TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 253 di Giovedì 26 giugno 2014

 
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INTERPELLANZE URGENTI

A)

   I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei ministri, il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, per sapere – premesso che:
   l'Agenda digitale è una grande visione di digitalizzazione e modernizzazione del Paese volta allo sviluppo di competenze e infrastrutture digitali, per migliorare l'efficienza dei processi e la qualità della vita dei cittadini, alimentando opportunità di conoscenza, culturali, sociali ed economiche;
   l'Agenda digitale italiana, in sintonia con quanto previsto a livello europeo, si propone una serie di obiettivi, oltre che sul fronte delle infrastrutture e della diffusione della banda larga, anche sul versate dell'educazione al digitale e, quindi, dell'utilizzo consapevole e informato delle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione;
   la Commissione europea, il 28 maggio 2014, ha reso noti i dati relativi all'attuazione dell'Agenda digitale europea, dedicando specifici focus tematici sui singoli Paesi membri;
   a livello europeo il quadro appare soddisfacente: la Commissione europea prevede che entro il 2015 saranno raggiunti 95 dei 101 obiettivi previsti;
   in termini generali si segnala: l'aumento dell'utilizzo regolare di Internet; i progressi significativi con riferimento all'utilizzo delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione da parte di appartenenti a gruppi svantaggiati; la crescita del commercio elettronico e il progressivo sviluppo della banda larga veloce;
   volgendo però lo sguardo alla situazione italiana il quadro si fa sconfortante in relazione ai principali indicatori analizzati (mercato della banda larga; utilizzo di Internet, competenze digitali, sviluppo del commercio elettronico e investimenti in ricerca e sviluppo nel settore delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione), soprattutto se i sopradetti dati vengono posti a confronto con dati di altri Paesi europei e se solo si considera che la media europea viene naturalmente calcolata sui dati dei 28 Paesi membri, come risultanza del processo di integrazione;
   dai dati pubblicati dalla Commissione europea con riferimento alla penetrazione della banda larga, emerge che solo il 21 per cento delle abitazioni italiane è raggiunto da una rete di accesso veloce ad Internet (almeno a 30 megabit per secondo), a fronte di una media europea del 62 per cento e a dati di alcuni Paesi europei, quali Regno Unito o Spagna, che si attestano sopra la media, rispettivamente all'82 e al 65 per cento di penetrazione e che, nei prossimi anni, prevedono di raggiungere il 100 per cento di copertura;
   i dati sull'estensione della banda larga ripercuotono i propri effetti in relazione a quelli relativi all'utilizzo di Internet rispetto ai quali l'Italia si segnala agli ultimi posti in ambito europeo: il 34 per cento della popolazione italiana non ha mai avuto accesso ad Internet (a fronte di una media europea del 20 per cento e di dati di Paesi, quali Regno Unito e Spagna, rispettivamente all'8 e al 24 per cento), mentre solo il 56 per cento della popolazione accede ad Internet almeno una volta a settimana (a fronte di una media europea del 72 per cento), mentre solo il 51 per cento della popolazione accede ad Internet quotidianamente (a fronte di una media europea del 62 per cento);
   medesime proporzioni si riscontrano con riferimento alle competenze digitali; la Commissione europea, infatti, rileva come ben il 60 per cento della popolazione italiana non ha o ha competenze digitali estremamente ridotte (a fronte di una media europea del 47 per cento);
