TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 192 di Martedì 18 marzo 2014

 
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MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MATERIA DI MALATTIE RARE

   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 3 della Costituzione afferma che tutti i cittadini, senza distinzione di alcun tipo sono uguali davanti alla legge (uguaglianza formale, comma 1) e impegna lo Stato a rimuovere gli ostacoli che, di fatto, limitano l'eguaglianza dei cittadini per varie ragioni, comprese quelle che riguardano la loro salute (uguaglianza sostanziale, comma 2); in tal modo la Costituzione sancisce che «tutti i cittadini hanno pari dignità», intendendo la dignità umana come fondamento costituzionale di tutti i diritti, collegati allo sviluppo della persona, principio cardine dell'ordinamento democratico, su cui si fonda il valore di ogni essere umano; a tale riguardo è d'obbligo precisare che il bene «salute» è tutelato dall'articolo 32, primo comma, della Costituzione, non solo come diritto fondamentale dell'individuo, ma anche come interesse della collettività, per questo richiede piena ed esaustiva tutela in quanto diritto primario ed assoluto, pienamente operante anche nei rapporti tra privati;
    al di là delle mere affermazioni di principio, appare evidente che occorre dare a tutti le stesse opportunità e rimuovere i fattori di disparità sociale, territoriale ed economica esistenti. Tale criticità appare maggiormente complessa se applicata al contesto delle malattie rare. Le «malattie rare» sono patologie debilitanti e fortemente invalidanti, potenzialmente letali, caratterizzate da bassa prevalenza ed elevato grado di complessità; in gran parte di origine genetica, circa nell'80 per cento dei casi, mentre per il restante 20 per cento dei casi sono acquisite e comprendono anche forme tumorali rare, malattie autoimmuni e patologie di origine infettiva o tossica;
    ai sensi del regolamento (CE) n. 141/2000 e precedenti normative, sono considerate rare quelle patologie «la cui prevalenza non è superiore a 5 su 10.000 abitanti». In Italia, si calcola una stima approssimativa di circa 2 milioni di malati, moltissimi dei quali in età pediatrica. Se si raffronta questo dato con quello dei 27 Stati membri dell'Unione europea, si nota che per ciascuna popolazione ci sono 246.000 malati. Oggi, nell'Unione europea, le 5.000-8-000 malattie rare esistenti colpiscono complessivamente il 6-8 per cento della popolazione, ossia da 27 a 36 milioni di persone;
    lo slogan utilizzato dalle loro associazioni afferma: «le malattie sono rare, ma noi siamo tanti!»; l'arbitraria definizione di «rara», infatti, non ha favorito il processo di ricerca e di attenzione sulle cause di tali patologie, frenando gli investimenti sia in campo diagnostico che terapeutico, per cui se, da un lato, sono pochi i centri in cui è possibile ottenere in tempi contenuti una diagnosi esatta, è complessivamente scarsa anche la ricerca per la produzione di nuove molecole, con conseguenti ritardi nella diagnosi e nelle cure;
    il decreto del Ministro della sanità 18 maggio 2001, n. 279 (recante «Regolamento di istituzione della rete nazionale delle malattie rare e di esenzione dalla partecipazione al costo delle relative prestazioni sanitarie») reca, all'allegato 1, l'elenco delle malattie rare riconosciute dal Servizio sanitario nazionale; il decreto prevede un costante aggiornamento sulla base dell'evoluzione delle conoscenze scientifiche e tecnologiche;
    contemporaneamente all'Unione europea, anche l'Italia, a partire dal 1999, ha identificato nelle malattie rare un'area di priorità in sanità pubblica; ha esplicitato priorità ed obiettivi da raggiungere ed è intervenuta con un provvedimento specifico, il decreto ministeriale n. 279 del 2001 – «Regolamento d'istituzione della rete nazionale delle malattie rare e di esenzione dalla partecipazione al costo delle relative prestazioni sanitarie». Le regioni italiane, trasferita loro la competenza in tema di programmazione ed organizzazione sanitaria, hanno preso in carico l'applicazione della normativa nazionale. Con la modifica del titolo V della Costituzione si sono creati 21 sistemi sanitari regionali con una disparità di trattamento per i pazienti, sulla base della semplice appartenenza regionale sul territorio nazionale;
    il regolamento (CE) n. 141/2000 stabilisce i criteri per l'assegnazione della qualifica di medicinali orfani nell'Unione europea e prevede incentivi per stimolare la ricerca, lo sviluppo e la commercializzazione di farmaci per la profilassi, la diagnosi o la terapia delle malattie rare; con determinazione del 20 marzo 2008, l'Aifa – Agenzia italiana del farmaco ha stabilito le «Linee guida per la classificazione e conduzione degli studi osservazionali sui farmaci»;
    ad oggi in Italia, nonostante un accordo Stato-regioni datato 8 luglio 2010, non esiste una normativa adeguata a sostegno dei malati e delle loro famiglie, che incontrano enormi difficoltà di carattere economico-assistenziali, soprattutto per ciò che concerne la terapia domiciliare che si somma alla grave carenza di strutture e farmaci adeguati alla cura di tali patologie;
    in Francia, il piano nazionale per le malattie rare, in vigore già dal 1994, prevede l'atu-autorizzazione temporanea di utilizzo dei farmaci, con lo scopo di garantire l'accesso alle cure da parte dei pazienti e l'utilizzo di un farmaco orfano e/o destinato alla cura di malattie rare o gravi, prima che abbia ottenuto l'autorizzazione all'immissione in commercio, purché il farmaco sia in fase di sviluppo avanzato e non vi sia una valida alternativa terapeutica con un farmaco regolarmente autorizzato;
    lo schema dell'autorizzazione temporanea di utilizzo dei farmaci, applicato ai farmaci destinati alla cura di malattie rare o orfane o gravi, consentirebbe ai pazienti di avere a disposizione tali farmaci con largo anticipo rispetto ai tempi necessari alla conclusione degli studi clinici ed all'ottenimento dell'autorizzazione alla commercializzazione; all'insistenza delle famiglie occorre rispondere con la dovuta solidarietà, ma anche con l'indispensabile razionalità nella valutazione dei processi e delle procedure;
    la recente vicenda di Stamina, pur nella massima comprensione verso il disagio e la sofferenza dei bambini malati e dei loro genitori, richiede una chiara messa a fuoco del problema, perché – come ricorda un folto gruppo di scienziati italiani ed internazionali – in un appello recentemente pubblicato sulle principali testate giornalistiche: «scegliere per sé una terapia impropria, o anche solo immaginaria, rientra tra i diritti dell'individuo. Non rientra tra i diritti dell'individuo decidere quali terapie debbano essere autorizzate dal Governo, e messe in essere nelle strutture pubbliche o private. Non rientra tra i compiti del Governo assicurare che ogni scelta individuale sia tradotta in scelte terapeutiche e misure organizzative delle strutture sanitarie. Non sono le campagne mediatiche lo strumento in base al quale adottare decisioni di carattere medico e sanitario»;
    il cosiddetto decreto Balduzzi approvato all'unanimità dal Parlamento propone una sperimentazione controllata e selettiva, anche con metodi non convenzionali, purché siano chiaramente identificati sia il metodo che il prodotto somministrato dalla fondazione Stamina ai pazienti (cellule staminali mesenchimali). Unica condizione è che la produzione delle cellule staminali avvenga sotto il controllo dell'Istituto superiore di sanità e dell'Agenzia italiana del farmaco in laboratori accreditati per il trattamento delle cellule staminali. Il Ministero della salute destina a questa sperimentazione 3 milioni di euro,

impegna il Governo:

   a verificare in che modo e fino a che punto ci si prende cura dei bisogni delle persone affette da malattie rare, tenendo conto che sono spesso lasciate sole anche dal Servizio sanitario nazionale e in questo momento di crisi economica del Paese sono ulteriormente penalizzate;
   ad istituire a livello nazionale e promuovere a livello regionale i registri delle patologie di rilevante interesse sanitario, in modo da fare chiarezza sul numero reale di pazienti che ne sono affetti, consentendo l'utilizzo mirato delle risorse pubbliche;
   a dare una definizione tempestiva delle «malattie rare» da includere nell'elenco delle patologie da sottoporre a screening neonatale obbligatorio, posto che la diagnosi neonatale consentirebbe, infatti, di iniziare precocemente, ove fosse disponibile, la terapia riducendo i danni derivati dalla patologia;
   ad istituire il comitato nazionale delle malattie rare, presso il Ministero della salute, tenendo conto nella composizione dei rappresentanti delle regioni, dell'Istituto superiore di sanità e delle associazioni di tutela dei malati, nonché dei rappresentanti dei Ministeri competenti in merito (salute, istruzione, università e ricerca, lavoro e politiche sociali);
   ad assumere iniziative per aumentare la copertura finanziaria della legge n. 648 del 1996, al fine di permettere un più ampio e veloce accesso a cure innovative, non ancora approvate in Italia, mantenendo un criterio di equità tra le diverse patologie;
   ad attuare ogni disposizione normativa atta a rendere vincolante la valutazione dell'EMA – European Medicines Agency, considerato che la norma prevede che il farmaco che ha ricevuto la qualifica di «medicinale orfano» possa beneficiare di una procedura accelerata di autorizzazione, una volta accertata la sicurezza del principio attivo e nel rispetto delle aspettative del paziente, che potrà beneficiare di un trattamento senza dover aspettare la conclusione dei normali procedimenti autorizzativi;
   a varare misure che consentano di assicurare ai farmaci orfani, sul modello vigente negli Usa, l'esenzione dei diritti da versare per l'immissione in commercio, una procedura di registrazione accelerata, un credito di imposta pari al 50 per cento delle spese sostenute per la sperimentazione clinica; un periodo di esclusività di mercato di sette anni;
   ad assicurare su questi temi una tempestiva e qualificata comunicazione con l'opinione pubblica attraverso i media per evitare il diffondersi di false teorie, di false aspettative e di ingiustificati timori.
(1-00094)
«Binetti, Balduzzi, Vargiu, Gigli, Cera, Cesa, Vecchio, Cirielli, Gullo, Locatelli, Monchiero».
(13 giugno 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    le malattie rare sono un insieme molto vasto e allo stesso tempo eterogeneo di patologie, con una bassa frequenza nella popolazione (in Europa la soglia è di meno di 5/10.000 abitanti (regolamento (CE) n. 141/2000) ed un elevato grado di complessità. Si tratta di malattie poco conosciute e studiate, spesso di tipo cronico, accompagnate da disabilità pesanti, che frequentemente limitano la durata della vita. Chi ne è affetto deve convivere con i sintomi e le difficoltà che ne conseguono per tutta la vita, spesso fin dalla nascita o comunque dalla più tenera età; una situazione che si riversa necessariamente sulle famiglie, le quali si trovano ad affrontare situazioni dolorose e straordinariamente complesse, anche dal punto di vista dell'organizzazione familiare necessaria per affrontare la quotidianità; spesso le famiglie si trovano ad affrontare spese molto onerose per raggiungere i centri specializzati di cura e sono costrette a devolvere cure personali in assenza di personale dedicato reperibile, con conseguente diminuzione dell'attività lavorativa da cui necessariamente sono distolti per attendere alle incombenze continue che l'assistenza assidua al malato impone;
    appare indispensabile integrare le famiglie nel percorso assistenziale attraverso la più profonda «alleanza terapeutica» tra medici, personale sanitario e genitori, altri affidatari del malato, specie se minore: solo attraverso il coordinamento e l'integrazione tra servizi e professionalità distinte si può costruire un'assistenza rispondente e adeguata alle esigenze del bambino portatore di malattia rara e della sua famiglia che ne soffre le dolorose conseguenze di stress e di sovraccarico di impegno morale e fisico;
    oggi, nell'Unione europea, si può stimare l'esistenza di 5.000-7.000 malattie rare che colpiscono circa 30 milioni di persone, la metà delle quali sviluppa la malattia già in età pediatrica; di origine genetica nell'80 per cento dei casi, acquisite per il restante 20 per cento dei casi;
    in Italia si stimano circa 2 milioni di malati, gran parte dei quali in età pediatrica;
    si è creato il paradosso per cui la somma di tantissime rarità ha come risultato una numerosità elevata di malati, colpiti da patologie che, singolarmente considerate, non destano interesse da parte dei ricercatori e delle case farmaceutiche, non motivate a investire in questo settore; di conseguenza, troppo spesso chi è affetto da patologie rare e ultrarare non ha cure o terapie adeguate, contribuendo così in modo rilevante ad aumentare ancora di più i costi umani ed economici per le famiglie;
    anche l'Italia, come l'Unione europea, a partire dal 1999, ha identificato nelle malattie rare un'area di priorità nella sanità pubblica; negli anni seguenti sono stati esplicitati priorità e obiettivi e sono state numerose le iniziative a livello ministeriale, regionale e da parte dell'Agenzia italiana del farmaco, per organizzare questo ambito sanitario. Nonostante l'impegno profuso, però, complice anche la modifica del Titolo V della Costituzione che ha affidato alle regioni l'organizzazione sanitaria, senza prevedere un coordinamento centrale efficace (indispensabile in questo settore), il quadro normativo complessivo non è stato in grado di fornire un'assistenza adeguata a questi malati e alle loro famiglie, che troppo spesso si trovano senza un sostegno efficace;
    il comitato nazionale di bioetica, in data 25 novembre 2011, ha approvato il parere «Farmaci orfani per le persone affette da malattie rare», nel quale indica le seguenti misure:
     a) la raccomandazione, al legislatore europeo e nazionale, di adottare una nuova definizione di malattia rara, sulla base di criteri epidemiologici più restrittivi, e di stabilire un tetto di fatturato sopra al quale revocare la designazione di farmaco orfano e i relativi vantaggi e incentivi, al fine di scoraggiare politiche speculative basate sull'estensione delle indicazioni cliniche dei prodotti molto costosi;
     b) la promozione della presa in carico e del trattamento, farmacologico e non farmacologico, delle malattie rare, ereditarie e non, anche riducendo il numero dei casi non diagnosticati, abbattendo i tempi della diagnosi e aumentando la disponibilità della consulenza genetica per le malattie ereditarie;
     c) la promozione delle sperimentazioni cliniche su base multicentrica, nazionale e internazionale, nel pieno rispetto dei soggetti sui quali viene effettuata la sperimentazione (bambini o altri soggetti in condizioni di particolare vulnerabilità) e dei criteri di eticità (consenso informato; confidenzialità della informazione ed altri); a tale scopo viene auspicata la realizzazione di un fondo europeo destinato alla ricerca traslazionale di nuovi farmaci orfani;
     d) la promozione del trasferimento dei risultati delle ricerche nelle cure delle malattie rare e la contestuale adozione di un maggiore rigore nei criteri di valutazione del tasso di innovazione dei farmaci orfani prima della loro immissione sul mercato, garantendo le migliori pratiche cliniche nazionali e internazionali a tutti i pazienti, senza eccezioni o differenze a livello regionale;
     e) il monitoraggio dell'efficacia e della tollerabilità dei farmaci concessi ad uso compassionevole o utilizzati in forma off-label;
     f) il recupero di risorse in grado di sostenere l'onere dei trattamenti orfani attraverso la redistribuzione del carico di spesa per alcune classi di farmaci, di largo impiego e basso costo, dal Servizio sanitario nazionale ai pazienti, ma anche promuovendo campagne affinché grandi aziende, sia farmaceutiche sia produttrici di beni di largo consumo, siano incoraggiate ad «adottare» l'una o l'altra delle malattie orfane, considerando che «l'eticità» di un prodotto, una volta pubblicizzato, può rappresentare un valore aggiunto;
    esistono in Europa, per esempio in Francia, forme di autorizzazione di farmaci per queste malattie che ne accelerano la possibilità di accesso per i pazienti: si tratta sostanzialmente di autorizzazioni temporanee concesse quando ancora l’iter per la commercializzazione è ancora in corso, a condizione che non esistano valide alternative terapeutiche con prodotti regolarmente validati. Una modalità regolatoria di questo tipo consente ai «pazienti rari» di avere a disposizione farmaci innovativi e potenzialmente validi in tempi più veloci rispetto a quelli normalmente necessari alla conclusione delle sperimentazioni e dell’iter autorizzativo per la commercializzazione, contribuendo a evitare quei «viaggi della speranza» che troppo spesso si rivelano truffe a scapito di famiglie disperate; una razionalizzazione dei processi di autorizzazione è doverosa sempre, ma in particolare in situazioni di complessità come quelle della gran parte delle malattie rare,

impegna il Governo:

   ad istituire, a livello nazionale, e a promuovere, a livello regionale, i registri delle patologie rare, in modo da fare chiarezza sul numero reale di pazienti che ne sono affetti, consentendo l'utilizzo mirato delle risorse pubbliche;
   ad istituire il comitato nazionale delle malattie rare, presso il Ministero della salute, tenendo conto nella composizione dei rappresentanti delle regioni, dell'Istituto superiore di sanità e delle associazioni di tutela dei malati e delle famiglie, nonché dei rappresentanti dei ministeri competenti in merito;
   a dare una definizione in tempi rapidi delle «malattie rare» da includere nell'elenco delle patologie da sottoporre a screening neonatale obbligatorio, considerando che la diagnosi prenatale consentirebbe di iniziare precocemente, ove fosse disponibile, la terapia riducendo i danni derivati dalla patologia;
   ad assumere iniziative normative che permettano ai farmaci orfani di beneficiare, così come avviene negli Stati Uniti d'America, dell'esenzione dei diritti da versare per l'immissione in commercio, di un'accelerata procedura di registrazione e di un credito di imposta pari al 50 per cento delle spese sostenute per la sperimentazione clinica;
   ad attuare ogni iniziativa, anche normativa, finalizzata a facilitare e velocizzare, per questo tipo di patologie, l'accesso a farmaci potenzialmente efficaci di cui si sia rigorosamente accertata la non nocività, limitatamente ai casi in cui manchino valide alternative terapeutiche per cui sia concluso l’iter di sperimentazione e autorizzazione al commercio.
(1-00281)
(Nuova formulazione) «Dorina Bianchi, Roccella, Calabrò, Bosco, Saltamartini, Alli».
(10 dicembre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    in Italia si stimano in centinaia di migliaia i pazienti affetti da patologie rare che affrontano spesso difficoltà così pesanti da pregiudicare la qualità della vita di interi nuclei familiari, la realtà lavorativa dei loro componenti e spesso anche la loro sopravvivenza economica. Nel 2001, con il decreto ministeriale n. 279 del 2001 sono state individuate 583 malattie rare e/o gruppi di malattie aventi diritto all'esenzione per le prestazioni sanitarie correlate alla malattia e incluse nei livelli essenziali di assistenza. Molte malattie rare presenti non sono però incluse nell'elenco ministeriale, con drammatiche conseguenze per i pazienti che, pur avendo una malattia rara, non possono beneficiare di alcuna speciale tutela;
    la giornata delle malattie rare è uno degli appuntamenti più importanti per chi vive questo problema. Un momento per far arrivare informazioni a decisori politici e pubblici, operatori sanitari e sociali e opinione pubblica;
    in occasione della giornata delle malattie rare, durante il convegno organizzato dall'Istituto superiore di sanità «Dalla ricerca scientifica alla tutela delle persone con malattie rare» con cui si è fatto il punto sulla situazione delle malattie rare in Italia, Uniamo – Federazione italiana malattie rare onlus ha illustrato i risultati della conferenza nazionale Europlan II, iniziativa per l'adozione dei piani nazionali per le malattie rare nei paesi dell'Unione Europea. In questo progetto tutti gli attori del sistema nazionale delle malattie rare hanno sviluppato definizioni condivise e strumenti funzionali come contributo all'elaborazione finale del piano nazionale per le malattie rare ancora in attesa di adozione dal 2013. L'obiettivo è rendere il piano rispondente alle necessità e ai reali bisogni dei pazienti, tenendo conto anche delle buone pratiche esistenti;
    anche il Ministro della salute Lorenzin, inviando i saluti al presidente dell'Istituto superiore di sanità, Fabrizio Oleari, ha dichiarato che «il tema dell'assistenza rappresenta un bisogno universale sia per i pazienti che per le loro famiglie e il dicastero che rappresento ha sempre dimostrato un'attenzione altissima verso questa tematica, nella consapevolezza che le malattie rare necessitano di politiche specificatamente indirizzate. Frutto di questa speciale sensibilità è stato il Piano nazionale delle malattie rare che, a breve sarà sottoposto al vaglio della Conferenza Stato-Regioni»;
    c’è la consapevolezza che si sta attraversando una fase di trasformazione del welfare;
    è fortemente sentita, anche in campo sanitario, la necessità di innovare e di assumersi nuove responsabilità di rischio, che determini una nuova produzione di valore; in questo senso le malattie rare costituiscono in sé una sfida di sanità pubblica e una sfida sociale e possono essere un campo di sperimentazione dove creare/definire significati condivisi;
    i contenuti elaborati e condivisi tra tutti gli attori del «Sistema malattie rare» durante le conferenze Europlan devono costituire un impulso per le istituzioni preposte ed essere fonte di indirizzo nell'elaborazione finale del piano nazionale per le malattie rare e delle politiche socio-sanitarie promosse territorialmente;
    continuamente cambiano e nascono nuovi bisogni sociali e di salute che rimangono spesso insoddisfatti perché le risposte a questi bisogni sono superate;
    sono questi nuovi bisogni ad assumere oggi un maggior valore e costituire il senso della comunità dei malati rari a cui si devono dare nuove risposte ricche di valore aggiunto;
    il valore aggiunto è il grado di soddisfazione e miglioramento del livello di salute ottenuto e percepito dal paziente nel godimento dell'offerta di salute;
    l'Europa ha deciso di puntare sulla costruzione di reti quale principio di un'adeguata offerta di salute per i malati affetti da patologie rare, valorizzando la domanda e con essa assegnando al paziente una piena responsabilità,

impegna il Governo:

   ad istituire un comitato nazionale, con la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti nel settore delle malattie rare, comprese le associazioni dei pazienti, con il compito di:
    a) delineare le linee strategiche e le proposte da attuare nei settori della diagnosi e dell'assistenza, della ricerca, della tutela e della promozione sociale, della formazione e dell'informazione;
    b) indicare le priorità di impiego delle risorse dedicate alle malattie rare, tenendo conto anche dei dati di monitoraggio e valutazione;
    c) prevedere il coinvolgimento dei rappresentanti associativi delle persone con malattia rara nei coordinamenti regionali sulle malattie rare;
   a individuare uno standard per l'aggiornamento sia dell'elenco delle malattie rare riconosciute che dei livelli essenziali di assistenza, capace di stare al passo con lo sviluppo delle conoscenze scientifiche;
   ad individuare un meccanismo capace di modificare il sistema di remunerazione delle prestazioni adeguandolo alla quantificazione della complessità multidisciplinare del paziente;
   a definire i criteri minimi che le strutture abilitate ad effettuare le indagini finalizzate alla diagnosi prenatale devono rispettare;
   a prevedere che le patologie rare che rientrano nel pannello di screening neonatale debbano essere rivalutate periodicamente in base alle nuove conoscenze tecniche ed epidemiologiche posto che è necessario che la scelta delle patologie da includere nello screening si basi su criteri a forte evidenza scientifica;
   a migliorare e accelerare le procedure nazionali per la definizione del prezzo e del rimborso dei farmaci allo scopo di migliorare l'accesso ai farmaci orfani;
   a favorire l'utilizzo off-label di farmaci di cui è nota l'efficacia, supportata da evidenze scientifiche, al fine di un eventuale inserimento nella lista del decreto-legge n. 536 del 1996, convertito dalla legge n. 648 del 1996, sviluppando da parte dell'Agenzia italiana del farmaco un'attenzione particolare per le malattie rare.
(1-00373)
«Rondini, Giancarlo Giorgetti, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Grimoldi, Guidesi, Cristian Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera».
(14 marzo 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la decisione n. 1295/1999/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 1999, che adotta il programma d'azione comunitaria 1999-2003 della Commissione europea, definisce rare le malattie che hanno una prevalenza non superiore a 5 per 10.000 abitanti nell'insieme della popolazione comunitaria;
    si tratta di patologie potenzialmente letali o croniche, in gran parte di origine genetica, che comprendono anche rare forme tumorali, malattie autoimmuni, malformazioni congenite o derivate dall'esposizione ambientale durante la gravidanza, patologie di origine infettiva o tossica. Tali malattie, oltre ad essere numerose, sono anche molto eterogenee fra di loro e richiedono un approccio articolato e complesso, basato su interventi specifici e combinati, finalizzati a prevenire un'elevata morbilità e migliorare la qualità di vita delle persone colpite;
    è possibile contare circa 5-8 mila diverse malattie rare che, in ambito europeo, colpiscono oltre il 6 per cento della popolazione nelle varie fasi della vita. Sotto questo aspetto è possibile raggruppare le malattie rare in base alla loro prevalenza: bassa (se inferiore a 5 casi ogni 10 mila persone nell'Unione europea; in questa fascia si collocherebbero poco meno di un centinaio di patologie), bassissima (circa un caso ogni 100 mila persone); infine, vi sono migliaia di patologie molto rare che colpiscono solo poche persone in tutta Europa, e i pazienti affetti da queste ultime malattie risultano inevitabilmente particolarmente isolati e vulnerabili;
    in Italia si stimano in circa 2 milioni le persone colpite da queste patologie;
    il gruppo di patologie più segnalato sono le malattie del sistema nervoso e degli organi di senso con una percentuale del 26 per cento, a cui seguono le malformazioni congenite (19,7 per cento), le malattie delle ghiandole endocrine, della nutrizione, del metabolismo e i difetti immunitari (17,4 per cento) e le malattie del sangue e degli organi ematopoietici (16,6 per cento). La più larga fetta di queste malattie colpisce i bambini;
    la ricerca scientifica europea ha svolto un importante ruolo per migliorare la comprensione dei meccanismi alla base di tali patologie, ma la mancanza di politiche sanitarie adeguate si traduce troppo spesso in diagnosi tardive e difficoltà di accesso alle cure, costringendo i pazienti e le loro famiglie alla difficile ricerca di strutture sanitarie adeguate, mentre talune malattie, se diagnosticate e gestite in tempo, potrebbero essere compatibili con una vita normale;
    la carenza di conoscenza sulle malattie rare contribuisce ad aggravare lo stato di salute dei portatori di molte delle malattie rare e conduce a sensibili perdite: ritardi e ricoveri inutili, infinite consulenze specialistiche e prescrizione di farmaci e trattamenti inadeguati;
    l'Istituto superiore di sanità ha individuato un elenco di malattie rare esenti dal pagamento del ticket. L'elenco comprende attualmente 583 patologie. Alcune regioni italiane hanno, quindi, deliberato esenzioni per patologie ulteriori da quelle previste dal decreto ministeriale n. 279 del 2001;
    il decreto ministeriale n. 279 del 2001, «Regolamento di istituzione della rete nazionale delle malattie rare e di esenzione dalla partecipazione al costo delle relative prestazioni sanitarie», individua le malattie rare, prevede il diritto all'esenzione per le prestazioni individuate tra quelle incluse nei livelli essenziali e uniformi di assistenza e ha previsto tra l'altro:
     a) l'istituzione della «Rete nazionale per la prevenzione, la sorveglianza, la diagnosi e la terapia delle malattie rare», quale principale strumento di tutela dei pazienti affetti da malattia rara di una rete assistenziale dedicata, mediante la quale sviluppare azioni di prevenzione, attivare la sorveglianza, migliorare gli interventi volti alla diagnosi e alla terapia, promuovere l'informazione e la formazione. La rete nazionale è costituita da presidi accreditati (preferibilmente ospedalieri), appositamente individuati dalle regioni, e da centri interregionali di riferimento, per la formulazione della diagnosi di malattia rara e per l'erogazione delle relative cure in regime di esenzione. Il coordinamento nazionale è affidato al Centro nazionale malattie rare istituito presso l'Istituto superiore di sanità;
     b) l'istituzione del registro nazionale delle malattie rare, istituito presso l'Istituto superiore di sanità, che ha obiettivi generali di effettuare la sorveglianza delle malattie rare e di supportare la programmazione nazionale e regionale degli interventi per i soggetti affetti da malattie rare. Il registro mira ad ottenere informazioni epidemiologiche (in primo luogo il numero di casi di una determinata malattia rara e relativa distribuzione sul territorio nazionale) utili a definire le dimensioni del problema, anche al fine di stimare il ritardo diagnostico e la migrazione sanitaria dei pazienti, supportare la ricerca clinica e promuovere il confronto tra operatori sanitari per la definizione di criteri diagnostici;
    l'accordo Stato-regioni del 10 maggio 2007 ha stabilito l'impegno, da parte delle regioni, di attivare registri regionali o interregionali sulle malattie rare e di garantire il collegamento con il registro nazionale delle malattie rare;
    molto resta da fare, anche se importanti passi avanti sono stati realizzati grazie ai registri nazionale e regionali. Come dichiarato dal direttore del Centro nazionale malattie rare dell'Istituto superiore di sanità, Domenica Taruscio, «si può fare di più. Attualmente il Registro sorveglia solo le malattie rare per le quali è prevista la gratuità dell'assistenza da parte del SSN. Proprio per comprendere meglio la natura di queste complesse e poco conosciute patologie sarebbe però auspicabile estendere la sorveglianza a tutto l'universo di tali malattie»;
    va, inoltre, evidenziata la differenza di trattamento fra le varie regioni, anche per la mancanza o la non omogenea disponibilità sul territorio nazionale di strutture specialistiche adeguate, nonostante che tutti i cittadini debbano godere dello stesso livello di prestazioni da parte del Servizio sanitario nazionale. Inoltre, diverse regioni fanno lo screening neonatale, hanno dei livelli essenziali di assistenza aggiuntivi per le malattie rare e hanno percorsi assistenziali istituiti ad hoc;
    l'attuale normativa non è in grado di fornire un'assistenza adeguata a molti di questi malati e alle loro famiglie, che troppo spesso si trovano senza un sostegno efficace;
    peraltro, non è stato ancora approvato il piano nazionale delle malattie rare, che il nostro Paese avrebbe già dovuto adottare entro il 2013, secondo la raccomandazione del Consiglio d'Europa dell'8 giugno 2009, centrata appunto su un'azione in questo settore;
    strettamente correlati alle malattie rare sono i cosiddetti farmaci orfani. Il farmaco orfano è quel farmaco che potenzialmente è utile per trattare una malattia rara, ma non ha un mercato sufficiente per ripagare le spese del suo sviluppo. Si definisce, quindi, farmaco orfano perché manca l'interesse da parte delle industrie farmaceutiche ad investire su un farmaco destinato a pochi pazienti nonostante il farmaco risponda ad un bisogno di salute pubblica;
    il regolamento (CE) n. 141/2000 del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 1999 ha stabilito i criteri per l'assegnazione della qualifica di medicinali orfani nell'Unione europea, prevedendo opportuni incentivi. I medicinali qualificati come orfani possono, infatti, beneficiare di incentivi messi a disposizione dalla Comunità europea e dagli Stati membri allo scopo di promuovere la ricerca, lo sviluppo e l'immissione in commercio dei medesimi medicinali orfani e, in particolare, delle misure di aiuto alla ricerca a favore delle piccole e medie imprese previste dai programmi quadro di ricerca e sviluppo tecnologico;
    l'EMA (European Medicines Agency), ossia l'Agenzia europea dei medicinali, ha previsto, per il 2014, ulteriori importanti sgravi fiscali e incentivi a favore delle imprese che producono e commercializzano farmaci orfani, i farmaci per il trattamento nelle malattie rare;
    in ambito europeo, l'assegnazione dell'autorizzazione all'immissione in commercio non implica l'immediata disponibilità del farmaco in tutti i paesi dell'Unione europea. I proprietari dell'autorizzazione all'immissione in commercio devono decidere in anticipo la modalità di commercializzazione del farmaco in ciascun Paese e il farmaco, quindi, dovrà seguire un iter specifico, al fine di stabilire le modalità di rimborso e di solito anche il suo costo. Nonostante gli sforzi congiunti, l'eterogeneità di approccio nei diversi Paesi rende ancora problematico l'accesso ai farmaci orfani da parte dei pazienti,

