglie a causa della disoccupazione e della crescita della pressione fiscale. Ma, quel che è più grave, è sceso anche il target qualitativo dei prodotti acquistati. Il prezzo è diventato la principale variabile di scelta del consumatore;
    il settore agroalimentare è uno dei settori strategici su cui investire per rilanciare lo sviluppo del Paese attraverso, da un lato, la valorizzazione del prodotto italiano di qualità e, dall'altro, la repressione di dinamiche di tipo contraffattivo che ne minano la reputazione e la diffusione;
    a danno dell'agroalimentare si deve registrare, infatti, un allarme contraffazione. Le frodi alimentari colpiscono made in Italy e qualità, oltre a rappresentare una minaccia per la salute;
    il business dell'agroalimentare è sempre più appetibile per la criminalità organizzata e l'industria della contraffazione: si stima, infatti, che il volume d'affari complessivo dell'agromafia sia quantificabile in circa 14 miliardi di euro (solo due anni fa questa cifra si attestava intorno ai 12,5 miliardi di euro);
    l'Italia, ancora oggi, non si contraddistingue per un sistema penale in grado di affrontare con strumenti adeguati i reati che, rispetto alla pericolosità di altri crimini, appaiono di gravità minore. Pertanto, per quanto riguarda gli illeciti riscontrati nel settore agroalimentare, solo laddove è possibile contestare anche il reato di associazione per delinquere, si procede con misure cautelari di rilievo, mentre per altri reati, come quello di sofisticazione, non essendo riferiti alla mafia nel codice penale, hanno brevissimi tempi di prescrizione. Le organizzazioni criminali, dall'importazione dei prodotti agroalimentari alle successive operazioni di trasformazione, distribuzione e vendita, ampliano la propria attività anche a causa dell'inadeguatezza del sistema dei controlli che presenta alcune debolezze nelle modalità di intervento delle indagini. È opportuna, quindi, l'esigenza di lavorare sulle normative, aumentare le ispezioni e inasprire le sanzioni e le pene al fine di garantire la trasparenza e la sicurezza in tutti i passaggi della filiera;
    è necessario, altresì, sottoporre il problema dei crimini alimentari all'opinione pubblica, in modo tale da sensibilizzare ed «educare» i consumatori a prestare attenzione alla scelta dei prodotti da consumare; si potrebbe, quindi, favorire la circolazione della conoscenza dei processi produttivi, prendendo in considerazione l'origine dei prodotti, le modalità di produzione e di conservazione degli alimenti;
    mentre nel mercato interno agisce soprattutto la contraffazione, sui mercati internazionali il Paese deve difendersi dalle imitazioni, che sono diventate una vera spina nel fianco, visto che il made in Italy nel campo alimentare è il più copiato in assoluto;
    un'adeguata azione di sensibilizzazione dovrebbe riguardare, infatti, i mercati esteri, per abituare i consumatori stranieri a saper distinguere tra un vero prodotto italiano da uno di imitazione, ovvero da iniziative ingannevoli che richiamano l'italianità;
    un significativo ausilio in tal senso è sicuramente costituito dalla previsione di sistemi di etichettatura e tracciabilità capaci di rendere più trasparenti le varie fasi del processo produttivo in modo da raccontare la storia di un prodotto dalla scelta dei sistemi di coltivazione o di allevamento, alle diverse fasi di elaborazione, fino alla vendita al dettaglio;