   oltre che in termini di accesso e utilizzo di Internet, la situazione italiana appare drammatica con riferimento all'utilizzo da parte di imprese e cittadini dei servizi di commercio elettronico: solo il 20 per cento della popolazione ha fatto acquisti on-line nel 2013 (a fronte di una media europea del 47 per cento e dati di altri Paesi, quali il Regno Unito, ben al di sopra della suddetta media con il 77 per cento) e solo il 7 per cento della popolazione ha effettuato acquisti transfrontalieri attraverso servizi di commercio elettronico (dato peggiore a livello dei 28 Paesi membri dell'Unione europea);
   altrettanto deludenti appaiono i dati relativi agli investimenti in ricerca e sviluppo nel settore delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, che ammontano allo 0,7 per cento del prodotto interno lordo, al di sotto della media europea del 1,2 per cento in linea con i dati relativi a Paesi europei come la Spagna, ma ben al di sotto di quanto si investe nei Paesi più sviluppati e attenti all'innovazione;
   in Francia è stato predisposto un programma nazionale a banda larga (PFTHD – Plane France Très Haut Débit) che fissa e definisce l'obiettivo di garantire una connessione a 3-5 megabit al secondo per tutti entro il 2017, con l'ulteriore ambizioso traguardo di promuovere un accesso a banda larga ultraveloce per tutte le famiglie entro il 2022, mediante un mix di tecnologie. L'obiettivo è di dotare il 100 per cento del territorio con la banda larga entro il 2022 allo scopo di raggiungere una copertura nazionale completa mediante investimenti pubblici e privati di 20 miliardi di euro. In particolare, il piano è finalizzato a rafforzare la competitività economica e lo sviluppo locale, partendo dal presupposto che la banda larga ad alta velocità costituisce un fattore essenziale di sviluppo per le imprese, in grado di migliorare il livello di innovazione, produttività e accesso a nuovi mercati;
   la Germania ha adottato una strategia nazionale a banda larga nel 2009, nuovamente aggiornata nel 2013 ed in vigore fino al 2018. Gli obiettivi principali sono quelli di dotare almeno il 75 per cento delle famiglie con connessioni a banda larga caratterizzate da una velocità di trasmissione di almeno 50 megabit al secondo entro il 2014, per raggiungere una copertura totale del 100 per cento entro il 2018. A tal fine, la strategia nazionale incentiva l'uso di sinergie per l'espansione economica di infrastrutture a banda larga mediante una politica di sostegno e una regolamentazione orientata alla crescita per stimolare l'espansione delle reti a banda larga principalmente effettuate da operatori privati;
   nel quadro tracciato al di là degli annunci, fatti a più riprese, di voler fare dell'innovazione e del completamento dell'Agenda digitale italiana un traino per lo sviluppo del sistema Paese nel suo complesso, il Governo in carica ha percorso le strade, ad avviso degli interpellanti fallimentari, già percorse dai propri predecessori come emerge dal Documento di economia e finanza, nel quale non si prevede di destinare risorse sufficienti per il completamento dell'Agenda digitale italiana, o dalla recente delega sull'Agenda digitale italiana attribuita al Ministro interpellato, che testimonia come, ancora una volta, si intende sviluppare l'Agenda digitale italiana solo facendo riferimento a una digitalizzazione, ancora lontanissima, della pubblica amministrazione italiana –:
   quali iniziative urgenti intenda assumere il Governo, anche in vista del prossimo semestre di presidenza italiana dell'Unione europea, per assicurare una più rapida attuazione dell'Agenda digitale italiana in modo da colmare il gap di sviluppo rispetto agli altri Paesi europei testimoniato dai dati diffusi di recente dalla Commissione europea.
(2-00591)
«Liuzzi, Nicola Bianchi, De Lorenzis, Dell'Orco, Cristian Iannuzzi, Paolo Nicolò Romano, Spessotto, Alberti, Artini, Barbanti, Basilio, Paolo Bernini, Brugnerotto, Busto, Cancelleri, Cariello, Caso, Castelli, Corda, Crippa, Currò, Da Villa, Daga, De Rosa, Della Valle, D'Incà, Fantinati, Frusone, Mannino, Micillo, Mucci, Pesco, Petraroli».