impegna il Governo:

   ad includere nei livelli essenziali di assistenza previsti per i soggetti affetti da malattie rare, solo qualora prescritti dai presidi della rete nazionale delle malattie rare, le prestazioni per le terapie riabilitative, le prescrizioni non farmacologiche quali integratori alimentari o specifici alimenti, nonché i farmaci il cui costo è interamente a carico del cittadino, se funzionali al trattamento delle malattie rare;
   ad estendere la sorveglianza effettuata dal registro nazionale delle malattie rare a tutte le malattie rare e non solo – come ora previsto – a quelle per le quali è prevista la gratuità dell'assistenza da parte del Servizio sanitario nazionale;
   ad aggiornare l'elenco delle malattie rare esentate dalla partecipazione al costo, con cadenza almeno biennale;
   ad introdurre una valutazione qualitativa periodica dei centri/presidi accreditati, con il coinvolgimento delle associazioni dei pazienti e degli altri soggetti istituzionali interessati;
   ad istituire un comitato nazionale delle malattie rare, con la partecipazione di tutti i soggetti – istituzionali e non – coinvolti nel settore delle malattie rare, con il compito di delineare le linee di indirizzo e le proposte da attuare nei settori della diagnosi e dell'assistenza, della ricerca, della tutela e della promozione sociale, della formazione e dell'informazione e di indicare le priorità di impiego delle risorse dedicate alle malattie rare;
   ad approvare il piano nazionale delle malattie rare;
   ad individuare gli interventi idonei ad accelerare le procedure di autorizzazione per i nuovi farmaci qualificati come «farmaci orfani»;
   ad assumere iniziative dirette a stanziare adeguate risorse finanziarie volte ad incentivare e sostenere, anche attraverso la fiscalità di vantaggio, la ricerca scientifica sui farmaci orfani e per lo sviluppo di nuove terapie;
   a prevedere il coinvolgimento nei tavoli decisionali dei rappresentanti delle principali associazioni delle persone affette da malattia rara;
   a promuovere l'implementazione dei programmi di formazione e aggiornamento per i professionisti sanitari, con particolare riferimento alla diagnosi precoce e appropriata delle malattie rare;
   a verificare i presupposti per riconoscere la sensibilità chimica multipla (mcs) quale malattia rara, e per l'erogazione, in regime di esenzione dalla partecipazione al costo, delle relative prestazioni sanitarie per la diagnosi e la cura della medesima.
(1-00375)
(Nuova formulazione) «Nicchi, Piazzoni, Aiello, Di Salvo, Migliore».
(14 marzo 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il problema delle malattie rare riguarda circa 24 milioni di persone in Europa e oltre 2 milioni di persone in Italia (senza contare il coinvolgimento dei familiari dei malati). Si tratta di patologie alquanto eterogenee fra loro sia nell'eziopatogenesi sia nelle manifestazioni sintomatologiche, che spesso costituiscono causa di mortalità precoce;
    ad oggi non esiste una definizione uniforme di malattia rara. L'Organizzazione mondiale della sanità individua come malattie rare un ampio gruppo di patologie (tra le 5.000 e le 6.000), di cui l'80 per cento circa di origine genetica, caratterizzate dalla bassa prevalenza nella popolazione, alcune delle quali aggregabili in aree clinico-terapeutiche (malattie dismetaboliche, anemie congenite, neuropatie ed altre), con particolare concentrazione in determinate aree territoriali e geografiche; sono malattie croniche e invalidanti, con conseguenti specifiche esigenze assistenziali e alti costi sanitari e sociali; sono tuttora spesso prive di trattamento (malattie orfane) perché, in assenza di incentivi, le imprese farmaceutiche non sono stimolate ad investire in funzione di un mercato che resterebbe comunque molto limitato;
    le malattie rare rappresentano un importante e complesso problema sociale ed assistenziale. Trattandosi, infatti, di malattie il più delle volte genetiche, esse pongono difficoltà diagnostiche e attendono i principali risultati terapeutici dallo sviluppo di nuovi farmaci ottenuti attraverso l'impiego di metodologie avanzate (biotecnologie, terapia genica e cellulare) non sempre immediatamente disponibili;
    la situazione europea presenta un quadro di quasi 7000 tipi di malattie rare che colpiscono circa 30 milioni di persone di cui 2 milioni in Italia e per far fronte a tali malattie sono nate, in alcuni Paesi, diverse iniziative tese ad incentivare le case farmaceutiche e gli istituti di ricerca nella messa a punto di prodotti o soluzioni specifiche; gli Stati Uniti, l'Australia, il Giappone e l'Unione Europea si sono dotati di apposite legislazioni che favoriscono, con agevolazioni fiscali e commerciali, la creazione di medicinali orfani, cioè probabilmente abili alla terapia di una malattia rara, ma non prodotti per cause commerciali;
    in Europa, in particolare, il regolamento (CE) n. 141/2000 ha dato avvio alla fase di definizione di interventi atti a ridurre il disagio dei malati rari e ad aumentare la disponibilità di ausili farmacologici, diagnostici e tecnici che ne migliorassero la qualità della vita;
    in Italia, la legge n. 279 del 2001 ha disposto una serie di interventi a livello nazionale che sono stati recepiti solo in parte dal sistema regionalizzato della sanità, ma l'attenzione per le malattie rare a livello legislativo e amministrativo è relativamente recente perché il trattamento di tali malattie, quando possibile, ha un costo per paziente molto più elevato di quello di una malattia comune e tende, quindi, a non essere mai inserito tra le priorità, a meno che la gravità della patologia o l'attivismo dei pazienti non la imponga all'attenzione;
    la cosiddetta «Schengen sanitaria», messa in atto con il Consiglio dei ministri del 28 febbraio 2014, che permetterà ai cittadini comunitari di spostarsi oltreconfine per ricevere un'assistenza sanitaria di qualità o in alternativa di usufruire di servizi telemedicina da altri Stati, non è tuttavia priva di regole e paletti, autorizzazioni preventive, tariffe e rimborsi limitati che, tuttavia, escludono dall'applicazione di tale assistenza i servizi «long term care», i trapianti d'organo e le vaccinazioni,

impegna il Governo:

   ad intervenire con un'iniziativa immediata per assicurare:
    a) che l'Italia si doti entro il 2015 di un piano nazionale per le malattie rare da sviluppare in coerenza con le linee guida definite in Europa attraverso il progetto Europlan;
    b) l'istituzione e l'implementazione di registri delle malattie rare sviluppati sia su base territoriale (reti regionali di riferimento) che attraverso una catalogazione per patologia;
    c) la creazione, su base regionale e nazionale, di un'anagrafe dei portatori di malattia rara così come riconosciuta esclusivamente dai centri di riferimento della malattia o del gruppo di malattie abilitati alla diagnosi per i casi di malattie ultrarare, con incidenza inferiore ad uno su 100.000;
    d) l'istituzione e l'implementazione di network di ricerca relativi a singole malattie rare o a gruppi di esse che tengano conto dei criteri già definiti in sede europea per l'identificazione di centri e di network di eccellenza, facendo sì che tali network, oltre a dimostrare il possesso dei requisiti di eccellenza, siano collegati in rete ai rispettivi network europei ed internazionali ed abbiano dimensione di norma sovraregionale e nazionale;
    e) l'istituzione e l'implementazione di network di ricerca pediatrici che rispettino la specificità della popolazione infantile anche in considerazione del fatto che l'80 per cento delle malattie rare sono pediatriche e che solo specifiche competenze create in tale ambito ed in collaborazione con i medici del territorio sono potenzialmente in grado di favorire diagnosi precoci e percorsi terapeutici ottimali;
    f) l'identificazione e la validazione della rete dei servizi assistenziali e della rete dei laboratori abilitati alla diagnosi di malattia rara nell'ambito dei principali settori clinicoterapeutici identificabili almeno in macroaree: malattie dismetaboliche, malattie oncologiche rare, malattie neurologiche e malattie ematologiche;
    g) la ricognizione delle esistenti biobanche e della loro adeguatezza ad essere utilizzate per la diagnosi precoce ed immediata delle malattie rare, anche attraverso l'identificazione di nuovi biomarker, specie in caso di malattie dovute a difetti congeniti dimostrabili in età perinatale, per le quali l'intervento precoce è essenziale per ridurre e prevenire l'insorgenza di gravi deficit psicosomatici ed invalidità;
    h) la revisione e la messa a punto di tutta la materia relativa all'uso temporaneo di farmaci per portatori di malattie rare, dando attuazione all'articolo 158, comma 10, del decreto legislativo n. 219 del 2006, nonché all'accesso preferenziale all'uso temporaneo dei farmaci per i portatori di malattie rare (definite da una prevalenza di 5 su 10.000, come da regolamento (CE) n. 141/2000 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 1999);
    i) l'obbligatorietà di inserimento di questi farmaci con tempi certi nei prontuari regionali e ospedalieri e la garanzia di accesso alle procedure off-label, ai sensi del decreto-legge n. 23 del 1998, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 94 del 1998, per singoli pazienti in caso di emergenza terapeutica per patologia rara;
    l) la creazione di una commissione tecnica presso l'Agenzia italiana del farmaco per la valutazione delle autorizzazioni temporanee di utilizzo che comprenda anche competenze etiche e pediatriche;
    m) l'esclusione dei farmaci orfani dall'applicazione del decreto-legge n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011, relativamente alla spesa ospedaliera;
    n) la defiscalizzazione delle spese sostenute in Italia per la ricerca clinica e pre-clinica relativa ai farmaci orfani e alle malattie rare, con particolare attenzione ai progetti rivolti al territorio delle regioni con disavanzo e sottoposte a piani di rientro.
(1-00376) «Palese, Fucci».
(14 marzo 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    anche in Italia, ogni anno, si celebra la Giornata mondiale delle malattie rare, istituita per richiamare l'attenzione dei media sulle condizioni dei pazienti con malattie a bassa incidenza, spesso penalizzati per la difficoltà della diagnosi e la scarsa disponibilità di terapie efficaci;
    nonostante nel corso degli ultimi anni la ricerca scientifica abbia compiuto notevoli progressi, vi sono ancora moltissimi stati patologici non adeguatamente conosciuti e non ancora classificati, moltissime malattie per le quali non sono possibili né sussidi diagnostici, né adeguate forme di prevenzione, né terapie, ed altre ancora che colpiscono un numero relativamente basso di persone, le cosiddette malattie rare;
    una malattia si definisce rara quando la sua prevalenza, ovvero il numero di caso presenti in un dato momento in una data popolazione, non supera una determinata soglia. Nell'Unione europea (Programma d'azione comunitario sulle malattie rare 1999-2003) questa soglia è fissata allo 0,05 per cento della popolazione, ossia 1 caso su 2.000 abitanti: l'Italia si attiene a tale definizione;
    altri Paesi adottano parametri leggermente diversi; negli Usa, ad esempio, una malattia è considerata rara quando non supera la soglia dello 0,08 per cento. La legge giapponese, invece, definisce rara una patologia che comprende meno di 50.000 casi (4/10.000 abitanti) in Giappone;
    molte patologie sono però molto più rare, arrivando appena a una frequenza dello 0,001 per cento, cioè un caso ogni 100.000 persone;
    le malattie rare talvolta sono fortemente invalidanti e chi ne è colpito spesso non riesce a sopravvivere; la definizione di «rara» non ha agevolato il processo di ricerca e di attenzione sulle cause delle malattie rare, se non da parte di centri privati, con la conseguenza non solo di non offrire al paziente cure adeguate e una diagnosi tempestiva, ma soprattutto di lasciarlo isolato nell'affrontare la propria malattia insieme alla sua famiglia;
    la scarsa disponibilità di conoscenze scientifiche, che scaturisce proprio dalla rarità, determina spesso lunghi tempi di latenza tra l'esordio della patologia e la diagnosi, cosa che incide negativamente sulla prognosi del paziente; inoltre, le industrie farmaceutiche, a causa della limitatezza del mercato di riferimento, hanno scarso interesse a sviluppare la ricerca e la produzione dei cosiddetti «farmaci orfani», potenzialmente utili per tali patologie;
    l'Unione europea ha indicato le malattie rare tra i temi prioritari del Programma di azione comunitaria in materia di salute 2008-2013. In base a quanto stabilito dai piani di lavoro per l'implementazione del programma in materia di salute, le due principali linee di azione sono rappresentate dallo scambio di informazioni attraverso reti europee già esistenti sulle malattie rare e lo sviluppo di strategie e meccanismi per lo scambio di informazioni e il coordinamento a livello comunitario, al fine di incoraggiare la continuità del lavoro e la cooperazione transnazionale;
    in Francia, per esempio, da tempo è stato adottato un piano nazionale per le malattie rare e già dal 1994 è in vigore l'autorizzazione temporanea di utilizzo dei farmaci orfani che ha consentito a più di 400 prodotti farmaceutici di ottenere l'autorizzazione temporanea di utilizzo, permettendo ai pazienti di utilizzarli in media 12 mesi prima dell'ottenimento dell'autorizzazione all'immissione in commercio;
    l'autorizzazione temporanea di utilizzo ha come finalità quella di consentire l'utilizzo di un farmaco orfano e/o destinato alla cura di malattie rare o gravi, prima ancora che lo stesso abbia ottenuto l'autorizzazione all'immissione in commercio, purché il farmaco sia in fase di sviluppo e non vi sia una valida alternativa terapeutica garantita da un farmaco regolarmente autorizzato;
    nonostante l'Italia sia sempre stata sensibile su questo tema, non solo inserendolo tra i punti fondamentali del piano sanitario nazionale già nel triennio 1998-2000, ma anche predisponendo il regolamento di cui al decreto del Ministro della sanità 18 maggio 2001, n. 279, con cui si stabiliva l'esenzione dai costi sanitari per circa 350 patologie, a tutt'oggi sono molteplici le malattie rare non ancora riconosciute ed inserite nei livelli essenziali di assistenza;
    tra le malattie rare non ancora inserite nei livelli essenziali di assistenza si segnalano a titolo d'esempio: 1) sindrome di acalasia-addisonismo-alacrimia; 2) agenesia del corpo calloso; 3) sindrome di Aicardi-Goutières; 4) alveolite fibrosante idiopatica; 5) amartomatosi multiple; 6) sindrome di Andermann; 7) anemia aplastica; 8) anemia refrattaria; 9) angioedema acquisito; 10) angiomatosi cistica diffusa dell'osso; 11) anoftalmia/microftalmia/microcornea complex; 12) anomalie dell'apparato ciliare; 13) sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi; 14) sindrome da anticorpi anti-sintetasi; 15) aracnodattilia contrattuale congenita; 16) atresie, fistole e duplicazioni del tubo digerente; 17) sindrome di Austin; 18) deficit della beta-ossidazione; 19) sindrome di Byler; 20) Cadasil (Cerebral arteriopathy autosomal dominant with subcortical infarcts and leukoencephalopathy); 21) calcinosi tumorale; 22) sindrome cardio-facciale di Cayler; 23) sindrome di Char; 24) cheratodermia ereditaria palmo-plantare; 25) chronic infantile neurologic cutaneous and articular syndrome (sindrome Cinca); 26) deficit di citocromo C ossidasi; 27) malattia di Coats; 28) sindrome di Cohen; 29) colestasi familiari progressive intraepatiche; 30) complesso Carney; 31) congenital deafness, onycho-osteodystrophy and mental retardation (sindrome Door); 32) coroidite multifocale; 33) coroidite serpiginosa; 34) malattia da corpi poliglucosani; 35) sindrome di Costello; 36) sindrome di Dandy-Walker; 37) sindrome di Danon; 38) sindrome di Dent; 39) sindrome di Desbuquois; 40) difetti congeniti della glicosilazione proteica; 41) displasia neuroectodermica tipo Chime; 42) disgenesia gonadica XX; 43) distonia idiopatica familiare; 44) distrofia neuroassonale infantile; 45) emicrania emiplegica familiare; 46) emi ipertrofia congenita; 47) emiplegia alternante; 48) emosiderosi polmonare idiopatica; 49) estrofia vescicale; 50) eteroplasia ossea progressiva; 51) malattia di Fahr; 52) febbre mediterranea familiare; 53) sindrome da febbre periodica con iper IgD; 54) febbre periodica ereditaria; 55) sindrome FG; 56) fibrodisplasia ossificante progressiva; 57) sindrome di Fine-Lubinsky; 58) galattosialidosi; 59) sindrome di Goldberg-Shprintzen; 60) sindrome di Hallervorden-Spatz; 61) malattia da inclusi neuronali intranucleari; 62) ipertensione arteriosa polmonare idiopatica; 63) sindrome KBG; 64) sindrome di Kenny-Caffey; 65) sindrome di Laron; 66) sindrome di Larsen; 67) sindrome di Lenz; 68) linfedema primario cronico; 69) sindrome di Lowe; 70) sindrome di Lujan-Fryns; 71) macrocefalia-lipomi multipli-emangiomi; 72) sindrome di Mainzer-Saldino; 73) sindrome di Marden-Walker; 74) sindrome megalocornea-ritardo mentale; 75) meloreostosi; 76) sindrome di Menkes; 77) metaemoglobinemia da deficit di metaemoglobina reduttasi; 78) metilmalonicoaciduria; 79) sindrome Michelin tire baby; 80) miosite a corpi inclusi; 81) malattia di Mohr; 82) nanismo primordiale microcefalico osteodisplastico (MOPD); 83) sindrome di Nasu-Hakola; 84) neuropatia ereditaria sensoriale ed autonomica; 85) neutropenia cronica idiopatica grave; 86) sindrome del nevo basocellulare; 87) sindrome di Nijmegen; 88) sindrome di Ondine; 89) sindromi oro-facio-digitali; 90) paralisi bulbare progressiva; 91) sindrome di Pendred; 92) Pfeiffer, sindrome di gruppo «sindromi con (prevalente) cranio sinostosi»; 93) deficit di piruvato decarbossilasi; 94) sindrome di Pitt-Rogers-Danks; 95) poichiloderma congenito; 96) progeria; 97) sindrome di Prune Belly; 98) rachitismo vitamina D dipendente tipo I; 99) sindrome di Refetoff; 100) rene policistico autosomico recessivo; 101) sindrome di Rhotmund-Thomson; 102) sindrome di Schnitzler; 103) sclerosi sistemica; 104) sindrome di Senior-Loken; 105) sindrome di Shpritzen-Goldberg; 106) sindrome di Shwachman-Diamond; 107) siringomielia-siringobulbia; 108) sindrome di Sotos; 109) tubulopatie primitive/congenite e altre;
    nonostante il decreto del Ministro della sanità 18 maggio 2001, n. 279, (recante «Regolamento di istituzione della rete nazionale delle malattie rare e di esenzione dalla partecipazione al costo delle relative prestazioni sanitarie») prevedesse testualmente che «I contenuti del presente regolamento sono aggiornati, con cadenza almeno triennale, con riferimento all'evoluzione delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, ai dati epidemiologici relativi alle malattie rare e allo sviluppo dei percorsi diagnostici e terapeutici di cui all'articolo 1, comma 28, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e successive modificazioni e integrazioni», ad oggi non si è proceduto ad alcun aggiornamento, sebbene già il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 23 aprile 2008, mai, peraltro, entrato in vigore, recasse, all'allegato 7, un aggiornamento delle malattie riconosciute come rare, individuando altre 109 patologie ad integrazione dell'allegato 1 del decreto ministeriale n. 279 del 2001;
    per le patologie rare molto spesso non vi sono delle cure specifiche anche se la ricerca lavora continuamente per trovare delle cure efficaci;
    in questo contesto si inseriscono i cosiddetti farmaci orfani, farmaci che servono alla cura di patologie rare, ma che faticano ad incontrare l'interesse economico delle case farmaceutiche, a causa della frammentazione delle singole patologie rare;
    a livello europeo, nel 2000 è stato pubblicato il regolamento (CE) n. 141/2000 concernente i medicinali orfani con l'istituzione della procedura comunitaria per l'assegnazione della qualifica di medicinale orfano. Per svolgere questa attività è stato istituito, nell'ambito dell’European Medicines Agency (EMA), il Committee for orphan medicinal products (Comp),

impegna il Governo:

   a porre in essere tutte le iniziative necessarie per garantire la presa in carico dei malati affetti da malattie rare e delle loro famiglie, in particolare attraverso l'accesso alle cure e all'assistenza materiale, economica e psicologica, in modo da ottemperare alle indicazioni dell'Unione europea;
   ad assumere iniziative dirette ad aggiornare l'allegato n. 1 del regolamento di cui al decreto del Ministro della sanità n. 279 del 2001, contenente l'elenco delle malattie rare esentate dalla partecipazione al costo, con cadenza annuale e non più triennale, prevedendo l'inserimento nello stesso di altre malattie rare finora escluse e, in particolare, delle 109 malattie rare inserite nel sopra citato elenco dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 23 aprile 2008;
   ad adottare iniziative che consentano l'accesso universale allo screening neonatale che sarebbe in grado di individuare precocemente nei neonati decine di malattie metaboliche ereditarie, evitando così gravissimi stati di invalidità;
   ad adottare le iniziative necessarie affinché le diagnosi di malattia rara siano effettuate dai presidi della rete di cui all'articolo 2 del regolamento di cui al decreto del Ministro della sanità 18 maggio 2001, n. 279, sulla base di appositi protocolli diagnostici e affinché gli stessi presidi della rete provvedano all'emissione della relativa certificazione di malattia rara con validità illimitata nel tempo e su tutto il territorio nazionale, al fine di assicurare l'erogazione a totale carico del Servizio sanitario nazionale di tutte le prestazioni incluse nei livelli essenziali di assistenza;
   ad adottare le iniziative necessarie per assicurare l'immediata disponibilità e gratuità delle prestazioni e l'aggiornamento dei prontuari terapeutici, prevedendo che i farmaci commercializzati in Italia che abbiano ottenuto riconoscimento di farmaco orfano dall'Agenzia europea dei medicinali (EMA) siano forniti gratuitamente ai soggetti portatori delle patologie, a cui la registrazione fa riferimento e che, pertanto, possano essere inseriti nel prontuario nazionale dei farmaci nelle fasce esenti da compartecipazione alla spesa;
   a portare a conclusione, il prima possibile, l’iter d'adozione del piano nazionale sulle malattie rare, concertando con le regioni un monitoraggio periodico delle fasi di attuazione;
   a rafforzare le funzioni del Centro nazionale malattie rare presso l'Istituto superiore di sanità, al fine di perfezionare il monitoraggio delle patologie e del funzionamento dei servizi, affinché siano resi omogenei su tutto il territorio nazionale l'accesso e l'assistenza ai pazienti affetti da tali patologie;
   ad adottare le iniziative necessarie per favorire la ricerca clinica e preclinica finalizzata alla produzione dei farmaci orfani, prevedendo che, ai soggetti pubblici e privati che svolgono tali attività di ricerca o che investono in progetti di ricerca sulle malattie rare o sui farmaci orfani svolti da enti di ricerca pubblici o privati, si applichi un sistema di incentivi e di agevolazioni fiscali per le spese sostenute per l'avvio e la realizzazione di progetti di ricerca.
(1-00377)
«Lenzi, Miotto, Amato, Argentin, Burtone, Carnevali, Capone, Casati, D'Incecco, Grassi, Murer, Sbrollini».
(14 marzo 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    sono tra le 6000 e 8000 le malattie rare esistenti in Italia, di queste circa 500 sono state regolarmente catalogate e sono individuabili, attraverso caratteristiche e sintomi specifici e sono esenti da ticket;
    una malattia è definita rara, ai sensi del regolamento (CE) n. 141/2000, quando questa non supera la soglia fissata, dal sopra citato regolamento, dello 0,05 per cento della popolazione, ovvero 5 casi ogni 10.000 abitanti; nell'80 per cento dei casi la malattia rara ha un'origine genetica, quindi fin dalla nascita gran parte delle malattie rare sono invalidanti;
    studi recenti hanno evidenziato che le persone colpite da malattie rare in Italia sarebbero 2 milioni, nel 70 per cento dei casi si tratta di bambini;
    la lista delle malattie rare individuate si allunga di mese in mese perché nuove patologie vengono riconosciute; in tale ambito, infatti, risulta fondamentale anticipare la diagnosi in quanto significa migliorare la risposta del paziente;
    essere affetti da una malattia rara significa ancora troppo spesso avere una malattia dal nome impronunciabile, sconosciuta persino alla gran parte dei medici, non avere un farmaco per curarla e, in quattro casi su dieci, di non disporre neanche di un nome con cui definirla;
    il fatto che circa 500 malattie siano riconosciute ed inserite nell'elenco nazionale delle patologie rare, sulle 6000- 8000 malattie rare esistenti in Italia, ha come diretta conseguenza che migliaia di persone non riescono ad ottenere il riconoscimento della loro condizione e, quindi, sono esclusi dai programmi nazionali di assistenza ed esenzione dal ticket sanitario;
    in data 20 marzo 2008, con proprio atto, l'Aifa-Agenzia italiana del farmaco, ha stabilito le «Linee guida per la classificazione e conduzione degli studi osservazionali sui farmaci»;
    il Ministro della salute, Beatrice Lorenzin, in più occasioni ha dichiarato che, attraverso l'adozione del nuovo patto della salute, si sarebbe proceduto all'aggiornamento del decreto che individua i livelli essenziali di assistenza e l'elenco delle malattie rare, un decreto che non viene aggiornato da quasi 15 anni, una costante questa del Servizio sanitario pubblico, come già si è verificato con il nomenclatore tariffario di protesi e ausili;
    il mancato aggiornamento periodico dell'elenco delle malattie rare ha fatto sì che le regioni procedessero ad aggiornamenti, con il risultato di un'inaccettabile differenziazione dei malati basata sulla residenza regionale; questo ha prodotto una varietà di: tempistiche per la commercializzazione dei nuovi farmaci innovativi; difformità nell'identificazione dei centri di riferimento per la diagnosi e la cura; criteri di rimborsabilità di un farmaco anche molto diversi da quelli definiti dall'Agenzia italiana del farmaco;
    è inaccettabile e in aperta violazione dell'articolo 32 della Costituzione che, in materia di malattie rare e in nome di un malinteso federalismo, si assista a sistemi sanitari differenti nelle diverse regioni d'Italia con evidenti diseguaglianze nelle garanzie e nei servizi offerti ai cittadini;
    è, altresì, inaccettabile il ritardo dell'aggiornamento dell'elenco delle malattie rare, spesso basato su logiche ragionieristiche di contabilità, che, applicate alla tutela della salute e diritto alla cura, rappresentano la negazione di un diritto sancito dalla Costituzione;
    appare, quindi, necessario procedere all'immediato aggiornamento dell'elenco delle malattie rare e che questo avvenga con cadenza almeno annuale, d'intesa con le associazioni dei famigliari affetti da malattie rare;
    non sono ammissibili ritardi nell'aggiornamento della rete nazionale delle malattie rare e delle esenzioni delle relative prestazioni sanitarie; quando una malattia rara è riconosciuta e certificata dai presidi della rete, questa deve essere inserita in tempo reale nel registro nazionale delle malattie rare, evitando lungaggini burocratiche che nulla hanno a che fare con l'identificazione della malattia rara;
    appare improrogabile l'istituzione di un fondo nazionale che potrebbe essere finanziato con una percentuale congrua non inferiore al 20 per cento delle quote versate dalle industrie farmaceutiche per le procedure di registrazione e di variazione dei prodotti medicinali;
    un ruolo chiave e strategico assume la ricerca clinica o preclinica finalizzata alla produzione di farmaci orfani svolta da soggetti pubblici e privati. Coloro che svolgono tali attività o che investono in ricerca sulle malattie rare o su farmaci orfani devono poter contare su un adeguato sistema di incentivi fiscali da rivolgere prioritariamente verso i soggetti pubblici;
    in particolare, nell'ambito della ricerca e della produzione di farmaci orfani, andrebbe sviluppato ulteriormente il sostegno allo Stabilimento chimico farmaceutico militare in rapporto al Servizio sanitario nazionale rafforzando, da parte dello Stabilimento, la produzione e la ricerca dei cosiddetti «farmaci orfani» che le industrie farmaceutiche non possono o vogliono continuare a produrre,