    diventa essenziale conoscere, quale criterio di orientamento per l'acquisto dei consumatori, l'origine del prodotto che, nel caso dell'alimento, essendo in gioco un valore come quello della salute, assume il ruolo di garanzia di rango costituzionale;
    in tal senso appare urgente dare immediata attuazione alla legge 3 febbraio 2011, n. 4, recante «Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari», attraverso l'emanazione dei decreti interministeriali di cui al comma 3 dell'articolo 4;
    occorre, altresì, promuovere un impegno in sede europea al fine di arrivare all'approvazione definitiva della proposta di regolamento sulla sicurezza dei prodotti di consumo che impone l'indicazione obbligatoria del Paese di vera produzione su una serie di beni importati da Paesi terzi (regolamento sul cosiddetto made in);
    per combattere la piaga delle imitazioni, dunque, è necessario coordinare l'attività dell'Italia con quella dell'Unione europea, ma anche con quella del World Trade Organization (WTO), cercando di superare problemi e resistenze;
    una delle criticità più evidenti è rappresentata dal fenomeno dell’italian sounding, che consiste nella commercializzazione di prodotti non italiani con l'utilizzo di nomi, parole e immagini che richiamano l'Italia, inducendo, quindi, ingannevolmente a credere che si tratti di prodotti italiani;
    più di recente si è diffusa una forma più raffinata di italian sounding, legale seppur nei fatti ingannevole: la tendenza a rilevare note aziende agroalimentari italiane, in modo tale che non soltanto il nome suoni italiano ma venga associato all'azienda che dal momento della sua nascita e per anni ha messo sul mercato il prodotto;
    l’italian sounding sottrae notevoli potenzialità alle esportazioni nazionali e, sconfinando raramente nell'illecito, risulta difficilmente perseguibile;
    a livello internazionale purtroppo la tutela dall’italian sounding e quella delle denominazioni di origine e dei prodotti di qualità in generale non ha registrato significativi passi avanti;
    la sempre maggior transnazionalità del fenomeno contraffattivo impone, quindi, un forte impegno, a livello europeo e internazionale, per giungere alla definizione di un quadro di regole comuni che risponda a principi di reciprocità ed efficacia;
    a livello nazionale, inoltre, occorre mantenere un fronte unitario, che veda coinvolti tutti gli attori istituzionali ed il mondo delle imprese, attraverso una più forte ed intensa collaborazione;
    la difesa delle produzioni tipiche non può prescindere, quindi, dal contrasto alla contraffazione e da un'informazione chiara e trasparente ai consumatori,

impegna il Governo:

   a valutare l'opportunità di rivedere la normativa vigente in materia di contraffazione, in particolare quella relativa ai prodotti agroalimentari, al fine di assicurare la trasparenza e la sicurezza in tutti i passaggi della filiera;
   a predisporre tempestive iniziative volte alla sensibilizzazione dei consumatori, con particolare riguardo all'attenzione per i prodotti da consumare, alla presa in considerazione dell'origine dei prodotti, alle modalità di produzione e alla conservazione degli alimenti;
   ad emanare i decreti interministeriali di cui al comma 3 dell'articolo 4 della legge 3 febbraio 2011, n. 4, recante «Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari»;
   a promuovere in sede europea le opportune iniziative al fine di arrivare alla definitiva approvazione della proposta di regolamento sulla sicurezza dei prodotti di consumo (regolamento sul cosiddetto made in).
(1-00279)
«Faenzi, Russo, Catanoso, Fabrizio Di Stefano, Riccardo Gallo».