(24 giugno 2014)

B)

   I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dell'economia e delle finanze, per sapere – premesso che:
   gli ultimi dati sul debito pubblico rilevati dalla Banca d'Italia mostrano come questo abbia toccato, nel mese di aprile 2014, il valore record di 2,1 trilioni di euro, con un aumento di 77 miliardi di euro registrato nei primi 4 mesi del 2014. Un aumento ben al di sopra di quello registrato nei precedenti 2 anni, 51 miliardi di euro nel 2012 e 53 miliardi di euro nel 2012;
   tutto ciò pone con forza il problema relativo alla sostenibilità del debito pubblico italiano, in considerazione soprattutto dello scenario economico attuale, caratterizzato da un tasso di inflazione prossimo allo zero nel quale l'Italia si trova e che, come noto, penalizza i debitori;
   si pensava che, grazie al crollo dei tassi d'interesse, per effetto delle politiche monetarie estremamente accomodanti decise della Banca centrale europea e alla conseguente contrazione dei rendimenti d'emissione dei titoli di Stato, il debito potesse finalmente scendere. Non solo questo non è accaduto, ma esiste un evidente rischio di aumento ulteriore dello stock di debito che si potrebbe generare da un aumento dei tassi d'interesse. Scenario non inverosimile se si pensa che la Banca d'Inghilterra ha già annunciato che entro il 2014 aumenteranno i tassi inglesi;
   al tempo stesso, la Federal Reserve americana (Fed) è decisa a portare avanti le operazioni di tapering, riducendo le sue operazioni di rifinanziamento di dieci miliardi di dollari al mese. Ne deriva la permanenza di un rischio destinato a far aumentare, in una prospettiva di medio periodo, l'intera struttura dei tassi di interesse. Fenomeno che non potrà non riflettersi sulla stessa politica della Banca centrale europea, facendo riemergere tutte le problematiche inerenti al premio per il rischio, con conseguenze immediate sulla solvibilità del debito italiano;
   le analisi condotte dal Dipartimento del Tesoro nell'ultimo documento di economia e finanza mostrano la vulnerabilità del debito pubblico italiano ad un aumento dei tassi d'interesse variabile, sulla quale il Governo non ha alcun potere d'intervento. Sul debito pubblico pesa poi l'incognita relativa al pagamento dell'integrale ammontare di debiti commerciali della pubblica amministrazione alle aziende, quantificato provvisoriamente dalla Banca d'Italia in 75 miliardi di euro (ma che potrebbe essere ben più elevato). Lo stesso Presidente del Consiglio dei ministri Renzi aveva promesso di ripagare ben 68 miliardi di euro entro la fine del mese di luglio 2014, obiettivo che sembra essersi smarrito;
   infine, l'ultimo bollettino trimestrale del Tesoro mostra come, nei prossimi 3 anni, ci saranno titoli pubblici in scadenza pari a oltre 500 miliardi di euro, circa un quarto di quelli totali;
   è bene ricordare che l'Italia ha sottoscritto una quota nel capitale del Meccanismo europeo di stabilità pari a 125,4 miliardi di euro e che di questa sono stati versati solamente 14,3 miliardi di euro (l'ultima tranche di 2,9 miliardi di euro è stata pagata ad aprile 2014). Pesa, pertanto, sull'immediato futuro l'esigenza di far fronte a questo ulteriore impegno destinato a far lievitare di quasi sette punti di prodotto interno lordo il debito complessivo italiano –:
   quali siano le ragioni dell'aumento del debito pubblico di ben 77 miliardi di euro nei primi quattro mesi del 2014;
   quali politiche di debt management intenda adottare il Governo per fronteggiare la scadenza dei titoli pubblici per un valore di 500 miliardi di euro, che avverrà nei prossimi 3 anni;
   quale sia l'impatto che si verificherebbe sul debito pubblico italiano per effetto dell'eventuale emissione di prestiti obbligazionari da parte del Meccanismo europeo di stabilità (cosiddetto Fondo salva Stati) per nuovi salvataggi;
   quale sarà l'impatto sul debito pubblico per effetto del pagamento dei debiti commerciali pregressi e dell'eventuale ulteriore tiraggio dovuto agli impegni internazionali assunti.
(2-00589) «Brunetta, Palese».
(23 giugno 2014)

C)

   I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei ministri, il Ministro dell'economia e delle finanze, il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, per sapere – premesso che:
   il 18 giugno 2014 la Commissione europea ha notificato al Governo italiano, con procedura di urgenza, una lettera di messa in mora per violazione della direttiva 2011/7/UE, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali;