impegna il Governo:

   a provvedere immediatamente all'aggiornamento dell'elenco delle malattie rare e che a questo si proceda con cadenza almeno annuale, d'intesa con le associazioni dei famigliari degli affetti da malattie rare;
   a garantire l'aggiornamento della rete nazionale delle malattie rare e delle esenzioni, nonché delle relative prestazioni sanitarie, predisponendo tutti gli atti necessari affinché quando una malattia rara è riconosciuta e certificata dai presidi della rete, questa sia inserita in tempo reale, nel registro nazionale delle malattie rare, snellendo iter burocratici che nulla hanno a che vedere con l'identificazione della malattia rara;
   a prevedere l'istituzione di un apposito fondo nazionale, cofinanziato nella misura del trenta per cento dalle regioni, che potrebbe essere finanziato, oltre che da una quota del Fondo sanitario nazionale, anche da una percentuale non inferiore al 20 per cento delle quote versate dalle industrie farmaceutiche per le procedure di registrazione e di variazione dei prodotti medicinali;
   a garantire un adeguato sistema di incentivi fiscali che sostengano lo sviluppo della ricerca sulle malattie rare e sui farmaci orfani svolta in particolare da soggetti pubblici;
   a prevedere ulteriori forme di sostegno, anche attraverso apposite intese, allo Stabilimento chimico farmaceutico militare in rapporto al Servizio sanitario nazionale per lo sviluppo ulteriore della produzione e ricerca dei cosiddetti «farmaci orfani» che le industrie farmaceutiche non possono o non vogliono continuare a produrre per pura logica mercantile;
   a procedere in tempi brevi a una definizione delle malattie rare da includere nell'elenco delle patologie da sottoporre a screening neonatale obbligatorio, allo scopo di avere una diagnosi precoce capace di attivare immediatamente le terapie per affrontare efficacemente la patologia;
   ad istituire il centro nazionale per le malattie rare presso il Ministero della salute, composto da rappresentanti delle regioni, dell'Istituto superiore di sanità e delle associazioni di tutela delle persone affette da malattie rare, nonché dai rappresentanti dei Ministeri competenti, chiamandolo a svolgere, tra le altre, le seguenti attività: coordinamento delle attività degli enti che svolgono attività di ricerca, promuovendo l'attività di aggiornamento dei dati presso medici e operatori sanitari; aggiornamento del registro delle malattie rare di cui all'articolo 3 del regolamento adottato con decreto del Ministro della sanità 18 maggio 2001, n. 279, aggiornando, al contempo, l'elenco delle malattie rare e il registro nazionale dei farmaci orfani; istituzione di un centro di documentazione sulle malattie rare e i farmaci orfani; raccolta di informazioni aggiornate sulle strutture nonché sui servizi diagnostici ed essenziali a livello nazionale e internazionale, anche in collaborazione con le associazioni dei pazienti affetti da malattie rare; promozione delle attività di formazione per medici o operatori sanitari in materia di prevenzione, diagnosi e assistenza socio sanitaria anche di tipo domiciliare; definizione di parametri e criteri per l'elaborazione di linee guida e protocolli più avanzati sulle malattie rare; elaborazione di linee di indirizzo e proposte da attuare nei settori della diagnosi e dell'assistenza, ricerca, tutela e promozione sociale, formazione e informazione e sistema informativo; priorità di impiego delle risorse dedicate alle malattie rare, tenendo conto anche dei dati di monitoraggio e valutazione;
   ad attivare iniziative finalizzate a rendere le persone con malattie rare consapevoli dei propri diritti e delle proprie potenzialità;
   a coinvolgere i rappresentanti associativi delle persone con malattie rare nei tavoli decisionali;
   ad introdurre la valutazione qualitativa periodica dei centri e dei presidi anche attraverso il pieno coinvolgimento delle associazioni dei pazienti e degli altri soggetti interessati della rete;
   a favorire, per quanto di sua competenza, l’iter delle proposte di legge di iniziativa parlamentare allo scopo di procedere all'approvazione della normativa in materia di malattie rare e farmaci orfani in tempi certi, evitando ritardi che si ripercuotono sul diritto alla salute di tanti cittadini;
   a prevedere la gratuità delle procedure di registrazione e di variazione dei prodotti medicinali destinati alla cura delle malattie rare.
(1-00378)
«Silvia Giordano, Lorefice, Cecconi, Baroni, Dall'Osso, Di Vita, Grillo, Mantero, Colonnese, Castelli».
(14 marzo 2014)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE PER UN EFFICACE UTILIZZO DEGLI STRUMENTI FINANZIARI MESSI A DISPOSIZIONE DALLA BANCA DI SVILUPPO DEL CONSIGLIO D'EUROPA E PER FAVORIRE L'INTEGRAZIONE TRA TALI RISORSE E QUELLE DELL'UNIONE EUROPEA

   La Camera,
   premesso che:
    la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa (CEB) è una banca multilaterale a vocazione esclusivamente sociale e una delle più antiche istituzioni finanziarie internazionali europee. Quando venne creata, sulla base di un accordo parziale tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa, il 14 aprile del 1956, lo scopo prioritario era quello di fornire aiuti finalizzati e risolvere i problemi dei rifugiati. Da allora il suo campo d'azione si è progressivamente esteso ed oggi contribuisce in modo significativo al rafforzamento della coesione sociale in Europa;
    la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa è uno strumento chiave della politica di solidarietà europea, che opera aiutando gli Stati membri – attualmente quaranta – a perseguire una crescita sostenibile ed equa, finanziando progetti di investimento sociale suddivisi in tre ambiti, stabiliti nel 2006 dal consiglio d'amministrazione dell'istituzione: il rafforzamento dell'integrazione sociale, la gestione ambientale e il sostegno alle infrastrutture pubbliche a vocazione sociale. Per la sua attività la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa non riceve aiuti o sovvenzione dagli Stati membri e basa la propria attività su fondi e riserve propri;
    in particolare, interviene in favore dei 21 Paesi d'Europa centrale, orientale e del sud-est, che costituiscono, conformemente agli orientamenti strategici del piano di sviluppo 2010-2014, un obiettivo «prioritario». Nel decennio 2002-2011 sono stati approvati progetti per oltre 21 miliardi di euro ed erogati oltre 16 miliardi di euro di prestiti. Tra i principali Paesi beneficiari vi sono la Polonia, l'Ungheria e la Romania. L'interlocutore della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa è comunque sempre uno Stato membro, mai direttamente le imprese;
    forte è la cooperazione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa con la Commissione europea e con altre banche regionali e istituzioni finanziarie multilaterali, come la Banca europea per gli investimenti, il Western Balkans investment framework, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, la Banca mondiale, la Nordic investment bank e la Banca Kfw;
    di fronte alle difficili sfide dell'attuale contesto economico e finanziario internazionale, che implicano una crescita importante della domanda di prestiti da parte degli Stati membri, la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa è chiamata a uno sforzo straordinario volto ad assicurare, da un lato, il contenimento dei profili di rischio e, dall'altro, il completo rispetto del mandato statutario-sociale;
    il 4 febbraio 2011 il consiglio di direzione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, con la risoluzione n. 386, ha approvato il sesto aumento di capitale della banca, finalizzato a sostenere i principali campi d'intervento, che ha portato il capitale totale sottoscritto da 3,3 miliardi di euro a 5,5 miliardi di euro;
    con la legge 6 luglio 2012, n. 117, l'Italia ha aderito a tale aumento di capitale, per un importo complessivo di 366.078.000 euro, comprendenti l'incorporazione di riserve nel capitale liberato per 40.964.000 euro e la sottoscrizione di nuovi titoli per 325.114.000 euro, con conseguente incremento della quota di capitale detenuta fino all'ammontare di 915.770.000 euro, senza obbligo di versamento immediato, in quanto la sottoscrizione di una quota di capitale «a chiamata» non comporta esborsi finanziari effettivi;
    con tale sottoscrizione l'Italia ha mantenuto la misura attuale di partecipazione e di diritto di voto e continua a svolgere un ruolo centrale nel processo decisionale: in quanto azionista della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, l'Italia partecipa alle riunioni degli organi di governo della banca stessa, con rappresentanti dei Ministeri dell'economia e delle finanze e degli affari esteri;
    l'Italia, assieme a Francia e Germania, è il maggior azionista della Banca; al 31 dicembre 2012 il nostro Paese deteneva il 16,77 per cento del capitale sottoscritto, in una quota superiore rispetto alla partecipazione ad altri organismi multilaterali di intervento finanziario;
    nel decennio 2002-2011 il consiglio d'amministrazione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa ha approvato prestiti a favore dell'Italia per un volume totale di 1,9 miliardi di euro, di cui 1,6 miliardi già erogati, principalmente a favore di piccole e medie imprese, per interventi di ricostruzione a seguito di catastrofi naturali, nel campo dell'istruzione, nella sanità e nelle infrastrutture locali, ma anche a favore di interventi in favore del patrimonio storico, l'edilizia sociale ed aiuti a favore di rifugiati e migranti. Tuttavia, l'ultimo progetto di sviluppo della Banca in Italia risale al biennio 2007-2009;
    nel 2011, su 2,11 miliardi di euro di progetti approvati, nessuno coinvolgeva l'Italia e, su 1,85 miliardi di euro di prestiti approvati, 16 milioni di euro (0,9 per cento) riguardavano il nostro Paese. Analogamente, dei 28 progetti approvati nel 2012 dal consiglio di amministrazione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, per un totale di 1.798 milioni di euro, nessuno riguardava l'Italia;
    il 2011 e il 2013 sono stati approvati 11 progetti (per 515 milioni di euro) a favore di altrettante sussidiarie banche italiane (Intesa Sanpaolo e gruppo Unicredit) in Europa centrale, orientale e sudorientale (quindi, non in Italia);
    nel primo quadrimestre del 2013 sono state approvate undici richieste di finanziamento, per un importo complessivo di 613,9 milioni di euro. Di questi progetti due terzi (399 milioni) sono volti a potenziare la coesione sociale e un terzo è a supporto di infrastrutture pubbliche con fini sociali (scuole, centri di ricerca, carceri). Anche in questo caso non si registrano progetti provenienti dal nostro Paese;
    nel novembre 2013 è stato approvato un progetto di soli 6 milioni di euro a favore di PerMicro, intermediario finanziario attivo a livello nazionale con 13 agenzie in 10 regioni e specializzato nel microcredito a favore di immigrati;
    il dato di fatto evidente è che negli ultimi anni il nostro Paese non ha usufruito dei prestiti provenienti dalla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, al cui finanziamento contribuisce in maniera sostanziosa;
    la questione della coesione sociale e del suo rafforzamento all'interno dell'Unione europea è uno dei temi centrali della strategia Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva;
    la Commissione europea, il 20 febbraio 2013, nella comunicazione «Investire nel settore sociale a favore della crescita e della coesione, in particolare attuando il fondo sociale europeo nel periodo 2014-2020» (COM (2013) 83), ha elencato le sfide che la politica sociale dell'Unione europea dovrà affrontare nei prossimi anni;
    tra gli obiettivi fondamentali da perseguire attraverso una piena integrazione tra utilizzo dei fondi europei, azioni ricomprese nella strategia Europa 2020 e programmi nazionali di riforma, viene ricompreso l'utilizzo con la massima efficacia dei fondi europei. In particolare, gli Stati membri sono invitati a ricercare i modi per integrare le risorse dell'Unione europea mediante finanziamenti provenienti dalla Banca mondiale, dalla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa e dal gruppo della Banca europea per gli investimenti;
    allo stesso modo la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa si è posta come obiettivo strategico per la programmazione 2014-2016 l'affiancamento degli Stati membri nell'Unione europea per un migliore utilizzo dei fondi strutturali europei, a cominciare dal fondo sociale;
    l'allocazione dei fondi del fondo sociale europeo prevede che una quota minima di investimenti sia riservata ad ogni Stato membro dell'Unione europea e che la distribuzione dei restanti fondi avvenga in base alle esigenze regionali e non nazionali, tenendo in questo modo conto delle differenze, anche profonde, tra i livelli di benessere presenti all'interno di uno stesso Stato;
    i potenziali settori di intervento riguardano, infatti, aree che rispondono ad esigenze su cui l'attenzione è particolarmente alta in questo momento nel nostro Paese: su tutti, il tema della prevenzione di catastrofi naturali e di protezione del territorio ed interventi di ricostruzione; azioni in favore di rifugiati e migranti; istituti penitenziari; salvaguardia e protezione del patrimonio storico e culturale;
    alla luce del mutato quadro europeo negli ultimi anni, in una situazione internazionale particolarmente complicata, di fronte a una crisi economico-finanziaria di portata mondiale, bisognerebbe, altresì, rivedere la strategia di intervento della stessa Banca europea per gli investimenti, che ha sempre privilegiato obiettivi calibrati su determinate aree geografiche, senza procedere, invece, per specifiche aree tematiche di azione;
    gli obiettivi prioritari non dovrebbero essere fissati su base geografica, ma tematica: la Banca centrale europea dovrebbe adattare i propri obiettivi alle nuove priorità e necessità del continente europeo. La frattura della coesione sociale non segue più il confine tra oriente ed occidente, ma ha un andamento puntinato che percorre il continente nella sua totalità; l'intervento della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa deve, quindi, operare nelle situazioni e aree specifiche di maggior disagio e necessità;
    in data 3 dicembre 2013, è stato audito, presso la delegazione parlamentare italiana presso l'Assemblea del Consiglio d'Europa, il professor Nunzio Guglielmino, Vice Governatore della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, che ha svolto in merito alcune dichiarazioni ed osservazioni,

impegna il Governo:

   ad intervenire con determinazione, anche attraverso il coinvolgimento degli altri Stati aderenti alla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, per promuovere un cambio di rotta nella strategia di azione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, incentivando, già a partire dal 2014, programmi di intervento trasversali basati su specifiche aree tematiche e non su obiettivi territoriali, nonché per incentivare, nell'ottica di una migliore integrazione con gli strumenti finanziari dell'Unione europea, una omogeneizzazione dei criteri di allocazione dei fondi con una definizione delle aree prioritarie basata sui confini regionali e non nazionali degli Stati membri;
   ad adottare ogni opportuna iniziativa per favorire una maggiore trasparenza delle attività della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, anche attraverso la pubblicazione di una mappatura chiara degli importi investiti e delle aree interessate dagli investimenti;
   ad attivarsi per promuovere una migliore conoscenza della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa in Italia, al fine di incentivare e accrescere in Italia l'utilizzo degli strumenti finanziari messi a disposizione degli Stati aderenti, in particolare attraverso un idoneo orientamento e supporto dei soggetti interessati ai finanziamenti, a partire dalle regioni, nonché a rimuovere ogni possibile ostacolo amministrativo e burocratico che possa aggravare o intralciare le procedure di intervento della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa nel nostro Paese;
   ad incentivare l'utilizzo di tutti quei programmi volti a creare dinamiche e prospettive d'investimento, di crescita e di occupazione a livello nazionale e regionale e che prevedono la partnership delle maggiori istituzioni politico-finanziarie europee e internazionali, con le autorità nazionali e regionali;
   a dare attuazione a quanto indicato dalle istituzioni europee, favorendo il più possibile l'integrazione delle risorse dell'Unione europea, con i finanziamenti provenienti dalla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa;
   a sostenere la promozione di un cambiamento degli statuti affinché la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa possa adottare politiche di sostegno ed erogare finanziamenti diretti ad istituzioni ed enti pubblici, senza ricorrere all'intermediazione degli istituti bancari privati;
   ad avviare approfondimenti con la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, al fine di verificare la possibilità di interventi straordinari in Italia rivolti, in particolare, all'edilizia scolastica e carceraria, alla salvaguardia del patrimonio storico e culturale, alla prevenzione di catastrofi naturali e alla protezione del territorio.
(1-00217)
(Nuova formulazione) «Bergamini, Alli, Bernardo, Ravetto, Gelmini, Gregorio Fontana, Polverini, Giammanco, Abrignani, Rotondi».
(24 ottobre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    la drammatica esperienza dei due conflitti mondiali ha favorito la costruzione di un'Europa fondata sulla centralità della persona umana, sulla stabilità e sulla solidarietà. A questo processo di unificazione dell'Europa hanno contribuito organizzazioni sovranazionali, tra cui il Consiglio d'Europa;
    la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa (CEB), fondata con la denominazione «Fondo per lo sviluppo sociale del Consiglio d'Europa» da otto degli Stati membri del Consiglio d'Europa nel 1956 (tra cui l'Italia), è la più antica tra le istituzioni finanziarie internazionali europee ed è lo strumento finanziario della politica di solidarietà del Consiglio d'Europa;
    con l'allargamento del Consiglio d'Europa ai Paesi dell'Europa orientale si è assistito al cambiamento della mission della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa e dell'area geografica dei Paesi che ne fanno parte. Vi sono stati tre vertici (nel 1993, nel 1997 e nel 2005-2006) dei Capi di Stato e di Governo che hanno confermato il ruolo del Consiglio d'Europa come presidio dei diritti umani e come promotore della coesione sociale e dei diritti sociali ed economici dei cittadini dei Paesi che ne fanno parte. Oggi la Banca si occupa di edilizia sociale, istruzione, sanità, prevenzione e rimedio alle catastrofi naturali e, ultimamente, anche di rifugiati, ritornando con questo nuovo obiettivo alla ragione sociale originaria;
    in una fase delicata quale quella che stiamo vivendo, a causa della crisi economico-finanziaria, la Banca svolge una funzione importante nella soluzione di problematiche legate al peggioramento delle condizioni economiche e sociali delle popolazioni europee in un'ottica solidaristica;
    dopo aver portato a compimento con successo il piano di sviluppo della Banca stabilito nel 2010-2014, soprattutto a favore dei 21 Paesi europei con maggiori difficoltà dell'Europa centro-orientale e sud-orientale, il 22 novembre 2013, il consiglio di amministrazione ha approvato all'unanimità il nuovo piano per lo sviluppo della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa 2014-2016, impegnandosi per uno sviluppo sociale sostenibile in tre ambiti: il rafforzamento dell'integrazione sociale, la gestione dell'ambiente, il sostegno delle infrastrutture a vocazione sociale ed il sostegno alle micro, piccole e medie imprese;
    la crisi economica ha causato un forte deterioramento della situazione sociale in diversi Stati membri della Banca ed un allargamento dell'area interessata dalla crisi. L'indebolimento della solidità finanziaria dei debitori della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa ha iniziato ad essere particolarmente forte dall'anno 2009/2010;
    la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa ha concesso prestiti per il finanziamento di progetti per la creazione di posti di lavoro, attraverso il sostegno concesso alle micro, piccole e medie imprese nella maggior parte dei Paesi dell'Europa orientale. Tra il 2010 e il 2012, il finanziamento della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa a favore della creazione e del mantenimento dei lavori ammontava a 1,8 miliardi di euro, pari al 29 per cento del volume totale dei prestiti commerciali, seconda solo alla Banca europea per gli investimenti quanto a impegno;
    alla fine del 2012, la quota di prestiti a favore dei Paesi del gruppo dei cosiddetti target countries (Albania, Bosnia, Bulgaria, Cipro, Croazia, Estonia, Georgia, Ungheria, Kosovo, Macedonia, Lettonia, Lituania, Malta, Montenegro, Moldavia, Polonia, Repubblica slovacca, Repubblica ceca, Romania, Serbia, Slovenia e Turchia) ammontava al 61 per cento del totale dell'importo di prestiti. Lo stock in favore di questi Paesi è aumentato del 25 per cento, passando da 5,87 miliardi di euro a fine 2009 a 7,35 miliardi di euro alla fine del 2012;
    il capitale sottoscritto al 31 dicembre 2012 della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa ammontava a 5.466 milioni di euro suddivisi tra 40 Stati membri e con il 16,7 per cento il nostro Paese, insieme a Francia e Germania, detiene la quota di partecipazione più alta;
    per allargare e sostenere la sua azione, la Banca ha rafforzato negli ultimi anni la cooperazione con tutte le maggiori istituzioni europee. Nel quadro di questa cooperazione vanno iscritti gli accordi con la Banca europea per gli investimenti e la Banca europea di ricostruzione e sviluppo e con la Commissione europea. Oggi la Banca gioca un ruolo attivo nel quadro del Western Balkans investment framework, meccanismo europeo destinato al finanziamento di progetti nei Paesi dei Balcani. Inoltre, la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa intrattiene una cooperazione con la Banca mondiale, con la quale ha in essere un accordo di cooperazione;
    il nostro Paese ha partecipato all'aumento di capitale nel 2012 con un impegno importante (325 milioni di euro circa), anche se si tratta più di una garanzia che di un esborso, poiché la Banca si autofinanzia a condizioni favorevoli sul mercato dei capitali, gode del rating di tripla «A» e il suo bilancio si mantiene in equilibrio perché concede prestiti, non dà contributi a fondo perduto;
    a fronte di questo aumento deliberato dal Parlamento, si lamenta la scarsa destinazione di tali fondi per progetti italiani (nel 2011, su 2,11 miliardi di euro di progetti approvati, non c’è nemmeno un progetto approvato in Italia e su 1,85 miliardi di euro di prestiti approvati solo 16 milioni (pari allo 0,9 per cento) riguardano l'Italia, mentre numerosi sono stati i progetti finanziati in altri Paesi che hanno riguardato scuole, case di riposo per anziani e carceri,

impegna il Governo:

   ad attivarsi al fine di favorire la realizzazione di progetti ed interventi nell'ambito delle competenze e degli obiettivi della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa (CEB);
   ad adottare misure volte a promuovere presso le nostre istituzioni, nazionali e locali, la conoscenza degli strumenti finanziari, delle iniziative e delle opportunità che la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa offre per realizzare interventi in settori che riguardano le calamità naturali, l'edilizia sociale, nonché la tutela, la valorizzazione e il potenziamento delle piccole e medie imprese;
   ad attivarsi, per quanto di competenza, affinché la Banca adotti criteri basati su aree tematiche e non solo territoriali, allargando il perimetro della sua azione a fronte delle difficili sfide dell'attuale contesto economico e finanziario internazionale;
   a conservare l'attuale misura di partecipazione e di diritto di voto all'interno dell'istituto, considerato il rilievo sociale e politico degli obiettivi perseguiti dalla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa.
(1-00345)
«Schirò, Buttiglione, Santerini, Marazziti, Fitzgerald Nissoli, De Mita, Rossi, Caruso, Sberna, Gigli, Binetti».
(17 febbraio 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la Banca di Sviluppo del Consiglio d'Europa (CEB), creata nel 1956, è la più antica tra le istituzioni finanziarie internazionali europee, l'unica a vocazione esclusivamente sociale e nasce per fornire aiuti volti a risolvere la problematica dei rifugiati; il suo campo d'azione si è progressivamente esteso ad altri settori, per contribuire in maniera sempre più incisiva al rafforzamento della coesione sociale in Europa;
    la Banca di Sviluppo del Consiglio d'Europa è lo strumento finanziario della politica di solidarietà del Consiglio d'Europa;
    la Banca di Sviluppo del Consiglio d'Europa, quale banca multilaterale di sviluppo, attraverso prestiti partecipa al finanziamento di progetti sociali, risponde a condizioni di emergenza, concorre al miglioramento delle condizioni di vita e alla coesione sociale nelle regioni meno avvantaggiate del continente europeo;
    la Banca di Sviluppo del Consiglio d'Europa accorda i suoi prestiti in Europa, ai Paesi membri; basa la propria attività su fondi e riserve propri e non riceve dagli Stati membri alcun aiuto o sovvenzione; la Banca di Sviluppo del Consiglio d'Europa non finanzia direttamente gli individui;
    i campi d'intervento, stabiliti dal consiglio d'amministrazione, riguardano ambiti sociali ben precisi: rafforzamento dell'integrazione sociale, gestione ambientale, sostegno alle infrastrutture pubbliche a vocazione sociale, sviluppo del capitale umano;
    la Banca di Sviluppo del Consiglio d'Europa è composta da 41 Stati membri appartenenti al Consiglio d'Europa, tra i quali l'Italia è socio fondatore, con la maggiore percentuale di partecipazione al capitale sociale 16,735 per cento, insieme alla Francia e alla Germania;
    nonostante ciò, l'Italia risulta essere tra gli ultimi beneficiari, in termini di finanziamento di progetti, tra tutti gli Stati che hanno avuto accesso ai crediti della Banca di Sviluppo del Consiglio d'Europa;
    sebbene le politiche di coesione sociale siano un asse portante della strategia Europea ed un'esigenza fondamentale per il nostro Paese, l'Italia non ha avuto nessun progetto finanziato nell'ultimo triennio;
    un corretto utilizzo della Banca di Sviluppo del Consiglio d'Europa, quale strumento finanziario specificamente votato alle politiche sociali, potrebbe contribuire a risolvere emergenze contingenti di particolare allarme sociale e fortemente sentite, sia dalla cittadinanza che dalle istituzioni più sensibili italiane ed europee;
    essa potrebbe essere una valida leva finanziaria per sviluppare un piano di investimenti per le piccole e medie imprese che comporti la creazione di posti di lavoro per la riduzione della disoccupazione giovanile e per risolvere le emergenze costituite dalla fatiscenza degli edifici scolastici, degli edifici carcerari, degli edifici che ospitano i rifugiati e i senzatetto;
    vista la specifica finalizzazione ambientale degli interventi, i finanziamenti erogati dalla Banca di Sviluppo del Consiglio d'Europa possono contribuire alla reale concretizzazione del piano di bonifiche ambientali, che riporti la speranza a quelle popolazioni doppiamente colpite dagli effetti dell'inquinamento selvaggio: colpite nella salute e nella sicurezza agroalimentare dei prodotti territoriali,

impegna il Governo

ad attivarsi al fine di promuovere e fornire adeguata assistenza presso tutti i soggetti potenzialmente destinatari dei finanziamenti erogati dalla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, per una migliore conoscenza della stessa quale istituto finanziario vocato al finanziamento di progetti di coesione sociale, al fine di permettere l'utilizzo anche di questo ulteriore importante strumento per la riduzione della disoccupazione giovanile, il miglioramento delle condizioni residenziali scolastiche, carcerarie e di rifugiati e senzatetto e la bonifica delle porzioni di Paese criminalmente inquinate.
(1-00353)
«Pannarale, Migliore, Ricciatti, Di Salvo, Scotto, Marcon, Fava, Boccadutri, Aiello, Lacquaniti, Melilla, Ferrara, Matarrelli, Catalano».
(4 marzo 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa (CEB) è una banca multilaterale a vocazione sociale. Con i suoi 40 Stati membri, rappresenta il più importante strumento di sostegno alle politiche sociali del continente europeo;
    sin dall'inizio delle sue attività, nel 1956, la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa ha sostenuto il finanziamento di progetti a carattere sociale ed interventi in situazioni di emergenza, contribuendo in tal modo al miglioramento delle condizioni di vita nelle regioni svantaggiate d'Europa;
    progressivamente gli ambiti d'azione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa sono stati estesi al rafforzamento dell'integrazione sociale, alla gestione ambientale e al sostegno alle infrastrutture pubbliche a vocazione sociale;
    la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa è legalmente e finanziariamente indipendente, basata su un accordo parziale tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa che ne hanno sottoscritto le quote e via via i progressivi aumenti di capitale; tuttavia, agisce in fattiva collaborazione con altre istituzioni finanziarie internazionali e regionali e con la Commissione europea;
    con la legge 6 luglio 2012, n. 117, l'Italia ha aderito all'ultimo aumento di capitale della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa in ordine di tempo, per un importo complessivo di 366.078.000 euro, comprendenti l'incorporazione di riserve nel capitale liberato per 40.964.000 euro e la sottoscrizione di nuovi titoli per 325.114.000 euro, con conseguente incremento della quota di capitale detenuta fino all'ammontare di 915.770.000 euro;
    oggi il nostro Paese è, insieme a Francia e Germania, uno dei maggiori azionisti, con il 16,77 per cento del capitale sottoscritto; per contro, l'ultimo progetto di sviluppo della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa in Italia risale al biennio 2007-2009;
    negli ultimi anni l'azione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa si è orientata prevalentemente verso i Paesi dell'Europa dell'est, impegnati nel percorso di adesione all'Unione europea; dal 2007 in avanti, però, le condizioni economico-sociali di molti altri Paesi europei, in particolare quelli dell'area dell'euro, sono cambiate radicalmente a causa della crisi economico-finanziaria, che nei Paesi più indebitati, a seguito dell'intervento formale od informale della Commissione europea e della Banca centrale europea, ha posto e pone seriamente a rischio la possibilità di garantire i diritti sociali e di mantenere un livello accettabile di welfare;
    è, oggi, anacronistico ed insostenibile che il nostro Paese continui ad essere un contribuire netto dell'Unione europea, a versare quote imponenti di capitale ai fondi cosiddetti salva Stati e alle altre istituzioni finanziarie, mentre, all'interno, si attuano politiche devastanti dal punto di vista delle spese per il welfare;
    la questione della coesione sociale e del suo rafforzamento all'interno dell'Unione europea è uno dei temi centrali della strategia Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva,

impegna il Governo:

   ad adoperarsi, in quanto diretto interlocutore della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, per sostenere presso la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa progetti destinati alla realizzazione delle finalità della Banca e dall'impiego delle relative risorse nel nostro Paese;
   a farsi promotore di una campagna informativa nazionale orientata ai soggetti potenzialmente destinatari dei finanziamenti, relativa agli strumenti e alle opportunità derivanti dall'azione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa;
   a farsi promotore presso la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, nonché presso le istituzioni comunitarie e gli organismi finanziari comunitari, anche attraverso revisione dei meccanismi e delle finalità d'intervento, dell'urgenza di finanziare direttamente nel nostro Paese interventi straordinari per la ricostruzione a seguito di catastrofi naturali, per il contenimento del rischio idrogeologico e per la messa in sicurezza del territorio, nonché per l'edilizia scolastica e per l'edilizia carceraria.
(1-00359)
«Gianluca Pini, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Prataviera, Rondini».
(6 marzo 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa (CEB) è una banca multilaterale a mission sociale istituita nel 1956 inizialmente per venire incontro ai pressanti problemi dei rifugiati;
    le materie di interesse e di azione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa si sono progressivamente spostate negli anni in campo sociale in senso lato, nonché ambientale, contribuendo in modo significativo al rafforzamento della coesione sociale in Europa e delle politiche di solidarietà in Europa;
    la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, comunque, non promuove progetti ma li finanzia sulla base delle domande pervenute;
    nel decennio 2002-2011 sono stati approvati progetti per oltre 21 miliardi di euro; tra i principali Paesi destinatari si annoveravano Ungheria, Polonia e Romania, laddove in questi anni recenti alcuni Paesi dell'ex Europa occidentale si trovano a far fronte a situazioni di crisi altrettanto gravi in confronto con quelle di altri Paesi dell'Europa orientale;
    nel 2012, tra i progetti approvati dal consiglio di amministrazione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa nessuno riguardava l'Italia;
    negli ultimi anni l'attenzione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa verso l'Italia appare essere stata scarsa se non nulla nella sua capacità di erogare fondi;
    l'Italia, unitamente a Francia e Germania, è uno degli azionisti pesanti della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa ed esprime costantemente alcune figure apicali della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa; il nostro Paese partecipa ai lavori del board della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa con rappresentanti del Ministero degli affari esteri e del Ministero dell'economia e delle finanze,

impegna il Governo:

   a promuovere iniziative per diffondere nel nostro Paese informazioni e conoscenze sul campo di attività della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa e sulla sua importanza in materia di coesione sociale e di sviluppo sostenibile, per fare in modo che ci sia un interesse diffuso verso la presentazione alla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa di progetti italiani, garantendo piena trasparenza delle procedure e informazioni correlate alla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa sul sito del Ministero degli affari esteri;
   a favorire il più possibile la coerenza delle risorse e dei finanziamenti dell'Unione europea con i finanziamenti provenienti dalla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, in ossequio ai principi dei programmi e dei piani di azione comunitaria in materia di ambiente e di coesione sociale;
   a favorire, tramite i rappresentanti istituzionali italiani nella Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, una maggiore attenzione della stessa verso il nostro Paese;
   nell'ambito dei finanziamenti destinabili all'Italia, a favorire i progetti che siano inerenti alla messa in sicurezza dai rischi idrogeologici, all'integrazione sociale e al contrasto della xenofobia, nonché al rafforzamento della mobilità sostenibile a tutela anche delle fasce deboli della popolazione.
(1-00361)
«Colonnese, Barbanti, Vignaroli, Cancelleri, Nesci, Carinelli, Ruocco, Villarosa, Pesco, Manlio Di Stefano, Spadoni, Fico, Alberti, Pisano».
(6 marzo 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa (CEB) è lo strumento finanziario della politica di solidarietà del Consiglio d'Europa;
    la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa ha come finalità di aiutare i suoi 41 Stati membri a conseguire una crescita sostenibile ed equa, contribuendo alla realizzazione di progetti di investimento sociale, rispondendo a situazioni di emergenza e, in questo modo, migliorando le condizioni di vita nelle regioni meno avvantaggiate dell'Europa;
    finanzia progetti di investimento in campo sociale secondo quattro linee di intervento:
     a) il rafforzamento dell'integrazione sociale;
     b) la gestione dell'ambiente;
     c) il sostegno alle infrastrutture pubbliche a vocazione sociale;
     d) il supporto alle micro, piccole e medie imprese;
    la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa è legalmente e finanziariamente indipendente, basata su un accordo parziale tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa che ne hanno sottoscritto le quote e, via via, i progressivi aumenti di capitale. Tuttavia, agisce in collaborazione con altre istituzioni finanziarie internazionali e regionali e con la Commissione europea;
    la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa si autofinanzia a condizioni favorevoli sul mercato dei capitali, gode del rating di tripla «A» e il suo bilancio si mantiene in equilibrio perché concede prestiti e non dà contributi a fondo perduto;
    oggi il nostro Paese è, insieme a Francia e Germania, uno dei maggiori azionisti, con il 16,77 per cento del capitale sottoscritto;
    con la legge 6 luglio 2012, n. 117, l'Italia ha aderito all'ultimo aumento di capitale della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa in ordine di tempo, per un importo complessivo di 366.078.000 euro, comprendenti l'incorporazione di riserve nel capitale liberato per 40.964.000 euro e la sottoscrizione di nuovi titoli per 325.114.000 euro, con conseguente incremento della quota di capitale detenuta fino all'ammontare di 915.770.000 euro;
    a fronte dell'elevata quota di capitale sottoscritta, si registra una scarsissima destinazione dei fondi della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa per progetti italiani. Negli ultimi 3 anni, addirittura, non ci sono stati progetti approvati in Italia, mentre sono stati approvati numerosi progetti finanziati in altri Paesi per scuole, carceri e case di riposo. Si tratta di un dato paradossale avendo, dal 2007 in poi però, la crisi economico-finanziaria peggiorato le condizioni economico-sociali dell'Italia oltre che di altri Paesi europei;
    la Commissione europea, il 20 febbraio 2013, nella comunicazione «Investire nel settore sociale a favore della crescita e della coesione, in particolare attuando il Fondo sociale europeo nel periodo 2014-2020» (COM (2013) 83) pone tra gli obiettivi fondamentali da perseguire il pieno ed efficace utilizzo dei fondi dell'Unione europea e il loro coordinamento con i finanziamenti dalla Banca mondiale, dalla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa e della Banca europea per gli investimenti;
    considerato il perdurare della crisi, è insostenibile che il nostro Paese, oltre ad essere il terzo contributore netto del bilancio dell'Unione europea, continui a versare quote significative di capitale a fondi e strumenti di solidarietà istituiti nell'ambito dell'Unione europea o di altre organizzazioni e istituzioni finanziarie internazionali, che appesantiscono il debito pubblico già molto elevato e sono computati ai fini dei parametri di finanza pubblica fissati dal Patto di stabilità e crescita,

impegna il Governo:

   a conservare l'attuale misura di partecipazione e di diritto di voto all'interno dell'istituto, considerato il rilievo sociale e politico degli obiettivi perseguiti dalla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa;
   ad adottare misure per promuovere presso le istituzioni italiane, nazionali e locali, la conoscenza delle opportunità che la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa offre;
   ad adoperarsi affinché sia data attuazione a quanto raccomandato dalla Commissione europea, favorendo il coordinamento delle risorse dell'Unione europea con gli stanziamenti della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa e di altri strumenti finanziari internazionali;
   ad avviare approfondimenti con la Banca di sviluppo del Consiglio di Europa, al fine di verificare la possibilità di interventi straordinari in Italia rivolti, in particolare, all'edilizia scolastica e carceraria, alla salvaguardia del patrimonio storico e culturale, alla prevenzione di catastrofi naturali e alla protezione del territorio, allo sviluppo delle micro, piccole e medie imprese e ai contratti di riallocazione dei licenziati;
   ad adoperarsi affinché i contributi alla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, nonché a fondi e meccanismi di assistenza finanziaria costituiti nell'ambito dell'Unione europea o di altre organizzazioni sovranazionali e internazionali versati da Stati membri dell'Unione europea, in particolare ove essi si trovino in situazione di recessione o abbiano un elevato indebitamento, non siano computati ai fini del calcolo delle soglie previste per il deficit e il debito pubblico dal Patto di stabilità e crescita.
(1-00366)
«Galgano, Quintarelli, Vitelli, Tinagli, Capua, Rabino, Vecchio, Catania, Matarrese, Antimo Cesaro, Vargiu, Mazziotti Di Celso».
(10 marzo 2014)

MOZIONI CONCERNENTI LO SCOSTAMENTO DAI PARAMETRI EUROPEI IN MATERIA DI DEFICIT PUBBLICO

  La Camera,
   premesso che:
    gli articoli 99 e 104 del Trattato di Roma istitutivo della Comunità economica europea (così come modificato con il Trattato di Maastricht e dal Trattato di Lisbona) trovano attuazione attraverso il rafforzamento delle politiche di vigilanza sui deficit ed i debiti pubblici, nonché un particolare tipo di procedura di infrazione;
    la procedura per deficit eccessivo (pde), che ne costituisce il principale strumento, è stata implementata dal Patto di stabilità e crescita (psc). Stipulato nel 1997, il Patto di stabilità e crescita ha rafforzato le disposizioni sulla disciplina fiscale nell'unione economica e monetaria, di cui agli articoli 99 e 104, ed è entrato in vigore con l'adozione dell'euro, il 1o gennaio 1999;
    in base al Patto di stabilità e crescita, gli Stati membri devono continuare a rispettare nel tempo i parametri di deficit pubblico (3 per cento) e di debito pubblico (60 per cento del prodotto interno lordo);
    l'articolo 104 del Trattato di Roma prevede 3 fasi, nel caso in cui un Paese non rispetti i parametri:
     a) se il deficit di un Paese membro si avvicina al tetto del 3 per cento del prodotto interno lordo, la Commissione europea propone, ed il Consiglio dei ministri europei in sede di Ecofin approva, un «avvertimento preventivo» (early warning), al quale segue una raccomandazione vera e propria in caso di superamento del tetto;
     b) se a seguito della raccomandazione lo Stato interessato non adotta sufficienti misure correttive della propria politica di bilancio, esso viene sottoposto ad una sanzione che assume la forma di un deposito infruttifero, da convertire in ammenda dopo due anni di persistenza del deficit eccessivo. L'ammontare della sanzione presenta una componente fissa pari allo 0,2 per cento del prodotto interno lordo ed una variabile pari ad 1/10 dello scostamento del disavanzo pubblico dalla soglia del 3 per cento. È comunque previsto un tetto massimo all'entità complessiva della sanzione, pari allo 0,5 per cento del prodotto interno lordo;
     c) se invece lo Stato adotta tempestivamente misure correttive, la procedura viene sospesa fino a quando il deficit non viene portato sotto il limite del 3 per cento. Se le stesse misure si rivelano, però, inadeguate, la procedura viene ripresa e la sanzione irrogata;
    la legge n. 243 del 2012, «Disposizioni per l'attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell'articolo 81, sesto comma, della Costituzione», all'articolo 6, comma 2, «Eventi eccezionali e scostamenti dall'obiettivo programmatico strutturale», prevede che: «Ai fini della presente legge, per eventi eccezionali, da individuare in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, si intendono:
     a) periodi di grave recessione economica relativi anche all'area dell'euro o all'intera Unione europea;
     b) eventi straordinari, al di fuori del controllo dello Stato, ivi incluse le gravi crisi finanziarie nonché le gravi calamità naturali, con rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria generale del Paese»;
    il comma 3, invece, prevede che: «Il Governo, qualora, al fine di fronteggiare gli eventi di cui al comma 2, ritenga indispensabile discostarsi temporaneamente dall'obiettivo programmatico, sentita la Commissione europea, presenta alle Camere, per le conseguenti deliberazioni parlamentari, una relazione con cui aggiorna gli obiettivi programmatici di finanza pubblica, nonché una specifica richiesta di autorizzazione che indichi la misura e la durata dello scostamento, stabilisca le finalità alle quali destinare le risorse disponibili in conseguenza dello stesso e definisca il piano di rientro verso l'obiettivo programmatico, commisurandone la durata alla gravità degli eventi di cui al comma 2»;
    da più parti si è sottolineata l'eccessiva rigidità del Patto, perché questa, se non applicata considerando l'intero ciclo economico, genera rischi involutivi derivanti dalla contrazione della politica degli investimenti;
    in passato anche l'allora Presidente della Commissione europea, Romano Prodi, definì il Patto «inattuabile» per la sua rigidità;
    molti critici affermano, poi, che il Patto di stabilità e crescita non promuoverebbe né la crescita, né la stabilità, dal momento che finora esso è stato applicato in modo incoerente, come dimostrato, ad esempio, dal fatto che il Consiglio non è riuscito ad applicare le sanzioni, malgrado ne sussistessero i presupposti;
    l'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha in diversi studi fatto presente come il prodotto interno lordo non sia un indicatore esaustivo per parametrare il benessere di un Paese e dei suoi cittadini (vedi rapporto Ocse How's Life 2013), ma che bisogna tener conto anche di altri indicatori, come la qualità e il costo delle abitazioni, salari, sicurezza dell'impiego e disoccupazione, l'educazione, la coesione sociale, la qualità dell'ambiente, la salute, la sicurezza e altri;
    recenti studi condotti da ricercatori universitari (vedi: Italy from economic decline to current crisis, Università Roma 3, Tridico 2013) suggeriscono come negli ultimi anni le misure di austerità adottate in Italia, e non solo, non hanno prodotto gli effetti positivi sperati, anzi hanno acuito gli effetti negativi;
    le misure di austerità introdotte dal Governo Monti e prima dal Governo Berlusconi avevano come scopo di diminuire la spesa pubblica e miravano a equilibrare il bilancio, con l'ovvia conseguenza di ridurre ulteriormente la spesa nazionale senza risultati notevoli in termini di crescita, recupero, nonché in termini di riduzione del rapporto debito/prodotto interno lordo;
    tali politiche di austerità hanno prodotto come risultato una riduzione della domanda aggregata e, direttamente e indirettamente, hanno indebolito il potere d'acquisto dei lavoratori (ad esempio, riducendo la spesa per servizi pubblici, sanità e istruzione);
    le cattive performance dell'Italia, stando ai dati, sono da ricercarsi nelle cattive politiche legislative e, in particolare, relative alla non tutela dei posti di lavoro;
    la Corte di giustizia europea, inoltre, nel 2004 stabilisce con una sentenza che la procedura di deficit eccessivo richiamata dal Patto non è obbligatoria; appare ormai evidente quanto sia difficile far valere i vincoli del Patto di stabilità e crescita nei confronti dei «grandi» dell'Unione europea, che, tra l'altro, ne furono gli stessi promotori. Invero, taluni Paesi registrano da anni deficit «eccessivi» secondo la definizione del Patto, ma ciò nonostante, malgrado gli avvertimenti e le raccomandazioni ricevute, non si sono poi visti applicare alcuna sanzione;
    nel marzo 2005, quindi, in risposta alle crescenti perplessità, l'Ecofin decise di ammorbidirne le norme per renderlo più flessibile. Decisione richiamata e ribadita dall'asse franco-tedesco nel 2008, per far fronte alla gravissima crisi finanziaria che ha investito i mercati e le economie di tutto il mondo in seguito alla cosiddetta crisi dei mutui americana del 2006;
    ulteriori istanze di riforma, nel senso di sospendere il diritto di voto dei Paesi che non rispettino i propri obblighi di bilancio, sono state manifestate, in particolare, dalla Germania, in occasione degli aiuti stanziati dai Paesi dell'eurozona per la grave crisi finanziaria della Grecia nel maggio 2010,

impegna il Governo

a discostarsi temporaneamente dall'obiettivo programmatico di cui alle premesse, particolarmente per le questioni urgenti riguardanti la disoccupazione, la qualità e il costo delle abitazioni, i salari, la sicurezza dell'impiego, l'educazione, la coesione sociale, la qualità dell'ambiente, la salute e la sicurezza.
(1-00348)
«Castelli, Sorial, Caso, D'Incà, Nesci, Sibilia».
(24 febbraio 2014)

  La Camera,
   premesso che:
    la politica economica europea in generale, e fiscale in particolare, non è stata capace di risolvere gli enormi problemi sociali sopraggiunti dopo la crisi del 2007. Una crisi che per profondità e lunghezza è più lunga della grande crisi del 1929;
    le politiche e le misure adottate dall'Unione europea per contrastare la crisi intervenuta nel 2007 hanno disegnato un quadro abbastanza stringente di obiettivi finanziari, in particolare la solidità dei bilanci pubblici, a discapito di misure (economiche e finanziarie) che potessero realmente implementare la strategia «Europa 2020». Mentre i vincoli di finanza pubblica, indebitamento e debito pubblico, sono stringenti, gli impegni per la crescita e lo sviluppo sono per lo più delle (buone) raccomandazioni e non prevedono sanzioni in caso di mancante raggiungimento. Il quadro che emerge è una serie di strumenti potenzialmente coerenti per coordinare le politiche fiscali europee tese a costruire un'agenda economica rafforzata, la stabilità dell'euro e la «regolamentazione» del settore finanziario, ma gerarchicamente slegata dalle policy per la crescita. Non a caso i vincoli-squilibri macroeconomici e di competitività sono emersi con tutta la loro violenza. Se anche la Germania ha ricevuto un richiamo dalla Commissione europea per il suo eccessivo surplus commerciale, c’è veramente qualcosa che non funziona nella politica economica europea;
    il Patto di stabilità è stato, peraltro, definito «Patto di stabilità e crescita», dunque non solo di stabilità; va sottolineato come, da solo, il crollo del prodotto interno lordo nel 2009 di 5,5 punti è responsabile matematicamente dell'aumento del rapporto debito/prodotto interno lordo di 7 punti e del rapporto della spesa pensionistica sul prodotto interno lordo di un punto;
    il vincolo del 3 per cento sul disavanzo deriva dal Patto di stabilità e crescita (Psc), che introduceva regole di disciplina fiscale poi rafforzatesi nel tempo attraverso i cosiddetti «Six-pack», «Fiscal Compact» e «Two-pack»: fino a creare un sistema assai complesso di procedure, vincoli e sanzioni. Il mancato rispetto del limite fa scattare la «procedura per disavanzo eccessivo» (Pde);
    peraltro, il cosiddetto «Fiscal compact» rappresenta solo un accordo fra Paesi e di rango inferiore nella gerarchia delle fonti rispetto al «Six-pack» e al «Two-pack», che sono parte dei Trattati che regolano l'Unione europea; il «Fiscal Compact», anche se di fatto applicato da quasi tutti i Paesi (ma no nel Regno Unito e nella Repubblica ceca) potrebbe dunque più facilmente essere abbandonato;
    in realtà, non esiste una valida teoria economica che giustifichi il rigido vincolo del 3 per cento, soglia massima nel rapporto deficit/prodotto interno lordo;
    la storia di quella percentuale «scolpita nella pietra» è complicata, opaca e misteriosa. Risale al 1991, quando viene firmato nella città olandese di Maastricht l'omonimo Trattato, fondamento per l'Unione monetaria da realizzarsi nel 1999. Economisti e giuristi che lavorano a quei testi, sotto l'autorevole influenza di Tommaso Padoa Schioppa, esplorano le condizioni per «un'area monetaria ottimale». In cerca di criteri di stabilità, finiscono per accordarsi sui seguenti parametri per l'accesso all'euro:
     a) inflazione non più alta di 1,5 punti rispetto ai tre Paesi con il tasso d'inflazione più basso;
     b) deficit statale non superiore al 3 per cento del Pil;
     c) debito pubblico non superiore al 60 per cento del prodotto interno lordo;
     d) stabilità del tasso di cambio nei due anni precedenti l'ingresso nell'unione monetaria;
     e) tassi d'interesse di lungo termine non superiori di oltre due punti rispetto ai tre Paesi dai tassi più bassi;
    ci si trova in pieno «regno del simbolismo», a proposito della soglia deficit/prodotto interno lordo, la cui validità non è mai stata dimostrata. Nessuno, infatti, è mai riuscito a dare una spiegazione plausibile sul perché quelle cifre furono scelte;
    di tutti questi criteri, alcuni non sono mai stati veramente applicati, come quello sul debito; altri hanno perso rilevanza con la creazione dell'euro: i tassi d'interesse e la parità di cambio li decide la Banca centrale europea a Francoforte, non sono più oggetto di politiche nazionali. È rimasto in piedi il tetto del 3 per cento per il fabbisogno del consolidato delle pubbliche amministrazioni; il rapporto deficit/prodotto interno lordo è il criterio che può far scattare (se non rispettato) una procedura d'infrazione, trasformare il Paese in vigilato speciale e così lanciare segnali d'allarme ai mercati, fino a quando, con severe politiche di austerità, il Paese sotto procedura per disavanzo eccessivo non rientra nei parametri;
    queste misure e le politiche di austerità stanno distruggendo l'economia europea sottraendole domanda interna, stabilità dei conti, occupazione e speranza. L'austerità, lungi dall'assicurare il risanamento dei conti pubblici, rischia, al contrario, di peggiorarli poiché i moltiplicatori fiscali fanno sì che tagliare un miliardo di euro riduce il reddito nazionale fino a 1,7 miliardi di euro, facendo così aumentare il rapporto debito/prodotto interno lordo. La stabilità dei conti pubblici, in questa crisi che tanto assomiglia a quella degli anni Trenta, si nutre di crescita e l'austerità uccide sia la crescita che la stabilità;
    gli obiettivi della strategia «Europa 2020» prevedono l'impegno per i Paesi europei dell'innalzamento al 75 per cento del tasso di occupazione e della riduzione di almeno 20 milioni del numero dei poveri. Viceversa, le politiche degli ultimi anni e la crisi si sono accompagnate ad una riduzione dell'occupazione e all'aumento del numero dei poveri che allontanano i Paesi europei, e l'Italia in particolare, dagli obiettivi comuni concordati, rendendo indispensabile una ridefinizione, sia pur temporanea, degli obiettivi sui saldi di bilancio, obiettivamente in conflitto con altri obiettivi sui quali il Paese si è formalmente impegnato a livello europeo, ad esempio con il «Fiscal Compact»;
    le conseguenze di questa politica sono sotto gli occhi di tutti: oggi, quasi 27 milioni di persone sono disoccupate nell'Unione europea, di cui più di 19 milioni nell'eurozona. La disoccupazione nell'eurozona è salita dal 7,8 per cento del 2008 al 12,1 per cento del novembre 2013. In Grecia, dal 7,7 per cento al 24,4 per cento e in Spagna dall'11,3 per cento al 26,7 per cento nello stesso periodo. In Europa, i disoccupati con meno di 25 anni sono 4,5 milioni;
    questi milioni di disoccupati nell'Unione europea, al 2013, comportano una riduzione del prodotto interno lordo potenziale dell'intera Unione europea dell'ordine del 5 per cento l'anno, corrispondente a circa 800 miliardi di euro; per l'Italia, si tratta di 80 miliardi di euro di ricchezza reale che non viene creata. Inoltre, la disoccupazione di lunga durata genera ulteriori costi derivanti dalla perdita di produttività del lavoro e comporta costi sociali quali povertà, perdita della casa, criminalità, denutrizione, abbandoni scolastici, antagonismo etnico, crisi familiari e tensioni sociali potenzialmente esplosive;
    in Italia, dopo il calo del 2,4 per cento nel 2012, anche nel 2013 il prodotto interno lordo è diminuito dell'1,9 per cento; nel frattempo, il debito pubblico ha registrato un nuovo record arrivando al 132,6 per cento del prodotto interno lordo;
    la disoccupazione è salita al 12,9 per cento ed i consumi sono crollati del 2,6 per cento malgrado la drastica riduzione (-4 per cento) già registrata nel 2012, raggiungendo così il loro minimo storico dal 1990;
    nel nostro Paese, tra il 2006 e il 2012, il numero dei poveri (la linea di povertà è definita come il 60 per cento del reddito mediano equivalente familiare) è aumentato di ben 3,9 milioni di persone, portando il numero complessivo dei poveri a circa 13,5 milioni (fissando la soglia di povertà nel 2006, aggiornandola, per gli anni successivi, solo in base al tasso di inflazione);
    il cosiddetto «Fiscal Compact» costringerà il Governo italiano, a partire dal 2016, a procedere al taglio del debito pubblico per 50 miliardi di euro all'anno per i prossimi 20 anni: un vero massacro sociale;
    viceversa, il Presidente degli Stati Uniti Obama ha varato, nel primo biennio, una maximanovra di investimenti pubblici. Nel primo biennio della presidenza Obama, il rapporto deficit/prodotto interno lordo arrivò a sfiorare il 12 per cento. La cura ha funzionato. Sia nel bilancio federale, sia in quelli della finanza locale, i conti pubblici americani oggi migliorano in modo spettacolare grazie alla ripresa (+3 per cento del prodotto interno lordo, più 8 milioni di posti di lavoro);
    come documentato da diversi economisti e dallo stesso Fondo monetario internazionale, le politiche di austerità decrementano il prodotto interno lordo, provocando una crescita del rapporto con il debito pubblico. Infatti, come rilevato dal Fondo monetario internazionale, per la gran parte dei Paesi i moltiplicatori fiscali hanno prodotto una caduta del prodotto interno lordo superiore alla riduzione del debito;
    i Paesi dell'eurozona, non essendo in grado di allineare il cambio con i propri fondamentali, sono giocoforza costretti per recuperare competitività ad agire attraverso la leva salariale. Questo scenario sta comportando una deflazione salariale (dovuta alle politiche cosiddette di «svalutazione interna») che, conseguentemente, ha ripercussioni sui consumi e sui prezzi dei beni (i dati Ocse prevedono un peggioramento delle dinamiche salariali nel corso del 2014 rispetto al 2013 per Italia e Spagna, rispettivamente del meno 0,4 per cento e del meno 1,2 per cento annuo);
    occorre esser consapevoli che, proseguendo con le politiche di «austerità» e affidando il riequilibrio alle sole «riforme strutturali», il destino dell'euro sarà segnato e l'esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo;
    di fronte ad una domanda scarsa e ad una spesa privata non sufficiente a sfruttare la capacità produttiva disponibile, il mercato è diventato un ostacolo al benessere di gran parte della popolazione. Anche molti di coloro che fino a ieri si sarebbero definiti seguaci del liberismo, davanti al dilemma tra aiutare un sistema capitalistico inefficiente o gettarlo nel disordine generale, sollecitano ora un intervento straordinario dello Stato nel sistema economico per salvare dal fallimento banche e imprese;
    nel Consiglio europeo del 24 e 25 ottobre 2013, la Commissione europea ha presentato una comunicazione «Potenziare la dimensione sociale dell'Unione economica e monetaria», fatta propria nelle conclusioni del Consiglio, come si può leggere nei seguenti punti:
     «37. Il Consiglio europeo accoglie con favore la comunicazione della Commissione europea sulla dimensione sociale dell'unione economica e monetaria, che giudica un'iniziativa positiva, ribadisce l'importanza degli sviluppi occupazionali e sociali nel contesto del semestre europeo. Occorre perseguire l'uso di un quadro di valutazione delle tematiche occupazionali e sociali nella relazione comune sull'occupazione e di indicatori occupazionali e sociali, in linea con quanto proposto dalla Commissione e sulla scorta degli opportuni lavori dei comitati competenti, in vista della decisione da parte del Consiglio in dicembre, confermata dal Consiglio europeo con l'obiettivo di usare questi nuovi strumenti già nel semestre europeo 2014. Tale più vasta gamma di indicatori ha lo scopo di permettere una maggiore comprensione degli sviluppi sociali.
     38. Il coordinamento delle politiche economiche, occupazionali e sociali sarà ulteriormente potenziato secondo le procedure esistenti, pur nel pieno rispetto delle competenze nazionali. Ciò richiede maggiore impegno per rafforzare la cooperazione tra le diverse formazioni del Consiglio, al fine di assicurare la coerenza di tali politiche in linea con i comuni obiettivi.
     39. Il coordinamento rafforzato delle politiche economiche e le ulteriori misure per potenziare la dimensione sociale nella zona euro sono facoltative per gli Stati che non aderiscono alla moneta unica e saranno pienamente compatibili con tutti gli aspetti del mercato unico»;
    ma, nei mesi scorsi, si è assistito a continue prese di posizione della Commissione europea in cui si minacciava l'applicazione all'Italia della procedura per deficit eccessivo, dalla quale l'Italia era appena uscita, anche per lo sforamento di un solo decimale. La Commissione europea, anche per ragioni di reputazione, è molto rigida verso un Paese con un rapporto debito/prodotto interno lordo che ha ormai superato il 130 per cento;
    il rientro nella procedura per deficit eccessivo non avrebbe, di per sé, significative conseguenze. Questo perché le normali procedure di controllo dei conti pubblici nazionali da parte della Commissione europea sono divenute così penetranti che, di fatto, essere o no sotto la procedura di deficit eccessivo non fa molta differenza. Il cosiddetto «semestre europeo» comporta già una serie di passaggi stringenti. La legge annuale di stabilità, il piano pluriennale di stabilità (che delinea gli obiettivi di medio termine della finanza pubblica), il piano nazionale di riforme (che determina gli obiettivi economici di medio termine) sono sottoposti al vaglio della Commissione europea e del Consiglio europeo;
    la procedura per disavanzi eccessivi comporta solo la possibilità di multe, che però non sono mai state applicate e quindi non sono granché credibili. Prima di arrivarci ci sono diversi passaggi che richiedono tempo. Sulla carta, la procedura sanzionatoria è stata accelerata dai «pack», ma al momento nessuno è in corso, anche perché molti Paesi hanno ricevuto un'estensione del periodo di aggiustamento. Paradossalmente, Paesi che di recente hanno goduto di una certa flessibilità sono proprio quelli sotto la procedura per deficit eccessivo: ad esempio, Spagna, Portogallo e Francia, che hanno ottenuto dilazioni per rientrare nel limite del 3 per cento. Attualmente, i Paesi sotto procedura per deficit eccessivo sono 17;
    certo, proprio perché le sanzioni non sono mai state applicate, nessun Paese vuole essere il primo a riceverle. L'unico vero pericolo della procedura per deficit eccessivo è, infatti, l'effetto di reputazione sui mercati finanziari. Un Paese ad alto debito come il l'Italia, che emette titoli ogni settimana per molti miliardi di euro, non può permettersi che il rientro nella procedura venga letto come un segno di lassismo sul fronte dei conti pubblici;
    ma un eventuale re-ingresso nella procedura per deficit eccessivo potrebbe far parte di una strategia precisa: mettere in opera misure realmente efficaci di contrasto all'evasione, abbassando allo stesso tempo le tasse, ridurre la spesa pubblica e rilanciare gli investimenti pubblici con un vero e proprio piano per il lavoro; l'eventuale temporaneo sfioramento del 3 per cento si deve accompagnare ad azioni capaci di aumentare l'occupazione ed il potenziale di crescita, rendendo perfino più credibile la riduzione del rapporto debito/prodotto interno lordo nel lungo periodo. Solo a queste condizioni la procedura per deficit eccessivo resterebbe un mero passaggio burocratico, senza alcun contenuto informativo e senza alcun significato politico. Anche il vincolo del pareggio strutturale presente nella Costituzione non sarebbe un ostacolo insormontabile su questo percorso, vista la fase negativa del ciclo e la discrezionalità della definizione;
    viceversa, non sembra auspicabile la strada dei cosiddetti «accordi contrattuali» (contractual arrangement), proposti dalla Commissione europea nel marzo 2013. Si tratta di programmi di riforma concordati tra un Governo nazionale e la stessa Commissione europea, che dovrebbero essere approvati dal Parlamento nazionale e dal Consiglio europeo, per poi essere attuati secondo una tabella di marcia prefissata. In cambio di questi impegni, un Paese potrebbe ricevere assistenza finanziaria dall'Unione europea, per coprire i costi delle riforme programmate nel breve periodo. La proposta della Commissione europea è stata approvata in linea di massima dal Consiglio europeo del dicembre 2013, che però ha rinviato all'ottobre 2014 la finalizzazione del nuovo strumento e la definizione dei relativi dettagli;
    un'altra strada suggerita dagli economisti Roberto Perotti e Enrico Marro è quella che prevede la possibilità di superare il limite del 3 per cento per il deficit e di scambiare il contributo che l'Italia versa al bilancio dell'Unione europea con le somme che l'Unione europea versa all'Italia per aiutare le regioni dell'obiettivo convergenza del nostro Paese (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) prevedendo, però, di concentrare gli interventi in queste cinque regioni;
    secondo i dati più recenti, l'Italia continuerà a non crescere e l'Unione europea è sulla soglia della deflazione (mentre il debito continua a salire). In queste condizioni, proseguire con gli impegni del «Fiscal Compact» evidentemente porterebbe al collasso del Paese, quindi, altrettanto evidentemente, non potendo pensare ad una finanziaria addizionale di 50 miliardi di euro l'anno per i prossimi 20 anni, è assai probabile che l'Italia non potrà rispettarlo. In queste condizioni di moltiplicatori fiscali, crescita e inflazione, insistere sul vincolo del 3 per cento, di fatto, rende impossibile pensare in qualche modo di potere mai rispettare quello del 60 per cento del rapporto debito/prodotto interno lordo. Di fatto, un vincolo esclude l'altro, il che rende contraddittorio da un punto di vista logico, ancora prima che economico, il proseguire su questa strada;
    servirebbe soprattutto una politica economica europea coerente con lo sviluppo dell'area euro, indicando le policy tese ad aumentare la domanda e, in particolare, gli investimenti. L'asse portante è quello della strategia «Europa 2020», a cui dovrebbe far seguito un bilancio pubblico europeo coerente e sganciato dai trasferimenti degli Stati. Servirebbe un bilancio pubblico europeo non inferiore al 4 per cento del prodotto interno lordo europeo, un'imposta europea capace di finanziare il bilancio pubblico senza mediazione degli Stati, degli investimenti (eurobond) tesi a industrializzare la così detta green economy e il ripristino della piena e buona occupazione come orizzonte della società europea;
    in attesa di un riordino normativo europeo teso a promuovere lo sviluppo e la buona occupazione attraverso un autonomo bilancio pubblico europeo, con un'imposta sul valore aggiunto, il Governo italiano, in ambito di semestre europeo, potrebbe sostenere delle misure una tantum per i Governi dell'area euro, con il concorso della Banca centrale europea, tese a rilanciare lo sviluppo via investimenti che anticipano i cosiddetti obiettivi europei 20-20-20;
    in particolare, si dovrebbe operare uno scorporo di alcune tipologie di spese e di investimenti dal calcolo dei saldi validi al fine del rispetto del Patto di stabilità e crescita. Tale scorporo, più volte proposto da autorità politiche ed esperti economici in Italia e in Europa, permetterebbe una ripresa della domanda pubblica che è necessaria – in assenza di un'adeguata dinamica della domanda per consumi, investimenti ed export – per condurre l'economia fuori dall'attuale depressione. Gli investimenti nei suddetti settori sono rilevanti, in primo luogo, per gli effetti aggregati sull'economia, che vedrebbe un aumento del prodotto interno lordo e, quindi, un miglioramento degli indicatori di sostenibilità del debito. In secondo luogo, l'investimento in tali settori condurrebbe l'Italia ad avvicinarsi in misura significativa agli obiettivi della strategia «Europa 2020», in una varietà di campi sociali ed ambientali,