(9 dicembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    l’italian sounding e la contraffazione dei prodotti alimentari made in Italy provocano nel nostro Paese un ingente danno alle imprese e la perdita di migliaia di posti di lavoro;
    a quanto si apprende anche da organi di stampa il fatturato del falso made in Italy, compreso quello relativo al fenomeno dell’italian sounding, ha superato i 60 miliardi di euro nel solo agroalimentare;
    il danno per le possibili esportazioni del nostro Paese si evidenzia con particolare gravità soprattutto nei mercati emergenti, dove spesso il «falso» è più diffuso del «vero»;
    secondo quanto riportato dal rapporto Agromafie del 2013 si valuta che il giro d'affari della criminalità raggiunga i 14 miliardi di euro, con un incremento pari al 12 per cento rispetto a due anni fa. Si deve, infatti, tenere presente che proprio l'agricoltura e l'alimentare sono considerate oramai aree prioritarie di investimento dalla criminalità organizzata che, purtroppo, in molte zone controlla non solo la distribuzione, ma talvolta anche la produzione di diversi prodotti alimentari;
    la problematica coinvolge sia i prodotti italiani «generici» sia i prodotti ad indicazione geografica, è effettivamente molto complessa e ha diversi filoni lungo cui si sviluppa: la contraffazione vera e propria; i falsi prodotti a denominazione di origine protetta o a indicazione geografica protetta; i fenomeni imitativi di nomi per prodotti che nulla hanno a che vedere con i veri prodotti italiani (i cosiddetti italian sounding). Su tutti questi fronti è necessario intervenire in maniera coerente ed organica;
    in Europa, alcuni Paesi continuano a chiedere rigore in determinati settori, in particolare nelle politiche economiche e di bilancio. Non è, però, accettabile che l'Unione europea segua questa linea di condotta solo rispetto ad alcuni settori, mostrandosi, invece, distratta su altri. Il Governo ha il dovere di chiedere che sulla tutela della qualità e dell'origine dei prodotti si applichi lo stesso atteggiamento e il medesimo rigore che l'Europa richiede sulle politiche di bilancio. La qualità e la protezione dell'origine dei prodotti sono un patrimonio fondamentale per diversi Paesi europei e, in particolare, per il nostro Paese, per cui non è possibile accettare di sacrificare questa ricchezza e disperdere tale patrimonio;
    è necessario quindi che l'Unione europea garantisca il massimo impegno nella difesa e nel riconoscimento delle indicazioni geografiche italiane nell'ambito dei negoziati bilaterali e multilaterali a livello internazionale. Questa problematica dovrà essere considerata tra le priorità dell'Unione europea in sede negoziale;
    il sistema agroalimentare italiano, nonostante la contraffazione, garantirà nel 2013 un ulteriore incremento dell’export che crescerà dell'8 per cento, raggiungendo la cifra di 34 miliardi di euro. Si tratta di una fondamentale risorsa per il nostro Paese che deve essere tutelata adeguatamente. In particolare, ciò è possibile solo attraverso politiche ed interventi mirati a salvaguardare la promozione della qualità e della tracciabilità degli alimenti lungo tutta la filiera, fino al consumatore finale;
    appare necessario intervenire per rendere pubblici i riferimenti di quelle società che risultano eventualmente coinvolte in pratiche commerciali ingannevoli o comunque scorrette e finalizzate ad usare in maniera impropria il marchio made in Italy;
    in Europa continua a persistere un'impostazione che tende a ritenere incompatibile con le regole del mercato unico la difesa della qualità collegata in particolare all'individuazione e alla localizzazione della zona di origine del prodotto o delle parti qualificanti del suo processo produttivo. Infatti, ad eccezione delle regole che sono state fissate per alcuni settori e per le denominazioni di origine, per tutti gli altri prodotti si è preferito affermare un diverso principio, per cui l'indicazione obbligatoria è resa tale solo nel caso in cui la sua omissione possa indurre il consumatore in errore circa l'effettiva provenienza del prodotto alimentare, così come delineato dall'articolo 3 della direttiva 2000/13/CE. Principio confermato dal regolamento (UE) n. 1169/2011;
    appare necessario riflettere sulla necessità di superare tale impostazione, anche alla luce del fatto che tutelare l'origine del prodotto alimentare coincide, nel caso italiano, con la doverosa rivendicazione di tutela di un patrimonio enogastronomico e culturale unico al mondo;
