TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 323 di Lunedì 3 novembre 2014

 
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MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE PER IL RILANCIO ECONOMICO E OCCUPAZIONALE DEL MEZZOGIORNO, CON PARTICOLARE ATTENZIONE ALLA SITUAZIONE DELLA CAMPANIA

   La Camera,
   premesso che:
    i dati emersi dall'ultima rilevazione del primo trimestre 2014 di Unioncamere Campania segnalano il rafforzarsi di una tendenza pesantemente negativa. Tra cessazioni di imprese, procedure fallimentari e aziende avviate alla liquidazione il saldo è di nuovo fortemente negativo nell'immediato ma con una pesante tendenziale conferma. Dati impressionanti che portano al 28 per cento (4 per cento in più della media nazionale) le procedure fallimentari e un aumento di oltre il 50 per cento di aziende in procedura di liquidazione e/o di scioglimento. Il dato ancor più negativo che colpisce è la tendenza fortemente incrementata di cessazione di attività nelle società di persone e i fallimenti nelle società di capitale;
    analogo indicatore giunge dalla relazione sull'economia campana per il 2013 realizzata da Banca d'Italia. Indicatori che confermano una tendenza all'accentuarsi dei profili di negatività delle dinamiche occupazionali ed economiche in Campania. La relazione di Banca d'Italia consente di cogliere in profondità gli elementi di regressività ormai strutturalmente indotti nel sistema economico campano e i riflessi sulle condizioni di povertà di larghissimi strati della popolazione;
    caratteristiche più puntuali sul tema dell'occupazione ovvero della disoccupazione strutturale, in netto e tendenziale aumento, pervengono dalla relazione Istat relativa al primo trimestre del 2014. Il tasso di disoccupazione sale dal 22,2 per cento del primo trimestre 2013 al 23,5 per cento del primo trimestre 2014;
    gli indicatori economici della Campania si rivelano essere drammatici;
    a questa tendenza si associano i dati sulla dinamica occupazionale, sulla cessazione dei rapporti di lavoro e sul costante aumento del livello di disoccupazione. Un tasso di occupazione stimato al 40 per cento che fa della Campania la regione al livello più basso ed inferiore di 17 punti della media nazionale;
    non servirà certo ad invertire questa tendenza consolidata il programma Youth Guarantee, che, presentato anche in Campania dall'attuale assessore regionale al lavoro, rischia di diventare, per come è stato costruito e per come sono orientate le modalità di spesa, non un'occasione di rilancio per le politiche pubbliche per il lavoro, ma un'occasione per imprese e agenzie private, che riceveranno gran parte dei finanziamenti. Il rischio reale è che sia, soprattutto in Campania e nel Mezzogiorno, un meccanismo per finanziare le agenzie private, in crisi per la caduta della domanda, piuttosto che uno strumento di orientamento e per favorire il reddito e l'occupazione dei disoccupati, in questo caso giovani;
    l'insieme di questi profili negativi porta la regione Campania a caratterizzarsi, nella vicenda economica e sociale del Paese, al punto più basso della sua storia produttiva, economica e sociale;
    eppure la Campania – e con essa l'attuale Governo regionale ormai prossimo alla scadenza naturale – possedeva tutte le condizioni per affrontare le dinamiche della crisi economica e soprattutto evitare un declino che appare oggi difficilmente recuperabile;
    come già aveva rilevato la Banca d'Italia nel suo rapporto congiunturale sulla Campania del 2013 «nuove opere previste dal Piano di azione per la coesione e un più rapido avanzamento nell'utilizzo dei fondi dell'Unione europea, concentrati in misura significativa nella realizzazione di grandi progetti infrastrutturali, potrebbero contrastare il calo degli investimenti pubblici»;
    la regione Campania nel marzo 2010, con il ricambio alla guida di Palazzo Santa Lucia da parte dell'attuale presidente, Stefano Caldoro, disponeva di una dotazione finanziaria enorme, di varia provenienza;
    non era stato approvato, per scelte politiche dell'allora maggioranza di Governo e del Ministro dell'economia e delle finanze pro tempore Tremonti, dal Cipe nell'anno precedente il programma attuativo regionale dei vecchi fondi Fas, oggi Fondo per lo sviluppo e la coesione, con una dotazione finanziaria di circa 4,3 miliardi di euro. Una dotazione finanziaria, quindi, pressoché intatta, se si esclude l'allora previsione, contenuta nel decreto-legge relativo alla chiusura dell'emergenza rifiuti, di coprire, per 350 milioni di euro, i costi di realizzazione dell'impianto di Acerra. Erogazione poi avvenuta direttamente da parte del Ministero dello sviluppo economico a valere su queste risorse;
    la dotazione finanziaria complessiva (Fondo europeo di sviluppo regionale, Fondo sociale europeo e Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale) della programmazione 2007-2013, per l'insieme dei programmi, si attestava in circa 10 miliardi di euro, comprensiva del cofinanziamento e si trovava di fatto solo allo stadio iniziale, in buona parte programmata ed impegnata su attività e progetti per la gran parte condivisa con gli attori locali. Tra di essa trovava spicco la dotazione infrastrutturale sui trasporti e alcuni programmi come il «Più Europa» e il programma per la città di Napoli;
    vi era ancora una dotazione finanziaria cospicua risalente alla programmazione 2000-2006 e fatta di risorse cosiddette liberate per l'utilizzo nell'ambito di quella programmazione dei cosiddetti progetti coerenti su cui erano finanziati, in parte, lavori che non si erano conclusi al 30 giugno 2009, data di conclusione della certificazione del programma 2000-2006;
    si tratta di una regione che veniva certamente da una fase estremamente difficile, passata attraverso la gravissima situazione dei rifiuti;
    la scelta compiuta nel 2010, con le norme contenute nel decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, per affrontare le procedure conseguenti allo sforamento del patto di stabilità del 2009, di fatto, hanno reso impraticabile qualsiasi utilizzo delle risorse disponibili come strumento anticiclico nella gravissima situazione economica che stava raggiungendo il suo culmine. Una scelta, quella imposta dalle norme ed applicata rigidamente dal governo regionale, che ha prodotto un disastro nell'intero territorio regionale. Sono stati bloccati, di fatto, tutti i cantieri avviati negli anni precedenti, impianti di depurazione, reti fognarie, reti ferroviarie e reti stradali, opere pubbliche dei comuni e l'intero programma dei fondi europei. Investimenti di grande impatto e si citano a titolo di esempio il blocco della commessa per la realizzazione di nuovi treni in appalto alla Firema o la costruzione nella penisola sorrentina di un modernissimo impianto di depurazione. Nello stesso tempo nuovi investimenti, come quelli che importanti gruppi industriali pensavano di realizzare, come i gruppi Ferrarelle e Doria, a cui la precedente amministrazione regionale aveva approvato, con lo strumento del contratto di programma regionale, le proposte presentate, venivano bloccati per poi essere riavviati solo nell'ultimo anno;
    è la stessa Banca d'Italia nella sua ultima relazione che coglie questo aspetto e ne segnala le conseguenze: «Un più tempestivo utilizzo delle disponibilità finanziarie provenienti dai fondi strutturali dell'Unione europea avrebbe potuto attenuare gli effetti del calo della domanda interna. Il rispetto degli ambiziosi obiettivi di potenziamento della competitività dell'economia regionale, programmati all'avvio del ciclo 2007-2013, ne avrebbe oggi rafforzato le prospettive di ripresa»; del resto, l'evidenza del blocco assoluto delle risorse europee a partire dal 2010 la si ritrova nella contrazione del prodotto interno lordo regionale che, proprio in questi anni, assume un dato che tracima, pari al 5 per cento superiore alla media nazionale;
    per non citare l'assoluta assenza di peso politico ed amministrativo in vicende come quelle che in questi anni hanno coinvolto le realtà d'impresa collegate al gruppo Finmeccanica, oltre che le polemiche nei confronti di aziende come Ansaldo, per ritardi sui lavori in corso e/o su problemi manutentivi del materiale rotabile consegnato nell'area napoletana, come puro elemento di discolpa per il dramma in cui è stato fatto precipitare l'intero sistema dei trasporti regionale. Una così pesante dinamica negativa nel settore del trasporto pubblico che diventa un ulteriore elemento aggiuntivo per i cittadini per gli elevati costi connessi all'utilizzo dei mezzi di trasporto in questa regione (mediamente il 3 per cento in più della media nazionale). Nel 2013 sono, inoltre, peggiorati i giudizi sul servizio di trasporto pubblico locale. In Campania, la quota di popolazione che ha utilizzato i trasporti pubblici locali è diminuita rispetto all'anno precedente per tutte le tipologie di mezzo: autobus (-1,7 per cento), pullman extraurbano (-2,9 per cento), treno (-1,9 per cento);
    con la sostanziale soppressione della bigliettazione integrata e il ritorno a quella di azienda, è venuta meno l'idea e la possibilità che l'integrazione tra le aziende fosse un elemento che consentiva ai cittadini e utenti di disporre di un servizio collettivo ed unitario;
    del resto, è lo stesso meccanismo che recentemente la giunta regionale ha approvato, deliberando di indire procedure di gara per l'affidamento dei servizi di trasporto, su gomma, su ferro e su mare, procedendo ad uno spacchettamento dell'offerta. Una proposta inaccettabile, che collide con ogni idea di integrazione e di riduzione delle strutture societarie ed in assoluta controtendenza con ogni ipotesi di riorganizzazione del sistema del trasporto pubblico che è in corso di realizzazione nel Paese. Si tratta di una proposta priva, inoltre, di ogni meccanismo di salvaguardia per i lavoratori e con una dotazione finanziaria assolutamente insufficiente;
    il blocco ha operato, di fatto, su lavori e sugli investimenti in corso di realizzazione, con impegni giuridicamente vincolanti assunti prevalentemente o dalla precedente amministrazione regionale e/o da una duplicità di soggetti attuatori (enti locali, Asi, strutture straordinarie di Governo ed altri). La conseguenza ulteriore è che questa decisione ha alimentato un contenzioso amministrativo e giuridico tra istituzioni e con le imprese. I costi legali che si sopporteranno per la ripresa di queste attività, come è già evidente nel settore dei trasporti, rischiano di superare, in molte occasioni, il valore degli investimenti che dovevano essere realizzati;
    nel corso di questi anni, il blocco totale degli investimenti pubblici in conto capitale ha intensificato un processo di deindustrializzazione, già presente in Campania, né è possibile ipotizzare che la politica industriale sia sinonimo di privatizzazioni, in un quadro in cui da oltre 15 anni non c’è nessuna politica industriale e pubblica che riguardi il nostro Paese, senza contare che con la crisi economica si è ulteriormente accentuato il divario tra l'industria campana e il resto del Paese. Il valore aggiunto industriale (dati Istat) è diminuito del 20 per cento, il doppio della media nazionale che è del 10,8 per cento;
    è praticamente scomparso tutto il settore degli appalti ferroviari, presenza industriale significativa a livello regionale, che invece, a ridosso degli investimenti attivati nel decennio precedente, era riuscita a tenere un suo livello di occupazione e di attività produttiva; così come, per l'assenza di politiche nazionali e regionali di sostegno, lo stesso settore del termalismo vive serie e profonde difficoltà;
    come segnala anche l'ultimo rapporto della Banca d'Italia sulla Campania, tra le realtà produttive che nel 2007 contavano almeno mille addetti, sono praticamente nulli i segnali di ripresa del settore automotive e cantieristica (che ha perduto oltre il 70 per cento dell’export). Sono crollate tutte le attività di produzione non metallifere, conseguenti al crollo dell'edilizia e nell'area della provincia di Caserta è praticamente scomparsa quasi interamente l'industria di produzione elettronica;
    paradossale, se non drammatica, appare invece tutta la vicenda collegata al porto di Napoli e alle attività collegate a questo settore. Mentre prosegue la perdita di peso commerciale delle realtà portuali campane e la costante perdita di flussi di viaggiatori, le vicende collegate alla decisione di destinare attraverso lo strumento del grande progetto risorse europee per l'adeguamento dello stesso sono inesorabilmente bloccate. Come bloccata è tutta la struttura di governo dell'autorità portuale, commissariata. Come bloccata è rimasta la stessa necessità di realizzare nell'area di Castellammare il nuovo bacino per Fincantieri. Occorre una vera politica di sostegno alla cantieristica, cosa che altre amministrazioni regionali praticano costantemente, e non sporadici spot;
    in questo quadro i segnali positivi che vengono o dall'agroalimentare (produzioni casearie, ortofrutticole e cerealicole), da preservare ed incrementare come filiera a partire dalla valorizzazione e diffusione della cultura e delle pratiche gastroeconomiche connesse alla «dieta mediterranea», o dall'abbigliamento, soprattutto quello di alta gamma, incidono poco dato il numero non elevato di addetti sul totale della regione. Mentre fa storia a sé il settore aerospaziale (Alenia in particolare), sul quale pesano le scelte del gruppo dirigente uscente di Finmeccanica e di quello costretto ad uscire a seguito di inchieste giudiziarie. Scelte segnate, in Campania come in altre parti del Paese, dall'indebolimento progressivo delle componenti industriali nel settore ferroviario;
    perfino quando con l'intervento del Ministro per la coesione territoriale pro tempore, Fabrizio Barca, nel 2012 venivano resi liberi spazi finanziari consistenti fuori al patto di stabilità e si ridefinivano e riprogrammavano le risorse europee e si riallocavano le risorse ex Fas nel Fondo per lo sviluppo e la coesione, quelle somme non sono poi state concretamente erogate ed immesse nel circuito economico regionale. Vi è un dato che segnala ulteriormente questa incapacità ed è rilevabile dall'allegato al recentissimo Documento di economia e finanza del Governo Renzi sugli interventi nelle aree sottoutilizzate. La Campania raggiunge appena l'1,22 per cento di attuazione della programmazione;
    si tratta di una regione che si è caratterizzata per un livello di inefficienza clamorosa. Basti pensare a come si è operato sul versante rifiuti. Al presidente della regione Campania, con il decreto-legge n. 196 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 277 del 2010, sono stati conferiti i poteri per nominare commissari per realizzare discariche, impianti di compostaggio e termovalorizzatori. Sono stati nominati circa 15 commissari. In quasi quattro anni non solo non è stato avviato un lavoro, ma, tranne in un caso, non sono state neanche aggiudicate o bandite gare e individuate aree. Si è solo prodotto un conflitto insanabile con le popolazioni e le comunità locali su annunci di possibili interventi;
    la Campania, le amministrazioni locali ed i cittadini hanno visto cumularsi agli effetti della crisi economica internazionale – con un governo regionale, detentore delle leve finanziarie pubbliche, travolto da inconsistenza ed incapacità amministrativa – faide intestine al ceto politico di centrodestra ed una vergognosa assemblea elettiva coinvolta in decine di provvedimenti giudiziari,

impegna il Governo:

   a intraprendere le opportune iniziative affinché il Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica verifichi ed esegua con continuità il monitoraggio dei programmi di attuazione e spesa della programmazione 2007-2013 della regione Campania, per evitare, nelle more dell'effettiva funzionalità dell'Agenzia per la coesione territoriale, qualsiasi possibilità di disimpegno delle risorse già assegnate;
   ad assicurare che l'istituita Agenzia per la coesione territoriale, per la programmazione 2014-2020, operi, anche con le nuove risorse umane assegnate dalle disposizioni di legge, al di fuori di ogni forma di condizionamento e nell'autonomia operativa necessaria ad assumere le funzioni previste, stabilendo che l'intero costo della tecno-struttura che i contribuenti pagano sia legato al valore che essa produce, stimabile attraverso la definizione di un sistema di indicatori che consenta di rendere realmente misurabili i risultati, al fine di evitare ulteriore spreco di danaro pubblico;
   ad assumere iniziative per predisporre un apposito documento di programmazione e finanza sul Mezzogiorno e sulla Campania che, alla luce della nuova programmazione 2014-2020 dei fondi strutturali e della programmazione 2014-2020 del Fondo per lo sviluppo e la coesione e di quanto delineato con la legge di stabilità per il 2014, dia unitarietà e coerenza a nuove politiche di sviluppo e di lavoro;
   a predisporre, nel citato documento di programmazione e finanza sul Mezzogiorno, le linee guida di salvaguardia dell'apparato produttivo ancora esistente e una nuova politica industriale nel Mezzogiorno e in Campania su cui orientare risorse ed investimenti per il prossimo decennio;
   a definire negli strumenti della programmazione 2014-2020 l'utilizzo di parte delle risorse del Fondo sociale europeo per realizzare politiche attive di lavoro e inserimento professionale nei confronti dei giovani disoccupati meridionali nei campi del turismo sostenibile, dei beni culturali e della fruizione degli stessi, dell'innovazione tecnologica e dei servizi sociali, che devono essere volti ad incrementare e ammodernare i sistemi di welfare nel rispetto della cittadinanza di genere, escludendo meccanismi di intermediazione formativa;
   a riservare in ogni caso alla regione Campania parte della dotazione disponibile nella programmazione 2014-2020 sia dei fondi strutturali che del Fondo per lo sviluppo e la coesione per le politiche per il riassetto ambientale, alla luce dell'eventuale emergenza connessa al cosiddetto rischio Vesuvio ed alle conseguenze prevedibili non soltanto sul versante della protezione civile.
(1-00537) «Scotto, Giancarlo Giordano, Ferrara, Fratoianni, Bossa».
(11 luglio 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    come rilevato a più riprese anche da parte dei più alti vertici istituzionali, tra le incompiutezze dell'unificazione perpetuatesi fino ai nostri giorni è il divario tra Nord e Sud e dunque la condizione del Mezzogiorno, che si colloca al centro delle preoccupazioni e responsabilità nazionali. Rispetto a questa questione, che tarda a ricevere risposte adeguate, pesa certamente l'esperienza dei tentativi e degli sforzi portati avanti a più riprese nei decenni dell'Italia repubblicana e rimasti senza risultati risolutivi, ma pesa anche l'oscurarsi della consapevolezza delle potenzialità che il Mezzogiorno offre per un nuovo sviluppo complessivo del Paese e che sarebbe fatale per tutti non saper valorizzare;
    purtroppo il Mezzogiorno, a pochi mesi dalla fine del 2014, è ancora il cuore del problema per la soluzione della «questione Italia»;
    nelle anticipazioni del rapporto 2014 sull'economia del Mezzogiorno, presentato a luglio 2014 alla Camera dei deputati, la Svimez, Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, disegna ancora una volta un Paese diviso e diseguale, dove il Sud scivola sempre più nell'arretratezza;
    nel 2013, infatti, il divario di prodotto interno lordo pro capite è tornato ai livelli di dieci anni fa: 16.888 euro nel 2013 contro i 16.511 del 2005. Ciò è da attribuire non tanto ai livelli di produttività dell'area, che nel periodo di crisi 2008-2013 mostrano una sostanziale stazionarietà, quanto ad una preoccupante diminuzione del tasso lordo di occupazione. Negli anni di crisi 2008-2013 i consumi delle famiglie sono crollati quasi del 13 per cento, gli investimenti nell'industria addirittura del 53 per cento, i tassi di iscrizione all'università tornano ai primi anni 2.000 e per la prima volta il numero di occupati ha sfondato al ribasso la soglia dei 6 milioni, il livello più basso dal 1977. Nel Mezzogiorno si continua a emigrare, non fare figli e impoverirsi: in cinque anni le famiglie assolutamente povere sono aumentate di due volte e mezzo, da 443 mila a 1 milione e 14 mila nuclei;
    in base alle valutazioni Svimez, nel 2013 il prodotto interno lordo è crollato nel Mezzogiorno del 3,5 per cento, approfondendo la flessione del 2015 (-3,2 per cento), con un calo superiore di quasi due punti percentuali rispetto al Centro-Nord (-1,4 per cento). Si tratta del sesto anno consecutivo in cui il prodotto interno lordo del Mezzogiorno registra segno negativo. Il peggior andamento del prodotto interno lordo meridionale è dovuto, soprattutto, ad una più sfavorevole dinamica della domanda interna, sia per i consumi che per gli investimenti;
    a livello regionale nel 2013 si è registrato un segno negativo per tutte le regioni italiane, a eccezione del Trentino-Alto Adige (+ 1,3 per cento) e della stazionaria Toscana (0 per cento). Anche le regioni del Centro-Nord sono tornate a segnare cali significativi, come l'Emilia-Romagna (-1,5 per cento), il Piemonte (-2,6 per cento), il Veneto (-3,6 per cento), fino alla Valle d'Aosta (-4,4 per cento). Nel Mezzogiorno la forbice resta compresa tra il -1,8 per cento dell'Abruzzo e il -6,1 per cento della Basilicata, fanalino di coda azionale. In posizione intermedia la Campania (-2,1 per cento), la Sicilia (-2,7 per cento), il Molise (-3,2 per cento). Giù anche Sardegna (-4,4 per cento), Calabria (-5 per cento) e Puglia (-5,6 per cento). Guardando agli anni della crisi, dal 2008 al 2013, profonde difficoltà restano soprattutto in Basilicata e Molise, che segnano cali cumulati superiori al 16 per cento, accanto alla Puglia (-14,3 per cento), la Sicilia (-14,6 per cento) e la Calabria (-13,3 per cento). Il divario tra la regione più ricca e la più povera è stato nel 2013 pari a 18.453 euro: in altri termini, un valdostano ha prodotto nel 2013 oltre 18 mila euro in più di un calabrese;
    il rapporto 2014 Svimez, commentando i dati negativi anche del Centro-Nord, ritiene che «sicuramente non è in crisi per colpa del Sud ma rischia di non uscirne finché non si affronta e non si risolve il problema del Mezzogiorno, in quanto una domanda meridionale così depressa ha inevitabili effetti negativi sull'economia delle regioni centrali e settentrionali»;
    le due aree del Paese sono strettamente connesse; del resto, è ampiamente testimoniato dagli andamenti demografici, il Centro-Nord continua ad attrarre significativi flussi di popolazione che si spostano dalle regioni meridionali. I dati del 2013 confermano la grave crisi demografica del Sud; nel 2013 la popolazione meridionale è calata di circa 20 mila unità a causa della ripresa delle emigrazioni verso il Centro-Nord e verso l'estero, oltre al calo delle nascite che anch'esso risulta essere particolarmente rilevante. Tra il 2001 e il 2013 sono emigrati dal Sud verso il Centro-Nord oltre 1.559.100 meridionali, a fronte di un rientro di 851 mila persone, con un saldo migratorio netto di 708 mila unità. Tali flussi migratori acquistano ancora più importanza se si pensa agli effetti che avranno sulla capacità del Sud di riprendersi e di intraprendere un nuovo percorso di sviluppo e di crescita. Si allontanano dalle regioni di origine i giovani in età riproduttiva e dotati di elevate conoscenze e competenze professionali e intellettuali, quindi le conseguenze negative si rivelano su due fronti: da una parte si pregiudica l'evoluzione demografica dell'area meridionale, dall'altro il Sud viene privato di quelle competenze indispensabili per la crescita economica;
    nel 2013 il Mezzogiorno ha toccato il suo minimo storico per quanto riguarda il numero dei nati: 177 mila, il valore più basso dall'Unità d'Italia. Purtroppo il Sud perde progressivamente popolazione, anno dopo anno. La fecondità femminile si attesta a quota 1,36 figli per donna, cifra lontana dal 2,1 nati per coppia che garantirebbe la stabilità demografica. Il Centro-Nord, invece, ha visto una crescita a quota 1,46 figli per donna, grazie anche all'apporto riproduttivo elevato delle donne straniere;
    per la Svimez nel 2013 la povertà assoluta è aumentata al Sud rispetto al 2012 del 2,8 per cento contro lo 0,5 per cento del Centro-Nord. Anche per questo i consumi delle famiglie meridionali sono ancora scesi, arrivando a ridursi, nel 2013, del 2,4 per cento, a fronte del -2 per cento delle regioni del Centro-Nord. Dal 2008 al 2013 la caduta cumulata ha sfiorato nel Mezzogiorno i 13 punti percentuali (-12,7 per cento), risultando di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7 per cento). Particolarmente colpiti i consumi alimentari (-14,6 per cento contro il -10,7 per cento del Centro-Nord) e le spese per vestiario e calzature, cadute del 23,7 per cento, quasi il doppio che nel resto del Paese (-13,8 per cento);
    tutti i settori economici del Meridione hanno risentito della crisi, toccando il picco nel settore delle costruzioni, che ha ridotto il prodotto del 35,3 per cento contro il 23,8 per cento del Centro-Nord. Nel comparto terziario la perdita è stata nel 2013 del 2,3 per cento nel Sud, a fronte di una sola leggera flessione (-0,4 per cento) al Centro-Nord. L'agricoltura perde lo 0,2 per cento al Sud, mentre il Centro-Nord guadagna +0,6 per cento; l'industria crolla del 7,6 per cento al Sud e del 3,2 per cento al Centro-Nord. Dal 2008 al 2013 il settore manifatturiero al Sud ha perso il 27 per cento del proprio prodotto e ha più che dimezzato gli investimenti (-53 per cento);
    «il Sud è ormai a forte rischio di desertificazione industriale – è scritto nel rapporto Svimez – con la conseguenza che l'assenza di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie potrebbe impedire all'area meridionale di agganciare la possibile ripresa e trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente»;
    il Fondo per lo sviluppo e la coesione ha assunto la sua denominazione in forza del decreto legislativo 31 maggio 2011, n. 88, che detta disposizioni in materia di risorse aggiuntive e interventi speciali per la rimozione di squilibri economici e sociali. Il fondo ha la finalità di dare unità programmatica e finanziaria all'insieme degli interventi aggiuntivi a finanziamento nazionale rivolti al riequilibrio economico e sociale tra le diverse aree del Paese;
    in tale quadro, le risorse del fondo sono destinate al finanziamento di progetti infrastrutturali strategici – sia di carattere materiale sia di carattere immateriale – di rilievo nazionale, interregionale e regionale, che si inquadrano nell'ambito di una strategia nazionale che individua i principali interventi di interesse, in termini di miglioramento infrastrutturale, del sistema Paese, aventi natura di grandi progetti o di investimenti articolati in singoli interventi, funzionalmente connessi per consistenza progettuale ovvero realizzativa, in relazione a obiettivi e risultati quantificabili e misurabili, anche per quanto attiene al profilo temporale;
    l'articolazione pluriennale del fondo, coerente con quella dei fondi europei, è volta a garantire l'unitarietà e la complementarietà dei processi di programmazione e attivazione delle relative risorse, tenendo conto delle programmazioni. L'articolo 1, commi 6 e seguenti, della legge n. 147 del 2013 (legge di stabilità per il 2014) ha determinato in 54,810 miliardi di euro la dotazione aggiuntiva del Fondo per lo sviluppo e la coesione per il periodo di programmazione 2014-2020, disponendone l'iscrizione in bilancio per l'80 per cento di tale importo, pari a 43,848 miliardi di euro. La medesima disposizione, nel contempo, ha indicato la nuova chiave di riparto delle risorse tra le aree territoriali del Paese, assegnando al Mezzogiorno l'80 per cento dell'importo complessivo, per un valore iscritto in bilancio conseguentemente pari a 35,078 miliardi di euro e la restante quota, pari a 8,770 miliardi di euro, al Centro-Nord;
    la norma di legge non dispone, invece, in ordine al riparto tra le amministrazioni centrali e le amministrazioni regionali, né definisce più puntualmente le quote di destinazione del fondo medesimo tra diversi ambiti tematici, salvo indicare che una quota pari al 5 per cento del fondo possa essere destinata a interventi di emergenza con finalità di sviluppo (corrispondente a 2,192 miliardi di euro);
    la legge, infine, ha iscritto in bilancio, a fronte del complessivo importo, gli stanziamenti per il primo triennio, determinandoli in 50 milioni per il 2014, 500 milioni per il 2015 e 1.000 milioni per il 2016; per gli anni successivi, la quota annuale sarà determinata dalla tabella E delle singole leggi di stabilità;
    il comma 8 dell'articolo 1 della legge n. 147 del 2013 ha disposto che entro il 1o marzo 2014 il Cipe avrebbe dovuto effettuare la ripartizione programmatica tra le amministrazioni interessate della quota relativa all'80 per cento delle risorse. Adempimento che non risulta ancora attuato;
    con delibera n. 21 del 2014 è stata disposta, a valere sulla programmazione 2014-2020, una preallocazione pari a 1.143 milioni di euro, destinata alle regioni del Mezzogiorno per compensare le medesime regioni della sottrazione di disponibilità delle risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione per la programmazione 2007-2013, ad esse sottratte in relazione ai ritardi nell'assunzione delle obbligazioni giuridicamente vincolanti. Le assegnazioni di legge di cui sopra e questa assegnazione assorbono la quasi totalità delle dotazioni dei fondi assegnati in bilancio nel triennio;
    i contratti istituzionali di sviluppo sono stati introdotti dall'articolo 6 del decreto legislativo 31 maggio 2011, n. 88, quale strumento generale di attuazione della programmazione del Fondo per lo sviluppo e la coesione 2014-2020 e sono stati utilizzati anticipatamente anche nella programmazione in corso (2007-2013), in forza della delibera del Cipe n. 1 dell'11 gennaio 2011. Destinati a regolare i rapporti tra le amministrazioni centrali (con poteri di coordinamento attribuiti all'autorità politica delegata per la coesione territoriale), le regioni e i grandi concessionari nazionali (Ferrovie dello Stato italiane-Rete ferroviaria italiana ed Anas), per la realizzazione di grandi infrastrutture di rilievo strategico, essi stabiliscono: tempi e modalità di attuazione, impegni reciproci per garantire il rispetto del cronoprogramma, sanzioni e poteri sostitutivi per le ipotesi di inadempienza;
    la normativa impone che i contratti istituzionali di sviluppo siano sottoscritti, per la parte pubblica, dalle autorità politiche (Ministri e presidenti di regione), in uno con apposite intese preliminari. Nell'esperienza sin qui fatta, l'intesa che ha preceduto ciascun contratto istituzionale di sviluppo è stata sottoscritto dai Ministri per la coesione territoriale, dell'economia e delle finanze, delle infrastrutture e dei trasporti, dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e dei beni e delle attività culturali e del turismo; mentre i contratti istituzionali di sviluppo veri e propri (articolato e allegati tecnici) sono stati firmati da: Ministro per la coesione territoriale, Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, presidenti di regione (di volta in volta interessati) e concessionari nazionali (Ferrovie dello Stato italiane-Rete ferroviaria italiana, per le ferrovie; Anas, per le strade);
    allo stato, sono stati sottoscritti 4 contratti istituzionali di sviluppo, previsti dalla delibera Cipe n. 62 del 3 agosto 2011: tre per opere ferroviarie (Napoli-Bari-Lecce-Taranto; Salerno-Reggio Calabria e Messina-Catanai-Palermo) ed uno per un'infrastruttura stradale (Sassari-Olbia). Soltanto per la «Salerno-Reggio Calabria» (ferroviaria) e la «strada statale Sassari-Olbia» (stradale) il fabbisogno finanziario risulta integralmente coperto;
    il 2 agosto 2012 il Ministro per la coesione territoriale, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, le regioni Campania, Basilicata e Puglia, Ferrovie dello Stato italiane e Rete ferroviaria italiana hanno sottoscritto il contratto istituzionale di sviluppo, che riguarda l'esecuzione di lavori sull'intera tratta ferroviaria Napoli-Bari-Lecce-Taranto, il cui costo è pari a 7.116 milioni di euro per 22 interventi. Le disponibilità ammontano a 3.532 milioni di euro,

impegna il Governo:

   ad affrontare con determinazione tutte le problematiche rilevate nel Mezzogiorno e ad assumere ogni opportuna iniziativa per porre in essere azioni incisive di politica economica per sostenere e rilanciare la crescita e l'occupazione del Sud dell'Italia, che appare evidente essere l'unica strada concreta per una vera ripresa che interessi tutta l'Italia;
   ad assicurare con assoluta tempestività un congruo stanziamento che permetta di completare il finanziamento necessario a realizzare il contratto istituzionale di sviluppo che riguarda l'intera tratta ferroviaria Napoli-Bari-Lecce-Taranto;
   a sollecitare la rapida adozione da parte del Cipe della ripartizione programmatica tra le amministrazioni interessate delle risorse aggiuntive del Fondo per lo sviluppo e la coesione.
(1-00609) (Nuova formulazione) «Pisicchio».
(9 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    con lettera della Commissione europea al Governo italiano, del 20 dicembre 2013, le risorse comunitarie assegnate all'Italia per i Fondi strutturali ammontano, per la politica di coesione relativa al periodo 2014-2020, a circa 32, 2 miliardi di euro, di cui oltre il 95 per cento dell'intero ammontare sono destinati in favore dell'obiettivo crescita e occupazione;
    quasi il 73 per cento di queste risorse è destinato alle regioni del Mezzogiorno anche se con modulazione differente;
    i fondi strutturali rappresentano quasi il 20 per cento di tutti gli investimenti pubblici, considerato il ridimensionamento della quota degli investimenti che le politiche di contenimento della spesa pubblica hanno determinato nel corso di questi anni;
    nel Mezzogiorno vive circa il 30 per cento dell'intera popolazione italiana e nella stessa area vive oltre il 50 per cento dell'intera platea dei disoccupati di questo Paese e, in tale grave contesto, alcune realtà territoriali, quali la Campania e la Calabria, rivestono i tratti di una vera e propria emergenza sociale;
    dal 2008 il prodotto interno lordo del Sud è calato di quasi 14 punti percentuali, contro un 5 per cento del resto del Paese;
    il prodotto interno lordo pro capite meridionale rappresenta appena il 56 per cento di quello del resto del Paese, riportando l'Italia ad una condizione quale quella degli anni Cinquanta;
    gli investimenti fissi lordi meridionali sono caduti, da inizio crisi, di oltre trenta punti percentuali, con punte di quasi il 50 per cento, in particolare, nel settore industriale con una forbice che è tornata ad allargarsi con tutto ciò che ne consegue in termini di coesione;
    attualmente, la spesa in conto capitale nel Mezzogiorno è tornata indietro di ben diciotto anni ed è allo stesso livello del 1996;
    secondo dati Svimez, il volume di risorse teoricamente disponibili con riferimento ai fondi strutturali per i prossimi due anni (13,5 miliardi di euro nel 2014 e 17,5 miliardi di euro nel 2015) potrebbe garantire un impatto macroeconomico che sarebbe molto significativo; l'impatto aggiuntivo sul prodotto interno lordo meridionale sarebbe di oltre un punto percentuale (1,3 per cento); nel 2015, l'incremento addizionale di prodotto interno lordo sarebbe pari a otto decimi di punto percentuale;
    tali investimenti, sempre secondo Svimez, potrebbero attivare nel Mezzogiorno un incremento occupazionale pari a 34 mila unità nel 2014 e ad oltre 82 mila unità nel 2015;
    fino ad oggi, come richiamato anche dalla stessa Commissione europea, la dispersione delle risorse in un numero eccessivo di progetti, la mancanza delle condizionalità ex ante, che mirano a garantire efficacia ed efficienza, la scarsa capacità amministrativa e l'assenza di piani specifici settoriali sono state le criticità che hanno caratterizzato la gestione dei fondi europei nel nostro Paese;
    nei prossimi sette anni, come ha avuto modo di esplicitare il Governo per voce del Sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei ministri, Graziano Del Rio, nel corso dell'informativa urgente svolta alla Camera dei deputati in data 7 ottobre 2014, la gestione dei fondi poggerà su tre pilastri: il Fondo per lo sviluppo e la coesione, il Piano di azione per la coesione e i fondi strutturali veri e propri;
    circa il 65 per cento dei comuni meridionali ha realizzato almeno un progetto finanziato dai fondi strutturali. Infatti, i fondi strutturali sono andati sempre più sostituendosi a quelli ordinari (spesso bloccati dal Patto di stabilità interno o da altre esigenze di finanza pubblica) e si sono dispersi in mille rivoli perdendo la loro caratteristica di risorse aggiuntive in grado di imprimere una spinta al processo di sviluppo;
    come ricordato dalla stessa Commissione europea, anche per superare i precedenti limiti programmatori, appare fondamentale rafforzare una struttura centrale di coordinamento in tema di audit e controllo (con personale tecnicamente adeguato nelle autorità di gestione e negli organismi intermedi) e che, più in generale, costituisca un «presidio» forte capace di rimuovere le inefficienze della pubblica amministrazione;
    un contributo molto importante al superamento del passato può e deve arrivare dall'Agenzia per la coesione territoriale che deve essere chiamata a svolgere la sua funzione di semplificazione e deve avere anche un ruolo di coordinamento e di pungolo all'impiego di tutte le risorse a disposizione;
    occorre un rilancio delle politiche industriali nel Mezzogiorno partendo dal monitoraggio delle risorse già stanziate e non ancora impiegate legate a strumenti della programmazione negoziata, ivi compresi i contratti d'area e i contratti di localizzazione;
    è indispensabile un rilancio delle politiche di infrastrutturazione, partendo dalle importanti opere inserite nell'ambito del decreto-legge n. 133 del 2014, non trascurando le potenzialità della macroregione adriatico-jonica;
    prioritario deve essere il contrasto alle marginalità e alla povertà diffusa che al Sud riguarda un quarto della popolazione; in alcune regioni come Calabria, Basilicata e Sicilia, il 30 per cento della popolazione è al di sotto della soglia di povertà;
    va affrontata definitivamente la questione relativa agli effetti negativi della «spesa storica» che in materia di welfare incidono in maniera penalizzante sul Mezzogiorno,