impegna il Governo:

   a scorporare, nel bilancio 2014, gli investimenti pubblici relativi ai settori sotto elencati dal computo dell'indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni rilevante per i vincoli dei Trattati europei:
    a) messa in sicurezza degli edifici scolastici;
    b) pubblica istruzione, università e ricerca;
    c) riqualificazione delle periferie attraverso piani di recupero;
    d) interventi di salvaguardia dell'assetto idrogeologico dei territori;
    e) recupero, salvaguardia e sviluppo del patrimonio artistico e ambientale;
    f) interventi di risanamento delle reti di distribuzione delle acque potabili;
    g) potenziamento del trasporto pubblico locale con particolare riguardo al pendolarismo regionale e al trasporto su ferro;
    h) interventi di risparmio energetico attraverso l'utilizzo delle energie rinnovabili;
   a verificare in parallelo la possibilità che tali investimenti – da realizzarsi anche negli altri Paesi dell'eurozona – siano finanziati a livello europeo per consentire all'insieme dell'Unione europea di uscire dal ristagno economico proponendo:
    a) la concessione di crediti da parte della Banca centrale europea al tasso di interesse più basso riservata a istituzioni finanziarie pubbliche – in Italia la Cassa depositi e prestiti – impegnate a realizzare il programma di investimenti pubblici necessario all'uscita dalla crisi;
    b) l'emissione di titoli garantiti dall'eurozona finalizzati alla realizzazione di tali investimenti;
    c) l'emissione di liquidità in modalità non convenzionali da parte della Banca centrale europea a copertura di tale programma di investimenti;
   a superare – in assenza delle misure precedentemente elencate – il tetto del 3 per cento per l'indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni nel bilancio 2014, giustificando tale azione politica con le condizioni di gravissima crisi economica e sociale del Paese;
   ad attivarsi in sede europea per il superamento di tutti i trattati e regolamenti che, imponendo rigide regole di bilancio, sono causa delle politiche di austerità e a promuovere politiche, misure e strumenti di politica economica, fiscale e di spesa, di carattere espansivo a favore dell'occupazione, dello sviluppo sostenibile e del welfare.
(1-00362)
(Nuova formulazione) «Marcon, Boccadutri, Melilla, Migliore, Di Salvo, Ricciatti, Pannarale, Scotto, Fava, Paglia, Lavagno, Airaudo, Placido».
(7 marzo 2014)

  La Camera,
   premesso che:
    il Patto di stabilità e crescita trova il suo fondamento politico nella risoluzione del Consiglio europeo adottata dai Capi di Stato e di Governo all'unanimità ad Amsterdam il 17 giugno 1997 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale C. 236 del 2 agosto 1997;
    il fondamento legale del Patto di stabilità e crescita si trova invece negli articoli 121 e 126 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea; mentre l'articolo 121 fonda la fase preventiva del Patto di stabilità e crescita, l'articolo 126 costituisce il riferimento per gli strumenti correttivi; la procedura per deficit eccessivo ed il Protocollo 12 fissano infine i valori di riferimento: 3 per cento del prodotto interno lordo per il deficit e 60 per cento del prodotto interno lordo per il debito;
    con la risoluzione del 17 giugno 1997 tutti gli Stati firmatari si sono impegnati a rispettare l'obiettivo a medio termine di un saldo di bilancio vicino al pareggio o attivo e ad adottare i provvedimenti correttivi di bilancio necessari per conseguire gli obiettivi dei loro programmi di stabilità o di convergenza; gli Stati devono, inoltre, procedere senza indugio agli aggiustamenti correttivi del bilancio che ritengano necessari non appena ricevano informazioni indicanti il rischio di un disavanzo eccessivo e correggere al più presto gli eventuali disavanzi eccessivi; la risoluzione impegna, inoltre, gli Stati a non appellarsi al carattere eccezionale di un disavanzo conseguente ad un calo annuo del prodotto interno lordo inferiore al 2 per cento, a meno che non registrino una grave recessione (calo annuo del prodotto interno lordo reale di almeno lo 0,75 per cento);
    la Commissione europea, da parte sua, in forza del diritto d'iniziativa conferitole dal Trattato dell'Unione europea: redige una relazione quando vi sia il rischio di un disavanzo eccessivo o quando il debito pubblico previsto o effettivo superi il valore di riferimento del 3 per cento del prodotto interno lordo; fornisce al Consiglio i motivi giustificativi della sua posizione quando ritenga non eccessivo un disavanzo superiore al 3 per cento; elabora, a richiesta del Consiglio, una raccomandazione di principio in base alla quale il Consiglio stesso decide se un disavanzo è eccessivo o meno;
    il terzo attore di questo sistema, il Consiglio, composto dai Capi di Stato e di Governo, è «invitato» dalla risoluzione a decidere sistematicamente d'infliggere sanzioni e ad applicare rigorosamente tutta la gamma delle sanzioni previste se uno Stato membro partecipante non prende i provvedimenti necessari per porre fine ad una situazione di disavanzo eccessivo;
    ormai 17 anni fa, in un contesto economico profondamente diverso dall'attuale, si adottò questo sistema di regole aventi lo scopo dichiarato di salvaguardare le finanze pubbliche degli Stati contraenti, ponendo come idea fondante che le politiche economiche dei singoli Stati dovessero essere oggetto di interesse (e preoccupazione) condiviso dei membri dell'Unione europea;
    i presupposti fondanti del Patto di stabilità e crescita si sono tradotti, nel corso degli anni, in numerosi strumenti attuativi che, tuttavia, per inadeguatezza o per un'applicazione non adeguata, non hanno né impedito né contrastato il verificarsi della più grave crisi economica degli ultimi 50 anni in tutta Europa, che al momento non è avviata al superamento;
    il dibattito sulle necessità di riforma del Patto di stabilità e crescita è acceso da tempo, ma ha prodotto modifiche che hanno accresciuto le procedure per la formazione dei bilanci pubblici senza tramutarsi né in un sostegno alla ripresa né nella garanzia di bilanci più solidi da parte degli Stati membri;
    già nel 2004 la Commissione europea ha adottato una comunicazione sul rafforzamento della governance economica e sul chiarimento dell'attuazione del Patto di stabilità e di crescita. Tale comunicazione propone una serie di possibili miglioramenti del Patto stesso, concentrandosi soprattutto sulle evoluzioni dei fattori economici negli Stati membri e sulla sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche;
    le istituzioni comunitarie si sono date, nel dicembre 2012, una «tabella di marcia» per la realizzazione di un'autentica Unione economica e monetaria (Uem), che contempla ulteriori interventi volti a realizzare, a trattati vigenti o mediante modifica dei medesimi, un coordinamento effettivo e più stringente delle politiche economiche e di bilancio, mediante una maggiore condivisione di sovranità tra gli Stati membri;
    il nuovo sistema si articola, infatti, in un complesso di misure, di natura legislativa e non legislativa, intese, per un verso, a rafforzare i vincoli di finanza pubblica introdotti sin dalla creazione, nel 1993, dell'Unione economica e monetaria e, per altro verso, ad introdurre una cornice comune anche per le politiche economiche degli Stati membri ed, in particolare, per le misure finalizzate alla crescita e all'occupazione;
    il nuovo sistema si articola in:
     a) un meccanismo per il coordinamento ex ante delle politiche economiche nazionali, mediante un ciclo di procedure e strumenti europei e nazionali concentrato nel primo semestre di ogni anno (cosiddetto semestre europeo, già operativo dal 2011);
     b) il Patto euro plus, che impegna gli Stati membri dell'area euro e alcuni altri Stati aderenti a porre in essere ulteriori interventi in materia di politica economica, il cui eventuale inadempimento non comporta l'adozione di sanzioni;
     c) il Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell'unione economica e monetaria («Fiscal Compact») entrato in vigore il 1o gennaio 2013;
     d) le modifiche al Patto di stabilità e crescita («Six-pack» e «Two-pack»);
     e) la sorveglianza sugli squilibri macroeconomici (già applicata in base a due regolamenti del cosiddetto («Six-pack»);
     f) i meccanismi di stabilizzazione dell'eurozona;
     g) il Patto per la crescita e l'occupazione (cosiddetto «growth pact», accordo non vincolante stipulato dal Consiglio europeo di giugno 2012);
    nel novembre 2011 il Consiglio dell'Unione europea e Parlamento europeo hanno adottato un pacchetto di atti legislativi (il cosiddetto («Six-pack»), che mira ad un'applicazione ancora più rigorosa del Patto di stabilità e crescita, stabilendo:
     a) l'obbligo per gli Stati membri di convergere verso l'obiettivo del pareggio di bilancio con un miglioramento annuale dei saldi pari ad almeno lo 0,5 per cento;
     b) l'obbligo per i Paesi il cui debito supera il 60 per cento del prodotto interno lordo di adottare misure per ridurlo ad un ritmo soddisfacente, nella misura di almeno 1/20 dell'eccedenza rispetto alla soglia del 60 per cento calcolata nel corso degli ultimi tre anni;
     c) un semi-automatismo delle procedure per l'irrogazione delle sanzioni per i Paesi che violano le regole del Patto di stabilità e crescita. Le sanzioni sono, infatti, raccomandate dalla Commissione europea e si considerano approvate dal Consiglio, a meno che esso non la respinga con voto a maggioranza qualificata («maggioranza inversa») degli Stati dell'area euro;
     d) ai Paesi che registrano un disavanzo eccessivo si applicherebbe un deposito non fruttifero pari allo 0,2 per cento del prodotto interno lordo realizzato nell'anno precedente, convertito in ammenda in caso di non osservanza della raccomandazione di correggere il disavanzo eccessivo;
    a fronte di una così rigida costruzione procedurale, la concreta applicazione dei criteri è stata più volte subordinata a considerazioni di carattere politico. In passato, nel 2004, nessuna sanzione è stata comminata a Germania e Francia i cui disavanzi avevano superato per entrambe i limiti previsti e per i quali la Commissione europea aveva accertato l'incompatibilità con il Patto di stabilità e crescita;
    di fatto, nessuna procedura per disavanzo eccessivo fino ad oggi ha prodotto l'applicazione di sanzioni;
    sia nel 2012 sia nel 2013 la Commissione europea ha ritenuto necessario procedere all'indagine approfondita nei riguardi, rispettivamente, di 12 e 13 Paesi membri dell'Unione europea (tra cui l'Italia); in entrambi i casi, tuttavia, non si è dato corso alle fasi successive della procedura per squilibri macroeconomici, dal momento che, anche laddove – come nel caso della Spagna e della Slovenia nel 2013 – gli squilibri macroeconomici erano valutati come eccessivi, sono stati ritenuti soddisfacenti gli impegni assunti dagli Stati con i rispettivi piani correttivi;
    sulla base della relazione presentata il 13 novembre 2013, la Commissione europea ha stabilito che nel 2014 16 Stati su 28 (Belgio, Bulgaria, Croazia, Francia, Danimarca, Germania, Italia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Finlandia, Regno Unito, Spagna, Slovenia, Svezia e Ungheria) saranno sottoposti ad un'indagine approfondita, i cui esiti verranno pubblicati in primavera;
    è evidente, dunque, che i limiti stabiliti nel 1997 non sono oggi più compatibili con la reale situazione economica dei Paesi membri e la necessità di perseguire politiche economiche che abbiano come linea guida l'interesse dei cittadini;
    accanto ai vincoli posti a carico degli Stati membri, esiste un sistema di vincoli interno conosciuto come «patto di stabilità interno», concepito come concorso degli enti locali e territoriali al rispetto del Patto di stabilità e crescita a livello statale; nel corso degli anni, ciascuno dei Paesi membri dell'Unione europea ha implementato internamente il Patto di stabilità e crescita seguendo criteri e regole proprie, in accordo con la normativa interna inerente la gestione delle relazioni fiscali fra i vari livelli di governo. Dal 1999 ad oggi, l'Italia ha formulato il proprio Patto di stabilità interno esprimendo gli obiettivi programmatici per gli enti territoriali ed i corrispondenti risultati ogni anno in modi differenti, alternando principalmente diverse configurazioni di saldi finanziari a misure sulla spesa per poi tornare agli stessi saldi. Le continue ridefinizioni del Patto di stabilità interno si sono tramutate in incertezza ed impossibilità di programmazione da parte degli enti;
    allo stesso tempo, le manovre di riduzione della spesa pubblica imposte allo Stato centrale sono state scaricate per larghissima parte sugli enti locali, procedendo con tagli lineari dei trasferimenti che non hanno mai tenuto conto dei comportamenti più o meno virtuosi delle singole amministrazioni, né di alcun criterio che privilegiasse la buona gestione, la qualità dei servizi resi, il numero di dipendenti o il rapporto tra spesa corrente ed investimenti in conto capitale decisi dagli enti locali e territoriali; il risultato è stato una compressione indistinta delle spese, soprattutto quelle per investimento, e la creazione di un enorme debito verso i fornitori;
    accanto ad amministrazioni che si sono attenute alle regole razionalizzando i bilanci e ristrutturando le spese, altre hanno creato enormi disavanzi per i quali è stato chiesto, e spesso ottenuto, l'intervento a carico del bilancio pubblico;
    in questo quadro diventa essenziale, come evidenziato anche nel corso dei lavori parlamentari, la disponibilità di strumenti di intervento diretti a supportare l'azione degli Stati membri che, versando in situazioni di particolare difficoltà sul piano economico e finanziario, dispongono di più limitati margini di intervento per porre in atto riforme volte ad accrescere la competitività e l'occupazione e a contrastare gli effetti sociali della crisi economica;
    la gravità della crisi economico-finanziaria che ha investito l'Unione europea e, in particolare, molte delle economie dell'area euro, impone l'adozione di risposte adeguate che non sacrifichino sull'altare del mero rigore contabile le condizioni concrete di vita dei cittadini, legate alle possibilità di lavoro, di salute, di benessere e di fiducia;
    in ogni caso, ulteriori evoluzioni della governance economica dovranno essere realizzati con modalità in grado di garantire la massima legittimità e la possibilità di controllo democratico sulle decisioni assunte e le procedure adottate a livello europeo;
    si osserva che nella risoluzione approvata il 23 maggio 2013, il Parlamento europeo ha ribadito che la governance nell'Unione europea non deve violare le prerogative del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali e che la previsione di accordi bilaterali tra l'Unione europea e gli Stati membri appare suscettibile di ledere il principio dell'ordinamento giuridico unico europeo;
    il Parlamento, attraverso vari atti di indirizzo e proposte emendative, ha più volte segnalato l'urgenza di intervenire finanziariamente per prevenire e contrastare tempestivamente il verificarsi di sciagure legate al rischio sismico ed idrogeologico, come anche all'incuria di molte strutture pubbliche come gli edifici scolastici, nonché di permettere soprattutto agli enti locali di potere effettuare investimenti legati all'esigenza di maggiore sicurezza per i cittadini;
    questi interventi devono ritenersi prioritari rispetto a qualunque obiettivo finanziario o di bilancio, perché prevengono la perdita di vite umane;
    recentissimamente, il 5 marzo 2014, il Commissario europeo per agli affari economici e monetari, Olli Rehn, ha pubblicamente invitato il nuovo Governo «ad affrontare gli squilibri che richiedono urgenti politiche e a fare le riforme per rafforzare crescita e occupazione»,

impegna il Governo:

    a negoziare in sede comunitaria la possibilità di effettuare investimenti in alcuni settori chiave di immediata ed inderogabile urgenza, quali il rischio idrogeologico, la messa in sicurezza degli edifici scolastici, la crisi occupazionale, la ripresa e la crescita economiche, la sicurezza dei cittadini, anche derogando temporaneamente ed entro percentuali concordate al limite del 3 per cento nel rapporto deficit/prodotto interno lordo;
    a promuovere in sede comunitaria ed intergovernativa con i partner dell'eurozona una revisione urgente dei vincoli derivanti dalla governance economica europea, anche sottoponendoli ad un confronto democratico e al voto popolare, al fine di graduare tali vincoli alla luce della necessità di attuare riforme in risposta ad una crisi economica di gravità e durata non prevista al momento della definizione delle regole attualmente in vigore;
    ad attuare una revisione della declinazione interna del Patto di stabilità e crescita, cambiando radicalmente l'approccio nei confronti degli enti locali e territoriali, stabilendo una declinazione dei vincoli direttamente proporzionale al grado di virtuosità degli enti, con meccanismi premiali per le amministrazioni virtuose e imponendo vincoli inderogabili per gli enti in dissesto, collegando qualunque intervento statale per il risanamento a programmi precisi di ripianamento.
(1-00363)
«Guidesi, Borghesi, Giancarlo Giorgetti, Allasia, Attaguile, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Grimoldi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini».
(7 marzo 2014)

  La Camera,
   premesso che:
    il Trattato sull'Unione europea firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, e da allora noto semplicemente come «Trattato di Maastricht», costituiva il fondamento per l'unione monetaria da realizzarsi nel 1999 e conteneva i cosiddetti parametri economici di convergenza, che ciascun Paese avrebbe dovuto rispettare per passare alla fase finale della stessa unione;
    i parametri da rispettare per l'accesso all'euro erano un tasso di inflazione non più alto di 1,5 punti rispetto ai 3 Paesi con il tasso d'inflazione più basso, un deficit statale non superiore al 3 per cento del prodotto interno lordo, un debito pubblico non superiore al 60 per cento del prodotto interno lordo, la stabilità del tasso di cambio nei due anni precedenti l'ingresso nell'unione monetaria, l'applicazione di tassi d'interesse di lungo termine non superiori di oltre due punti rispetto a quello dei tre Paesi dai tassi più bassi;
    nella realtà, alcuni di questi criteri non sono mai stati applicati, come quello sul debito, mentre altri hanno perso rilevanza con la creazione dell'euro, come, ad esempio, le decisioni sui tassi d'interesse, ormai sottratte alle singole politiche nazionali ed affidate alla Banca centrale europea a Francoforte;
    nel 1997 i Paesi membri dell'Unione Europea hanno stipulato e sottoscritto il Patto di stabilità e crescita (psc) inerente al controllo delle rispettive politiche di bilancio pubbliche, al fine di mantenere fermi i requisiti di adesione all'unione economica e monetaria dell'Unione europea (eurozona) e, quindi, rafforzare il percorso d'integrazione monetaria intrapreso nel 1992 con la sottoscrizione del Trattato di Maastricht;
    in base al il Patto di stabilità e crescita, gli Stati membri che, soddisfacendo tutti i cosiddetti parametri di Maastricht, hanno deciso di adottare l'euro, devono continuare a rispettare nel tempo quelli relativi al bilancio dello stato, ossia un deficit pubblico non superiore al 3 per cento del prodotto interno lordo (rapporto deficit/prodotto interno lordo inferiore al 3 per cento) e un debito pubblico al di sotto del 60 per cento del prodotto interno lordo, o, comunque, un debito pubblico tendente al rientro (rapporto debito/prodotto interno lordo inferiore al 60 per cento);
    a tale scopo, il Patto di stabilità e crescita ha implementato la procedura di deficit eccessivo di cui all'articolo 104 del Trattato di Maastricht, la quale nello specifico consta di tre fasi: avvertimento, raccomandazione e sanzione;
    in particolare, se il deficit di un Paese membro si avvicina al tetto del 3 per cento del prodotto interno lordo, la Commissione europea propone – ed il Consiglio dei ministri europei, in sede di Ecofin, approva – un avvertimento preventivo (early warning), al quale segue una raccomandazione vera e propria in caso di superamento del tetto; se, a seguito della raccomandazione, lo Stato interessato non adotta sufficienti misure correttive della propria politica di bilancio, esso viene sottoposto ad una sanzione che assume la forma di un deposito infruttifero, da convertire in ammenda dopo due anni di persistenza del deficit eccessivo; l'ammontare della sanzione presenta una componente fissa pari allo 0,2 per cento del prodotto interno lordo ed una variabile pari ad un decimo dello scostamento del disavanzo pubblico dalla soglia del 3 per cento ed è comunque previsto un tetto massimo all'entità complessiva della sanzione pari allo 0,5 per cento del prodotto interno lordo; se invece lo Stato adotta tempestivamente misure correttive, la procedura viene sospesa fino a quando il deficit non ritorna sotto il limite del 3 per cento, ma se le misure si rivelano inadeguate la procedura viene ripresa e la sanzione irrogata;
    in alternativa, il superamento del valore del 3 per cento per il disavanzo pubblico può essere considerato un fatto eccezionale e, quindi, esulare dalla procedura sanzionatoria, laddove sia determinato da un evento inconsueto non soggetto al controllo dello Stato membro interessato che abbia rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione, oppure sia determinato da una grave recessione economica;
    il superamento del valore di riferimento è considerato temporaneo se le previsioni di bilancio elaborate dalla Commissione europea indicano che il disavanzo diminuirà al di sotto del valore di riferimento dopo che siano cessati l'evento inconsueto o la grave recessione economica;
    la procedura per i disavanzi eccessivi è solo uno dei due elementi di cui si compone il Patto di stabilità e crescita, mentre l'altro è a carattere preventivo ed impone agli Stati membri di presentare ogni anno, insieme al programma nazionale di riforma, un programma di stabilità (per i Paesi dell'area dell'euro) o di convergenza (per gli altri Paesi dell'Unione europea), nell'ambito del quale ciascuno Stato membro illustra come intenda mantenere o ristabilire una sana situazione delle proprie finanze pubbliche nel medio termine, e in relazione al quale la Commissione europea può formulare raccomandazioni (a giugno, nell'ambito del semestre europeo) ed eventualmente invitare il Consiglio a emettere un avvertimento per deficit eccessivo;
    al fine di consentire il raggiungimento dei più generali obiettivi di finanza pubblica assunti dal nostro Paese in sede europea con l'adesione al Patto europeo di stabilità e crescita, ogni anno vengono adottate le regole del Patto di stabilità interno, funzionali al conseguimento degli obiettivi finanziari fissati per le regioni e gli enti locali;
    la definizione delle regole del Patto di stabilità interno avviene durante la predisposizione ed approvazione della manovra di finanza pubblica, momento in cui si analizzano le previsioni sull'andamento della finanza pubblica e si decide l'entità delle misure correttive da porre in atto per l'anno successivo e la tipologia delle stesse;
    dal 1999 ad oggi il Patto di stabilità interno è stato formulato esprimendo gli obiettivi programmatici per gli enti territoriali ed i corrispondenti risultati ogni anno in modi differenti, alternando principalmente diverse configurazioni di saldi finanziari a misure sulla spesa per poi tornare agli stessi saldi;
    come sin qui esaminato, il mancato rispetto del limite del 3 per cento nel rapporto tra indebitamento netto della pubblica amministrazione e prodotto interno lordo può far scattare una procedura d'infrazione, trasformando un Paese in vigilato speciale e così lanciando segnali d'allarme e di instabilità ai mercati, fino a quando, in esito a severe terapie di austerity, il Paese oggetto della procedura non rientri nell'ambito dei parametri previsti dalla legislazione europea;
    nel corso degli anni sono state proposte delle modifiche per rafforzare il Patto di stabilità e crescita, volte a consentire all'elemento correttivo di tenere più conto del legame tra debito e deficit, specie nei Paesi che presentano un debito pubblico elevato (superiore al 60 per cento del prodotto interno lordo), accelerare la procedura per i disavanzi eccessivi e rendere l'imposizione delle sanzioni agli Stati membri semiautomatica e definire meglio il quadro di riferimento per i bilanci nazionali, affrontando questioni contabili e statistiche, nonché di tecnica di previsione;
    al contrario, soprattutto nell'ultimo decennio, da più parti si è sottolineata l'eccessiva rigidità delle regole di politica fiscale derivanti dal Patto di stabilità e crescita e la necessità di applicarlo considerando l'intero ciclo economico e non un singolo bilancio di esercizio, anche in considerazione dei rischi involutivi derivanti dalla politica degli investimenti troppo limitata che esso comporta;
    inoltre, molte critiche mosse al vincolo del 3 per cento affermano che la sua rigorosa applicazione non promuoverebbe né la crescita né la stabilità e che, anzi, le procedure promosse dall'Unione europea nei confronti dei Paesi inadempienti danneggerebbero ulteriormente sistemi economici che già versano in stato di sofferenza;
    peraltro, considerato che la procedura per disavanzo eccessiva richiamata dal Patto di stabilità e crescita non è obbligatoria, appare evidente come sia difficile far valere i suoi vincoli nei confronti dei «grandi» dell'Unione europea, come dimostrato anche dal fatto che il Consiglio non è riuscito ad applicare le sanzioni in esso previste contro la Francia e la Germania, malgrado ne sussistessero i presupposti;
    in Italia, già nel 1998 l'economista Luigi Pasinetti, in un saggio pubblicato sul Cambridge Journal of Economics nel 1998 (un anno prima della nascita dell'euro) attaccò duramente «mito e follia del 3 per cento», contestando una soglia deficit/prodotto interno lordo «la cui validità non è mai stata dimostrata» e stigmatizzando il fatto che «nessuno è mai riuscito a dare una spiegazione plausibile sul perché quelle cifre furono scelte»;
    nel primo quindicennio di vigenza del Patto di stabilità e crescita, i Paesi dell'area euro hanno registrato il tasso di crescita medio più basso tra le principali aree economiche mondiali dopo quella dell'America latina, e nello stesso periodo il deficit del bilancio pubblico è più che raddoppiato, passando dall'1,3 per cento del 1998 al 2,7 per cento del 2003;
    nel 2012, dei diciassette Paesi appartenenti all'eurozona solo cinque avevano un indice deficit/prodotto interno lordo inferiore al 3 per cento, ai quali va aggiunta l'Italia, assestata esattamente su quel valore;
    nell'ultimo quinquennio, da quando l'economia europea è entrata in una fase di perdurante stagnazione e recessione, i dubbi e le perplessità nei confronti delle regole del Patto di stabilità e crescita si sono rafforzati ed estesi;
    sulla capacità delle politiche di austerity di rimettere in equilibrio la zona euro, lo scetticismo sembra ormai prevalente, come segnalato anche dal «monito degli economisti», pubblicato sul Financial Times nel settembre 2013, nel quale esponenti delle più diverse scuole di pensiero economiche concordano nel ritenere che le attuali politiche di rigore stiano in realtà pregiudicando la sopravvivenza dell'Unione europea;
    persino il Fondo monetario internazionale ha espresso perplessità in merito alla pretesa di riequilibrare l'eurozona, puntando tutto su pesanti dosi di austerity a carico dei Paesi debitori;
    sia nel caso della Grecia sia in quello del Portogallo, infatti, il Fondo monetario internazionale ha ammesso i limiti delle politiche di austerity confessando – nel caso greco – di aver sottostimato i danni all'economia greca causati dalle rigidità imposte nel piano di aiuti, mentre, con riferimento al caso portoghese, nel settembre del 2013 è stato pubblicato un rapporto interno del Fondo monetario internazionale nel quale si legge non solo che l’austerity deve avere un «limite di velocità», ma anche che alcune delle politiche imposte hanno presentato rischi di «autodistruzione» per l'economia locale;
    volendosi allontanare dalla dimensione solo teorica del dibattito, non va dimenticato che negli Stati Uniti, nel pieno della recessione del 2009, il neopresidente Barack Obama ha intrapreso una politica di investimenti pubblici che, dopo aver inizialmente portato il rapporto deficit/prodotto interno lordo a sfiorare il 12 per cento, ha determinato una spettacolare ripresa del prodotto interno lordo di oltre il tre per cento;
    nel nostro Paese, pur avendo il dogma del 3 per cento avuto tanti sostenitori in buona fede – perché applicare la disciplina dell’austerity sembra un vincolo esterno salvifico per impedire all'Italia di praticare vizi nazionali distruttivi quali spese pubbliche parassitarie, clientelari, fonti di sprechi e corruzione – appare sempre più evidente il fatto che esso impedisce un risanamento che passi attraverso una politica di investimenti e possa, quindi, determinare una ripresa dell'economia,