   la direttiva europea, che il Parlamento ed il Consiglio europeo hanno adottato il 16 febbraio 2011, e che l'Italia ha recepito con il decreto legislativo 9 novembre 2012, n. 192, prevede l'obbligo per le pubbliche amministrazioni di pagare le imprese creditrici entro il termine massimo di 30 giorni, pena interessi di mora dell'8 per cento più l'euribor. Sono previste possibilità di deroga con estensione del termine a 60 giorni, solo per alcuni casi specifici. Deroghe che devono in ogni caso essere giustificate e approvate dalla Commissione europea;
   la Commissione europea, in base alle segnalazioni ricevute, ha riscontrato in Italia un'applicazione non corretta della direttiva sui tempi, più pratiche scorrette su tassi di mora e rapporti d'avanzamento dei lavori pubblici finalizzati a ritardare i pagamenti;
   la pubblica amministrazione italiana oggi paga le sue fatture in media in 180 giorni (6 volte quanto prescritto dalla normativa europea), dato confermato dalla Banca d'Italia nel suo rapporto annuale presentato il 30 maggio 2014. La situazione è ancora più grave nel settore dei lavori pubblici, dove la media è di 210 giorni. L'Italia è peggior pagatore di Bosnia (41 giorni), Serbia (46 giorni), ma anche della Grecia (155 giorni);
   la Commissione europea contesta all'Italia anche il fatto che il tasso di interesse applicato in caso di ritardo dei pagamenti non è quello dell'8 per cento più euribor previsto dalla direttiva europea, ma molto inferiore. Per cui viene meno lo spirito della norma, che intende contrastare il fenomeno dei tardati pagamenti attraverso l'imposizione di un tasso di interesse di mora alto;
   a ciò si aggiunge, infine, stando ai rilievi della Commissione europea, che la normativa italiana lascia troppa discrezionalità alla pubblica amministrazione nella definizione dei tempi per la fatturazione da parte delle imprese, passaggio essenziale per consentire a queste ultime di poter emettere fattura e, di conseguenza, esigere il pagamento della stessa;
   ora l'Italia ha due mesi per rispondere a Bruxelles e se non lo farà in modo soddisfacente l’iter dell'infrazione andrà avanti;
   nel ricostruire le vicende che hanno portato all'avvio della messa in mora nei confronti dell'Italia, si parte dal 18 marzo 2013, quando i vice-presidenti della Commissione europea, Olli Rehn e Antonio Tajani, comunicano all'Italia che il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione non rientra nel calcolo del debito pubblico ai fini del patto di stabilità;
   ed è così che l'8 aprile 2013 il Consiglio dei Ministri pro tempore, presieduto da Mario Monti, allora in carica per gli affari correnti, vara il decreto-legge che «sblocca» i pagamenti: si prevede che vengano liquidati 30 miliardi nel 2013 e 20 miliardi nel 2014. Di questi 50 miliardi di euro totali: 40 miliardi di euro, relativi a spese di parte corrente (forniture di beni e servizi) erano già computati nel calcolo del deficit, mentre non erano compresi nel deficit 10 miliardi di euro di spese in conto capitale (investimenti). Questo ha comportato un aumento del deficit pubblico, nel 2013, dello 0,5 per cento (da -2,4 per cento a -2,9 per cento), concordato preventivamente con l'Unione europea;
   i debiti delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle imprese private fornitrici di beni e di servizi, infatti, sono tutti contabilizzati nei bilanci dei comuni, mentre a livello aggregato (bilancio dello Stato, che rileva nei rapporti con l'Europa) è già contabilizzata (quindi compresa nel deficit) solo la quota relativa alle spese di parte corrente, mentre non è contabilizzata la quota relativa alle spese in conto capitale;
   l'impatto sull'indebitamento netto (ovvero sul deficit) del pagamento dei debiti commerciali, pertanto, dipende dall'origine dei debiti stessi; il pagamento incide sull'indebitamento netto solo per quelli riguardanti le spese per gli investimenti, contabilizzati con il criterio della cassa, mentre i debiti riguardanti le spese in conto corrente non incidono sull'indebitamento netto, in quanto sono contabilizzati con il criterio della competenza;