impegna il Governo:

   a velocizzare l’iter per rendere pienamente operativa l'Agenzia per la coesione territoriale con adeguata dotazione di personale, al fine di migliorare la capacità di impiego dei fondi strutturali sia per quanto riguarda la parte rimanente della programmazione 2010-2013, sia in relazione alla prossima programmazione;
   a proporre al Cipe, entro 30 giorni dall'approvazione della presente mozione, l'adozione di un'apposita delibera per la formalizzazione delle questioni legate al cofinanziamento, assicurando che tutte le risorse nazionali destinate al cofinanziamento rimangano comunque a disposizione delle regioni a cui erano originariamente destinate;
   a relazionare al Parlamento semestralmente circa l'impiego delle citate risorse;
   ad attivare una procedura concertativa con le regioni volta ad individuare i meccanismi correttivi e perequativi che consentano al Mezzogiorno di superare le criticità della «spesa storica» in materia di welfare;
   a procedere rapidamente ad un censimento delle risorse ancora disponibili e non ancora utilizzate nell'ambito degli strumenti della programmazione negoziata, finalizzato alla predisposizione di un piano di rilancio industriale, improntato sulle specificità e le eccellenze produttive presenti nel Mezzogiorno, avviando una nuova stagione di utilizzo degli strumenti della programmazione negoziata, ivi compresi i contratti d'area, i patti territoriali, i contratti di programma e i contratti di localizzazione, sulla base delle migliori pratiche e delle esperienze di successo del passato;
   a rafforzare, ulteriormente, i progetti in materia di sicurezza e legalità per contrastare la presenza dei fenomeni criminali, prima vera condizione per il rilancio delle politiche di sviluppo;
   a creare un apposito osservatorio sulle infrastrutture del Mezzogiorno con l'obiettivo di velocizzare gli investimenti in atto e individuare le priorità per la connessione del Sud ai principali corridoi di comunicazione europei;
   a potenziare i progetti concernenti il contrasto alla povertà come previsto dall'Obiettivo Tematico n. 9, mettendoli in relazione agli strumenti per la realizzazione di politiche attive di lavoro ed inserimento professionale per la creazione di un nuovo welfare;
   a concentrare la dovuta attenzione, nell'ambito della prossima programmazione, nei confronti di progetti legati alla messa in sicurezza del territorio e al contrasto dei fenomeni di dissesto idrogeologico che caratterizzano il Mezzogiorno;
   a valorizzare il patrimonio culturale e paesaggistico del Sud, riservando parte della dotazione disponibile a partire dal residuo della programmazione 2007-2013 per le politiche di recupero e promozione, mettendo in rete i grandi poli di attrazione e i siti Unesco;
   a riservare alle regioni del Sud parte della dotazione disponibile per quanto riguarda la programmazione 2014-2020 per le politiche ambientali nonché per il prosieguo dei processi di bonifica e messa in sicurezza dei siti di interesse nazionale e dei siti caratterizzati da particolari lavorazioni.
(1-00612) «Covello, Famiglietti, Tartaglione, Magorno, Raciti, Palma, Manfredi, Bonavitacola, Giorgio Piccolo, Oliverio, Tino Iannuzzi, Ragosta, Valeria Valente, Valiante, Salvatore Piccolo, Rostan, Bossa, Sgambato, Stumpo, Venittelli, Cardinale, Capone, Grassi, Schirò, Taranto, Mongiello, Albanella, Iacono, Massa, Antezza, Capodicasa».
(13 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il periodo di crisi economica avviatosi nel 2008 e tuttora ancora non concluso ha provocato un duro impatto sull'economia meridionale: tra il 2007 e il 2012, il Mezzogiorno ha perso il 10 per cento del prodotto interno lordo per un valore di circa 35 miliardi di euro: in base alle stime tale perdita dovrebbe aumentare a 47,7 miliardi di euro (-13,5 per cento), considerando il periodo 2007-2013; si stima una riduzione ancora più intensa (-34,3 per cento con una perdita di circa 28 miliardi di euro) nel medesimo periodo per quanto riguarda gli investimenti fissi lordi;
    in tale ambito, le analisi che emergono dal Rapporto Svimez per il 2014 sullo stato dell'economia del Mezzogiorno, ribadiscono una situazione di estrema gravità, in cui si evidenzia un quadro nazionale diviso e disuguale tra le due aree del Paese, ove la parte meridionale scivola sempre più nell'arretratezza: nel 2013 il divario del prodotto interno lordo pro capite è tornato ai livelli di dieci anni fa, negli anni di crisi 2008-2013 i consumi delle famiglie sono crollati quasi del 13 per cento, gli investimenti nell'industria addirittura del 53 per cento, i tassi d'iscrizione all'università sono tornanti ai primi anni del 2000 e, per la prima volta, il numero di occupati ha sfondato al ribasso la soglia psicologica dei 6 milioni, il livello più basso dal 1977;
    al rischio di desertificazione industriale e umana per intere aree meridionali (dalla Campania alla Sicilia), connesso al processo emigratorio che risulta essere inarrestabile (dal 2001 al 2011, 1,5 milioni di individui sono emigrati verso il Centro-Nord, di cui 188 mila laureati), si associano elementi socioeconomici di evidente debolezza, determinati dal calo delle nascite (nel 2013 si sono registrate solo 180 mila nascite, un livello che riporta al minimo storico registrato oltre 150 anni fa, durante l'Unità d'Italia), dall'aumento della povertà assoluta (2,3 milioni di individui, pari a circa il 50 per cento del totale delle persone che vivono nella povertà assoluta in Italia, le cui conseguenze hanno determinato un calo generale della domanda interna con ulteriori effetti negativi sull'attività economica delle imprese) nonché dal persistente calo della spesa pubblica e degli investimenti, in particolare quelli infrastrutturali;
    le manovre di finanza pubblica e di politica economica, effettuate in particolare dai Governi Monti e Letta, rapportate al prodotto interno lordo, hanno pesato più nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord, (secondo le stime contenute nel medesimo documento di previsione territoriale), considerato che nel 2015 il valore cumulato della spesa pubblica nel Meridione sarà ridotto del doppio rispetto al Centro-Nord: ovvero il 6,2 per cento contro il 2,9 per cento, penalizzando le aree territoriali interessate, in particolare per quanto riguarda le spese in conto capitale, che rappresentano una delle poche variabili in grado di stimolare la crescita dell'economia meridionale, già strutturalmente meno capace di agganciare la ripresa;
    le difficoltà economiche e finanziarie determinate in particolare dagli effetti del credit crunch del sistema delle imprese e della famiglie meridionali e la stretta dei bilanci pubblici hanno avuto riflessi sulla dinamica occupazionale;
    l'emorragia di posti di lavoro rilevata trimestralmente dai principali organismi di rilevazione statistica e di ricerca, evidenzia, nel complesso, che tra il 2007 e il 2013 il Mezzogiorno ha registrato la perdita di 617 mila occupati: un calo del numero di occupati che conferma un quadro allarmante e con pochi precedenti, proseguito anche nel corso del primo trimestre del 2014, quando sono stati registrati oltre 100 mila occupati in meno rispetto alla media del 2013 e addirittura 170 mila occupati in meno rispetto all'anno precedente;
    il tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno cresciuto al 19,7 per cento (all'11 per cento nel 2007), superiore sia al valore medio italiano (12,2 per cento) sia a quello dell'Unione Europea a 28 (10,8 per cento), nel corso dei primi tre mesi del 2014 ha fatto segnare un ulteriore peggioramento (21,7 per cento nel Mezzogiorno e 13,6 per cento in Italia); in tale ambito la fascia della popolazione maggiormente colpita dalla crisi occupazionale risulta essere quella giovanile (nel 2007, il tasso di disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno era pari al 32,3 per cento e, a differenza del 2013, è aumentato al 51,6 per cento, interessando un giovane su due) e, considerando i dati relativi al primo trimestre dell'anno che mostrano un ulteriore peggioramento (60,9 per cento per il Mezzogiorno e 46 per cento per l'Italia), emerge nel complesso uno scenario di estrema preoccupazione sia economica, sia relativa ai rischi di destabilizzazione di ogni forma di coesione e tenuta sociale per le aree territoriali del Mezzogiorno;
    il drastico calo di investimenti pubblici, manifestati dall'alleggerimento della spesa in conto capitale ridotta nel Mezzogiorno a 5 miliardi di euro (periodo 2009-2013), tornata ai livelli del 1996, che ha contribuito ad una diminuzione sia degli appalti pubblici che di quelli privati, di oltre il 34 per cento, dal 2007 al 2013, con punte superiori al 45 per cento nell'industria in senso stretto (periodo 2007-2012) secondo il check up di Confindustria-Srm (Studi e ricerche per il Mezzogiorno) sullo stato di salute dell'economia meridionale, configura una situazione paradossale, se si considerano le difficoltà economiche che suggerirebbero l'opportunità di una azione pubblica decisamente anticiclica;
    a tal fine, risulta ancor più grave il ritardo nell'utilizzo delle risorse del complesso della politica di coesione e della mancata incisività dell'Agenzia per la coesione territoriale, la cui leva tecnica utilizzata per monitorare la spesa ed intervenire in casi di inerzia, avviata dal Governo Letta e proseguita dal presente Esecutivo Renzi, prosegue con estrema lentezza ed inefficienza;
    le problematiche concernenti le risorse del Piano d'azione per la coesione e del Fondo per lo sviluppo e la coesione, che ammontano a circa 20 miliardi di euro relative al ciclo dei fondi strutturali 2007-2013 da utilizzare entro il 31 dicembre 2015, di cui 5 miliardi di euro in capo alle amministrazioni centrali, che su alcuni programmi segnano il passo al pari delle regioni Campania, Sicilia e Calabria, rendono evidenti sia le persistenti difficoltà nelle procedure di utilizzo dei fondi, sia, al contempo, l'esigenza e la necessità di introdurre in tempi rapidi misure di accelerazione volte ad utilizzare le risorse non spese a favore dell'economia del Mezzogiorno e del tessuto imprenditoriale e sociale investito da una crisi senza precedenti dopo la seconda guerra mondiale;
    il rischio della perdita di circa 6-7 miliardi di euro, secondo le recenti affermazioni del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega ai fondi comunitari, evidenzia, infatti, come nell'attuale stagione di crescita mancata, la restituzione in sede europea dei fondi non utilizzati comprometterebbe fortemente la credibilità dell'azione del Governo e dell'intero Paese, aumentando il gap di competitività con l'Europa;
    nello scenario consolidato in cui si muove il Mezzogiorno – ampiamente caratterizzato da risultati negativi: ridimensionamento della struttura imprenditoriale; perdita di occupati; ridotta capacità di produrre; ripresa dell'emigrazione (con conseguente invecchiamento della popolazione); peggioramento della qualità della vita, in un'area nella quale la spesa corrente ha ripreso a crescere e quella pubblica per gli investimenti ha proseguito il suo andamento declinante, la politica di coesione riveste un ruolo decisivo e fondamentale, in grado di invertire addirittura la tendenza da negativa a positiva;
    le elaborazioni predisposte dalla Svimez e da altri organismi di ricerca e di analisi delle politiche sociali ed economiche per il Mezzogiorno confermano, infatti, che se, per ipotesi, si riuscissero a spendere tutte le risorse tecnicamente disponibili, l'impatto potenziale sul prodotto interno lordo nelle intere macro-aree del meridione sarebbe pari all'1,3 per cento, determinando 34 mila nuovi posti di lavoro nel 2014, 82.400 nel 2015;
    un utilizzo pieno ed efficace delle risorse per la politica di coesione, comunitarie e nazionali, rappresenta a tal fine, un'occasione unica per promuovere la ripresa degli investimenti, anche e soprattutto nella prospettiva della programmazione 2014-2020, per rilanciare l'economia del Mezzogiorno, le cui regioni sono strutturalmente più legate ai flussi di domanda interna, sia pubblica (investimenti della pubblica amministrazione e consumi collettivi), sia ai consumi delle famiglie, come dimostrato i dati decrescenti in Campania e Sicilia;
    a tal fine, per favorirne l'utilizzo, appare necessario una decisione in ambito europeo, connessa alle criticità derivanti dal vincolo del Patto di stabilità, che escluda il cofinanziamento nazionale dei fondi strutturali e del Fondo per lo sviluppo e la coesione dal calcolo del Patto di stabilità interno, non conteggiando la spesa per investimenti, almeno quelli cofinanziati, nella spesa considerata per gli obiettivi di deficit;
    le pressioni e le titubanze dimostrate dal Governo Renzi, sia in ambito europeo che nazionale, sulla definizione concreta dei meccanismi di flessibilità nell'attuazione del Patto di stabilità e di una più rigorosa programmazione delle risorse del fondo sviluppo e coesione, impongono una più marcata attenzione da parte del Parlamento, affinché non si disperdano le ingenti risorse a disposizione, al fine di garantire che ogni euro speso costituisca un effettivo volano di sviluppo per l'auspicata ripresa economica delle regioni del Mezzogiorno;
    interventi da parte delle amministrazioni centrali e regionali volti ad accelerare la spesa delle risorse residue della programmazione 2007-2013, a cui affiancare, in parallelo, azioni per un rapido avvio della nuova programmazione 2014-2020 che può mobilitare risorse per oltre 60 miliardi di euro, di cui una rilevante parte per le macro-aree meridionali, risultano a tal fine urgenti e prioritari, in considerazione peraltro del semestre italiano di Presidenza del Consiglio europeo, come peraltro ribadito dall'Agenda strategica per l'Unione europea;
    il monitoraggio volto a definire la conclusione dell'accordo di partenariato con la Commissione europea unitamente a tutti i programmi operativi presentati, da parte delle regioni e delle amministrazioni centrali, al fine di avviare, concretamente, la spesa già dal 1o gennaio 2015, appare altresì indifferibile, per rivedere le strategie d'indirizzo e utilizzare il potenziale della politica di coesione in favore delle aree interessate;
    iniziative amministrative e finanziarie, per accelerare l'utilizzo delle risorse vecchie e nuove del Fondo per lo sviluppo e la coesione e del Piano d'azione per la coesione, che integrano e completano, anche dal punto di vista tematico, le risorse dei fondi strutturali, per favorire la competitività del tessuto produttivo e migliorare la dotazione infrastrutturale e di servizi, nonché per sostenere l'istruzione e le competenze dei cittadini meridionali non potranno a tal fine che innescare un processo favorevole, sebbene graduale, in termini di ripresa sociale ed economica dell'Abruzzo, della Campania, del Molise, della Puglia, della Basilicata, della Calabria, della Sicilia e della Sardegna e favorire il recupero e la valorizzazione di un patrimonio naturale, turistico e culturale che costituisce nell'insieme la maggiore risorsa inutilizzata;
    l'azione di intervento dell'Agenzia per la coesione territoriale, attualmente inefficace e ritardata, come in precedenza richiamato, necessita di essere sollecitata, non solo per assicurare la spesa dei fondi non utilizzati, necessari per il riequilibrio territoriale degli investimenti pubblici, ma per favorire la ripresa dell'intero Mezzogiorno;
    il proseguimento della ridefinizione dei programmi comunitari avviato con il Piano di azione per la coesione, concordato negli anni precedenti con la Commissione europea, dal Ministro per gli affari regionali e la coesione territoriale pro tempore, Raffaele Fitto, e proseguito dal Ministro pro tempore Fabrizio Barca, all'interno del quale indicare le priorità d'intervento e soprattutto di revisione dei meccanismi di attribuzione dei fondi, nonché di accorciare i tempi che intercorrono tra decisioni programmatiche ed attuazione degli interventi, rappresenta una linea di continuazione indispensabile per l'impatto che l'utilizzo che i fondi strutturali avrà sull'economia del Mezzogiorno,