impegna il Governo:

   a valutare l'opportunità di un temporaneo scostamento dalla soglia massima nel rapporto deficit/prodotto interno lordo prevista dal Patto di stabilità e crescita, al fine di realizzare una consistente riduzione della pressione fiscale sul lavoro che possa restituire potere d'acquisto alle famiglie e rilanciare la crescita, nonché con riferimento alla realizzazione di infrastrutture strategiche, a misure per l'innovazione tecnologica e all'azzeramento del digital divide, alle politiche di sostegno al reddito, alle politiche di sostegno alla famiglia, alle misure volte a ridurre la pressione fiscale a carico delle imprese e di tutte le realtà produttive, alle misure in materia di protezione civile, per la messa in sicurezza dei territori e la prevenzione dei rischi idrogeologici, alla gestione dei flussi migratori, all'edilizia scolastica ed all'edilizia carceraria, al rilancio della competitività del tessuto produttivo nazionale, attraverso politiche di sostegno alle industrie e alle imprese e alle misure in favore della ricerca e dello sviluppo tecnologico;
   ad adottare le iniziative necessarie affinché il Patto di stabilità interno preveda adeguati meccanismi premiali in favore degli enti locali e delle regioni che si siano dimostrate virtuose;
   a promuovere nelle competenti sedi a livello europeo un confronto sulle regole del Patto di stabilità e crescita, che ne permetta un'eventuale revisione nell'ottica di fornire risposte più efficaci, sotto il profilo delle politiche economiche e fiscali, alla perdurante situazione di crisi e stagnazione che affligge parte delle economie dell'eurozona, al fine di consentire l'applicazione di misure che favoriscano un reale rilancio di tali economie.
(1-00372)
«Giorgia Meloni, Maietta, Taglialatela, Totaro».
(13 marzo 2014)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MERITO AGLI ECCEZIONALI EVENTI METEOROLOGICI CHE HANNO COLPITO DI RECENTE IL VENETO E L'EMILIA-ROMAGNA

   La Camera,
   premesso che:
    tra gli ultimi giorni del mese di gennaio e i primi giorni di febbraio 2014, in Veneto ed in Emilia si sono verificati eventi atmosferici di grandissima intensità, piogge persistenti e nevicate anche a bassa quota;
    nel modenese si è resa necessaria l'evacuazione dei cittadini residenti in aree particolarmente esposte alle esondazioni, in particolare nei territori compresi nei comuni di Bastiglia, Bomporto, Sorbara, Bosco di San Felice, Finale Emilia, Camposanto, Albareto, e tali calamità hanno provocato allagamenti e frane in vaste zone della bassa modenese ed altre zone emiliano-romagnole;
    in Veneto le precipitazioni piovose e nevose hanno causato l'interruzione delle comunicazioni e della viabilità, esondazione di fiumi, allagamenti di terreni agricoli e di centri abitati, di sottopassi e di garage privati, frane e smottamenti su strade, chiusura di molti passi dolomitici, un blackout elettrico prolungato dovuto alle linee dell'alta tensione, in particolare tra le aree del Cadore, dello Zoldano, del Comelico e dell'Agordino, mentre numerose aree del Veneto orientale ed occidentale, del basso padovano e del vicentino erano interessate da allagamenti ed inondazioni;
    le calamità nevose nella zona dolomitica e prealpina del Veneto, con interruzione dell'erogazione dell'energia elettrica in Cadore e chiusura di passi e impianti sciistici, hanno avuto contraccolpi particolarmente pesanti perché ha compromesso, in alcuni casi in modo definitivo, la stagione turistica invernale, che per quelle zone rappresenta l'unica fonte di reddito;
    per contro, la costa veneta e le spiagge di Rosolina, Sottomarina, Lido di Venezia, Cavallino-Treporti, Jesolo, Eraclea, Caorle e Bibione hanno subito gli effetti del maltempo con l'accumulo di rifiuti e detriti, la cui pulizia e ripristino delle spiagge deve essere operata con celerità per garantire l'avvio degli stabilimenti balneari della stagione turistica estiva alle porte;
    mentre numerose zone della montagna veneta erano bloccate dalle abbonanti nevicate, in pianura il maltempo faceva crescere repentinamente il livello dei principali fiumi emiliani, vicentini e padovani, come il Secchia, il Bacchiglione ed il Brenta, esondati in alcuni punti del loro corso e tanto da costringere, in alcune località, tra cui Bovolenta, Battaglia Terme, Montegrotto Terme, Chioggia ed alcuni quartieri di Padova, a sgomberare le case, sfollando centinaia di famiglie; a Montegrotto Terme una donna a causa del maltempo è deceduta;
    nel periodo compreso tra il 30 gennaio ed il 10 febbraio 2014 la provincia di Verona è stata colpita da precipitazioni importanti che hanno messo in crisi l'intera rete di scolo. Particolarmente colpita la bassa veronese con allagamenti importanti nei comuni di Legnago, Cerea, Terrazzo, Bevilacqua e Boschi S. Anna, causa la tracimazione di alcuni corsi d'acqua ed il reflusso della rete fognaria. Sono stati rilevati gravi danni al manto stradale (buche di vario genere ed entità); danni ad abitazioni private (allagamenti seminterrati, allagamenti pian terreni); gravi sofferenze (asfissia) ai seminativi invernali e alle piantagioni di vigneti e frutteti (in particolar modo nei comuni di Terrazzo, Bevilacqua e Boschi S. Anna dove gli allagamenti si sono protratti per 7 giorni consecutivi); danni alle scarpate dei corsi d'acqua (frane), con pericolo per la pubblica incolumità, anche in considerazione che spesso in sommità ci sono strade provinciali o comunali;
    nel modenese l'alluvione ha ulteriormente aggravato la situazione sociale ed economica di parte del territorio emiliano-romagnolo, già compromessa dagli eventi sismici del 2012 e dagli eventi atmosferici del 2013, con danni diretti e indiretti, provocati dall'allagamento di oltre dieci mila ettari di terreni coltivati ed abitati, ad oggi incalcolabili;
    in data 3 febbraio 2014, il presidente della giunta regionale del Veneto dichiarava lo «stato di crisi» per gli eccezionali eventi atmosferici verificatesi in Veneto a partire dal 30 gennaio 2014, provvedendo, altresì, a chiedere al Consiglio dei ministri la dichiarazione dello «stato di emergenza» ai sensi della legge 24 febbraio 1992, n. 225, e successive modificazioni e integrazioni, e tale richiesta è motivata anche dalle pesanti conseguenze che l'evento calamitoso ha determinato sull'economia locale veneta, come nel settore turistico montano, con danni enormi agli impianti di risalita sepolti dalla neve;
    complessivamente tra le province di Treviso, Venezia, Vicenza, Verona e Padova, sono diverse centinaia le abitazioni civili e le attività economiche che hanno subito danni strutturali agli edifici, rendendoli parzialmente o completamente inagibili, e oggi i comuni veneti ed emiliani interessati dalle calamità stanno predisponendo una stima precisa dei danni riscontrati, così da impegnare, conseguentemente, le necessarie somme per ripristinare le infrastrutture danneggiate, quali principalmente strade, ponti ed edifici pubblici;
    i danni prodotti alle abitazioni e alle imprese giustificano il ricorso anche al fondo di solidarietà dell'Unione europea, giacché i danni diretti stimati potrebbero nel loro complesso raggiungere i 3 miliardi di euro indicati dal regolamento (Ce) 11 novembre 2002, n. 2012/2002, e, in conformità a quanto disposto dal menzionato regolamento, la domanda di contributo deve pervenire alla Commissione europea entro 10 settimane a partire dal primo danno subito;
    qualora l'ammontare dei danni fosse al di sotto della predetta soglia comunitaria, è necessario comunque che lo Stato intervenga a favore delle popolazioni e delle imprese colpite tramite la defiscalizzazione e la decontribuzione, per il biennio 2014-2015, tanto più che la sola regione Veneto contribuisce alle entrate dello Stato con un «residuo fiscale» di oltre 20 miliardi di euro;
    nell'ambito dei richiesti interventi statali deve essere prevista anche l'esclusione dal patto di stabilità interno dei fondi occorrenti ai comuni per la manutenzione e la messa in sicurezza idraulica dei rispettivi territori colpiti dagli eccezionali eventi atmosferici di gennaio e febbraio 2014;
    il Governo, così come in analoghe vicende accadute nel recente passato, ha già fatto ricorso allo strumento del decreto-legge per disporre interventi, anche finanziari, immediati,

impegna il Governo:

   a deliberare lo «stato di emergenza» per gli eccezionali eventi atmosferici verificatesi nelle aree comprese tra l'Emilia-Romagna ed il Veneto a partire dal gennaio 2014, ai sensi della legge 24 febbraio 1992, n. 225, e successive modificazioni e integrazioni;
   ad assumere iniziative normative finalizzate a sostenere le popolazioni e le imprese colpite dagli eccezionali eventi atmosferici di gennaio e febbraio 2014 tramite la defiscalizzazione e la decontribuzione per il triennio 2014-2016, sospendendo immediatamente ogni adempimento fiscale, contributivo e assicurativo relativo a persone fisiche e giuridiche, nonché i mutui, per i contribuenti e le imprese dei comuni veneti ed emiliani interessati dagli eventi calamitosi;
   ad assumere iniziative per stanziare, nell'ambito delle prossime iniziative normative, risorse da destinare alle persone fisiche e alle attività d'impresa per il ristoro di danni derivanti dalla perdita di beni come la prima abitazione o i mobili strumentali all'esercizio delle attività stesse, assumendo iniziative per incrementare le ulteriori risorse a favore degli enti locali contro il dissesto idrogeologico e prevedendo, altresì, che le somme provenienti dallo Stato e le relative spese di parte corrente e in conto capitale sostenute dalle province e dai comuni, nonché le risorse proprie di tali enti impiegate per far fronte all'emergenza alluvionale e alle conseguenti opere di ripristino, siano escluse dai limiti imposti dal patto di stabilità, sia delle regioni che degli enti locali.
(1-00340)
«Giancarlo Giorgetti, Matteo Bragantini, Gianluca Pini, Busin, Caon, Marcolin, Prataviera, Allasia, Borghesi, Bossi, Buonanno, Caparini, Fedriga, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Molteni, Rondini».
(12 febbraio 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    nelle settimane a cavallo tra il mese di gennaio e febbraio 2014, un'eccezionale ondata di maltempo ha colpito diverse regioni del Paese, e in particolare il Veneto e l'Emilia-Romagna;
    in Veneto le persistenti piogge sommate alle precipitazioni nevose, verificatesi a partire dal 30 gennaio 2014, hanno causato interruzione delle comunicazioni, interruzione della viabilità, esondazioni di fiumi, allagamenti di terreni agricoli, centri abitati, causando gravissimi danni a cose, persone, infrastrutture e opere pubbliche, ma soprattutto alle economie locali (con un danno di oltre 10 milioni di euro solo in agricoltura, secondo Coldiretti);
    vi sono state strade e case sott'acqua nei comuni localizzati lungo l'asta del Bacchiglione, del Bisatto e del Fratta Gorzone, dove i livelli hanno superato quelli raggiunti nell'alluvione del 2010;
    tra le situazioni più difficili, nel padovano, si segnalano, in particolare, i comuni di Bovolenta, Battaglia Terme, Montegrotto Terme e Selvazzano;
    le ingentissime precipitazioni hanno saturato fin quasi al collasso le opere di difesa idraulica – che dovranno essere ripristinate con la massima urgenza – causato centinaia di frane con numerose interruzioni della viabilità in tutte le zone montane, pedemontane e collinari; peraltro, le tracimazioni delle rete idraulica secondaria hanno già determinato l'evacuazione di centinaia di persone e diffusi danni ad abitazioni, imprese, esercizi commerciali ed edifici pubblici;
    altrettanto pesanti saranno le conseguenze finanziarie sui bilanci di molti enti locali che hanno dovuto e dovranno affrontare ingenti spese non programmate per garantire il ritorno alla normalità;
    il 3 febbraio 2014, con decreto del presidente della giunta n. 15 del 2014, la regione Veneto ha dichiarato lo stato di crisi regionale per le suddette eccezionali avversità atmosferiche;
    anche con riguardo all'Emilia-Romagna, le forti piogge, che hanno interessato la regione dal 17 gennaio 2014, hanno prodotto l'allagamento di circa diecimila ettari di territorio, sia agricolo che urbanizzato, con danni calcolabili nell'ordine di decine di milioni di euro;
    in particolare il 19 gennaio 2014, a seguito dell'apertura di una falla sull'argine del fiume Secchia in una fase di piena del fiume stesso, il territorio della provincia di Modena ha subito una fortissima inondazione, che ha coinvolto, in particolare, i centri abitati di Bastiglia e Bomporto e alcune frazioni della città di Modena, oltre ad una vasta area comprendente insediamenti agricoli e industriali;
    quasi mille sono state le persone sfollate tra Sorbara, Albareto, Bastiglia e Bomporto; e moltissime sono state le aziende agricole, vitivinicole e le attività produttive colpite, oltre a molte infrastrutture;
    va, peraltro, considerato che la zona colpita è la medesima che era già stata interessata dagli eventi sismici del maggio 2012;
    la Gazzetta di Modena del 4 marzo 2014, riporta i dati allarmanti diffusi dalla Cisl sulla cassa integrazione nelle zone alluvionate. Sono coinvolti 1.175 lavoratori. A oggi risultano 450 lavoratori in cassa integrazione in deroga, 25 in «cassa integrazione guadagni ordinaria edilizia», 600 lavoratori in «cassa integrazione guadagni ordinaria industria» e 100 in «sospensione fondo artigianato». Le circa 200 aziende interessate dalla cassa integrazione guadagni ordinaria sono piccole e medie imprese meccaniche, tessili e della chimica. A questi numeri vanno aggiunti gli addetti dell'agricoltura. Sono, quindi, necessarie risorse aggiuntive per la cassa integrazione guadagni in deroga che scade il 31 marzo 2014;
    il 31 gennaio 2014, il Consiglio dei ministri ha deliberato lo stato di emergenza in conseguenza dei suddetti eventi alluvionali verificatisi nei giorni dal 17 al 19 gennaio 2014, nella provincia di Modena;
    è utile riportare le dichiarazioni rese il 21 gennaio 2014 all'agenzia Ansa dal consigliere nazionale dei geologi Paride Antolini: «quello che sta accadendo nella bassa pianura emiliana a nord di Modena e Bologna deve farci riflettere profondamente sulla capacità di gestire il territorio da parte della società moderna. Un sindaco che, giustamente, invita i suoi ad andarsene indica l'impotenza dei nostri sistemi contro gli eventi della natura che occorre avere il coraggio di definire normali e prevedibili. Perché 3-400 millimetri di pioggia che cadono su un bacino idrografico moltiplicati per l'estensione del suo bacino fanno milioni di metri cubi d'acqua che devono essere smaltiti dal corso d'acqua principale. Quando gli argini del fiume cedono questi volumi si riversano necessariamente sui terreni limitrofi che nel corso delle ere geologiche sono sempre stati di pertinenza del fiume stesso, per il suo “divagare”. Se la pianificazione pregressa non ha tenuto conto di questo, non c’è manutenzione degli alvei che tenga. Occorre pensare a nuove forme di riduzione del rischio, magari ricorrendo a tecnologia e innovazione, modellistica, monitoraggi e gestione informatica dei dati in tempo reale»;
    ancora una volta, puntualmente, bastano un giorno o due di forti piogge che il nostro Paese si trovi a dover fare i conti con smottamenti, frane, crolli di infrastrutture, argini che non riescono più a trattenere l'impatto con le acque e allagamenti che troppo spesso assumono le proporzioni di calamità;
    questi drammatici effetti prodotti da eventi naturali sono quasi sempre acuiti e drammaticamente amplificati da una gestione dissennata dei suoli e dall'assenza di una rigorosa politica di pianificazione, manutenzione e prevenzione territoriale;
    come riportato nel recente «5o Piano per la riduzione del rischio idrogeologico», redatto dall'Associazione nazionale bonifiche e irrigazioni (Anbi), dal 2002 al 2014 nel nostro Paese si sono registrati circa 2.000 eventi alluvionali che hanno determinato 293 morti oltre a ingenti danni. Sei milioni di persone abitano in un territorio ad elevato rischio idrogeologico; 22 milioni di persone in zone a medio rischio; 1.260,000 edifici minacciati da frane e di questi 6.121 sono edifici scolastici e 531 ospedali. A determinare tale situazione hanno certamente contribuito più fattori: da un lato, il mutato regime delle piogge, particolarmente accentuato nella sua variabilità negli ultimi anni; dall'altro, l'impetuosa urbanizzazione, il consumo del suolo, l'omessa manutenzione del sistema idraulico del Paese, lo spopolamento delle montagne, la riduzione del terreno agricolo;
    è ormai improcrastinabile un adeguato impegno finanziario del Governo al fine di poter finalmente finanziare con adeguate risorse un piano pluriennale di interventi per la difesa del suolo e il contrasto al dissesto idrogeologico nel nostro Paese, consentendo contestualmente la loro effettiva spendibilità, troppo spesso impedita a causa dell'obbligo del rispetto del patto di stabilità interno da parte delle regioni e degli enti locali;
    peraltro, il taglio di risorse alle regioni e agli enti locali, sommato all'obbligo del rispetto del patto di stabilità interno a cui sono tenuti, rende molto difficile per essi poter finanziare e realizzare anche i piani di manutenzione esistenti,

impegna il Governo:

   a deliberare, così come avvenuto per l'Emilia-Romagna, lo stato di emergenza per l'alluvione che ha colpito la regione Veneto tra fine gennaio e il mese di febbraio 2014;
   ad assumere al più presto la necessaria iniziativa normativa al fine di consentire l'esclusione dal patto di stabilità interno delle spese sostenute, a valere su risorse proprie o su donazioni di terzi, dai comuni interessati dalla deliberazione dello stato di emergenza;
   ad assumere iniziative normative per modificare il comma 8-bis dell'articolo 31 della legge n. 183 del 2011, al fine di escludere automaticamente dal patto di stabilità interno, e senza la necessaria approvazione di una specifica norma di legge, le spese sostenute dai comuni a valere su risorse proprie o su donazioni di terzi, in relazione a eventi calamitosi in seguito ai quali è stato deliberato lo stato di emergenza;
   ad assumere iniziative per sospendere i termini per gli adempimenti e per i versamenti dei tributi, dei contributi previdenziali e assistenziali e dei premi per l'assicurazione obbligatoria, nonché il pagamento delle rate di adempimenti contrattuali, compresi mutui e prestiti, per i soggetti che hanno subito danni riconducibili ai suddetti eventi alluvionali, prevedendo che il pagamento dei suddetti adempimenti, dopo la sospensione dei termini, sia effettuato con rateizzazioni e senza applicazione di sanzioni e interessi;
   a garantire con la massima urgenza le risorse necessarie – anche attraverso la concessione di contributi fino al 100 per cento del costo riconosciuto, per il ripristino degli immobili danneggiati – a sostegno delle attività produttive e delle popolazioni colpite;
   a garantire le risorse aggiuntive necessarie per finanziare gli ammortizzatori sociali, con riguardo alle aziende e alle attività produttive interessate dagli eventi alluvionali di cui in premessa;
   ad avviare in tempi rapidi, con priorità per le zone alluvionate di cui in premessa e per l'intero territorio nazionale, un piano di investimenti necessari alla messa in sicurezza del territorio e al riassetto idrogeologico finanziato, con risorse escluse dal saldo finanziario rilevante ai fini della verifica del rispetto del patto di stabilità interno.
(1-00354)
«Zan, Paglia, Marcon, Ferrara, Pellegrino, Zaratti, Di Salvo, Piazzoni, Migliore».
(4 marzo 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il nostro Paese, nei mesi di gennaio e febbraio 2014, è stato investito da un'ondata di maltempo fuori dal comune che ha comportato serie di criticità dal punto di vista dell'assetto idrogeologico in diverse regioni;
    in particolare, nella regione Veneto i persistenti rovesci piovaschi hanno prodotto gravissimi danni a persone e cose, alle strade, ad edifici pubblici e privati e al territorio nel suo complesso;
    in alcune zone della montagna veneta, particolarmente nel bellunese, a causa dell'abbondanza delle precipitazioni nevose e del successivo appesantimento della neve per la pioggia, alcune località, tra cui Sappada, sono rimaste per molti giorni senza elettricità, con enorme danno per la vita dei residenti e con compromissione dei turismo che costituisce l'unica vera risorsa economica del luogo;
    i black-out elettrici che si sono verificati sono ancor più inaccettabili se si considera che sono stati provocati dall'inadeguatezza della rete di distribuzione locale e che le zone interessate sono produttrici di abbondante energia elettrica, il cui convogliamento nella rete di distribuzione nazionale non ha invece subito alcuna compromissione;
    la regione Veneto si è vista costretta a dichiarare lo stato di crisi con decreto del presidente della giunta regionale 3 febbraio 2014, n. 15;
    in Emilia-Romagna nel mese di gennaio 2014 si è assistito ad un'alluvione di pianura di dimensioni molto preoccupanti, avendo raggiunto l'estensione di circa diecimila ettari, producendo ingenti danni economici in una regione, peraltro, già colpita duramente da recenti fenomeni di natura tellurica;
    tale situazione non ha natura episodica o locale, ma interessa tutto il territorio nazionale e si ripresenta periodicamente in maniera diversa e sempre più preoccupante in varie aree, dal nord al sud del Paese;
    tali criticità, oltre ad arrecare ingenti danni a persone e proprietà private, hanno peraltro seriamente compromesso il patrimonio artistico e architettonico italiano che rappresenta il potenziale volano per un nuovo sviluppo economico ed imprenditoriale incentrato sul turismo di alta qualità;
    difatti, si sono registrati con amarezza e sgomento i crolli delle mura perimetrali della città di Volterra, unico ed irripetibile esempio di commistione tra architettura medievale ed etrusca, per un danno complessivo di oltre due milioni di euro;
    nel Lazio si è assistito a continue frane, smottamenti e allagamenti a danno di intere comunità, mettendo a rischio l'incolumità dei cittadini, nonché l'inestimabile patrimonio artistico della città di Roma e di tutto il territorio regionale;
    in questi giorni si assiste impotenti ad ulteriori crolli nell'area archeologica di Pompei, riferibili molto probabilmente anch'essi alle forti precipitazioni, che producono sia l'ennesimo danno ad un patrimonio artistico unico nel mondo che una profonda lacerazione all'immagine del nostro Paese, da sanare con estrema urgenza;
    tali avvenimenti richiedono certamente interventi urgenti al fine di riparare i danni subiti da cose e persone, ma ciò non può rimediare in via definitiva al degrado complessivo del tessuto idrogeologico italiano, che invece necessita di un intervento più ampio e lungimirante;
    gli interventi emergenziali, difatti, sono chiaramente molto meno efficienti di un intervento costante e razionale di manutenzione ordinaria del territorio, che comporta sul lungo periodo spese molto minori e consente di evitare ripetuti e ingenti danni alle persone, ai patrimoni privati, al patrimonio architettonico ed artistico delle comunità;
    i vincoli del Patto di stabilità pongono persistenti ostacoli ad un intervento efficiente e razionalizzato degli enti locali in materia, in quanto tali interventi spesso non rientrano nelle regole eccessivamente rigide che sono alla base di un patto che ha imbrigliato la spesa pubblica anche in settori così cruciali,

impegna il Governo:

   a predisporre iniziative, anche di natura normativa, finalizzate al sostegno delle comunità colpite dagli eccezionali eventi atmosferici di gennaio e febbraio 2014, se possibile attraverso interventi sospensivi in materia tributaria, contributiva e similari;
   a pianificare interventi volti ad attenuare i vincoli del Patto di stabilità, in particolare per quello che riguarda i capitoli di spesa inerenti al dissesto del territorio, alla manutenzione degli edifici scolastici e alla messa in sicurezza della rete stradale;
   a prendere in considerazione di assumere iniziative di natura normativa volte a garantire maggiori risorse finalizzate al contrasto al dissesto idrogeologico, anche con riguardo alle aree di particolare interesse storico-artistico, anche considerato il potenziale grave pregiudizio per un settore economico cruciale per il nostro Paese.
(1-00364)
«Gigli, Fauttilli, De Mita, Cera, Binetti, Sberna, Marazziti, Caruso, Fitzgerald Nissoli, Piepoli».
(7 marzo 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    recenti fenomeni alluvionali che hanno interessato il nostro Paese, nel corso degli anni 2013 e 2014, ripropongono nuovamente le criticità relative alla fragilità del territorio nazionale, già sottoposto ad alto rischio di dissesto idrogeologico e la necessità ormai indifferibile della messa in sicurezza e di ripristino del suolo, attraverso il reperimento delle risorse necessarie per eseguire i molteplici interventi per le realizzazioni infrastrutturali;
    gli eventi pluviali di particolare intensità, che hanno interessato le regioni Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Toscana, alla fine dell'anno 2013 e all'inizio del 2014, hanno determinato una serie di complesse difficoltà di livello emergenziale, in estese parti degli insediamenti abitati nelle località implicate, provocando frane, allagamenti, esondazioni ed interruzioni della viabilità ordinaria e dei collegamenti ferroviari, causando addirittura numerose vittime;
    nella regione Friuli Venezia Giulia si è registrato, a partire dalla giornata del 30 gennaio 2014, un evento atmosferico di eccezionale portata che ha causato allagamenti nelle province di Udine e Pordenone. Le forti precipitazioni hanno causato l'esondazione del fiume Sile che ha comportato ingenti danni nei seguenti comuni della provincia di Pordenone: Chions, Azzano Decimo, Pravisdomini e Pasiano, con particolare gravità nelle frazioni di Panigai, Barco, Azzanello e Fagnigola. Per quanto riguarda la provincia di Udine, le intense ed eccezionali precipitazioni che hanno interessato il medio Friuli Venezia Giulia hanno determinato non meno di 250 mila euro di danni nel comune di Codroipo, in cui si sono, inoltre, registrati oltre 180 interventi in abitazioni private e attività commerciali, con ingenti danni non ancora stimati, causati dall'eccezionale innalzamento della falda acquifera; allagamenti che hanno provocato danneggiamenti si registrano negli archivi degli edifici pubblici, i cui danni stimati sono pari a 80 mila euro, per il palazzetto dello sport la valutazione degli interventi di ripristino risulta pari a 35 mila euro, mentre per il teatro comunale e per il Museo delle Carrozze, rispettivamente, si registrano danni per 25 mila euro e 40 mila euro; una situazione che, in considerazione di quanto esposto alla data odierna, permane ancora di evidente gravità;
    nelle località di Cordenons, Ruda e Fontanafredda, sono state segnalate una serie di emergenze connesse all'alluvione, che hanno comportato ingenti difficoltà per i cittadini, a cui si sono aggiunte una serie di complessità derivanti dalle esondazioni del fiume Ledra e degli affluenti del Lavia, che hanno provocato l'allagamento della strada provinciale del Cornino e la chiusura di un tratto della strada provinciale 99;
    le conseguenze del maltempo nell'alto Friuli Venezia Giulia, in particolare a Tarvisio, risultano di particolare rilevanza, a causa della straordinaria nevicata che ha comportato diverse e continue interruzioni del servizio di energia elettrica, che, unite agli effetti dell'evento atmosferico alluvionale, hanno procurato un grave danno agli afflussi turistici del fine settimana;
    anche in Carnia e nell'alta montagna friulana le interruzioni di energia elettrica, dovute al maltempo, hanno provocato notevole disagio alla popolazione nell'area dei comuni di Tolmezzo e Amaro con circa 14 mila utenze disalimentate a causa di cadute di alberi sulle linee o per il fenomeno dei manicotti gelati sulle condutture. Una sommaria stima dei danni causati dalla sospensione della fornitura elettrica ammonta a 1 milione e mezzo di euro (fonte Enel);
    nella regione Veneto, a partire dalla medesima e suindicata giornata del 30 gennaio 2014, le piogge persistenti hanno continuato ad insistere con una configurazione di eccezionale stazionarietà, interessando la parte orientale e le province di Padova, Treviso, Vicenza, Verona e Venezia, causando ingenti danni ai centri abitati e alle infrastrutture viarie, le cui interruzioni su diverse tratte montane, pedemontane e collinari hanno aggravato le già precarie condizioni della rete provinciale e secondaria di tutte le aree venete interessate dal dissesto idrogeologico;
    l'intensità delle precipitazioni piovose e nevose, avvenuta in tempi molto ristretti, che ha richiesto addirittura l'intervento dei militari dell'Esercito, impegnati con mezzi speciali a ripristinare la viabilità ordinaria e ad assistere le comunità locali interessate, ha provocato, inoltre, l'innalzamento repentino dei livelli idrometrici di tutti i corsi d'acqua, principali e secondari, causando l'esondazione del canale Loncon ad Annone Veneto, tra i territori di Treviso e Venezia, con l'acqua che ha invaso i collegamenti ferroviari e l'innalzamento del fiume Bacchiglione, ricadente nel paese di Bovolenta in provincia di Padova, minacciando la popolazione locale fatta evacuare in via precauzionale;
    l'eccezionale ondata di maltempo che ha attraversato gran parte del territorio veneto, i cui danni finanziari risultano provvisoriamente quantificati dal presidente della regione Veneto Zaia pari a 475 milioni di euro, ha coinvolto anche l'area dolomitica e prealpina, causando l'interruzione dell'erogazione dell'energia elettrica nei paesi dell'Alto Cadore, rimasti isolati, e la chiusura di passi e impianti sciistici;
    quanto sopra indicato ha determinato conseguenze particolarmente negative, per l'economia turistica veneta e friulana, in considerazione del fatto che, in alcuni casi, la stagione turistica invernale, che rappresenta peraltro in alcune aree montane l'unica fonte di reddito economico, si è interrotta in modo definitivo;
    l'evento alluvionale ha determinato ulteriori effetti ostili a seguito delle tonnellate di detriti, giunti dalle piene dei fiumi Piave e del Sile, spiaggiati sull'arenile di Jesolo e lungo l'intero litorale veneto, che hanno deturpato le spiagge e la costa, creando notevoli problemi, sia per il recupero, che per lo smaltimento dei rifiuti, da parte delle amministrazioni locali coinvolte;
    in considerazione della prospettata situazione meteorologica di rilevante gravità, la regione veneta, nella giornata del 3 febbraio 2014, ha deliberato lo stato di calamità, stanziando 1 milione di euro, per le prime necessità, stabilendo altresì l'urgente richiesta al Governo di recepimento per lo stanziamento delle risorse necessarie per fronteggiare l'emergenza; mentre la regione Friuli Venezia Giulia ha stanziato 4 milioni di euro dal fondo imprevisti destinati alla Protezione civile;
    nell'ambito della decretazione dello stato di crisi, a seguito delle criticità riscontrate in un'ampia area veneta interessata, si è disposto, ai sensi dell'articolo 106, comma 1, lettera c), della legge regionale n. 11 del 2001, di procedere pertanto alla richiesta della dichiarazione dello «stato di emergenza», come previsto dalla legge n. 225 del 1992 e successive modificazioni, alla Presidenza del Consiglio dei ministri;
    la prolungata fase di maltempo che ha continuato ad insistere per diversi giorni, nel corso della prima settimana di febbraio 2014, causando anche una vittima a Montegrotto in provincia di Padova, ha recato, inoltre, gravissimi danni agli edifici pubblici e privati, al sistema infrastrutturale e delle opere pubbliche, soprattutto nelle aree più urbanizzate e negli insediamenti produttivi, indebolendo fortemente l'economia locale, oltre, come in precedenza riportato, a quella turistico invernale, e le attività agricole e commerciali;
    nella regione Emilia-Romagna, nelle giornate dal 17 al 19 gennaio 2014, il territorio della provincia di Modena è stato colpito da gravi eventi alluvionali tali da causare una grave situazione di pericolo per l'incolumità delle persone, provocando l'evacuazione di numerose famiglie dalle loro abitazioni;
    l'ammontare dei danni, secondo una valutazione iniziale pari a 400 milioni di euro, è principalmente connesso ai danneggiamenti infrastrutturali verificatisi per le opere di difesa idraulica, nei riguardi degli edifici pubblici e privati, delle infrastrutture viarie e delle attività produttive;
    la rottura arginale del fiume Secchia ha, inoltre, provocato l'allagamento di centri abitati, l'interruzione di collegamenti viari e della rete dei servizi essenziali determinando, quindi, forti disagi alla popolazione interessata;
    le aree ricomprese nei comuni di Bastiglia, Bomporto, Sorbara, Bosco di San Felice, Finale Emilia, Camposanto e Albareto risultano, in particolare, quelle in cui l'intensità della pioggia ha insistito con rilevante costanza, provocando allagamenti e frane in vaste zone della bassa modenese ed altre zone emiliano-romagnole, con inevitabili ripercussioni negative e penalizzanti per l'intera economia territoriale interessata, per l'ambiente ed il paesaggio di un'area ad alta attrattività turistica e agrituristica;
    la decisione del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2014, che ha deliberato lo stato di emergenza nel territorio della provincia di Modena, in deroga ad ogni disposizione vigente e nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico, stanziando 11 milioni di euro, a valere sul fondo per le emergenze nazionali, sebbene condivisibile, risulta tuttavia insufficiente nel garantire un adeguato e completo livello di intervento finanziario in grado di ripristinare le condizioni di normalità per l'intera area interessata dall'evento alluvionale;
    nella regione Veneto, la ricognizione dei danni verificatisi e dei relativi fabbisogni finanziari, tali da formalizzare la dichiarazione dello stato di emergenza, per un evento calamitoso che, secondo quanto sostenuto dal medesimo presidente, risulta addirittura peggiore rispetto all'alluvione dell'anno 2010, a cui si aggiungono i gravissimi eventi alluvionali in precedenza esposti, avvenuti nelle regioni Friuli Venezia Giulia ed Emilia-Romagna, comprovano l'esigenza d'interventi in sede comunitaria, volti all'accesso agli stanziamenti previsti dal Fondo di solidarietà dell'Unione europea (Fsue) istituito allo scopo di far fronte alle grandi catastrofi naturali e offrire un aiuto finanziario agli Stati colpiti;
    l'intervento del medesimo Fondo, previsto dal regolamento (CE) n. 2012 del Consiglio, dell'11 novembre 2002, mirato ad integrare gli sforzi dello Stato beneficiario, prevede, secondo le procedure indicate nella domanda di ammissione, che ogni Stato membro possa presentare alla Commissione europea, non oltre dieci settimane dalla data in cui si è verificato il primo danno, la richiesta delle sovvenzioni concesse, anche se la soglia di intervento normale per questo Stato vicino non è stata raggiunta;
    il riavvio dei numerosi interventi per la messa in sicurezza del territorio danneggiato e delle opere di ricostruzione, finalizzate al ripristino delle condizioni di normalità per la vasta area regionale veneta interessata dall'alluvione, confermano come, in considerazione della gravità degli eventi calamitosi avvenuti nel Veneto, nel Friuli Venezia Giulia e in Emilia-Romagna, i requisiti indicati all'interno del sopra esposto regolamento (CE) n. 2012/2002, nell'ambito delle modalità di utilizzazione delle sovvenzioni concesse dal Fondo di solidarietà dell'Unione europea, siano manifestamente fruibili;
    nel caso in cui l'ammontare complessivo dei danni fosse stimato in maniera inferiore, rispetto a quanto indicato dal medesimo regolamento, che considera «grave» qualsiasi catastrofe tale da provocare danni stimati in oltre 3 miliardi di euro o superiori allo 0,6 per cento del reddito nazionale lordo o nell'eventualità che una delle tre regioni sopra indicate non avesse inoltrato richiesta dei benefici previsti dal medesimo Fondo di solidarietà dell'Unione europea entro i termini previsti, è necessario tuttavia prevedere interventi compensativi, a favore delle popolazioni e delle imprese colpite, attraverso la defiscalizzazione e la decontribuzione, per il biennio 2014-2015, in considerazione del fatto che, ad esempio, la sola regione Veneto contribuisce alle entrate dell'amministrazione statale con un «residuo fiscale» di oltre 20 miliardi di euro;
    le priorità d'intervento indicate all'interno del piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici predisposto dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, per la messa in sicurezza del territorio, che prevedono interventi presso l'Unione europea volti a derogare i vincoli del Patto di stabilità interno, rappresentano proprio le misure urgenti e necessarie da attribuire alle sopra indicate regioni, in considerazione dei gravissimi danni economici, registrati a seguito degli avvenuti disastri ambientali;
    l'esclusione dei vincoli del Patto di stabilità interno per gli anni 2014 e 2015, nei riguardi degli enti locali direttamente coinvolti dall'alluvione, che hanno subito ingenti danni economici tali da non essere in grado di sostenere finanziariamente le opere di ripristino, costituisce un'ipotesi auspicabile e positiva in grado di liberare risorse utili all'attuazione di specifiche azioni identificate nei piani di difesa del suolo;
    nel corso dei mesi precedenti, in cui si sono sfortunatamente verificati disastri ambientali provocati da eventi sismici e alluvionali, nel territorio nazionale, il Governo è intervenuto anche attraverso l'utilizzo della decretazione d'urgenza per fronteggiare gli effetti calamitosi, attraverso un'articolata disciplina degli interventi per la ricostruzione, l'assistenza alle popolazioni e la ripresa economica nei territori coinvolti, sia di carattere finanziario che fiscale, attraverso la sospensione dei termini degli adempimenti tributari e dei mutui in convenzione;
    le decisioni adottate dal Consiglio dei ministri, il 19 novembre 2013, a seguito dell'eccezionale ondata di maltempo che ha colpito la Sardegna, relative agli interventi a favore della regione autonoma isolana, disponendo interventi in deroga, nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico, confermano, infatti, come sia possibile agire coerentemente con analoghe misure anche nei confronti delle sopra esposte regioni, anch'esse investite da eventi naturali di portata straordinaria, non essendo le amministrazioni locali coinvolte in grado di sopportare gli oneri finanziari per la ricostruzione dei territori, colpiti da fenomeni climatici di tale intensità;
    interventi affini e similari si rendono, pertanto, necessari a sostegno del Veneto, del Friuli Venezia Giulia e dell'Emilia-Romagna, al fine di fronteggiare le gravissime conseguenze finanziarie dei bilanci degli enti locali coinvolti e consentire il riavvio dell'attività delle imprese le cui sedi operative sono state danneggiate dall'evento summenzionato,

impegna il Governo:

   a deliberare lo «stato di emergenza» per gli eccezionali eventi atmosferici verificatisi nelle regioni del Friuli Venezia Giulia e del Veneto, ai sensi dell'articolo 5, commi 1 e 1-bis, della legge 24 febbraio 1992, n. 225, e successive modificazioni e integrazioni, a seguito dei fenomeni alluvionali di intensa gravità avvenuti a partire dalla giornata del 30 gennaio 2014 e per i successivi giorni del mese di febbraio 2014;
   ad assumere iniziative finalizzate a sostenere le popolazioni e le attività imprenditoriali, commerciali, artigiane e agricole venete, friulane ed emiliane colpite dai violenti fenomeni alluvionali che hanno interessato i comuni delle province di Udine, Pordenone, Padova, Treviso, Vicenza, Verona e Venezia e i comuni della provincia di Modena, attraverso la defiscalizzazione e la decontribuzione per gli anni 2014 e 2015, anche prevedendo la sospensione immediata dei termini amministrativi dei contributi previdenziali e assistenziali e dei premi per l'assicurazione obbligatoria, ivi compresi il pagamento delle rate dei mutui e dei finanziamenti di qualsiasi genere, incluse le operazioni di credito agrario, erogati dalle banche e dagli intermediari finanziari e dalla Cassa depositi e prestiti;
   a prevedere iniziative volte all'alleggerimento dei vincoli del Patto di stabilità interno, ai fini del ripristino dei sistemi infrastrutturali della viabilità interrotta o danneggiata, nonché delle opere di difesa idraulica, deteriorate a causa delle abbondanti piogge, attraverso la deroga al 31 marzo 2014 delle disposizioni previste dai commi 547 e 548 dell'articolo 1 della legge 27 dicembre 2013, n. 147, (legge di stabilità per il 2014), concernente il riparto degli spazi finanziari attribuiti agli enti locali per sostenere i pagamenti di debiti in conto capitale, nei confronti delle regioni Friuli Venezia Giulia, Veneto ed Emilia-Romagna;
   ad assumere iniziative per destinare, infine, una quota parte delle risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione al finanziamento di una serie di interventi, tra cui quelli di messa in sicurezza del territorio, previsti dall'articolo 1, comma 7, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, a favore delle predette regioni.
(1-00365)
«Brunetta, Milanato, Sandra Savino, Palmizio».
(10 marzo 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    nella mattinata di domenica 19 gennaio 2014 l'argine del fiume Secchia, in località San Matteo, ha ceduto aprendo una falla a circa 3 chilometri a valle della città di Modena; l'argine ha ceduto per problemi strutturali e l'acqua fuoriuscita ha invaso il territorio circostante interessando 8 comuni, per un'area che si estende per circa 75 chilometri quadrati; i comuni più colpiti sono stati quelli di Bomporto e di Bastiglia;
    si sono verificati i seguenti fatti: migliaia di sfollati, un morto tra i volontari immediatamente intervenuti, 1.800 aziende che hanno interrotto la produzione, oltre 5.000 addetti rimasti senza lavoro e 2.500 ettari di produzioni agricole invasi dall'acqua; la prima stima dei danni fatta dalla struttura regionale parla di 400 milioni di euro, ma al momento sono ancora in corso le opportune verifiche;
    il territorio interessato dall'evento è lo stesso già interessato dai terremoti del maggio 2012;
    il susseguirsi di eventi calamitosi sta mettendo in ginocchio l'economia di una parte rilevante della provincia di Modena e cresce l'esasperazione degli imprenditori e dei cittadini, molti dei quali già vittime dirette del sisma ed ora dell'alluvione;
    dai dati elaborati dall'Istituto di ricerche economiche e sociali (Ires), il sisma del 2012 ha comportato un danno diretto di circa 6 miliardi di euro, a cui si aggiunge il danno indotto sull'intera economia regionale stimato in 8,25 miliardi di euro di fatturato: la prima stima fatta dalla struttura regionale dei danni diretti causati dall'alluvione parla di 400 milioni di euro, ma al momento sono ancora in corso le opportune verifiche;
    il ritardo nella ricostruzione e nell'erogazione delle risorse già stanziate a seguito del terremoto, sommato ai danni causati dall'alluvione che ha investito l'area a nord-est della provincia di Modena, sta seriamente compromettendo un tessuto produttivo tra i più avanzati a livello nazionale e tante piccole e medie imprese sono in ginocchio, senza la possibilità di ripartire; quello che si profila è l'affossamento di una parte importante dell'economia di questa provincia, con una riduzione conseguente del prodotto interno lordo nazionale;
    come affermato congiuntamente dal mondo imprenditoriale locale, in particolare da «Rete imprese Italia Modena», che raggruppa Ascom Confcommercio Fam, Confesercenti, Cna e Lapam Confartigianato, si ritiene assolutamente urgente e necessario prevedere da subito misure per il credito agevolato: c’è necessità di risorse immediate per far ripartire le aziende, gli impianti e i macchinari di produzione; si debbono ricostituire le scorte e per questo occorre uno sforzo finanziario che deve essere assolutamente sostenuto dal sistema creditizio, con costi azzerati, come in occasione dei sisma; occorre, inoltre, sospendere immediatamente le rate in scadenza di tutti i mutui in corso;
    è necessaria un'immediata proroga delle scadenze fiscali, così come devono essere rese disponibili le adeguate risorse per l'indennizzo dei danni, diretti ed indiretti, per le imprese e i cittadini; tutte le risorse necessarie devono essere rese disponibili attraverso sistemi semplificati e non gravati da quell'enorme carico burocratico che sta ora ostacolando la ricostruzione post sisma;
    eccezionali eventi atmosferici hanno colpito anche l'intero territorio del Veneto nel periodo dal 30 gennaio al 18 febbraio 2014: il maltempo e l'intensità della caduta di pioggia e neve hanno determinato varie situazioni di criticità, gravi disagi alla popolazione, danni consistenti ai beni pubblici e privati e alle attività economico-produttive (tetti delle abitazioni crollati, impianti di risalita inutilizzabili in montagna, capannoni allagati e spiagge invase dai detriti). Si sono verificati esondazioni di fiumi, fenomeni di dissesto idrogeologico, strutture arginali fortemente indebolite, innesco di valanghe e di movimenti franosi, interruzione di collegamenti viari e servizi essenziali, innalzamento delle falde freatiche e mareggiate sulla costa con erosione degli arenili, accompagnate da forti venti di scirocco;
    i comuni veneti coinvolti nell'alluvione sono almeno 130, in tutta la regione: le aree montane della provincia di Belluno e di parte delle province di Vicenza, Treviso e Verona, dove sono arrivate nevicate abbondanti sopra i 1200 metri, con accumuli di neve fino a oltre 4 metri; la pianura veneta, con allagamenti di più giorni sia in aree agricole che abitative, come nella zona di Legnago nella bassa veronese; i litorali dove sono state distrutte le infrastrutture e vengono raccolte tonnellate di materiali della più svariata natura portate a valle dai fiumi; ovunque con danni a argini, sistema idraulico, fiumi e affluenti. A ciò si aggiunga anche il blackout elettrico del bellunese con 35.000 utenze al buio, ripristinate in tre giorni di lavoro;
    a titolo esemplificativo, nel padovano si sono verificati i seguenti fatti: un'anziana è morta dopo una caduta a Montegrotto; 400 persone sono state sfollate dal centro di Bovolenta e altre 200 dalla zona di Ortazzo a Battaglia; ci sono state evacuazioni anche a Vighizzolo; è stata chiusa una scuola a Montegrotto; ci sono stati allagamenti a Selvazzano, Sarmeola e Merlara; le scuole sono state chiuse a Selvazzano, Piove di Sacco, Bovolenta, Brugine, Pontelongo Correzzola, Arzergrande e Codevigo;
    il presidente della regione Veneto, Luca Zaia, ha dichiarato lo stato di crisi regionale con decreto 3 febbraio 2014, n. 15, stanziando due milioni di euro per le prime emergenze; poi è stato adottato il decreto dell'8 febbraio 2014 per integrarne l'ambito temporale e definire quello territoriale, che interessa la regione in quasi tutta la sua totalità;
    ad una prima stima del presidente della regione Veneto, i danni risultano essere superiori ai 550 milioni di euro. I danni sono stimabili: almeno in 75 milioni di euro per le famiglie e le attività produttive colpite dalle esondazioni, dalle nevicate e dalle valanghe; 145 milioni di euro per le infrastrutture pubbliche della viabilità e quelle destinate a servizio pubblico; 213 milioni di euro per la rete idraulica principale e secondaria (con riferimento all'area del padovano, del veneziano e delle coste); 37 milioni di euro per i territori a causa di dissesti idrogeologici; 10 milioni di euro per le aziende agricole. Vanno considerati, inoltre, 15 milioni di euro spesi dagli enti locali per attivare i servizi straordinari di smaltimento dei rifiuti e rimozione della neve e 5 milioni di euro per le spese delle operazioni di soccorso straordinarie. A ciò si aggiungono anche i danni indiretti, per gli impatti imprevisti sull'attività turistica della stagione invernale;
    con la decisione 2013/678/UE del Consiglio dell'Unione europea, l'Italia è stata autorizzata a esentare dall'iva i soggetti passivi il cui volume d'affari non superi i 65.000 euro annui, in quanto l'importo è compatibile con la proposta di modifica della direttiva presentata dalla Commissione europea il 29 ottobre 2004, che, allo scopo di semplificare gli obblighi dell'iva, intende permettere agli Stati membri di fissare fino a 100.000 euro la soglia di volume d'affari annuo per l'accesso al regime speciale di esenzione dall'iva per le piccole imprese;
    vi è l'urgenza, ormai improrogabile, di individuare per questo territorio un sistema di fiscalità di vantaggio, così come autorizzato dal Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (Tfue), articolo 107, paragrafo 2, lettera b), e coerentemente al regolamento (CE) n. 2204/2002 della Commissione europea del 5 dicembre 2002, relativo all'applicazione degli articoli 87 e 88 del Trattato agli aiuti di Stato a favore dell'occupazione, che possa incoraggiare gli imprenditori ad affrontare anche questa ennesima sfida, oltre che a dare un impulso ad una economia stremata da anni di crisi e da catastrofi di portata storica;
    i fenomeni di dissesto idrogeologico sono molto frequenti in Italia e gli eventi meteorologici così detti «straordinari» sono diventati ordinari con drammatiche conseguenze sul territorio italiano; negli ultimi 80 anni la superficie nazionale è stata interessata da 5.400 alluvioni e 11.000 frane, mentre negli ultimi 20 anni sono state coinvolte 70.000 persone e sono stati stimati 30.000 miliardi di euro di danni;
    in base al report del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare nel 2008 in ben 6.633 comuni italiani sono presenti aree a rischio idrogeologico, l'82 per cento del totale. La superficie delle aree ad alta criticità idrogeologica si estende per 29.517 chilometri quadrati, il 9,8 per cento dell'intero territorio nazionale, di cui 12.263 chilometri quadrati (4,1 per cento del territorio) a rischio alluvioni e 15.738 chilometri quadrati (5,2 per cento del territorio) a rischio di frana;
    anche i dati dell'indagine Ecosistema Rischio 2011 confermano l'elevata tendenza del territorio italiano al dissesto idrogeologico. Oltre 5 milioni di cittadini si trovano ogni giorno in zone esposte al pericolo di frane o alluvioni. In 1.121 comuni, corrispondenti all'85 per cento di quelli analizzati nell'indagine, sono presenti abitazioni in aree golenali, in prossimità degli alvei e in aree a rischio frana, e nel 31 per cento dei casi in tali zone sono presenti addirittura interi quartieri. Nel 56 per cento dei comuni campione dell'indagine, in aree a rischio, sono presenti fabbricati industriali che, in caso di calamità, comportano un grave pericolo, oltre che per le vite dei dipendenti, per l'eventualità di sversamento di prodotti inquinanti nelle acque e nei terreni;
    il modo di procedere del Governo in occasione di interventi di emergenza dovuti a calamità naturali avanza, secondo i firmatari del presente atto di indirizzo, per approssimazioni ed è spesso troppo lento e farraginoso e, soprattutto, si rilevano estreme difformità di trattamento negli anni tra i vari territori; sarebbe importante ai fini della sicurezza, della trasparenza e della tempestività di azione e della semplificazione delle procedure individuare linee di indirizzo unitarie ed emanare un provvedimento organico che, da una parte, disciplini la gestione delle grandi emergenze, garantendo i diritti dei cittadini, definisca con chiarezza procedure e risorse in caso di eventi calamitosi uguali per tutti e, dall'altra parte, dia il via ad un serio ed organico piano per la riduzione del rischio idrogeologico in tutto il territorio nazionale, con tempi e fondi certi, per spostare gradualmente gli sforzi e le risorse dall'eterna emergenza alla prevenzione,

impegna il Governo:

   a garantire che le priorità indicate in premessa si traducano in iniziative concrete, anche normative, al fine di:
    a) disporre, in tempi rapidi, la concessione di contributi per la riparazione, il ripristino o la ricostruzione degli immobili di edilizia abitativa e ad uso produttivo danneggiati dall'evento alluvionale, in relazione al danno effettivamente subito, in misura adeguata e sufficiente a coprire integralmente le spese sostenute;
    b) riconoscere alle persone fisiche proprietarie di beni mobili registrati, danneggiati in conseguenza dell'evento alluvionale, un indennizzo pari al valore dei beni;
    c) riconoscere alle persone fisiche proprietarie di beni mobili non registrati ubicati nell'unità immobiliare adibita ad abitazione principale, danneggiati in conseguenza dell'evento alluvionale, un indennizzo pari al valore dei beni;
    d) concedere indennizzi alle attività produttive danneggiate dagli eventi calamitosi per il ripristino delle riserve di magazzino e per il risarcimento dei danni derivanti dalla perdita di beni mobili legati alla produzione;
    e) sostenere le popolazioni e le imprese colpite dall'alluvione di gennaio 2014 tramite la defiscalizzazione e la decontribuzione per il triennio 2014-2016, sospendendo immediatamente ogni adempimento fiscale, contributivo e assicurativo relativo a persone fisiche e giuridiche, nonché i mutui, per i contribuenti e le imprese;
    f) garantire gli ammortizzatori sociali ai lavoratori costretti all'inattività a causa degli eventi alluvionali e disporre una moratoria sul pagamento dei contributi a favore dei datori di lavoro;
    g) predisporre, per i territori dei comuni interessati al tempo stesso dalla recente alluvione di gennaio 2014 e dal sisma del maggio 2012, misure di agevolazione fiscale, incaricando il Cipe ed il Ministro dello sviluppo economico affinché assumano le iniziative necessarie all'individuazione ed alla perimetrazione di zone franche urbane, ai sensi dell'articolo 1, commi da 340 a 343, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e successive modificazioni, sulla base di parametri fisici e socioeconomici rappresentativi degli effetti provocati dagli eventi calamitosi sul tessuto economico e produttivo;
    h) istituire, coerentemente con le indicazioni fornite dalla Commissione europea nel «Libro verde sul futuro dell'IVA Verso un sistema dell'IVA più semplice, solido ed efficiente» e nella comunicazione della Commissione europea sul futuro dell'IVA, un regime speciale a favore delle piccole imprese, finalizzato principalmente a ridurre gli oneri amministrativi risultanti dall'applicazione delle normali disposizioni in materia di iva, prevedendo per i soggetti aventi un fatturato annuo inferiore a una determinata soglia il beneficio dell'esenzione dal tributo;
    i) sospendere le azioni esecutive di Equitalia fino al 31 dicembre 2016, con la successiva possibilità di rateizzazione delle somme dovute senza applicazione di interessi e sanzioni, ricorrendo anche alla compensazione tra Stato e persone fisiche e giuridiche;
    l) sospendere gli studi di settore per i periodi di imposta dal 2013 al 2016;
    m) introdurre adeguate misure di finanziamento alle piccole e medie imprese, svincolate dal merito creditizio, anche tramite la concessione a titolo gratuito delle garanzie pubbliche attraverso l'intervento del fondo centrale di garanzia di cui alla legge n. 662 del 1996 (articolo 2, comma 100, lettera a));
    n) assumere iniziative finalizzate ad escludere dal Patto di stabilità interno relativo agli anni 2014 e 2015 le risorse provenienti dallo Stato e le relative spese di parte corrente e in conto capitale sostenute dalla regione, dalla provincia e dai comuni, nonché le risorse proprie di tali enti impiegate per far fronte all'emergenza alluvionale, alle conseguenti opere di ripristino e ad opere di prevenzione e mitigazione del rischio idrogeologico;
    o) assumere iniziative per esentare per gli anni 2014 e 2015 i comuni al tempo stesso alluvionati e terremotati dai tagli previsti dalla cosiddetta spending review;
    p) esentare dall'imu e dalla concorrenza alla formazione del reddito delle persone fisiche, delle imprese ed enti pubblici, quegli immobili che siano risultati parzialmente o totalmente allagati, o oggetto a vario titolo di ordinanza di sgombero, per l'anno 2014;
    q) istituire un fondo di compensazione per i mancati introiti da imposizione fiscale (imu e Tares) per tutti i comuni colpiti dagli eventi calamitosi menzionati;
    r) rendere disponibili le risorse necessarie per far fronte ai danni dell'alluvione nel più breve tempo possibile, considerando anche l'ipotesi, nelle more delle specifiche coperture, di applicare i provvedimenti e le risorse già in essere e riferibili al terremoto del maggio 2012, armonizzando gli interventi di aiuto, dando mandato al commissario delegato, di cui all'articolo 1 del decreto-legge n. 74 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge 1o agosto 2012, n. 122, di utilizzare nell'immediatezza dell'urgenza ogni provvedimento e risorsa già nelle sue disponibilità;
    s) predisporre un programma di prevenzione ambientale di medio e lungo termine, attraverso una normativa specifica nazionale di messa in sicurezza del territorio, e delineare una disciplina della gestione delle grandi emergenze che, garantendo i diritti dei cittadini, definisca con chiarezza procedure, tempistiche e risorse in caso di eventi calamitosi;
    t) migliorare il coordinamento dei vari enti ed organismi che hanno competenza in materia di rischio idrogeologico, anche mediante una coerente, razionale ed efficiente redistribuzione delle competenze e attraverso semplificazioni delle procedure burocratiche ed amministrative che riguardano la gestione delle emergenze e la pianificazione e realizzazione delle opere di prevenzione;
    u) far rientrare le misure e gli interventi da mettere in atto nella logica multidisciplinare e sistemica della pianificazione di bacino, coerentemente con quanto previsto dalla direttiva quadro sulle acque (direttiva 2000/60/CE) e dalla direttiva relativa alla valutazione e alla gestione dei rischi di alluvioni (direttiva 2007/60/CE);
    v) valutare la possibilità di istituire dei bonus fiscali per i privati e le attività produttive che investono in opere di mitigazione del rischio, in modo da coinvolgere attivamente e diffusamente il tessuto produttivo italiano nella tutela e corretta gestione del territorio;
    z) promuovere una revisione dei piani di emergenza comunali da parte delle protezioni civili regionali, della protezione civile nazionale e dei relativi centri di competenza;
    aa) prevedere degli automatismi contabili secondo cui le risorse annualmente preposte dal Governo alla prevenzione del rischio idrogeologico siano proporzionali alle spese sostenute per le emergenze nel corso dell'anno precedente, in modo da poter quantificare i finanziamenti in maniera certa e da favorire un graduale passaggio dall'emergenza alla prevenzione;
    bb) gestire la riduzione del rischio idraulico concedendo finanziamenti in via prioritaria ad opere di rinaturalizzazione fluviale che consentano di restituire adeguati spazi alle naturali dinamiche dei corsi d'acqua tutelando i contigui insediamenti abitativi e produttivi.
(1-00367)
«Ferraresi, Dell'Orco, Businarolo, Brugnerotto, Segoni, Mucci, Spadoni, Sarti, Massimiliano Bernini, Dall'Osso, Spessotto, D'Incà, Da Villa, Benedetti, Rostellato, Turco, Fantinati, Cozzolino, Terzoni, De Rosa, Busto, Zolezzi, Daga, Mannino, Micillo».
(11 marzo 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    le regioni Veneto ed Emilia-Romagna, tra gennaio e febbraio 2014, sono state colpite da eccezionali eventi calamitosi, causa di ingenti danni alle infrastrutture delle regioni medesime, nonché al loro sistema produttivo;
    allagamenti e frane, nonché esondazioni di corsi d'acqua, hanno coinvolto località della regione Emilia-Romagna, quali Bomporto, Sorbara, Bosco di San Felice, Camposanto e Finale Emilia, con danni che ammontano a milioni di euro;
    la regione Veneto, da parte sua, ha registrato l'interruzione della viabilità e delle comunicazioni, oltre che la sospensione dell'erogazione dell'energia elettrica, a causa di pesanti precipitazioni di carattere nevoso e piovoso, ben al di sopra delle medie della stagione invernale;
    al cospetto di tali eventi eccezionali, l'intera attività alberghiera e turistica delle zone alpine della regione Veneto è risultata danneggiata, riportando perdite che sono andate ad appesantire la già critica situazione economico-finanziaria;
    intere comunità dell'area montana del Veneto sono rimaste completamente bloccate ed isolate a causa delle intense nevicate che hanno continuato a colpire la zona, con il raggiungimento di livelli raramente riscontrabili in passato;
    il territorio del modenese, già gravemente colpito dagli eventi sismici del 2012 e dai fortunali del 2013, è stato ulteriormente danneggiato in termini di inagibilità delle abitazioni, degli edifici scolastici, degli uffici pubblici, nonché relativamente alla capacità produttiva delle aziende agricole e manifatturiere presenti sul territorio,