   questo succedeva con il Governo Monti. Con il pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni si dava modo alle imprese, attraverso la liquidità immessa nel sistema, di riavviare subito il ciclo dei pagamenti dei propri fornitori, di tornare a investire e di ricominciare ad assumere. Con effetto diretto sul prodotto interno lordo e con sollievo per le casse dello Stato, attraverso, da un lato, il versamento dell'Iva da parte di chi riceveva i pagamenti, dall'altro, attraverso il gettito dei tributi diretti e dei contributi sociali derivanti dalla ripresa occupazionale innescata dalla ripresa produttiva generata dai pagamenti. Convinti di ciò, a giugno 2013 (Governo Letta), gli interpellanti cominciavano a chiedere ripetutamente al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro dell'economia e delle finanze pro tempore di anticipare al secondo semestre 2013 anche il pagamento dei 20 miliardi inizialmente previsti per il 2014. Già solo per la quota prevista nel 2013, infatti, il Governo aveva stimato che dal pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni il prodotto interno lordo potesse aumentare, nel 2013, dello 0,2 per cento;
   anticipando i pagamenti della tranche originariamente prevista per il 2014, il prodotto interno lordo sarebbe potuto aumentare nel 2013 di ulteriori 0,3 punti, per un totale di 0,5 punti percentuali. E il pagamento anticipato di ulteriori 20 miliardi di euro di debiti delle pubbliche amministrazioni avrebbe prodotto effetti positivi non solo sul gettito dell'Iva, per via del riavviamento del ciclo di fatturazione, quantificato in circa 4 miliardi di euro, ma anche, per via della ripresa occupazionale, sulle entrate da tributi diretti e contributi sociali quantificati, ipotizzando un'elasticità unitaria del gettito rispetto al prodotto interno lordo, in altri 4-5 miliardi di euro. L'effetto totale per l'erario sarebbe stato, quindi, di circa 8-9 miliardi di euro, al netto di quanto già contabilizzato nei tendenziali. Sempre a giugno 2013 gli interpellanti chiedevano al Governo Letta di aggiungere pagamenti per altri 50 miliardi di euro, prevedendo ulteriori forme di finanziamento da parte del sistema bancario e delle società di factoring, da attivare mediante semplice concessione di garanzia da parte dello Stato su debiti certi, esigibili e ormai definitivamente accertati dalle procedure già poste in essere;
   ma gli interpellanti ottenevano solo che, il 28 ottobre 2013, l'Esecutivo stanziava ulteriori 7,2 miliardi di euro per il 2013;
   si arrivava così al Governo Renzi. Nel suo discorso alle Camere per la fiducia (24 febbraio 2014), il Presidente del Consiglio dei ministri interpellato si impegnava a pagare tutti i debiti residui della pubblica amministrazione anche attraverso il ricorso alla concessione di garanzia da parte della Cassa depositi e prestiti. Nella conferenza stampa del 12 marzo 2014, si impegna a pagare 68 miliardi di euro di debiti della pubblica amministrazione entro luglio 2014 e dopo solo un giorno (puntata di Porta a porta del 13 marzo 2014) già spostava avanti di 3 mesi la deadline;
   ad oggi, sul sito del Ministero dell'economia e delle finanze l'aggiornamento è del 28 marzo 2014 e i debiti della pubblica amministrazione pagati ai creditori ammontano a 23,5 miliardi di euro, di cui 22,8 miliardi di euro liquidati dal Governo Letta e solo 700 milioni di euro dal Governo Renzi. Era previsto un ulteriore aggiornamento dei dati sul sito del Ministero dell'economia e delle finanze per il 23 aprile 2014, ma non c’è stato. Né sono presenti altri aggiornamenti di maggio e giugno 2014;
   va, infine, messo in evidenza che quel 18 marzo 2013 i vice-presidenti Rehn e Tajani avevano chiesto all'Italia di precisare quale fosse l'ammontare totale e certo dei debiti della pubblica amministrazione. Ad oggi, dopo 15 mesi, non è ancora arrivata una risposta, L'unico dato che tutti conoscono è quello della Banca d'Italia: 90 miliardi di euro, di cui, si ripete, solo 23,5 miliardi di euro pagati dal 2013 a oggi;
   sarebbe opportuno accelerare, per un motivo (oltre quelli già esaminati) molto semplice: il pagamento di tutti i debiti della pubblica amministrazione deve essere portato a termine entro il 2015, altrimenti scattano le regole del «Fiscal compact», per cui qualsiasi aumento del debito oltre i parametri prefissati dagli accordi europei dovrà essere compensato nell'esercizio in corso, venendo meno, cioè, la «concessione» fatta all'Italia il 18 marzo 2013 dall'Europa –:
   quali siano le misure urgenti che il Governo intende adottare per rispondere alla lettera di messa in mora della Commissione europea relativa al pagamento dei debiti commerciali della pubblica amministrazione, al fine di un corretto recepimento della direttiva 2011/7/UE;
   quali siano le modalità con cui il Governo intende saldare i debiti pregressi, così come annunciato nella conferenza stampa del Presidente del Consiglio dei ministri del 12 marzo 2014.
(2-00595) «Brunetta, Palese».