impegna il Governo:

   ad intervenire in tempi rapidi al fine di accelerare le procedure di utilizzo dei fondi europei del ciclo 2007-2013, con specifico riferimento ai residui di spesa non utilizzati delle regioni del Mezzogiorno;
   a porre in essere misure più incisive in grado di migliorare l'attività dell'Agenzia per la coesione territoriale, le cui difficoltà operative e di monitoraggio, nell'attività di spesa e soprattutto di esercizio dei poteri sostituivi in caso di inoperosità, si sono dimostrate nel corso del 2014 evidenti;
   ad intervenire in sede comunitaria, affinché nell'ambito del pacchetto legislativo sulla coesione 2014-2020 si confermi l'esclusione dal calcolo del Patto di stabilità e crescita del cofinanziamento nazionale alla politica di coesione, in coerenza peraltro con la risoluzione approvata dal Parlamento europeo dell'8 ottobre 2013, «sugli effetti dei vincoli di bilancio per le autorità regionali e locali con riferimento alla spesa di Fondi strutturali dell'Ue negli Stari membri»;
   ad intervenire altresì in sede comunitaria, al fine di introdurre in favore della Campania e delle altre regioni del Mezzogiorno una serie di misure, anche in via temporanea, di carattere eccezionale, sia di alleggerimento fiscale e contributivo, che finanziarie in grado di rilanciare l'economia reale del meridione, in considerazione della fase socioeconomica di estrema emergenza che investe le macro-aree delle regioni interessate;
   ad adottare ulteriori iniziative, per quanto di competenza, volte a tutelare il tessuto socioeconomico delle famiglie e delle imprese, specie nel Mezzogiorno, dagli effetti del credit crunch, la cui contrazione creditizia ha contribuito a determinare un impatto sul prodotto interno lordo fortemente negativo;
   ad invertire le linee di indirizzo e di programmazione nei confronti del Mezzogiorno, ribadite peraltro dall'assenza di interventi degni d'importanza all'interno della nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza, la cui politica economica e industriale, a distanza di quasi nove mesi dall'insediamento del Governo, si sta dimostrando estremamente deludente ed inefficace come dimostrato dai principali indicatori statistici ed economici;
   a prevedere infine interventi ad hoc, in coerenza con le disposizioni comunitarie in materia di aiuti di Stato, in favore della Campania e delle altre regioni del Mezzogiorno, per sostenere le famiglie e le imprese, ed evitare che gli effetti derivanti dalle manovre di finanza pubblica degli anni precedenti, che hanno concorso a penalizzare in maniera significativa l'economia meridionale, possano configurarsi anche in questa occasione.
(1-00614) (Nuova formulazione) «Palese, Russo».
(13 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la crisi economica ha inciso e sta incidendo in misura significativa sulla produzione, sui consumi, sull'attività delle piccole e medie imprese, soprattutto allocate nel Mezzogiorno d'Italia;
    la crisi economica evidenzia ogni giorno di più l'esigenza di una rinnovata e prioritaria attenzione in particolare per il Sud ai problemi dell'occupazione, del lavoro, dei redditi e dell'impresa;
    ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, l'attuale politica governativa, per molti aspetti sembra non abbia ancora una strategia indirizzata al miglioramento e all'innovazione del contesto, con un evidente vuoto d'iniziativa che emerge come grave di fronte ad una crisi che colpisce particolarmente l'economia meridionale dispiegando effetti drammatici, anche se talvolta meno visibili a causa della frammentazione del tessuto imprenditoriale e del peso dell'economia cosiddetta a-legale, sospesa tra sommerso e illegalità;
    a fronte di questa situazione disastrosa l'impegno del Governo per il Mezzogiorno sembrerebbe racchiuso nell'unica promessa del raccordo dei fondi strutturali, cosa di per sé positiva ma del tutto insufficiente a risolvere l'enorme problema;
    v’è sovente inefficienza o vero e proprio spreco, nel mancato utilizzo delle risorse europee per le regioni del Sud. Ma è noto anche che non basta mettere in elenco le risorse dei fondi europei per risolvere la questione perché i dati che sono sotto i nostri occhi non possono essere modificati con le semplici buone intenzioni, né con la sola stigmatizzazione delle regioni inadempienti. Occorre viceversa comprendere che la crisi del Mezzogiorno è la crisi dell'intero Paese e occorre agire di conseguenza con interventi urgenti e prioritari;
    al Sud vi è un gap infrastrutturale, in termini di trasporti, logistica, ricerca e innovazione, rispetto al resto del Paese; le conseguenze della presenza delle associazioni mafiose nel Mezzogiorno si intrecciano in modo complesso con l'economia del Sud, stravolgendo le regole del «fare impresa» e scoraggiando gli investimenti stranieri, oltre che creando un grave e indiscusso disagio sociale. Tutto ciò appare paradossale se solo si pensa che ogni iniziativa di carattere pubblico adottata nella storia repubblicana in favore del Sud va regolarmente a patire gli effetti della corruzione e dello sperpero. A tal proposito è opportuno fare appena cenno a quanto accaduto negli ultimi decenni: il Sud ha fruito, infatti, dapprima dei fondi della Cassa per il Mezzogiorno, durata dal 1950 al 1992, la quale dal 1957 in avanti erogò contributi a fondo perduto e crediti agevolati. Nel primo ventennio circa di attività la Cassa per il Mezzogiorno sembrò funzionare, ma la qualità del suo servizio andò progressivamente declinando mano a mano che i partiti invadevano e inquinavano la vita pubblica. La Cassa per il Mezzogiorno tramontò malinconicamente, abbandonata agli scandali e rappresentò uno dei più gravi esempi di corruzione e di interrelazione fra affari, politica e malavita nel Sud;
    poi fu la volta dei fondi della legge n. 488 del 1992, oggetto di frodi e di truffe fino alla sua conclusione avvenuta nel 2008. La legge n. 488 del 1992 è stata lo strumento attraverso il quale il Ministero delle attività produttive aveva messo a disposizione delle imprese che intendevano promuovere programmi di investimento, nelle aree depresse, agevolazioni sotto forma di contributi in conto capitale («a fondo perduto»);
    nel frattempo si erano aggiunti i fondi europei, destinati dall'Unione europea alle politiche di coesione, ma anche questi non hanno fatto una fine migliore. La sintesi migliore la offrì il Governatore della Banca d'Italia pro tempore Draghi nelle «considerazioni finali» di una delle sue relazioni in Banca d'Italia: «Il Mezzogiorno ha goduto in questo decennio (1998-2008) di fondi paragonabili per entità a quelli dell'intervento straordinario e che equivalevano a circa 45 miliardi di euro o a quasi tre punti di PIL». E tuttavia non esiste evidenza di vantaggi visibili;
    un esempio su tutti è quello legato al capitolo di spesa privilegiato dalla riprogrammazione dei programmi della convergenza, ossia dell'Agenda digitale europea: 1.140 milioni di euro destinati agli investimenti nel Sud per la banda ultralarga, 118,9 milioni di euro per la banda larga fino a 2 mega, 320 milioni di euro per i data center;
    allo stesso modo si rammentano i 1.242 milioni di euro destinati esclusivamente alle quattro regioni obiettivo convergenza (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia), o i 142 milioni di euro per il credito di imposta per l'occupazione, o ancora le risorse per la rete dei trasporti, cui erano stati assegnati 1,2 miliardi di euro: per strade (866 milioni di euro) e aeroporti (28 milioni di euro);
    ma la sequenza di interventi che tardano a dispiegare effetti non finisce qui: si pensi alla legge n. 191 del 2009 che ha previsto la nascita di una banca con l'obiettivo di finanziare progetti di investimento nel Mezzogiorno, di erogare credito alle piccole e medie imprese, di favorire la nascita di nuove imprese e l'imprenditorialità giovanile e femminile, nonché di promuovere l'aumento dimensionale e l'internazionalizzazione di tali imprese, di finanziare attività di ricerca e innovazione, il tutto come detto, nelle regioni del Sud Italia. Per questo motivo, il 1o agosto 2011 Poste Italiane spa aveva acquisito, per 136 milioni di euro, il 100 per cento di Unicredit Mediocredito Centrale e, pertanto, da settembre 2011, la nuova denominazione societaria è Banca del Mezzogiorno – Mediocredito Centrale spa operativa dal 2 febbraio 2012;
    tuttavia anche in questo caso, nonostante siano i soldi pubblici a sostenere l'impresa, non pare che detto strumento abbia dato respiro alle piccole e medie imprese del Sud. Nel corso della XVII legislatura sono state già presentate diversi atti di sindacato ispettivo nei quali vengono richiesti i dettagli delle erogazioni della Banca del Mezzogiorno perché sovente destinati a gruppi industriali estranei alla «mission» meridionalista dell'istituto finanziario;
    da tali esperienze consegue che, per uscire dall'angolino dove la storia lo ha confinato, il Mezzogiorno ha bisogno di buona amministrazione, di correttezza, di lungimiranza e non di farsesche vicende di comuni, di municipalizzate e di privilegi regionali;
    è fondamentale che lo Stato rafforzi la propria presenza in tali territori, consolidando i tribunali, presidio di legalità e freno alla criminalità; occorre un intervento capace di promuovere sviluppo ed occupazione nel Mezzogiorno, al fine di favorire la ripresa dell'economia meridionale, come base per la crescita e lo sviluppo dell'intero Paese anche favorendo, sin dall'età scolare, percorsi educativi volti a stimolare un cambio culturale che determini già in età giovanile l'educazione all'impresa. In questo momento di crisi molte imprese sono costrette alla chiusura, non rientrando nei parametri degli studi di settore e il complesso scenario economico italiano, aggravato dalle conseguenze della crisi finanziaria, pone ancora una volta in primo piano la questione di un Paese con due differenti velocità di sviluppo: nel Mezzogiorno si produce solo un quarto del prodotto interno e si genera soltanto un decimo delle esportazioni italiane;
    il Mezzogiorno italiano è ancora privo di quella rete di infrastrutture essenziale per lo sviluppo e negli ultimi anni si è avvertita l'assenza, nei programmi di Governo, di un respiro strategico, volto a ridurre il gap economico, infrastrutturale e sociale del Sud;
    come già descritto nel presente atto di indirizzo, per lungo tempo si è assistito alla distorsione delle risorse destinate al Sud perché oggetto ora di dissennati tagli operati sulla dotazione del fondo per aree sottoutilizzate per finanziare interventi di diversa natura o fatti oggetto di corruttela o non sempre corrispondenti a finalità di sviluppo e quasi sempre non localizzati nel Mezzogiorno. Ed invece il Meridione, grazie alla posizione geografica ed alla dotazione di porti e aeroporti, potrebbe svolgere un ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa, Mediterraneo e Paesi del far east e raccogliere le nuove opportunità del contesto competitivo internazionale;
    altresì si consideri che oltre un terzo dei laureati del Mezzogiorno under 34 è inattivo e la differenza con le regioni settentrionali diventa enorme se si considera il tasso di inattività dei diplomati under 34; i tassi di scolarizzazione in Italia presentano divari sfavorevoli al Meridione e sono accompagnati da un parallelo aumento del tasso di abbandono, dovuto alle condizioni di degrado sociale e familiare. Negative sono anche le evidenze in termini di «qualità» della formazione, dal momento che gli studenti meridionali che terminano la loro carriera accademica hanno maggiori difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro. Si genera così un ampio fenomeno migratorio dei «cervelli» che lasciano le regioni del Sud, provocando un depauperamento del capitale umano disponibile;
    il sistema produttivo del Mezzogiorno è legato a fattori strutturali di debolezza che riguardano le dimensioni piccole o piccolissime delle imprese di quest'area, spesso a gestione familiare, operanti prevalentemente in settori a basso valore aggiunto e con una conseguente scarsa propensione a investire nell'innovazione e in ricerca e sviluppo; inoltre, come già detto, permane una forte presenza della criminalità organizzata, che tenta di infiltrarsi nei grandi appalti per opere pubbliche e tenta di condizionare l'attività di impresa, e della microcriminalità che peggiora la qualità della vita nei centri urbani, aumentando il disagio sociale;
    eppure il Sud avrebbe modo di risollevare le sorti occupazionali già solo attraverso l'industria del turismo, tuttavia i dati relativi al turismo nel Meridione sono paradossali: su 100 stranieri che visitano l'Italia, meno di 1 va in Calabria (0,9 per cento per chi ama l'esattezza), ancora meno in Molise. In Basilicata si raggiunge lo 0,1 per cento e in Abruzzo lo 0,6 per cento. Sommando le otto regioni meridionali, includendo Sicilia e Sardegna, si arriva al 13,2 per cento. Fa di più il solo Trentino Alto Adige, con il 14,2 per cento. Le politiche del turismo sono pertanto fallimentari;
    vari studi hanno tentato di quantificare, in termini di ritorno economico e occupazionale, lo sviluppo turistico del Sud anche per sollecitare un cambiamento culturale in tal senso ma nulla sembra essersi modificato in questi anni e la causa non è la mancanza di fondi (le recenti difficoltà del Programma operativo interregionale «Attrattori culturali, naturali e turismo» confermano che le criticità sono spesso politiche): i contributi europei arrivati al Sud non hanno generato virtuose sinergie tra destinazioni, operatori e investitori esterni, né hanno dato vita a poli di eccellenza che potessero «contaminare» positivamente i territori;
    è necessario promuovere lo sviluppo sostenibile del territorio e coniugare il tutto alle imprescindibili logiche di mercato del turismo che impongono prodotti, servizi e infrastrutture in grado di far fronte a una domanda che ha sempre più alternative a disposizione. Occorre selezionare, previa individuazione, le strutture, i siti, i beni di più grande interesse siti nel Meridione e abbandonati a sé stessi – ve ne sono di innumerevoli – e procedere per la loro valorizzazione sul piano nazionale,

impegna il Governo:

   ad assegnare al tema dello sviluppo economico e sociale del Mezzogiorno una valenza prioritaria nell'ambito della politica economica nazionale e di quella comunitaria di coesione;
   ad assumere politiche in grado di favorire la localizzazione delle attività produttive nelle aree del Sud, rafforzando così il tessuto produttivo e favorendo i processi di agglomerazione produttiva, i cui benefici ricadranno anche sulle imprese del Centro-Nord che non riescono a reperire aree industriali e manodopera qualificata;
   a portare la dotazione infrastrutturale del Mezzogiorno ai livelli del resto del Paese;
   a promuovere una politica di sviluppo che, sulla base della rilevata inefficacia degli interventi effettuati per il Mezzogiorno nell'ultimo decennio, tenda a privilegiare interventi infrastrutturali in una logica di concentrazione settoriale delle risorse;
   ad assumere un impegno straordinario per sconfiggere la criminalità organizzata e tutti quei fenomeni di illegalità, dal lavoro sommerso alla microcriminalità, che determinano un ambiente sfavorevole agli investimenti ed allo sviluppo;
   a favorire lo sviluppo nelle regioni meridionali di un sistema creditizio e finanziario che sia in grado di accompagnare e promuovere la crescita dimensionale, l'innovazione e l'internazionalizzazione delle imprese, anche con particolare riferimento alle iniziative in essere, quali quelle della Banca del Mezzogiorno, attraverso un chiaro utilizzo delle risorse, espressamente diretto al soccorso delle piccole e medie imprese meridionali;
   a valutare l'opportunità di definire progetti finalizzati al rientro nelle regioni di provenienza dei giovani ad alta e altissima qualificazione universitaria e post-universitaria, contribuendo in tal modo ad invertire i consistenti flussi di emigrazione che coinvolgono in modo preoccupante le migliori energie intellettuali del Mezzogiorno;
   a valutare l'opportunità di porre in essere iniziative che favoriscano e incentivino il consolidamento di un tessuto imprenditoriale meridionale, creando un contesto favorevole allo sviluppo economico ed alla crescita dell'occupazione;
   a valutare l'opportunità di operare, partendo dall'esigenza di tutelare e valorizzare le produzioni tipiche del Mezzogiorno, per l'affermazione di una filiera agricola tutta italiana, che parta proprio dalla specifica vocazione del territorio e che voglia investire sulle positività, per garantire i livelli occupazionali e dare ai produttori la giusta remunerazione;
   ad avviare con estrema urgenza un piano di interventi strutturali e infrastrutturali a sostegno della crescita e dello sviluppo dell'intera regione meridionale incentivando e promuovendo le tematiche ambientali;
   ad avviare ogni iniziativa utile a promuovere la raccolta differenziata, il riciclo e la trasformazione dei rifiuti, cogliendo tali opportunità anche a fini occupazionali;
   a valorizzare, d'intesa con le regioni, processi di infrastrutturazione sociale che stimolino – in particolare nel Mezzogiorno – il protagonismo dei soggetti locali, forme di cooperazione tra soggetti privati e pubblici, la mutualità, il microcredito, prestiti d'onore ai giovani, la realizzazione di imprese no profit e di cooperative di produzione e lavoro, l'espansione delle forme di economia civile, anche sostenendo la realizzazione di fondazioni di comunità o istituendo fondi di distretto, con una particolare attenzione alla piccola e media impresa;
   a promuovere iniziative volte a selezionare, previa individuazione, le strutture, i siti, i beni di più grande interesse ubicati nel Meridione e abbandonati e procedere alla loro valorizzazione sul piano nazionale;
   a promuovere iniziative volte a favorire, sin dall'età scolare, percorsi educativi finalizzati a stimolare un cambio culturale che determini già in età giovanile l'educazione all'impresa con particolare riferimento a quella legata alle risorse dei luoghi;
   a promuovere interventi urgenti di contrasto al lavoro nero attraverso controlli stratificati sul territorio e, nello specifico, nelle aree meridionali;
   ad utilizzare, nell'ambito delle politiche nazionali, la leva fiscale e contributiva in favore delle piccole imprese e della famiglia;
   a definire un piano nazionale di contrasto alla povertà che presti una particolare attenzione alle regioni del Mezzogiorno.
(1-00621) «Baldassarre, Currò, Rostellato, Barbanti, Tripiedi, Bechis, Chimienti, Ciprini, Cominardi, Rizzetto».
(13 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la Svimez, Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, nell'anticipazione del rapporto 2014 sull'economia del Mezzogiorno, presentato a fine luglio 2014, ha sostenuto che il sud Italia sta scivolando verso il deserto industriale sociale;
    la dimensione di quello che pare un inarrestabile declino è evidenziata dalle seguenti cifre:
     a) per il settimo anno consecutivo il prodotto interno lordo del Mezzogiorno registra segno negativo: nel 2013 il prodotto interno lordo è sceso nel Mezzogiorno del 3,5 per cento, in misura maggiore rispetto all'anno precedente (-3,2 per cento); il prodotto interno lordo pro capite è tornato ai livelli di dieci anni fa: 16.888 euro nel 2013 contro i 16.511 euro del 2005;
     b) sono paralizzate le opere pubbliche: nel 2012 fatta pari a 100 la spesa in titolo al Centro-Nord, la spesa nelle regioni meridionali è pari a 67; si spende un quinto di quando si spendeva negli anni Settanta;
     c) negli anni 2008-2013 il settore manifatturiero al Sud ha perso il 27 per cento del proprio prodotto e gli investimenti nell'industria sono diminuiti del 53 per cento. Il settore delle costruzioni si è contratto del 35,3 per cento, contro il 23,8 per cento del Centro-Nord. Nel solo 2013 l'industria si è contratta del 7,6 per cento (-3,2 per cento al Centro-Nord). L'agricoltura dello 0,2 per cento al Sud (+ 0,6 per cento al Centro-Nord);
     d) gli occupati sono scesi sotto i 6 milioni (5,8 milioni) per la prima volta dal 1977;
     e) negli anni 2008-2013 i consumi delle famiglie si sono ridotti del 13 per cento; nel solo 2013, del 2,4 per cento, risultando, tale percentuale, di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7 per cento nel periodo considerato);
     f) nel 2013 la povertà assoluta è aumentata del 2,8 per cento contro lo 0,5 per cento del Centro-Nord; in cinque anni le famiglie meridionali in stato di assoluta indigenza sono cresciute da 443 mila a 1 milione e 14 mila nuclei;
    in questo ambito, particolarmente grave risulta la situazione della Campania dove, nel periodo di crisi:
     a) gli investimenti pubblici sono crollati del 44,7 per cento;
     b) i consumi delle famiglie sono diminuiti del 14,2 per cento;
     c) il saldo occupazionale (dati Unioncamere) nel 2014-2014 registrerà un valore negativo di 33.500 unità, con un crollo dell'occupazione nelle piccole e medie imprese;
     d) il tasso di occupazione è stimato al 40 per cento, inferiore di 17 punti della media nazionale; il tasso di disoccupazione è aumentato dal 22,2 del primo trimestre 2013 al 23,5 del primo trimestre 2014;
    la famiglie campane pagano imposte locali più alte del 20 per cento rispetto alla media nazionale;
    i servizi di welfare sono ridotti al minimo, in quanto i dai dati diffusi a maggio 2014 dal Ministero della salute, la Campania è al di sotto del punteggio minimo di 130, totalizzando invece 117, ultima tra le regioni; peraltro, la vita media dei campani è di 18 mesi più bassa di quella del resto degli italiani;
    le politiche di sviluppo basate sull'utilizzo dei fondi comunitari, molto spesso sostitutivi delle risorse statali per gli investimenti, registrano dati fortemente negativi per tutte le regioni meridionali; anche in questo caso i dati diffusi dall'Eurispes ad agosto 2014 parlano di un Paese a 2 velocità; da una parte il Nord dove sono stati spesi circa il 75 per cento dei finanziamenti; dall'altra il Sud nel quale si registrano stati di attuazione dei programmi operativi particolarmente modesti;
    per quanto riguarda il fondo europeo per lo sviluppo regionale (Fers, per il quale il tasso di utilizzo dell'Unione europea è del 61 per cento), la Campania si ferma al 33,3 per cento, la Calabria al 36,5 per cento, la Sicilia al 40,5 per cento. Quanto al fondo sociale europeo (Fse, per il quale il tasso di utilizzo dell'Unione europea è del 58,6 per cento), l'utilizzo è bloccato al 56,4 per cento in Sicilia, al 59,1 per cento in Campania, al 62 per cento in Puglia; complessivamente tra fondi europei per lo sviluppo regionale e fondo sociale europeo gli stanziamenti non spesi sono: 2,52 su 3,99 miliardi di euro in Campania, 2,4 su 4,3 miliardi di euro in Sicilia; 1,3 su 3,25 miliardi di euro in Puglia; 1,12 su 1,92 miliardi di euro in Calabria, 146 milioni di euro su 429 in Basilicata;
    le risorse originariamente programmate nel quadro strategico nazionale 2007-2013 ammontavano originariamente a oltre 60 miliardi di euro, di cui circa 28,8 miliardi di euro di fondi strutturali provenienti dall'Unione europea e circa 31,6 miliardi di euro di risorse di cofinanziamento nazionale (iscritti sul fondo di rotazione per l'attuazione delle politiche comunitarie previsto dalla legge n. 183 del 1987), destinati a finanziare tre obiettivi prioritari di sviluppo;
    la gran parte di tali risorse, 43,6 miliardi di euro, all'incirca il 75 per cento del totale, risultava destinate all'obiettivo «convergenza», che interessa le regioni Calabria, Campania, Puglia, Sicilia, cui si aggiunge la Basilicata (considerata in regime di phasing-out dall'obiettivo «convergenza»). All'obiettivo «competitività», che interessa tutto il Centro-Nord, l'Abruzzo e il Molise, nonché la Sardegna (in regime di phasing-in) erano assegnati 15,8 miliardi di euro (circa il 22 per cento delle risorse complessivamente destinate all'Italia). La quota residua, 0,8 milioni di euro, interessa i programmi dell'obiettivo «cooperazione territoriale»;
    a seguito del piano di azione per la coesione, l'ammontare complessivo delle risorse destinate ai programmi operativi (quota comunitaria più cofinanziamento nazionale) si è ridotto da 60,1 miliardi di euro (28,5 miliardi di euro di fondi comunitari e 31,6 miliardi di euro di cofinanziamento) a circa 48,5 miliardi di euro. Sulla base delle informazioni disponibili (fornite dalla Ragioneria generale dello Stato), alla data del 30 giugno 2014 le risorse ancora da spendere entro il 31 dicembre 2015 (termine ultimo per effettuare pagamenti) ammontano a circa 20 miliardi di euro, la maggior parte dei quali (15 miliardi di euro) nell'area dell'obiettivo «convergenza»;
    nelle sedi parlamentari il Sottosegretario di Stato Delrio ha denunciato come «nonostante gli sforzi enormi fatti dai miei predecessori nel cercare di recuperare il tempo perduto, la programmazione 2007-2013 è la peggiore in termini di risultato nella spesa.». Ad aprile 2014 il Governo ha effettuato una nuova riprogrammazione dei fondi dell'Unione europea 2007-2013 per evitare di perdere 5 miliardi di euro;
    il Sottosegretario di Stato Delrio ha infine annunciato che, salvo modifica delle quote di cofinanziamento, la programmazione 2014-2020 potrà contare su 32 miliardi di euro di fondi strutturali europei cui ne vanno aggiunti altrettanti di cofinanziamenti nazionali (24 miliardi di euro a carico dello Stato, il resto a carico delle regioni). Il Sottosegretario di Stato Delrio ha anche indicato tre priorità per questo nuovo programma: competitività delle imprese, occupazione e istruzione/formazione;
    nel corso degli ultimi quattro anni numerosi sono stati i tentativi di approvare norme di accelerazione di spesa dei fondi comunitari:
     a) la delibera del Cipe n. 1 del 2011 redatta dal Governo Berlusconi ha definito le linee operative del «piano per il Sud», individuando un percorso per l'accelerazione e la riprogrammazione delle risorse destinate alle aree sottoutilizzate, sia quelle di carattere aggiuntivo, previste dal Fondo per lo sviluppo e la coesione (ex Fondo per le aree sottoutilizzate), sia quelle definite dai fondi strutturali dell'Unione europea, mediante la fissazione di target di impegno e di spesa certificata alla Commissione europea, che tuttavia non ottenne risultati significativi;
     b) la legge finanziaria per il 2012 (l'ultima legge approvata dal Governo Berlusconi) esclude dal patto di stabilità «le spese correnti e in conto capitale per interventi cofinanziati correlati ai finanziamenti dell'Unione europea», tuttavia il mancato conteggio opera «con esclusione delle quote di finanziamento statale e regionale»;
     c) nel novembre 2011, preso atto degli insoddisfacenti esiti del «piano per il Sud», è stato adottato il «piano di azione per la coesione», con lo scopo di superare i ritardi che si sono registrati, a cinque anni dall'avvio dell'operatività dei fondi strutturali 2007-2013. Il piano definiva un'azione strategica di concentrazione degli investimenti in quattro ambiti prioritari di interesse strategico nazionale (istruzione, Agenda digitale, occupazione e infrastrutture ferroviarie), attingendo ai fondi che si rendono disponibili, anche attraverso una riduzione del tasso di cofinanziamento nazionale degli interventi dei fondi strutturali;
    il decreto-legge n. 201 del 2011 (il cosiddetto «salva Italia» del Governo Monti), convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, prevede (articolo 3, comma 1) di escludere 1.000 milioni di euro per l'anno 2012, 1.800 milioni di euro per l'anno 2013 e 1.000 milioni di euro per l'anno 2014 «delle spese effettuate a valere sulle risorse dei cofinanziamenti nazionali dei fondi strutturali comunitari»;
    l'articolo 4 del decreto-legge n. 76 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 99 del 2013, al fine di rendere disponibili le risorse derivanti dalla riprogrammazione dei programmi nazionali cofinanziati dai fondi strutturali 2007-2013, disponeva per le amministrazioni titolari dei programmi operativi interessati di avviare entro il 28 luglio 2013 le necessarie procedure atte a modificare i pertinenti programmi, sulla base della vigente normativa europea;
    l'articolo 9 del decreto-legge n. 69 del 2013 (cosiddetto «destinazione Italia»), convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98 del 2013, riguarda l'accelerazione nell'utilizzazione dei fondi strutturali europei e ha disposto che le amministrazioni pubbliche debbono dare la precedenza, nella trattazione degli affari di competenza «(...) alle attività in qualsiasi modo connesse all'utilizzazione dei fondi strutturali europei (...)»; inoltre «(...) per non incorrere nelle sanzioni previste dall'ordinamento dell'Unione europea per i casi di mancata attuazione dei programmi e dei progetti cofinanziati con fondi strutturali europei e di sottoutilizzazione dei relativi finanziamenti, relativamente alla programmazione 2007-2013, in caso di inerzia o inadempimento delle amministrazioni pubbliche responsabili degli interventi, lo Stato esercita il potere sostitutivo di cui all'articolo 120 della Costituzione» (violazione di norme o di trattati internazionali);
    l'articolo 9-bis dello stesso decreto-legge n. 69 del 2013 prevede la stipula di un contratto istituzionale di sviluppo, promosso dal Ministro per la coesione territoriale o dalle amministrazioni titolari dei nuovi progetti strategici, finanziati con risorse nazionali, dell'Unione europea e del fondo per lo sviluppo e la coesione;
    l'articolo 12 del decreto-legge n. 133 del 2014, cosiddetto «sblocca Italia», interviene di nuovo sulla materia della spesa dei fondi comunitari. Si affidano nuove funzioni al Presidente del Consiglio dei ministri al fine di accelerare l'impiego delle relative risorse ed evitare il rischio di incorrere nell'attivazione delle sanzioni comunitarie; sentita la Conferenza unificata, avrà la facoltà di proporre al Cipe il definanziamento e la riprogrammazione delle risorse non impegnate. Sono poi richiamati i poteri già previsti dall'articolo 9 del decreto-legge n. 135 del 2013 (cosiddetto «destinazione Italia»), convertito, con modificazioni, dalla legge n. 9 del 2014;
    gli uffici della Commissione europea hanno studiato questa «difficoltà strutturale». La diagnosi è stata impietosa: inadeguatezza a realizzare politiche pubbliche per incapacità amministrativa. Agli enti che gestiscono i fondi europei è stato dunque imposto uno strumento, il piano di rafforzamento amministrativo, che potrebbe creare l'indispensabile discontinuità;
    tuttavia, una ragione rilevante dell'incapacità di spesa consiste nel patto di stabilità comunitario. La quota dell'Unione europea non si riesce a spendere perché le regioni, in particolare quelle del Sud, non possono mettere a bilancio le risorse di cofinanziamento, altrimenti sforerebbero il patto di stabilità. Le regioni del Nord che hanno bilanci più corposi riescono meglio nella spesa;
    nel vertice sul lavoro del 9-10 ottobre 2014 l'Italia, sostenuta dalla Francia, ha avanzato la proposta, da formalizzare per il previsto vertice del 23 ottobre 2014, di escludere dal calcolo del deficit il cofinanziamento nazionale dei fondi europei. Per cofinanziare i progetti da attivare fino al 2020, l'Italia intende proporre un proprio apporto per 24 miliardi di euro. Una somma che, divisa per i sette anni del programma (2014-2020), assegna 3,5 miliardi di euro in più l'anno da spendere senza sfondare il tetto del rapporto deficit/prodotto interno lordo del 3 per cento. In cambio, l'Italia si impegnerebbe a concentrare la spesa sugli obiettivi indicati da Bruxelles e potenziare i controlli preventivi;
    la risposta della Germania, nonostante il fatto che la crisi cominci a mordere anche l'economia tedesca, che abbisogna quindi di manovre più espansive, si è limitata a valutare la possibilità di escludere dal patto di stabilità 1,5 miliardi di euro di spese cofinanziate dagli Stati per il programma «Garanzia giovani»,

impegna il Governo:

   a rafforzare le attività in sede europea affinché vengano assicurati adeguati spazi finanziari di agibilità della spesa a titolo di concorso al cofinanziamento del fondo europeo per lo sviluppo regionale e del fondo sociale europeo, anche in concorso con altri Stati, con i quali individuare piattaforme comuni;
   ad assumere iniziative volte a rafforzare i poteri di accelerazione dell'impiego delle risorse, di controllo e sostitutivi previsti dall'articolo 9 del decreto-legge n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98 del 2013, e dall'articolo 12 del decreto-legge n. 133 del 2014 e, in tale ambito, a rendere pienamente operativa l'Agenzia per la coesione territoriale eventualmente rafforzandone i poteri sostitutivi;
   a garantire che la programmazione infrastrutturale per le regioni meridionali rappresenti l'elemento centrale dei programmi dei fondi strutturali europei 2007-2013 e 2014-2020 e, in tale ambito, a promuovere una politica di investimento degli enti locali, accompagnata da iniziative per una revisione delle regole del patto di stabilità per gli enti territoriali;
   ad adottare iniziative di competenza specifiche per la regione Campania, in particolare per quel che riguarda il lavoro giovanile, il riassetto idrogeologico e la dotazione infrastrutturale.
(1-00624) (Nuova formulazione) «De Girolamo, Dorina Bianchi, Calabrò, Alli, Bernardo, Bosco, Garofalo, Minardo, Misuraca, Pagano, Piccone, Piso, Saltamartini, Sammarco, Scopelliti, Tancredi, Vignali, Cicchitto, Pizzolante».
(14 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    nello scenario economico italiano, aggravato dalle conseguenze della crisi finanziaria, continua a porsi in primo piano la questione di un Paese ancorato a due differenti velocità di sviluppo, la cui più diretta evidenza sono sia l'inasprimento dei divari e delle divergenze tra le regioni settentrionali e quelle meridionali, sia le diseguaglianze interne alle stesse aree del Mezzogiorno;
    è un dato di fatto che le regioni del Sud del nostro Paese hanno subito con molta più forza i segni della crisi economica e lo evidenziano i dati relativi alla disoccupazione giovanile, come anche quelli relativi al reddito e alla povertà;
    le cause primarie possono essere rinvenute in una condizione complessiva del Mezzogiorno, che è data dalle infrastrutture, dall'impianto economico produttivo, dalla crisi imprenditoriale e che rende questi territori particolarmente vulnerabili;
    il rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno del 2014 ha rilevato che: «Il lascito della peggiore crisi economica dal dopoguerra è un Paese ancor più diviso del passato e sempre più diseguale. La flessione dell'attività produttiva è stata molto più profonda ed estesa nel Mezzogiorno che nel resto del Paese. Come temuto, gli effetti appaiono non più solo transitori ma strutturali: cambia la struttura produttiva, con un peso dell'apparato industriale sempre minore; la forte riduzione degli investimenti fa diminuire lo stock di capitale, che non venendo rinnovato perde in competitività; le migrazioni e i minori flussi in entrata nel mercato del lavoro contemperano la riduzione di possibilità di occupazione. Il Mezzogiorno appare collocarsi in un equilibrio statico di minore produttività, minore occupazione e quindi, inevitabilmente, minore benessere»;
    la distanza tra il Centro-Nord e il Sud non si limita al prodotto interno lordo pro capite, ma a tanti altri indicatori, come la continua migrazione delle forze giovanili verso altri regioni e verso l'estero, l'elevato numero di giovani che abbandonano gli studi (25,5 per cento contro il 16,8 per cento del Centro-Nord), gli studenti con scarse competenze in lettura e matematica (14,2 per cento rispetto al 7 per cento del Centro-Nord), l'irrilevante capacità di attrazione di investimenti dall'estero, il peso ancor maggiore rispetto al resto del Paese della burocrazia, dell'inefficienza istituzionale, della corruzione, della lentezza giudiziaria, dell'economia sommersa, sinanche del trattamento dei rifiuti;
    il rapporto Svimez presentato il 30 luglio 2014 descrive un Paese diviso e diseguale, dove il Sud scivola sempre più nell'arretramento, con il divario di prodotto interno lordo pro capite che nel 2013 è tornato ai livelli del 2003, il crollo degli investimenti nell'industria, il calo dei consumi delle famiglie e dei tassi di iscrizione all'università, e nel quale il numero di occupati è sceso sotto la soglia dei sei milioni, il livello più basso dal 1977;
    nel Mezzogiorno d'Italia in cinque anni le famiglie assolutamente povere sono aumentate di due volte e mezzo, da 443 mila a 1 milione e 14 mila nuclei, e le previsioni 2014-2015 contenute nel rapporto di previsione territoriale Svimez 01/2014 confermano il trend negativo;
    negli anni tra il 2008 e il 2013 l'economia meridionale è calata di circa il doppio rispetto al resto del Paese (-13,3 per cento rispetto al -7 per cento del Centro-Nord), mentre negli stessi anni il Mezzogiorno ha subìto una caduta dell'occupazione del 9 per cento, quattro volte superiore a quella del Centro-Nord (-2,4 per cento); dei circa 985 mila posti di lavoro persi in Italia nello scorso sessennio, ben 583 mila sono nel Sud e l'impatto della caduta dell'occupazione è stato così forte da provocare un crollo dei consumi delle famiglie meridionali di quasi 13 punti percentuali (-12,7 per cento), più del doppio di quello registrato nel resto del Paese (-5,7 per cento);
    inoltre, a dispetto dei deboli segni di ripresa pur registrati in alcune parti d'Italia nel corso del 2013, nello stesso periodo la flessione dell'attività economica si è accentuata in Basilicata (dal -3,7 per cento del 2012 al -6,1 per cento), in Puglia (dal -2,9 per cento al -5,6 per cento), in Calabria (dal -2,1 per cento al -5 per cento) e in Molise (dal -1,8 per cento al -3,2 per cento), e restano stabili sui livelli negativi dell'anno precedente in Campania (-2,1 per cento rispetto a -2 per cento) e in Sardegna (-4,4 per cento rispetto a -4,3 per cento), mentre segnali di attenuazione della crisi rispetto al 2012 si sono avuti solo in Abruzzo (dal -2,7 per cento al -1,8 per cento) e in Sicilia (dal -4,8 per cento al -2,7 per cento);
    al contempo, i tassi di scolarizzazione, già molto inferiori nel Mezzogiorno rispetto al resto del Paese, sono accompagnati da un aumento del tasso di abbandono dovuto alle condizioni di degrado sociale e familiare, mentre negative sono anche le evidenze in termini di «qualità» della formazione, dal momento che gli studenti che terminano la loro carriera accademica hanno notevoli difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro, determinando la cosiddetta fuga dei cervelli e la progressiva desertificazione del capitale umano;
    la ripresa del Mezzogiorno non dipende dall'entità dei trasferimenti pubblici ma dal grado di efficienza delle istituzioni e dalla capacità di mobilitare le risorse disponibili, determinando una crescita delle imprese e della loro capacità concorrenziale nei mercati, nonché ristabilendo una capacità di attrazione di capitali esteri, fondamentali nel processo di generazione del reddito, oltre ad essere lo specchio della credibilità internazionale di un Paese;
    in questo quadro, i fondi dell'Unione europea, pur mantenendo un ruolo centrale nell'ambito delle politiche di sostegno ad occupazione e sviluppo dei territori, non possono costituire l'unica risorsa, ma vanno inseriti in un piano più generale, governato da Stato, regioni ed enti locali, al fine di un migliore e più spedito impiego delle risorse disponibili;
    negli anni l'esistenza di distorsioni e malfunzionamenti all'interno del sistema a supporto delle attività produttive ha dato luogo alla riforma di alcuni degli strumenti esistenti e alla creazione del fondo per le aree sottoutilizzate, secondo una linea guida di concentrazione, basata sulla riduzione delle risorse e la loro assegnazione a poche e selettive politiche di sviluppo funzionali al raggiungimento di obiettivi nel lungo periodo, nel tentativo di «responsabilizzare» le imprese sulla qualità degli investimenti proposti e garantire una ricaduta efficace sul tessuto produttivo locale in termini di occupazione;
    tra le regioni meridionali, particolare attenzione merita la Calabria, che sta vivendo una crisi dell'occupazione particolarmente significativa che la condanna al record europeo di disoccupazione giovanile;
    i dati ufficiali ci dicono, infatti, che nella regione il 65 per cento dei giovani sotto i 25 anni non trova lavoro, contro la media nazionale del 26,2 per cento ed europea del 17 per cento, che il tasso di disoccupazione femminile è al 41 per cento, mentre il dato relativo alla disoccupazione totale è pari al 17,3 per cento, con un incremento annuo di quasi il 6 per cento; al contrario, il tasso di occupazione tra i 15 e i 64 anni è il più basso tra le regioni italiane, attestandosi poco sopra al 37 per cento a fronte di una media nazionale del 55,1 per cento;
    la Calabria detiene, altresì, il triste primato del lavoro nero e irregolare, che sfiora il 28 per cento, con una differenza di circa 20 punti percentuali rispetto alla regione d'Italia più virtuosa in questo campo;
    secondo l'istituto di indagine Demoskopika, in Calabria nel 2013 poco più di 386 mila nuclei familiari – per un totale di quasi un milione di persone – vivevano in condizione di disagio economico, il che equivale a dire che circa il 48,6 per cento delle famiglie calabresi versa in uno stato di quasi o totale indigenza socio-economica;
    in modo analogo, anche la Campania ha visto negli ultimi anni un costante aumento della povertà e della contrazione della capacità di spesa della popolazione, che sta determinando uno stravolgimento del tessuto sociale;
    la base economica della Campania è stata gravemente condizionata e ridimensionata per effetto di fenomeni di crisi, contrazione produttiva e chiusura d'impianti, che trovano la prima e più evidente espressione nella crescita abnorme del ricorso agli ammortizzatori sociali, che è più che triplicato;
    la mortalità aziendale, che, nelle condizioni attuali, è arrivata a compromettere anche segmenti tradizionali e imprese di punta del sistema produttivo campano, non solo rappresenta un elemento che ha ricadute drammatiche dirette e indirette sull'occupazione e sull'offerta, ma, soprattutto, può pregiudicare seriamente la capacità di ripresa futura dell'economia regionale;
    in Campania, peraltro, pesano in modo particolare anche le difficoltà di bilancio di Napoli, ulteriormente aggravate dal taglio dei trasferimenti dal Governo centrale, difficoltà che compromettono seriamente il suo enorme patrimonio archeologico, architettonico e storico, come le impediscono di svolgere il suo ruolo come punto di riferimento per un vasto retroterra e come avamposto strategico al centro del Mediterraneo, lasciando scivolare la città sempre più verso il declino, testimoniato dalla perenne emorragia di residenti;
    la valorizzazione e il rilancio del Meridione d'Italia non possono prescindere dal rilancio del settore turistico, posto l'immenso patrimonio artistico, architettonico e culturale che detengono e che deve essere trasformato in ricchezza vitale attraverso cui creare occupazione, favorire lo sviluppo, applicare all'antico le nuove tecnologie, imprimere a ciò che è statico la velocità della modernità, aggiungere a ciò che è locale la dimensione della globalità;
    in questo ambito appaiono di fondamentale importanza sia il sostegno dell'imprenditoria legata al turismo, sia la tutela e la salvaguardia dei prodotti tipici e delle tradizioni locali di cui proprio il Meridione è così ricco, sia la salvaguardia ambientale e paesaggistica e il contrasto dell'abusivismo edilizio, anche attraverso un processo di riqualificazione delle coste realizzato con meccanismi premiali in ordine alla ricollocazione delle cubature;
    la gravissima crisi occupazionale che affligge le regioni meridionali non può essere affrontata solo con i programmi di sostegno ai giovani di derivazione europea, quali garanzia giovani o i progetti «neet», o attraverso il reimpiego o la stabilizzazione dei lavoratori socialmente utili, soprattutto se si considera che si tratta di una regione con milioni di abitanti e, quindi, con centinaia di migliaia di giovani alla ricerca di un lavoro, ma necessita di interventi mirati e strutturali;
    l'analisi delle difficoltà strutturali che opprimono il Sud italiano, sia in termini di struttura produttiva che di assetto istituzionale, evidenzia una situazione complessiva di fragilità che impone la ricerca di radicali elementi di discontinuità nelle politiche di sviluppo;
    appare indispensabile ed urgente disegnare nuove e più efficaci azioni che consentano al Mezzogiorno di intraprendere un percorso di sviluppo, autonomo e responsabile, in grado di valorizzare i tanti elementi positivi comunque presenti in questi territori, al contempo dando nuovo slancio al tessuto economico e produttivo del Mezzogiorno,

impegna il Governo:

   a valutare l'adozione di un piano di azioni coordinate per l'intera area del Meridione, nell'ambito del quale prevedere ed attuare tempestivamente meccanismi di sostegno e di incentivazione, anche attraverso l'impiego di modalità di agevolazione fiscale, mirati a salvaguardare le strutture produttive esistenti e ad attrarre nuovi investimenti;
   ad adottare le iniziative necessarie a combattere efficacemente il gravissimo problema degli abbandoni scolastici, che, di fatto, priva questi territori anche della possibilità di investire nel futuro attraverso le giovani generazioni;
   ad individuare con rapidità quali comuni, tra quelli che ne abbiano fatto richiesta, abbiano i requisiti per costituire al proprio interno le zone franche urbane di cui alla legge 24 dicembre 2007, n. 244, al fine di rafforzare la crescita imprenditoriale e occupazionale delle micro e piccole imprese;
   ad elaborare un piano di monitoraggio delle risorse destinate dallo Stato e dall'Unione europea al contrasto della disoccupazione e agli altri programmi di sviluppo in favore delle regioni dell'obiettivo convergenza, al fine di verificare che esse siano effettivamente impiegate per i fini previsti e non siano disperse e al fine di contrastare la lentezza nelle procedure di spesa;
   ad individuare politiche atte alla conservazione e alla valorizzazione delle risorse naturali delle regioni, al fine di rilanciare il turismo e la produzione ed il commercio dei prodotti tipici;
   in questo ambito a valutare di assumere iniziative per l'attivazione di procedimenti di sostituzione edilizia, in collaborazione con soggetti privati, volti ad eliminare gli edifici sorti in seguito a fenomeni di abusivismo edilizio e a ripristinare i territori, con particolare riferimento alle fasce costiere;
   a promuovere una rapida individuazione degli interventi infrastrutturali di primaria importanza, anche ai fini del rilancio turistico, e ad individuare misure per garantire la loro tempestiva realizzazione;
   ad elaborare un programma per la messa in sicurezza dei territori e degli edifici, con particolare riguardo a quelli scolastici, per il recupero dei centri urbani, attraverso opere di restauro degli edifici storici, e per il completamento dei programmi già avviati nei settori dell'edilizia sanitaria, universitaria e carceraria;
   con particolare riferimento alla Campania, ad adoperarsi al fine di rilanciare i progetti per il centro storico, la metropolitana e il porto di Napoli, per Napoli est, per l'aeroporto di Salerno, per la valorizzazione e lo sviluppo dell'ex area industriale di Bagnoli e dell'intera area flegrea, nonché per ripristinare e restituire pienamente al pubblico i siti turistici di maggiore importanza, tra i quali Pompei e la Reggia di Caserta.
(1-00641) «Taglialatela, Cirielli, Rampelli».
(21 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il quadro politico-economico attuale ci presenta una crisi che, per la sua fisionomia e il tempo di durata, si presenta, chiaramente, come una crisi strutturale e non contingente, crisi che arriva a mettere in discussione il paradigma economico-produttivo occidentale, fondato su un modello cosiddetto di stampo fordista e sulla crescita dell'incidenza della finanza sull'economia reale;
    da più parti di segnala come, nell'ambito di questa epocale crisi dell'economia reale italiana, sia particolarmente negativa l'evoluzione della situazione economica e occupazionale del sud del nostro Paese;
    tale evoluzione ha radici profonde, in quanto, già a partire dall'anno 2000, si è fermata quella spinta volta a ridurre il divario tra Nord e Sud, che è invece costantemente in aumento, soprattutto negli ultimi anni;
    da uno studio dell'Università di Reggio Calabria si evince che nel periodo 2000-2010 il Centro-Nord presenta un prodotto interno pro capite quasi doppio rispetto al Mezzogiorno (in particolare, i valori del 2011 presentano per il Centro-Nord 27.490 euro contro 15.717 euro per il Mezzogiorno, che risulta avere, quindi, un prodotto interno pro capite pari al 57 per cento di quello del Centro-Nord);
    come evidenzia il rapporto della Banca d'Italia, la congiuntura è particolarmente negativa per la regione Campania, territorio nel quale si osserva un aggravarsi incessante delle condizioni economiche e, in particolare, di quelle occupazionali;
    nella relazione Istat relativa al primo trimestre del 2014 si rileva un tasso di disoccupazione altissimo, maggiore di più di dieci punti percentuali rispetto al tasso nazionale ed in costante crescita: dal 22,2 per cento del 2013 si è passati al 23,5 per cento del 2014;
    nel 2013 la Banca d'Italia, nel già citato rapporto congiunturale sulla Campania 2013, aveva prospettato «nuove opere previste dal Piano di azione per la coesione e un più rapido avanzamento nell'utilizzo dei fondi dell'Unione europea, concentrati in misura significativa nella realizzazione di grandi progetti infrastrutturali»;
    il Sottosegretario di Stato, Graziano Delrio, in audizione presso la commissione Politiche dell'Unione europea della Camera dei deputati ha affermato che ci sono ancora 15 miliardi di euro da spendere nelle regioni del Sud entro i prossimi 15 mesi, pena la loro perdita;
    tali risorse potrebbero sommarsi a quelle stanziate con il nuovo accordo di partenariato 2014-2020, che dovrebbe portare circa 40 miliardi di euro per nuovi investimenti nel nostro Paese, con particolare riguardo alle regioni meno sviluppate e che, quindi, hanno subito tutta la drammaticità di questa epocale crisi economica;
    stando ai dati Svimez, infatti, il combinato dei fondi europei di cui alla programmazione 2007-2013 e la dotazione finanziaria dei nuovi dovrebbero portare un volume complessivo teorico di circa 30 miliardi di euro di investimenti nei prossimi due anni;
    se ben utilizzati, controllando la dispersione delle risorse e monitorando lo sviluppo dei progetti approvati, si potrebbe addivenire ad un sensibile incremento del prodotto interno lordo, con consequenziale inversione di tendenza della congiuntura economica oggi così sfavorevole;
    in particolare, si potrebbe ottenere un incremento occupazionale notevole, stimato intorno alle 30.000 unità nel 2014;
    le difficoltà incontrate dalle regioni del sud Italia nell'utilizzare i fondi europei possono essere riconducibili a carenze amministrative nella gestione e nel controllo dei fondi;
    un'altra criticità in merito al deficit di efficienza della spesa dei fondi potrebbe essere riscontrata nella rigidità del patto di stabilità: le regioni, in particolare quelle del Sud, hanno difficoltà nel mettere a bilancio risorse di cofinanziamento, in quanto possono così trovarsi al di fuori del patto di stabilità;
    alcune regioni italiane hanno difatti subito le infauste conseguenze dello sforamento del patto di stabilità, rimanendo pertanto impossibilitate ad utilizzare propriamente i fondi per l'investimento strutturale;
    sarebbe pertanto auspicabile una minore rigidità in tal senso, quantomeno in relazione alla possibilità di scomputare la quota di cofinanziamento dei fondi dalle somme sottoposte al patto di stabilità;
    in una logica di rilancio dell'economia campana andrebbe rivisto l'impiego dei fondi strutturali europei, non soltanto dal punto di vista quantitativo ma anche qualitativo, si sottolinea come si siano evidenziati ritardi ed inefficienze nella spesa dei fondi – in particolare nella regione Campania – proprio a partire dalla mancata attuazione dell'Agenda 2000, peraltro messa già sotto osservazione dalla Commissione europea che ha potuto, a suo tempo, rilevare ufficialmente, in risposta all'interrogazione P-0065/09, come «La Regione Campania ha accumulato in passato considerevoli ritardi nell'attivazione della spesa di Agenda 2000»;
    anche nell'ultima programmazione relativa al periodo 2007-2013 si sono evidenziate simili criticità relative alla spesa dei fondi strutturali, come peraltro ha evidenziato lo stesso Sottosegretario di Stato Delrio in audizione presso la Camera dei deputati;
    la Commissione europea, inoltre, ha pubblicamente considerato essenziale che l'Agenzia per la coesione territoriale sia pienamente operativa fin dall'inizio della nuova programmazione al fine di monitorare l'utilizzo dei fondi, individuare tempestivamente eventuali problemi e intervenire per assistere le amministrazioni in difficoltà;
    la crescita del meridione d'Italia potrebbe rappresentare un volano di sviluppo per tutta l'economia del Paese, visto e considerato che il prodotto interno lordo meridionale – a seguito della drammatica riduzione del 20 per cento nell'ultimo quinquennio – è oggi riscontrabile al 56 per cento del prodotto interno lordo italiano: un innalzamento sensibile di tale dato – a fronte di una popolazione complessiva di circa 20 milioni di persone – potrebbe generare un significativo aumento del prodotto interno lordo complessivo;
    al fine di superare definitivamente questa crisi economica strutturale, però, andrebbero messe in atto misure di politica economica calate profondamente nel contesto di questo mutamento basale della stessa economia: va, infatti, colto il cambio di paradigma, che si fonda ormai su fattori produttivi che sono stati sottovalutati nel corso del Novecento;
    misure di crescita che, infatti, per essere davvero efficaci nel medio e lungo periodo, devono aver conto del fatto che si è ormai dimostrata la fallibilità del principio della crescita infinita: bisognerebbe quindi valutare seriamente un impegno di governance economica multilivello volto a ridisegnare un'economia basata sui concetti cardine della crescita sostenibile, dello sviluppo delle energie alternative, della ricerca scientifico-tecnologica collegata al territorio, dell'agricoltura a filiera corta basata su aziende di piccole e medie dimensioni, del turismo enogastronomico strettamente connesso all'innovazione dell'offerta artistica e culturale locale ed altro;
    le aree interne, di cui peraltro alla legge di stabilità 2014, rappresentano una parte ampia del Paese assai diversificata, distante da grandi centri abitati, dense di problemi e criticità in merito al deficit strutturale e infrastrutturale, dotate tuttavia di risorse che mancano alle aree centrali e con forte potenziale di attrazione;
    tali aree interne sono molto presenti nel sud Italia e potrebbero certamente fungere da ulteriore volano di sviluppo per il nostro Paese: come difatti un corpo non può vivere senza la struttura ossea che lo sostiene, è impossibile pensare ad uno sviluppo armonico del nostro Paese se non immagina una strategia di sviluppo dello scheletro della nostra penisola;
    infine, come sosteneva Guido Dorso, insigne storico e politico meridionalista di chiara matrice liberal-democratica, «il Mezzogiorno non ha bisogno di carità, ma di giustizia; non chiede aiuto, ma libertà. Se il mezzogiorno non distruggerà le cause della sua inferiorità da se stesso, con la sua libera iniziativa e seguendo l'esempio dei suoi figli migliori, tutto sarà inutile»; è, quindi, necessario che le opportunità di sviluppo rese al Meridione attraverso le risorse stanziate vengano effettivamente utilizzate e che, pertanto, il Governo si adoperi a monitorare l'effettivo ragionevole utilizzo, spronando e sostenendo le amministrazioni regionali e locali in tal senso,