    nella XVI legislatura è stata approvata dal Parlamento la legge 3 febbraio 2011, n. 4, sull'etichettatura, con la finalità di difendere e promuovere il sistema produttivo italiano, per il quale la qualità è una caratteristica fondamentale collegata intrinsecamente alle origini territoriali del prodotto, che proprio per questo legame indissolubile devono essere correttamente e chiaramente comunicate al consumatore. Sono state riscontrate, tuttavia, alcune difficoltà nella fase attuativa della richiamata legge per questioni essenzialmente legate alla compatibilità tra le stringenti disposizioni nazionali fortemente volute e condivise dalla grande maggioranza del Parlamento e le norme europee che invece prevedono, al riguardo, principalmente regimi facoltativi per salvaguardare il cosiddetto principio di libera circolazione delle merci e di libero mercato;
    appare necessario che il Governo italiano continui ad impegnarsi affinché questa dicotomia venga superata affermando in Europa il necessario rigore sulla tutela della «qualità» e dell’«origine»;
    ai fini di una maggiore tutela del consumatore e della prevenzione delle frodi, esiste la possibilità per un Paese membro dell'Unione europea di attuare le «ulteriori disposizioni» citate dall'articolo 39 del regolamento (UE) n. 1169/2011, in particolare, per ciò che attiene alla tutela delle denominazioni di origine controllate e delle indicazioni di provenienza dei prodotti agroalimentari, nonché alla repressione di fenomeni diffusi di concorrenza sleale;
    il 5 dicembre 2013, in sede europea, il Comitato permanente per la catena alimentare ha espresso il definitivo parere favorevole, anche grazie ad una forte sollecitazione del Governo italiano, sullo schema di regolamento di esecuzione, che implementa quanto disposto dal richiamato regolamento (UE) n. 1169/2011, dettando le prescrizioni sulle indicazioni obbligatorie in etichetta, rispetto all'origine e al luogo di provenienza per le carni suine, per il pollame e per le carni ovicaprine. In particolare, si stabilisce che l'indicazione «origine italia» può essere utilizzata solo se l'animale è nato, allevato e macellato in Italia;
    tuttavia, è necessario migliorare ed ampliare il quadro di trasparenza e rintracciabilità delle informazioni attraverso l'introduzione di norme chiare, semplici ed efficaci che consentano al consumatore un'immediata visibilità delle informazioni, in particolare per l'origine dei prodotti;
    in tal senso, le recenti norme introdotte dalla Commissione europea nel settore dell'olio di oliva, grazie anche all'incisiva attività di continua sensibilizzazione svolta dal Governo, sono da considerarsi un primo passo positivo nella direzione di una maggiore trasparenza e garanzia sulle informazioni e per l'origine,

impegna il Governo:

   a sollecitare la Commissione europea affinché, nel quadro di quanto stabilito nel regolamento (UE) n 1169/2011, l'Unione europea si doti di norme efficaci, rigorose, chiare e trasparenti in materia di origine dei prodotti, prevedendo l'obbligatorietà dell'indicazione dell'origine dei prodotti anche per quei settori attualmente non contemplati dalla regolamentazione vigente;
   a farsi promotore presso le sedi europee competenti di una decisa iniziativa in merito alla necessità che, nell'ambito dell'etichettatura dei prodotti agro-alimentari, venga garantita la massima trasparenza, chiarezza e comprensibilità delle informazioni, ivi compresa, in primo luogo, quella di origine;
   ad attivarsi affinché, a tutti i livelli, nazionale, comunitario e internazionale, si attivi una chiara e rigorosa politica di difesa delle produzioni italiane, al fine di contrastare con maggiore determinazione ed efficacia il fenomeno dell’italian sounding;
   ad adottare le opportune iniziative finalizzate ad una più intensa ed efficace politica della promozione e diffusione in Italia e all'estero dei prodotti agroalimentari italiani, con un incremento delle risorse finanziarie attualmente destinate e con una maggiore attenzione rivolta alla qualità dei prodotti, favorendo la semplificazione degli oneri burocratici per le imprese e per le amministrazioni.
(1-00280) «Dorina Bianchi, Bosco».
(9 dicembre 2013)

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