(24 giugno 2014)

D)

   I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, per sapere – premesso che:
   il 3 dicembre 2013 il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 159 del 2013, recante il titolo «Regolamento c dichiarazione unica sostitutiva concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE)», pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 24 gennaio 2014;
   la disposizione riguarda milioni di cittadini italiani: l'indicatore di situazione economica equivalente, infatti, valuta e confronta la situazione economica dei nuclei familiari per regolare l'accesso alle prestazioni sociali e sociosanitarie erogate dai diversi livelli di governo;
   l'ISEE esiste già nella normativa italiana dal 1998, ma la sua applicazione è unanimemente ritenuta carente, inefficace e causa di un notevole numero di contenziosi. Da alcuni è, inoltre, ritenuto uno strumento scarsamente efficace nel contrasto di elusioni o abusi;
   forte anche di questi presupposti, dunque, il Parlamento, su iniziative del Governo Monti, (articolo 5 del decreto-legge n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2012) ha disposto una revisione dell'ISEE che solo a fine 2013 è stata attuata con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 159 del 2013;
   il provvedimento è entrato in vigore l'8 febbraio 2014;
   da tale data, come previsto dal decreto stesso, decorrono i 120 giorni di tempo per completare il percorso di attuazione;
   per rispettare le scadenze, il primo passaggio dovrà essere completato entro il 9 maggio 2014 (90 giorni dall'entrata in vigore del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri). Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con quello dell'economia e delle finanze, su proposta dell'Inps e sentiti l'Agenzia delle entrate e il Garante per la protezione dei dati personali, dovrà pubblicare un provvedimento con cui verrà definito il nuovo formato della dichiarazione unica sostitutiva (Dsu), cioè il documento centrale dell'ISEE, che il richiedente dovrà compilare e consegnare per ottenere l'indicatore. Dovranno essere definite anche le istruzioni per la compilazione della dichiarazione unica sostitutiva, nonché le caratteristiche della ricevuta che verrà rilasciata al momento della presentazione della richiesta. Tra gli elementi che attendono di essere definiti con il provvedimento ministeriale c’è anche la modalità con cui i dati utilizzati per calcolare l'ISEE saranno condivisi tra i vari soggetti coinvolti;
   completato questo passaggio, gli enti erogatori delle prestazioni sociali agevolate avranno 30 giorni per adeguarsi alle nuove disposizioni; a partire dall'8 giugno 2014, quindi, il nuovo indicatore della situazione economica equivalente dovrà essere pienamente operativo, sempre che vengano rispettate le scadenze previste dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri –:
   quale sia lo stato attuale dell’iter di attuazione del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 159 del 2013;
   se si preveda che le scadenze previste dal decreto, citate in premessa, verranno rispettate;
   se siano in atto o comunque, eventualmente, previsti controlli ministeriali diretti alla verifica dell'adeguamento alle nuove norme da parte degli enti erogatori, e con quali modalità si intenda effettuare gli stessi;
   se, come riferito dal Vice Ministro del lavoro e delle politiche sociali pro tempore Maria Cecilia Guerra, in occasione dell'audizione svoltasi il 23 gennaio 2014 in Commissione affari sociali, si intenda provvedere alla divulgazione, previa pubblicazione, delle simulazioni applicative del nuovo ISEE;
   come intenda agire nell'eventualità in cui dovessero riscontrarsi problemi di particolare entità sin dai primi esiti applicativi del nuovo ISEE e se, in tal caso, prenda in considerazione l'opportunità di formare una task force di intervento o, comunque, di elaborare un piano per modificare il nuovo strumento di indicazione della situazione economico-patrimoniale;
   se intenda assicurare sin d'ora, scongiurando la linea di intervento prefigurata dal commissario straordinario per la spending review, Carlo Cottarelli, che non procederà ad una riduzione delle indennità, specie di accompagnamento, soprattutto data l'incertezza circa gli esiti applicativi del nuovo impianto ISEE, nonché alla luce della mancata revisione dell'articolo 5 del decreto-legge n. 201 del 2001, cosiddetto «Salva Italia», che vede dette provvidenze assistenziali, peraltro costituzionalmente garantite, ingiustamente assimilate a voci di reddito;
   se non ritenga doveroso chiarire in che termini specifici intenda inasprire la cosiddetta lotta ai falsi invalidi tramite l'applicazione dell'ISEE, considerata, anzitutto, l'attuale indisponibilità o, comunque, la mancanza della documentazione necessaria per asserire che lo stesso indicatore economico possa considerarsi uno strumento certamente adatto allo scopo suddetto, nonché, a maggior ragione, a fronte dell'insuccesso della campagna di contrasto ai falsi invalidi, tuttora in atto, che fornisce oggi solo un quadro di migliaia di revoche disposte, specialmente, non a causa di illegittimi abusi riscontrati, bensì per via delle normali cessazioni dello stato temporaneo di invalidità dei beneficiari.
(2-00590)
«Di Vita, Cecconi, Lorefice, Grillo, Dall'Osso, Baroni, Silvia Giordano, Mantero, Nuti».
(24 giugno 2014)

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