impegna il Governo:

   a dichiarare lo stato d'emergenza per le regioni Veneto ed Emilia-Romagna a seguito degli eventi alluvionali del mese di gennaio 2014, ai sensi di quanto previsto dalla legge 24 febbraio 1992, n. 225, e successive integrazioni;
   ad assumere iniziative per sospendere ogni forma di adempimento fiscale, contributivo ed assicurativo riconducibile alle popolazioni colpite delle regioni Veneto ed Emilia-Romagna ed alle aziende presenti sul territorio medesimo;
   ad assumere iniziative per stanziare risorse da destinare alla ricostruzione di infrastrutture ed abitazioni seriamente danneggiate dagli eventi calamitosi ed alla ripresa dell'attività produttiva delle imprese, interrotta o lungamente sospesa a causa degli eventi naturali.
(1-00370) «Pizzolante, Dorina Bianchi».
(12 marzo 2014)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE PER PROMUOVERE LA PARITÀ DI GENERE NEL SETTORE DELLO SPORT

  La Camera,
   premesso che:
    la Carta europea dello sport del Consiglio d'Europa recita: «Per sport si intende qualsiasi forma di attività fisica che, attraverso una partecipazione organizzata o meno, abbia per obiettivo l'espressione e il miglioramento della condizione fisica e mentale, con la promozione della socializzazione e con il perseguimento di risultati in competizioni a tutti i livelli»;
    la pratica sportiva, dunque, coinvolge dimensioni diverse dell'esistenza individuale e collettiva: tempo libero, modelli di comportamento e aspetti economici, interessando tutti i cittadini indipendentemente da genere, razza, età, disabilità, religione e convinzioni personali, orientamento sessuale e provenienza sociale o economica. Come detto da Pierre de Coubertin, padre dei giochi olimpici moderni, lo sport «è parte del patrimonio di ogni uomo e di ogni donna e la sua assenza non potrà mai essere compensata»;
    i numerosi benefici dell'attività fisica e dell'esercizio fisico nel corso della vita sono ben documentati e, più in generale, contribuiscono alla qualità della vita, come confermato dall'Organizzazione mondiale della sanità. I ricercatori confermano il ruolo che lo sport e l'attività fisica hanno nello sviluppo dei bambini e degli adolescenti e rilevano che la partecipazione a un'attività fisica e sportiva nell'adolescenza è positivamente associata a livelli di attività fisica in età adulta;
    sono, inoltre, sempre più numerose le prove che attestano la positiva correlazione tra esercizio fisico e salute mentale, sviluppo mentale e processi cognitivi. Nell'Unione europea, i livelli di attività fisica sono in correlazione positiva con la speranza di vita, il che significa che in quei Paesi, dove i livelli di attività fisica sono più elevati, l'aspettativa di vita tende a essere più lunga;
    secondo l'Eurobarometro speciale sullo sport e l'attività fisica (2010), il 34 per cento degli uomini e il 43 per cento delle donne in Europa non praticano attività fisiche ricreative. Esistono delle enormi differenze circa la partecipazione allo sport e all'esercizio fisico tra i vari Paesi europei, che dipendono, tra le altre cose, dalla cultura e dalle opportunità. Nei Paesi scandinavi, dove sia gli Stati che gli individui stessi sostengono uno stile di vita attivo, la percentuale della popolazione attiva è molto alta, mentre la maggioranza della popolazione nei Paesi dell'Europa meridionale preferisce una vita sedentaria;
    già nel 1996 tutti i Ministri dello sport europei siglarono un accordo in cui manifestarono con forza a favore dello «sport per tutti», ponendosi l'obiettivo di offrire le stesse opportunità di pratica sportiva a tutti i cittadini;
    nella «Dichiarazione di Nizza», sottoscritta dai Governi dell'Unione europea nel dicembre 2000, ad esempio, si definisce lo sport come un «nuovo diritto di cittadinanza» mettendone in luce le sue caratteristiche transnazionali, che vanno oltre le pur forti radici nelle tradizioni e nelle culture delle popolazioni;
    in un'eccellente ricerca sulle federazioni sportive in provincia di Torino, pubblicata nel 2003, veniva riportato che, a livello europeo, da più parti, iniziava a diffondersi e a consolidarsi una concezione di sport come «diritto a stare bene»;
    nel 2011 la Commissione europea ha adottato una strategia per sviluppare la dimensione europea dello sport. Lo sport aiuta a superare le barriere sociali e a mettere in contatto persone di qualsiasi estrazione. L'Unione europea, in particolare, incoraggiò i 28 Stati membri a proporre iniziative che avrebbero ricorso allo sport per migliorare l'inclusione sociale;
    più recentemente, la relazione del novembre 2011 della Commissione europea sulla dimensione europea dello sport ricorda che lo sport contribuisce alla realizzazione degli obiettivi strategici dell'Unione europea, poiché pone in rilievo valori pedagogici e culturali fondamentali e costituisce un vettore di integrazione, nella misura in cui si rivolge a tutti i cittadini, senza alcuna distinzione;
    nonostante il sempre più crescente valore riconosciuto alle pratiche sportive, risulta, infatti, ancora persistente una forte segregazione verticale delle donne nello sport, specie all'interno delle organizzazioni sportive dove latitano in maniera preoccupante le donne che occupano posizioni direttive, e sono spesso tutti di genere maschile i dirigenti di federazioni in cui, pur in proporzioni ridotte, sono presenti anche donne praticanti;
    anche le fasce tecniche (arbitri e allenatori), guardate con attenzione nella composizione di genere, si rivelano ambiti dove le donne sono presenti in modo frastagliato ed in misura minore di quanto ci si potrebbe aspettare, sulla base della semplice composizione della platea di praticanti;
    dietro la tradizionale separazione tra uomini e donne nella pratica dello sport riappare, inoltre, in maniera prepotente lo spettro della «diversa retribuzione a parità di lavoro» che, almeno formalmente ed esplicitamente, in molti ambiti di lavoro non è praticabile e che, invece, divide drasticamente e «per scritto» il destino di due atleti, differenti solo nel genere;
    come è stato più volte denunciato, inoltre, la gran parte degli atleti svolge attività lavorativa in forma, si potrebbe dire, «atipica», senza la copertura dei contratti collettivi e comunque fuori dalle normali tutele del lavoro dipendente. Questa atipicità diviene drammatica quando a farne le spese sono le donne, che troppo spesso sottoscrivono con i club contratti di natura privata che non ne tutelano condizioni ed aspettative, essendo, peraltro, assente nelle società sportive femminili la soglia di passaggio dall'attività professionale alla professionistica. Sull'argomento, peraltro, non esistono informazioni chiare ed è per questo che si avverte sempre di più la necessità di maggiore attenzione in materia, specialmente da parte delle istituzioni interessate;
    per cercare di dare risalto alla situazione descritta, comune a molti Paesi europei, presso l'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere con sede a Vilnius, si è svolto i primi di dicembre 2013 un incontro promosso in collaborazione con la Commissione europea per fare il punto sulla condizione delle donne nei Paesi dell'Unione europea;
    l'obiettivo dell'appuntamento di Vilnius è stato quello di dare risalto alla Carta europea dei diritti delle donne nello sport, una proposta relativa a una strategia specifica sulla parità di genere e lo sport per il 2015-2020, avviata grazie al lavoro del dipartimento internazionale ed al progetto europeo Olympia, con il quale si è avuta la possibilità di rivedere e ridisegnare la Carta europea dello sport, partendo dalle esperienze di attività, dall'analisi della pratica sportiva delle donne in Europa e dal confronto tra diversi soggetti associativi ed istituzionali;
    come ricordato dai maggiori gruppi dell'associazionismo sportivo, la Carta europea dei diritti delle donne nello sport dà un fondamentale apporto alla diffusione delle buone pratiche nello sport e alla promozione delle pari opportunità nei diversi ambiti che interessano lo sport, come la pratica sportiva, la formazione e ricerca, l'informazione e comunicazione, la leadership. La Carta europea dei diritti delle donne nello sport ha, inoltre, il pregio ulteriore di muovere i suoi passi dall'esperienza diretta di un gruppo di esperti di organizzazioni sportive governative e non governative,

impegna il Governo:

   a porre in essere tutte le possibili iniziative volte ad incoraggiare una reale parità di genere nei board dirigenziali degli organismi federali delle varie discipline sportive;
   a porre in essere tutte le opportune iniziative, anche normative, per ridurre il gender pay gap tra atleti di sesso diverso e per implementare ogni forma di tutela possibile ai fini di una paritaria contrattualizzazione, senza discriminazioni legate al genere, anche incentivando il riconoscimento nelle competenti sedi del professionismo sportivo delle donne;
   ad attivarsi in tutte le sedi istituzionali europee affinché sia dato adeguato seguito alla Carta europea dei diritti delle donne nello sport presentata il 25 maggio 2011.
(1-00290)
«Brunetta, Centemero, Carfagna, Bergamini, Calabria, Castiello, Faenzi, Gelmini, Giammanco, Milanato, Petrenga, Polidori, Polverini, Prestigiacomo, Sandra Savino, Elvira Savino».
(19 febbraio 2014)

  La Camera,
   premesso che:
    lo sport ricopre un ruolo sociale fondamentale, riconosciuto anche dal Libro bianco sullo sport dell'11 luglio 2007 (COM(2007)391), presentato dalla Commissione europea al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato delle regioni e al Comitato economico e sociale europeo, che ha messo al centro il tema dell'inclusione, della sostenibilità e delle pari opportunità per lo sport per tutti;
    il trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1o dicembre 2009, ha riconosciuto lo sport come un settore di competenza dell'Unione europea in cui essa può sostenere, coordinare e integrare le attività dei suoi Stati membri. Promuovendo una crescita sostenibile, intelligente e inclusiva, nonché la creazione di posti di lavoro, lo sport contribuisce anche al conseguimento degli obiettivi della strategia Europa 2020. Esso ha, inoltre, effetti positivi sull'inclusione sociale, l'istruzione e la formazione, nonché sulla salute pubblica e l'invecchiamento attivo;
    lo sport nei Paesi europei è cambiato ed è cambiata la domanda di pratica sportiva da parte delle donne;
    nel 1985, l'Unione italiana sport per tutti (Uisp), associazione di sport che ha l'obiettivo di estendere il diritto allo sport a tutti i cittadini, in quanto lo sport per tutti è un bene che interessa la salute, la qualità della vita, l'educazione e la socialità e per questo deve essere meritevole di riconoscimento e di tutela pubblica, ha presentato la Carta europea dei diritti delle donne nello sport, per promuovere le pari opportunità tra uomini e donne nella pratica sportiva;
    nel 1987, il Parlamento di Strasburgo ha fatto propria la Carta europea dei diritti delle donne nello sport per invitare i Paesi europei a mettere in atto azioni per la promozione dello sport tra le donne e, nel contempo, diversi comuni e province hanno approvato una propria Carta europea dei diritti delle donne nello sport, per cercare di mettere in pratica azioni concrete per le pari opportunità;
    la Carta europea dei diritti delle donne nello sport ha avuto uno sviluppo e una rivisitazione, grazie al lavoro dell'Unione italiana sport per tutti e di altre associazione europee, per evidenziare la trasformazione, i cambiamenti della domanda di sport e per includere le esigenze di un'Europa allargata ad altri Paesi e culture;
    la nuova proposta di Carta europea dei diritti delle donne nello sport elaborata dall'Unione italiana sport per tutti, in collaborazione con altri partner europei nell'ambito del progetto «Olympia – Equal opportunities via and within sport» è indirizzata da tutti gli operatori sportivi, alle associazioni ed organizzazioni sportive, alle istituzioni, ai Paesi dell'Unione europea, tifoserie e media, ed è stata presentata al Parlamento europeo il 25 maggio 2011;
    a tutt'oggi, la nuova Carta europea dei diritti delle donne nello sport non è stata ancora approvata dal Parlamento europeo, nonostante l'interesse e l'impegno di diverse parlamentari italiane e non solo;
    a distanza di quasi 30 anni dalla presentazione della prima Carta europea dei diritti delle donne nello sport, nonostante i progressi e l'incremento della partecipazione delle donne nella pratica sportiva e motoria, permangono delle differenze in termini di pari opportunità, sia per quanto riguarda il coinvolgimento delle donne in ambito dirigenziale, di leadership nelle società sportive, nelle federazioni, nelle associazioni, sia per quanto riguarda la persistenza di stereotipi di genere nella pratica sportiva;
    i più recenti dati Istat disponibili (indagine multiscopo 2011, utilizzata da Tangos: «Tavolo nazionale per la governance nello sport») evidenziano che rispetto agli anni Novanta la quota di praticanti è cresciuta tra le donne, ma che l'aumento della pratica femminile è sostanzialmente dovuto alle bambine di 6-10 anni, alle donne tra i 45 e i 54 anni e a quelle nella fascia tra i 60 e i 64 anni. Prendendo i dati dei praticanti in modo continuativo nella fascia di età tra i 20 e i 44 anni, le sportive sono intorno al 20 per cento contro l'oltre 30 per cento dei coetanei maschi. Il divario massimo di circa il 24 per cento è nella fascia tra i 20 ed i 24 anni;
    la stessa indagine evidenzia che i sedentari, cioè coloro che non svolgono alcuna attività sportiva ma nemmeno una qualche attività fisica nel tempo libero, sono il 39,8 per cento tra gli uomini e ben il 44,4 per cento tra le donne;
    utilizzando un'altra fonte, i dati dell'Eurobarometro speciale sullo sport e l'attività fisica (2010), è interessante osservare come le donne italiane (dai 15 ai 54 anni) citino la «mancanza di tempo» quale causa della mancata pratica sportiva in misura maggiore rispetto alla media europea;
    la Carta europea dei diritti delle donne nello sport riconosce: il diritto delle donne e degli uomini ad avere le stesse opportunità di praticare sport in tutte le età e condizioni, senza distinzioni di provenienza sociale e culturale, in ambienti sani e che rispettino la dignità umana; il diritto di donne e di uomini ad avere pari opportunità nella partecipazione ai processi dirigenziali a tutti i livelli delle associazioni e federazioni e ad essere rappresentati in maniera equa nei diversi organismi dirigenziali e in tutti i ruoli decisionali e di potere del mondo dello sport; il diritto di donne e uomini a praticare diversi sport a qualsiasi età e sviluppare competenze nell'ambito dello studio dello sport e della pratica motoria, affinché, senza distinzione di genere, sia possibile ad entrambi sviluppare il proprio impegno sportivo durante tutto l'arco della vita; il diritto di donne e uomini ad un pari trattamento a tutti i livelli e in ogni campo delle scienze sportive affinché possano diventare membri delle comunità scientifiche e influenzare teorie, metodi e sistemi di ricerca anche nel mondo dello sport; il dovere degli insegnanti di educazione fisica, degli educatori sportivi, degli allenatori e delle altre figure educative che lavorano nelle diverse sedi e agenzie formative di combattere le discriminazioni di genere nello sport e di adottare ed implementare i principi dell'uguaglianza di genere e di valorizzazione delle differenze. Donne e uomini, nell'esprimere la propria attitudine sportiva ai massimi livelli, devono avere le stesse opportunità, anche attraverso un'equa distribuzione delle risorse, degli investimenti e degli incentivi economici destinati alla promozione dello sport di alto livello; donne e uomini devono, inoltre, avere le stesse opportunità nel manifestare ed esprimere la propria passione sportiva di tifose e tifosi e partecipare alla vita associativa dei gruppi organizzati di tifoserie. Il tifo femminile deve essere rispettato e le donne devono avere l'opportunità di ricoprire ruoli di responsabilità nei gruppi e non essere considerate semplicemente spettatrici, anche attraverso una rappresentazione da parte dei media rispettosa delle differenze e che attribuisca ai risultati delle atlete una visibilità equa rispetto a quelli conseguiti dai colleghi maschi;
    nel mese di dicembre 2013 si è svolto a Vilnius un appuntamento europeo promosso dalla Commissione europea per fare il punto sull'attività sportiva delle donne nei Paesi dell'Unione europea. Obiettivo della conferenza era discutere una proposta relativa a una strategia specifica sulla parità di genere e lo sport per il 2015-2020 da prepararsi a cura di un gruppo di esperti delle organizzazioni sportive governative e non governative. La conferenza è concentrata su temi quali la parità di genere nelle posizioni di responsabilità, le modalità per promuovere la partecipazione delle ragazze e delle donne allo sport, la prevenzione della violenza e delle molestie sessuali nello sport nonché l'eliminazione degli stereotipi di genere a valenza negativa,

impegna il Governo:

   ad attivarsi in tutte le sedi istituzionali europee affinché la nuova Carta europea delle donne nello sport presentata il 25 maggio 2011 sia al più presto approvata;
   a recepire nell'ordinamento italiano la Carta europea delle donne nello sport approvata nell'ambito del progetto «Olympia» e presentata al Parlamento europeo il 25 maggio 2011, predisponendo tutte quelle iniziative economiche e normative necessarie affinché vi sia un'effettiva promozione delle pari opportunità nella pratica sportiva, nella fruizione paritaria degli impianti sportivi, nella ricerca di strumenti utili a promuovere la partecipazione femminile alle varie discipline sportive e ai processi decisionali, attraverso l'inclusione delle donne nelle posizioni di dirigenza degli organismi federali delle varie discipline sportive.
(1-00273)
«Roberta Agostini, Beni, Massimiliano Bernini, Centemero, Coccia, Coscia, Fossati, Fragomeli, Molea, Nicchi, Sarti, Vezzali».
(3 dicembre 2013)

  La Camera,
   premesso che:
    la Carta europea dei diritti delle donne nello sport è stata proposta per la prima volta dalla l'Unione italiana sport per tutti (Uisp) nel 1985 e trasformata nella risoluzione delle donne nello sport nel 1987 dal Parlamento europeo;
    la Carta europea dei diritti delle donne nello sport rappresenta il primo tentativo per il riconoscimento e la rivendicazione delle pari opportunità di uomini e donne nello sport in ambito europeo;
    la Carta europea dei diritti delle donne nello sport del 1985 evidenziava una grave disparità numerica tra uomini e donne impiegate in questo settore e sottolineava la necessità di rimuovere le enormi barriere culturali che impedivano il reale coinvolgimento delle donne nello sport;
    a distanza di quasi 30 anni, nonostante i progressi e l'incremento della partecipazione femminile al mondo dello sport, permangono delle differenze in termini di pari opportunità: sia per quanto riguarda il coinvolgimento delle donne in ruoli e posizioni di vertice e leadership all'interno di enti, federazioni e società sportive, sia per la persistenza di stereotipi di genere nella stessa pratica sportiva;
    la Carta europea dei diritti delle donne nello sport è articolata in capitoli tematici: la pratica dello sport; la leadership; il mondo dell'educazione; la ricerca e le comunità scientifiche; donne, sport e media; spettatori e tifosi;
    l'Unione italiana sport per tutti ha messo a punto una nuova Carta europea dei diritti delle donne nello sport, dove il documento del 1985 è stato rivisitato e aggiornato con una particolare attenzione al superamento di tutte le forme di discriminazioni culturali, religiose e relative all'orientamento sessuale e al tema della multiculturalità e della disabilità;
    nella risoluzione approvata dal Parlamento europeo il 2 febbraio 2012 sulla dimensione europea dello sport si invita la Commissione europea e gli Stati membri a sostenere gli organismi europei per la promozione e l'attuazione delle raccomandazioni della Carta europea dei diritti delle donne nello sport;
    una nuova risoluzione, approvata dal Parlamento europeo il 12 marzo 2013, individua inoltre nell'attività motoria e sportiva un'importante risorsa per la promozione della salute, nonché il superamento degli stereotipi di genere;
    ognuno ha il diritto di praticate sport in ambienti sani che garantiscano la dignità umana. Donne e uomini di età differenti e di diverse provenienze sociali e culturali devono avere le stesse opportunità di praticare sport;
    le donne devono avere le stesse opportunità degli uomini di partecipare ai processi decisionali a tutti i livelli e nell'intero sistema sportivo e devono essere rappresentate con la pari eguaglianza nei diversi organismi dirigenziali e in tutte le posizioni di potere;
    le donne devono avere le stesse possibilità degli uomini di diventare membri delle comunità scientifiche e influenzare teorie, metodi e sistemi di ricerca, nonché avere un uguale trattamento a tutti i livelli e in ogni campo delle scienze sportive;
    l'Italia deve avvertire la stessa necessità dell'Europa di votare un atto di indirizzo al fine di superare le barriere culturali e gli stereotipi che ancora dominano il mondo dello sport e i preconcetti oggi ancora esistenti nei confronti del giornalismo sportivo femminile,

impegna il Governo:

   a valorizzare la pratica dello sport da parte delle donne;
   ad adottare ogni iniziativa di competenza finalizzata a favorire un'equilibrata rappresentanza di genere in seno agli organismi dirigenziali e decisionali delle organizzazioni sportive;
   a coordinare, insieme agli Stati membri, una campagna per la promozione e l'adozione della Carta europea dei diritti delle donne nello sport;
   a promuovere iniziative al fine di incoraggiare maggiormente la partecipazione delle donne alla pratica sportiva, garantendo la parità di accesso alle attività sportive, in particolare per le ragazze e le donne, inclusi i gruppi svantaggiati;
   a promuovere iniziative per far sì che alle donne sia garantito lo stesso trattamento economico degli uomini, sia negli organismi dirigenziali e decisionali di enti e organizzazioni sportive, sia nelle discipline sportive praticate.
(1-00319)
«Vezzali, Balduzzi, D'Agostino, Galgano, Matarrese, Mazziotti Di Celso, Monchiero, Oliaro, Sottanelli, Vargiu, Vecchio, Adornato, Binetti, Bonaccorsi, Bossa, Buttiglione, Carocci, Carrescia, Coppola, Costantino, Coccia, D'Ottavio, Cinzia Maria Fontana, Lodolini, Moscatt, Narduolo, Pastorino, Porta, Quintarelli, Raciti, Rampi, Rocchi, Rossi, Sanga, Francesco Sanna, Giovanna Sanna, Santerini, Sbrollini».
(20 gennaio 2014)

  La Camera,
   premesso che:
    nel 1985 l'Unione italiana sport per tutti (Uisp), in collaborazione con altri partner internazionali nell'ambito del progetto «Olympia – Equal opportunities via and within sport», ha elaborato «La Carta europea dei diritti delle donne nello sport», trasformata in Risoluzione delle donne nello sport nel 1987 dal Parlamento Europeo, evidenziando una grave disparità numerica tra uomini e donne impiegate in questo settore;
    la Carta europea dei diritti delle donne nello sport aveva lo scopo di incentivare campagne a favore delle pari opportunità fra uomini e donne nello sport e di rimuovere le barriere culturali che impediscono il reale coinvolgimento delle donne;
    a distanza di quasi 30 anni, nonostante i progressi e l'incremento della partecipazione femminile al mondo dello sport, permangono delle differenze in termini di pari opportunità: sia per quanto riguarda il coinvolgimento delle donne in ruoli e posizioni di vertice e leadership all'interno di enti, federazioni e società sportive, sia per la persistenza di stereotipi di genere nella stessa pratica sportiva;
    sotto il profilo della pratica sportiva, la Carta europea dei diritti delle donne nello sport specifica che «donne e uomini devono avere lo stesso diritto di praticare diversi sport e di sviluppare competenze nell'ambito di studio dello sport», sottolineando che «entrambi i sessi devono essere in grado di sviluppare il proprio impegno sportivo nell'arco della vita»;
    sotto il profilo della leadership, donne e uomini devono avere le stesse opportunità di partecipare ai diversi livelli decisionale nell'intero sistema sportivo; devono essere rappresentati in maniera equa nei diversi organismi dirigenziali e in tutti i posti di potere;
    nel gennaio 2011, la Commissione europea ha presentato la comunicazione «Sviluppare la dimensione europea dello sport», in cui individua azioni ed iniziative per la valorizzazione del ruolo dello sport nell'ambito delle singole politiche dell'Unione europea ed evidenzia i temi prioritari dell'agenda dell'Unione europea per lo sport: la promozione dell'attività fisica a vantaggio della salute; la lotta al doping; l'istruzione e la formazione; il volontariato e le organizzazioni sportive senza scopo di lucro; l'inclusione sociale nello sport e attraverso lo sport, compreso lo sport per i disabili e la parità dei sessi nello sport; il finanziamento sostenibile dello sport di base e la buona governance;
    il 2 febbraio 2012 il Parlamento europeo ha approvato la risoluzione sulla comunicazione della Commissione europea «Sviluppare la dimensione europea dello sport», in cui richiama espressamente la Carta europea dei diritti delle donne nello sport facendo proprie alcune delle indicazioni in essa contenute e dando ampio spazio, nella parte relativa al ruolo sociale dello sport, al tema delle donne e delle pari opportunità sotto il profilo di genere nello sport;
    nella risoluzione approvata dal Parlamento europeo il 2 febbraio 2012 sulla dimensione europea dello sport si invita la Commissione europea e gli Stati membri a sostenere gli organismi europei per la promozione e l'attuazione delle raccomandazioni della Carta europea dei diritti delle donne nello sport;
    una nuova risoluzione, approvata dal Parlamento europeo il 12 marzo 2013, individua, inoltre, nell'attività motoria e sportiva un'importante risorsa per la promozione della salute, nonché il superamento degli stereotipi di genere,

impegna il Governo:

   a farsi promotore, nelle competenti sedi europee, di una campagna per la promozione e l'adozione della Carta europea dei diritti delle donne nello sport;
   a mettere in atto ogni iniziativa idonea a valorizzare ed incoraggiare la pratica dello sport da parte delle donne, garantendo la parità di accesso alle attività sportive;
   a creare, con gli appositi strumenti, le condizioni affinché, all'interno degli organismi dirigenziali e decisionali delle federazioni sportive, sia favorita un'equa presenza delle donne e un trattamento economico, a parità di incarico, uguale a quello degli uomini;
   a porre in essere tutte le opportune iniziative, anche normative, per ridurre la disparità di trattamento economico tra atleti di sesso diverso e per implementare ogni forma di tutela possibile ai fini di una paritaria contrattualizzazione senza discriminazioni legate al genere.
(1-00379)
«Prataviera, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Rondini».
(14 marzo 2014)

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