impegna il Governo:

   ad adottare misure per la crescita economica che tengano conto del cambio di paradigma esposto in premessa;
   ad incentivare quindi una governance economica multilivello volta a disegnare un nuovo sistema economico basato sui concetti cardine della crescita sostenibile, dello sviluppo delle energie alternative, della ricerca scientifico-tecnologica collegata al territorio, dell'agricoltura a filiera corta basata su aziende di piccole e medie dimensioni, del turismo enogastronomico strettamente connesso all'innovazione dell'offerta artistica e culturale locale, con particolare riferimento al Mezzogiorno;
   a rafforzare, pertanto, la strategia nazionale per le aree interne, che punta chiaramente a invertire il paradigma produttivo, demografico ed economico attuale e che assume, nel Meridione, un'importanza particolare;
   a sollecitare e monitorare l'utilizzo effettivo dei fondi europei di cui al presente atto di indirizzo, anche al fine di attuare pienamente questa strategia complessiva, nonché per rafforzare le capacità amministrative degli enti locali meridionali;
   ad indirizzare le politiche pubbliche di bilancio per le spese d'investimento per il Sud;
   a favorire un'interpretazione della contabilità pubblica più coerente con lo spirito dei trattati europei e dell’acquis communautaire, volta a salvaguardare ed agevolare l'investimento strutturale e l'utilizzo dei fondi;
   ad attivarsi affinché l'Agenzia per la coesione territoriale sia pienamente operativa e che operi come strumento di raccordo per la strategia complessiva di rilancio dell'economia.
(1-00642) «De Mita, Dellai, Cera, Piepoli, Caruso».
(22 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    le anticipazioni sulle previsioni 2014-2015 contenute nel rapporto Svimez 2014 evidenziano ancora una volta un Paese segnato da un Sud sempre più arretrato economicamente. Nel 2013 il divario di prodotto interno lordo pro capite è tornato ai livelli di dieci anni fa. Negli anni 2008-2013 i consumi delle famiglie sono crollati del 13 per cento circa, gli investimenti nell'industria addirittura del 53 per cento, i tassi di iscrizione all'università tornano ai primi anni del duemila e per la prima volta il numero di occupati ha sfondato, al ribasso, la soglia psicologica dei 6 milioni, il livello più basso dal 1977. In cinque anni le famiglie assolutamente povere sono aumentate di due volte e mezzo, da 443.000 a 1.014.000; sono in diminuzione anche i consumi (-2,4 per cento) e gli investimenti fissi lordi (-5,2 per cento);
    tra il 2008 e il 2013 l'occupazione nel Mezzogiorno è diminuita del 9 per cento, a fronte del -2,4 per cento del Centro-Nord. Delle 985.000 persone che in Italia hanno perso il posto di lavoro, 583.000 sono residenti nelle regioni meridionali. Una flessione che riporta il numero degli occupati del Sud, per la prima volta nella storia, a 5,8 milioni, il livello più basso dal 1977;
    i dati Inps sulle politiche attive per il lavoro evidenziano una sostanziale prevalenza in Campania di provvedimenti volti all'assunzione agevolata di disoccupati o beneficiari di cassa integrazione guadagni straordinaria da almeno 24 mesi o di giovani già impegnati in borse di lavoro;
    purtroppo, la Youth Guarantee – destinata ad incrementare l'occupazione dei giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni e che ha portato in dote alla Campania un tesoretto di circa 200 milioni di euro (spalmato su iniziative di vario genere) – non ha, al momento, raggiunto gli obiettivi auspicati. Ciò fa ritenere che sarebbe stato più efficace, forse, destinare questi fondi a poche ma incisive iniziative, anziché ad una frammentata serie, anche alla luce delle due negative peculiarità che incidono sul quadro occupazionale della Campania: il lavoro nero e la criminalità organizzata. In quest'ottica, meritevole di straordinaria attenzione è, da un lato, l'apprendistato scuola-lavoro che ha la precipua finalità di formare i giovani tra i banchi di scuola (in quella delicata età in cui sono più facilmente vittime delle lusinghe della criminalità organizzata), dall'altro, un oculato utilizzo della leva degli sgravi fiscali e contributivi a favore delle imprese per l'assunzione dei giovani, anche in chiave di disincentivo al lavoro nero;
    peraltro, l'attuazione della Youth Gurantee è stata per lo più affidata a strutture obsolete e talora inefficienti, anche per mancanza di risorse, come i centri per l'impiego, che riescono ad intermediare solamente il 2 per cento del lavoro in Italia. Certamente occorre anche ricordare che lo Stato investe su essi solamente circa 500 milioni di euro, contro i 5,6 miliardi di euro della Francia e i 9 miliardi di euro della Germania;
    il prodotto interno lordo dell'Italia non è più aumentato dal secondo trimestre del 2011 e anche per il secondo semestre del 2014 risulta in ulteriore diminuzione (l'Istat conferma il dato tendenziale in lieve peggioramento: dal -0,2 per cento al -0,3 per cento). Da una parte, dunque, abbiamo il nord del Paese che riparte, anche se in maniera non particolarmente incisiva, dall'altra il Sud che, pur arrestando la caduta, presenta dati ancora in negativo;
    la stessa dinamica si prevede per il 2015 e, in questo quadro generale, il Mezzogiorno perde ancora giovani e vive quasi una seconda grande migrazione: fenomeno che dal 2001 ha prodotto un saldo netto di 708.000 persone, di cui 494.000 tra 15 e 34 anni;
    in questa situazione, di per sé già grave, il rapporto Svimez sottolinea che non è solo la recessione ad accentuare il divario tra Nord e Sud, ma anche la spesa pubblica per investimenti che è calata in misura ancor maggiore. Nel 2012, la spesa aggiuntiva per la macroarea è, infatti, diminuita del 67,3 per cento del totale nazionale, ampiamente al di sotto della quota dell'80 per cento fissata per la ripartizione delle risorse aggiuntive tra aree depresse;
    nel Sud esistono poli di eccellenza da sviluppare e sostenere (si pensi, ad esempio, al CEINGE, il centro di ricerca in biotecnologie avanzate di Napoli impegnato in ricerche su un antidoto per il virus ebola). Su questi innovativi poli scientifici e tecnologici occorre investire per creare le premesse per una maggiore attrattività per il Sud, considerando anche i possibili interesso degli investitori internazionali;
    purtroppo, la crisi persistente ha determinato, invece, un processo di disinvestimento con il conseguente ridimensionamento dell'apparato produttivo che ha innescato il rischio, nel Mezzogiorno d'Italia, di una vera e propria desertificazione industriale;
    è diventato, dunque, improcrastinabile promuovere la competitività del Paese attraverso investimenti mirati in infrastrutture su tutto il territorio nazionale e, soprattutto, nel Mezzogiorno ed in Campania, ben oltre gli stanziamenti decisi dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti: su una tranche di 15 opere infrastrutturali per 1.664 milioni di euro, ricadono nel Mezzogiorno solamente 90 milioni di euro per la metropolitana di Napoli, 60 milioni di euro per la rete ferroviaria pugliese e 143 milioni di euro per la Sardegna per la sicurezza degli svincoli stradali: vale a dire appena il 17,8 per cento del totale (ciò al di là dei limiti dimostrati dalle regioni meridionali nella spesa dei fondi veicolati dalle politiche di coesione europee, come nella spesa ai fini delle opere di manutenzione per le quali è tristemente noto che, su 16.640 chilometri di rete ferroviaria in Italia, il Mezzogiorno ne detiene 5.730, ma con il più alto numero di chilometri a binario singolo e con i 41 per cento di rete non elettrificata);
    sotto altro profilo, è diventato improcrastinabile promuovere la competitività del Mezzogiorno attraverso investimenti in innovazione e formazione;
    in particolare, il Mezzogiorno si compone per la gran parte di piccole e medie imprese che, se, da un lato, brillano per la qualità dei risultati, come emerge da un recente rapporto di Confartiginato (presentato alla convention Progetto Sud), dall'altro, non tendono all'internazionalizzazione stentando, ad esempio, ad avviare importanti processi di digitalizzazione, né tantomeno investono in formazione interna, che è una fondamentale componente della produttività;
    nel dossier su «L'economia della Campania», pubblicato nel rapporto annuale della Banca d'Italia (giugno 2014), è emerso che nel settore industriale in Campania il fatturato è aumentato soprattutto per le imprese con elevata propensione all’export e gli investimenti hanno mostrato una dinamica migliore rispetto agli anni recenti, seppure limitatamente alle aziende di maggiore dimensione. Nell'edilizia il calo di attività è stato più netto per le imprese fortemente dipendenti dalla domanda di opere pubbliche;
    sul mercato del credito, la dinamica dei prestiti si presenta assai negativa e si sono acuite le difficoltà di rimborso: alla fine del 2013, oltre un terzo dei prestiti erogati alle piccole imprese campane e circa un quarto di quelli erogati alle medio-grandi imprese erano classificati in sofferenza. È emersa, tuttavia, una lieve attenuazione della restrizione nelle condizioni di accesso al credito probabilmente dovuta ad una migliorata situazione di liquidità, favorita anche dal rimborso dei crediti commerciali verso la pubblica amministrazione;
    nel 2013, più del 60 per cento delle famiglie campane ha giudicato inadeguate le proprie risorse economiche: il dato è conseguenza, soprattutto, dell'alta disoccupazione e della debolezza dei salari, con l'aggravio di un carico fiscale che, nelle componenti legate all'autonomia impositiva degli enti locali, è superiore alla media nazionale;
    secondo l'indagine campionaria sul turismo internazionale in Italia della Banca d'Italia, nel 2013 sono aumentati sia gli arrivi sia le presenze di turisti stranieri in Campania (rispettivamente 7,7 per cento e 4 per cento nell'anno precedente). Rispetto al 2012 sono tornate a crescere le presenze presso strutture alberghiere o case in affitto; inoltre, la spesa sostenuta dai viaggiatori stranieri sul territorio regionale è lievemente aumentata (1 per cento). Nel 2013 la spesa dei turisti stranieri ha rappresentato il 4,3 per cento del totale nazionale e l'1,5 per cento del prodotto interno lordo regionale (2,1 per cento in Italia). Tutto ciò rende evidente la necessità di maggiori investimenti nel settore turistico, attualmente più attrattivo rispetto ad altri settori;
    la situazione dei trasporti risulta assai problematica: limitandosi all'analisi del solo traffico passeggeri negli scali portuali campani, esso è diminuito del 6,5 per cento nel 2013 (-1,2 per cento nel 2012); contemporaneamente, è proseguito il calo dei crocieristi (-3,4 per cento), nonostante l'aumento rilevato nel porto di Salerno. Le merci movimentate sono cresciute del 3,8 per cento, mentre è diminuito del 2 per cento il traffico di container, consolidando una tendenza in atto dal 2008. La quota di mercato campana del traffico container italiano è calata negli ultimi dodici anni di 3 punti percentuali (dal 10,3 per cento del 2001 al 7,4 per cento del 2013), a fronte di una sostanziale stabilità della quota meridionale. Il calo è stato in buona parte determinato, da un lato, dal mancato adeguamento dell'infrastruttura portuale napoletana al fenomeno del gigantismo navale, dall'altro, dalla mancanza di programmi e governance in grado di consentirne un efficace ed efficiente funzionamento, rischiando in tal modo anche la dispersione dei fondi europei;
    sotto il profilo degli investimenti, secondo i dati del Sistema informativo delle operazioni degli enti pubblici (Siope), che rileva gli incassi e i pagamenti effettuati dalle pubbliche amministrazioni, nel 2013 i pagamenti per investimenti sostenuti dalle amministrazioni locali campane sono diminuiti del 3,6 per cento rispetto all'anno precedente;
    il 2013 è stato il settimo anno di attuazione del ciclo di programmazione 2007-2013: le risorse a disposizione della Campania, la cui certificazione dovrà essere completata entro la fine del 2015 pena il loro disimpegno, sono gestite nell'ambito di due Programmi operativi regionali (Por), uno relativo al Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) e l'altro al Fondo sociale europeo (Fse). Dalla fine del 2011, il sensibile ritardo nell'attuazione finanziaria dei due programmi ha reso necessaria l'adozione di interventi correttivi concordati tra Governo e regione, tra i quali ingenti riduzioni di quote di cofinanziamento nazionale. La dotazione finanziaria complessiva dei Programmi operativi regionali, inizialmente di 8 miliardi di euro, è così scesa a 5,4 miliardi di euro a dicembre del 2013 (poco meno di 4,6 miliardi di per il Fondo europeo di sviluppo regionale e di 900 milioni di euro per il Fondo sociale europeo);
    l'irrisolta questione legata al rischio ambientale in Campania – si consideri nello specifico il territorio della cosiddetta «Terra dei Fuochi» – reca grave pregiudizio per un realistico rilancio del settore industriale e turistico: risulta perciò improcrastinabile un efficace sostegno alle politiche ambientali del Mezzogiorno,

impegna il Governo:

   ad attivare un puntuale sistema di monitoraggio sullo stato di attuazione e di avanzamento degli interventi finanziati con i fondi strutturali, al fine di impedirne la dispersione e garantirne un utilizzo efficace e rispondente alle reali esigenze territoriali;
   a promuovere un più tempestivo utilizzo delle disponibilità finanziarie provenienti dai fondi strutturali dell'Unione Europea, al fine di attenuare gli effetti del calo della domanda interna in tutto il Paese, con particolare riferimento alla regione Campania;
   a garantire con la massima tempestività risorse adeguate per le politiche di recupero e promozione del patrimonio culturale e paesaggistico del Sud, ponendo particolare attenzione ai siti Unesco e attingendo, se necessario, alla dotazione residua della programmazione 2007-2013;
   a potenziare i finanziamenti a favore della ricerca scientifica e industriale, dell'innovazione tecnologica e del settore infrastrutturale, programmando parte della dotazione prevista attraverso i fondi aggiuntivi comunitari e nazionali (Fondo europeo di sviluppo regionale, Fondo sociale europeo, Politica agricola comune, Fondo per lo sviluppo e la coesione), nel rispetto dei principi di semplificazione e di trasparenza dei procedimenti amministrativi, e provvedendo ad effettuare i controlli e ad erogare le risorse finalizzate a tali interventi;
   a predisporre programmi e risorse adeguati per mettere in sicurezza e garantire una più efficiente gestione del traffico passeggeri e merci negli scali portuali campani, in particolare in quello di Napoli, superando l'annosa questione della governance;
   ad avviare politiche di sostegno alla creazione di filiere produttive, con particolare attenzione al comparto turistico e al settore della green economy;
   a destinare con maggiore incisività i fondi strutturali a progetti legati all'innovazione, all'occupazione e all'inclusione sociale al fine di garantire una maggiore attenzione alle politiche attive del lavoro;
   a favorire la diffusione delle informazioni per un più facile accesso agli aggiornamenti sullo stato delle destinazioni più rilevanti dei finanziamenti comunitari;
   ad adottare opportune iniziative per la realizzazione di interventi che consentano la totale messa in sicurezza dei territori italiani, riservando particolare attenzione al Meridione e alla Campania, sia sul fronte del dissesto idrogeologico che su quello dell'inquinamento ambientale, garantendo, con risorse adeguate, il prosieguo dei processi di bonifica in corso;
   a porre particolare attenzione, attraverso un monitoraggio continuo, allo stato di salute delle piccole e medie imprese, attualmente in forti difficoltà, disponendo ogni utile iniziativa atta ad agevolare l'accesso al microcredito, che è quello che negli ultimi anni ha permesso di rilanciare l'economia di Paesi in crisi.
(1-00648) (Nuova formulazione) «Antimo Cesaro, Catania, Cimmino, D'Agostino, Sottanelli, Mazziotti di Celso, Matarrese, Vargiu, Librandi, Capua».
(28 ottobre 2014)


MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE A SOSTEGNO DELLE POLITICHE DI GENERE

   La Camera,
   premesso che:
    non si può non sottolineare come – secondo quanto sostenuto anche dai più alti vertici istituzionali – valorizzare le donne non sia solo una questione etica, ma comporti anche importanti effetti sul piano economico, come dimostra la capacità delle donne di affermarsi e di dare il proprio contributo in tutti i campi, una volta che siano liberate da vincoli giuridici e da pregiudizi sociali;
    secondo il Global Gender Gap Report 2013 del World Economic Forum che ha esaminato il problema delle pari opportunità in diversi ambiti, dalla sanità, alle possibilità di sopravvivenza, all'accesso all'istruzione, alla partecipazione alla vita lavorativa, sociale e politica, l'Italia è all'ultimo posto tra Paesi europei e 71esima sui 136 Paesi analizzati;
    nonostante l'aumento dell'occupazione femminile riscontrato dal rapporto Istat 2013 e ascrivibile, in parte alla crescita delle occupate straniere, in parte alla concentrazione della forza lavoro femminile nel part-time involontario e nelle mansioni a bassa specializzazione, la quota di donne occupate in Italia rimane di gran lunga inferiore a quella dell'Unione europea (47,1 per cento contro 58,6 per cento). Inoltre, le donne continuano a essere pagate meno rispetto agli uomini. Il differenziale di genere italiano nelle retribuzioni è stato misurato dall'Unione europea di 5,8 per cento in Italia, come evidenziato dalla relazione pubblicata nella primavera 2013 sulla parità di genere. Svantaggio che si ritrova anche nelle retribuzioni di chi ha una laurea: gli uomini che hanno un titolo di studio elevato guadagnano in media il 19,6 per cento in più rispetto a chi ha il diploma, per le donne lo scarto tra i diversi livelli di istruzione si riduce al 14,9 per cento;
    la minore partecipazione delle donne al mondo del lavoro, soprattutto in questa fase prolungata di crisi economica, è una perdita di opportunità per l'economia e la società. Come già evidenziato nel 2010 da uno studio condotto dalla Banca d'Italia «l'aumento del tasso di occupazione femminile influenzerebbe positivamente il Pil. Nel nostro Paese, ad esempio, il conseguimento dell'obiettivo del Trattato di Lisbona di un tasso di occupazione femminile al 60 per cento comporterebbe un aumento del Pil fino al 7 per cento, che toccherebbe i 12 punti se l'occupazione femminile eguagliasse quello maschile in ciascuna ripartizione geografica»;
    la difficoltà di inserimento delle donne nel mondo del lavoro è legata anche a problemi di conciliazione tra lavoro e famiglia e al fatto che, rispetto agli uomini, le donne impiegano una parte maggiore del loro tempo in attività di cura non retribuite. Secondo recenti dati dell'Ocse, una donna italiana lavora in media 58,6 ore a settimana, contro le 47,7 di un uomo. Di queste, quasi i due terzi (36,1 ore) sono però di lavoro non retribuito – cura di bambini e anziani, pulizie domestiche, cucina e altri lavori legati alla casa e alla famiglia – mentre solo poco più di 22 ore sono retribuite. Una situazione nettamente opposta rispetto a quella degli uomini, per cui il lavoro retribuito rappresenta oltre 33 ore su 47 (quasi undici in più delle donne), mentre quello non retribuito è di sole 14,5 ore, oltre 21 in meno rispetto alla parte femminile;
    questo gap colloca l'Italia al primo posto tra i 34 Paesi Ocse per differenza tra uomini e donne nella distribuzione del lavoro non pagato, nettamente davanti a Francia (12,6 ore non retribuite in più per le donne), Gran Bretagna (12,2 ore), Usa (9,5 ore) e Germania (6,6 ore);
    i divari nella partecipazione femminile al mercato del lavoro possono essere ridotti considerevolmente attraverso politiche mirate di welfare, con efficaci servizi all'infanzia e alla famiglia, come dimostrano esperienze di altri Paesi europei. Tuttavia, dati Istat evidenziano come l'offerta pubblica sul territorio di asili nido sia non solo mediamente insufficiente, ma abbia visto nel 2012 anche enormi disparità geografiche, andando dall'80 per cento di comuni coperti dal servizio in regioni come l'Emilia-Romagna, il Friuli Venezia Giulia e la Valle d'Aosta al 13 per cento della Calabria, che presenta il livello regionale più basso di copertura;
    flessibilità degli orari di lavoro ed imprenditorialità sono due strumenti fondamentali per l'inclusione delle donne nel mercato del lavoro, la loro affermazione professionale e la crescita complessiva dell'economia. Tuttavia, sul fronte dei programmi di flessibilità, si rileva un forte ritardo italiano: se nei Paesi europei più avanzati il 36 per cento può accedere a strumenti di flessibilità, in Italia solo il 10 per cento ha questa possibilità;
    con la legge di stabilità per il 2013 (articolo 1, comma 339, legge 24 dicembre 2012, n. 228) è stata introdotta, dando attuazione alla direttiva dell'Unione europea n. 2010/18/UE, la possibilità di frazionare ad ore la fruizione del congedo parentale. In merito alle modalità di fruizione del congedo su base oraria, ai criteri di calcolo e all'equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa, è stato demandato il tutto alla contrattazione collettiva di settore;
    sul fronte imprenditoriale si rilevano alcuni passi in avanti, anche grazie a numerose iniziative e a incentivi per l'imprenditorialità femminile: secondo dati Unioncamere tra marzo 2012 e marzo 2013 le imprese al femminile hanno allungato il passo, aumentando il loro numero di oltre 10 mila unità. Tuttavia, gli stessi dati evidenziano una maggiore fragilità finanziaria delle imprese femminili rispetto alla media: il 72 per cento di esse, infatti, opera con un capitale sociale di meno di 10 mila euro, contro il 67 per cento della media delle imprese;
    la necessità di un maggior supporto all'imprenditoria femminile è legata non solo e non tanto ad esigenze di parità, ma soprattutto ad esigenze di rafforzamento del tessuto economico e produttivo del Paese. Un'indagine McKinsey nei Paesi dell'Unione europea ha rilevato come le performance economiche delle imprese dove ci sono molte donne in azienda è migliore rispetto alle altre: il ritorno sul capitale investito è superiore del 10 per cento alla media e l'utile, prima di togliere le tasse, quasi raddoppia;
    una maggiore integrazione delle donne nel mercato del lavoro e l'eliminazione delle differenze di genere sono, inoltre, uno degli obiettivi chiave dell'Unione europea, che ha attivato numerosi strumenti in tale direzione. Il Trattato sul funzionamento dell'Unione europea nell'articolo 8 pone come obiettivo della sua azione l'eliminazione di discriminazioni e la promozione della parità tra uomini e donne: con gli articoli 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, la parità fra uomini e donne in tutti i settori viene considerata a pieno titolo quale principio fondamentale del diritto comunitario, principio da applicarsi ovviamente anche in materia di occupazione e di impiego;
    tra i programmi comunitari per il periodo 2014-2020, l'Unione europea ha deciso di stanziare 439 milioni di euro per progetti legati alla lotta contro la discriminazione e la parità fra donne e uomini e le priorità sono: pari indipendenza economica, pari retribuzione, parità nel processo decisionale e contrasto alla violenza di genere;
    nella raccomandazione specifica per Paese rivolta nel 2012 dalla Commissione europea all'Italia si legge l'invito ad «Adottare ulteriori provvedimenti per incentivare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, in particolare fornendo servizi per l'infanzia e l'assistenza agli anziani (...)»; nella raccomandazione del 2013 sul programma di stabilità dell'Italia 2012-2017 la Commissione europea afferma che: «La partecipazione delle donne al mercato del lavoro resta modesta e l'Italia presenta uno dei maggiori divari di genere nell'occupazione a livello di UE»;
    anche nelle previsioni di stanziamento per il quadro finanziario pluriennale 2014-2020 per l'erogazione dei fondi comunitari del quadro strategico comune, la Commissione europea ha proposto un nuovo approccio per l'utilizzo dei fondi stessi, in linea con le priorità politiche dell'Agenda Europa 2020, suggerendo in particolare all'Italia di porre tra gli obiettivi di priorità di finanziamento la parità tra uomini e donne e la conciliazione tra vita professionale e vita privata/familiare;
    nel nostro Paese la definizione di politiche per le pari opportunità è stata avviata con consistente ritardo rispetto ad altri Paesi europei: solo negli anni Settanta i legislatori hanno riconosciuto il principio della parità nelle diverse sfere della vita sociale; è poi con la legge n. 125 del 1991, che dispone di «rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità», che prendono il via alcune importanti disposizioni che mirano a creare le condizioni per il riequilibrio dei ruoli sociali e familiari di uomini e donne: sul lavoro a tempo parziale (decreto legislativo n. 61 del 2000), sulla conciliazione (legge n. 53 del 2000) e quote rose nei consigli di amministrazione delle società per azioni quotate (legge n. 120 del 2011);
    con decreto del Ministro per le pari opportunità del 12 maggio 2009, furono erogati 40 milioni di euro, da distribuire alle regioni, per la realizzazione di «un sistema di interventi per favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro» inerente alla ripartizione delle risorse del fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità per l'anno 2009. Sulla base dell'esperienza maturata nell'ambito di tale piano d'intesa 2010, il 25 ottobre 2012 la Conferenza unificata Stato-regioni ha approvato l'intesa relativa alla «Conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per il 2012». Le regioni, con il coordinamento del dipartimento per le pari opportunità e grazie alle risorse stanziate dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, hanno avuto l'opportunità di realizzare un sistema di interventi per favorire la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro e per consolidare, estendere e rafforzare sui territori regionali iniziative volte a promuovere l'equilibrio tra vita familiare e partecipazione delle donne e degli uomini all'interno del mercato del lavoro, favorendo le pari opportunità e contribuendo ad accrescere la produttività delle imprese;
    l'articolo 4, comma 24, lettera b), della legge n. 92 del 2012, ha previsto, per il triennio 2013-2015, la possibilità per le madri lavoratrici di richiedere, al termine del congedo di maternità e in alternativa al congedo parentale, un contributo di 300 euro mensili per l'acquisto di voucher e per i servizi di babysitting e asili nido pubblici o privati. La legge istitutiva della misura ha garantito 20 milioni di euro a copertura dell'operazione per il triennio sopra indicato che, secondo la relazione tecnica, avrebbe dovuto soddisfare per l'anno 2013 la domanda di 11.111 beneficiari. Tuttavia, all'avvio della misura il contributo ha riscosso pochissimo successo, come testimoniano le poche richieste pervenute: a fronte di potenziali 11.111 beneficiari, solo 3.762 lavoratrici, secondo dati Inps, sono state ammesse al beneficio, mentre dal punto di vista delle strutture accreditate per il servizio, meno di un terzo degli asili pubblici o privati nazionali si sono convenzionati con lo Stato. Tra le principali cause si deve sicuramente annoverare la scarsa pubblicizzazione dell'iniziativa lasciata soltanto a comunicati stampa, senza un'adeguata promozione sui luoghi di lavoro e senza coinvolgimento di sindacati e associazioni datoriali;
    l'Ufficio nazionale della consigliera di parità del Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha stanziato e usato il piccolo fondo a disposizione per organizzare e realizzare ben 20 incontri territoriali per donne disoccupate e inoccupate su varie città in tutta Italia, 12 seminari informativi sempre territoriali anche in collaborazione con gli ispettori del lavoro, i consulenti del lavoro e le consigliere di parità, 23 incontri nelle scuole medie superiori e distribuzione di piccole guide per gli studenti per affrontare il mercato del lavoro;
    nonostante l'impegno di molti soggetti ed operatori e le numerose iniziative messe in campo negli ultimi anni, i dati sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro, sulla loro opportunità di crescita professionale e di conciliazione tra vita e lavoro restano ancora molto bassi, come testimoniato dalla percentuale crescente di donne che non tornano più a lavoro a due anni dal parto: 22,3 per cento nel 2012 contro il 18,4 per cento del 2005 secondo dati Istat. Un dato che si ripercuote sulle donne, rendendole più fragili, più soggette a pressioni economiche, psicologica e purtroppo anche di violenza, ma che, soprattutto, si ripercuote sulle possibilità di crescita, di tenuta economica e sociale del nostro Paese,

impegna il Governo:

   a sostenere, nel contesto del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea, le politiche di genere quale priorità per la crescita sostenibile e l'occupazione, supportando gli investimenti in capitale umano e strumentale;
   ad effettuare, entro il primo semestre del 2015, un puntuale monitoraggio sullo stato effettivo delle risorse attualmente impiegabili e disponibili in un'ottica di genere;
   ad applicare una prospettiva di genere nella programmazione e nelle politiche di bilancio, a partire dai futuri esercizi di bilancio e comunque dai prossimi provvedimenti utili di allocazione di risorse e di programmazione di attività;
   ad assumere ogni iniziativa di competenza affinché le parti sociali procedano a una rapida definizione delle modalità di fruizione del congedo parentale su base oraria;
   ad assumere iniziative per una razionalizzazione e valorizzazione degli organismi di parità italiani come indicato dalle direttive europee;
   a sensibilizzare, anche in sede di rinnovo del contratto Rai, il servizio pubblico radiotelevisivo ad una maggiore attenzione in merito alla diffusione e alla promozione delle buone pratiche e delle iniziative, anche normative, intraprese sia dallo Stato sia dall'Unione europea a favore dell'occupazione femminile, in collaborazione con gli organismi di pari opportunità;
   a mettere in campo tutti gli strumenti necessari per incentivare le politiche di conciliazione attraverso il potenziamento delle politiche attive per l'occupabilità femminile e dei servizi per il welfare, con particolare attenzione alla realizzazione di un numero adeguato di asili nido su tutto il territorio nazionale, al telelavoro, al part-time e alla promozione degli orari di lavoro flessibili;
   a sostenere lo sviluppo dell'imprenditoria femminile attraverso il sostegno all'accesso al credito delle imprese femminili e una valutazione attenta delle politiche economiche attuate e dei loro risultati, nell'ottica di un costante miglioramento e potenziamento della loro efficacia.
(1-00272) (Nuova formulazione) «Tinagli, Carfagna, Giuliani, Dorina Bianchi, Binetti, Di Salvo, Amendola, Bergamini, Biffoni, Calabria, Capua, Centemero, Antimo Cesaro, Cimmino, D'Agostino, D'Alessandro, De Maria, Faenzi, Ferranti, Gasparini, Gelmini, Giammanco, Giulietti, Gribaudo, Laffranco, Locatelli, Martelli, Mattiello, Marzano, Milanato, Moretti, Nesi, Oliaro, Paris, Piccoli Nardelli, Polverini, Prestigiacomo, Andrea Romano, Rossomando, Rotta, Sandra Savino, Tartaglione, Vargiu, Vecchio, Venittelli, Verini, Vezzali, Iori, Raciti, Cominelli, De Micheli, La Marca, Gregori, Marchetti, Malpezzi, Lodolini, Tidei, Sbrollini, Scuvera, Carlo Galli, Giampaolo Galli, Chaouki, Saltamartini, Gebhard».
(2 dicembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    tra le varie forme di violenza e discriminazione vi sono sovente attacchi alla donna. Suscita allarme il fatto che gli episodi di abuso e violenza contro le donne siano in perdurante crescita, nonostante siano state introdotte fondamentali leggi, come quella per il contrasto della violenza di genere (decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119) o la ratifica della Convenzione del Consiglio d'Europa per la prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, meglio nota come Convenzione di Istanbul; in particolare, occorre rilevare che l'articolo 7 della suddetta Convenzione prevede che lo Stato ratificante adotti misure legislative, e di altro tipo, necessarie per predisporre e attuare politiche nazionali efficaci, globali e coordinate, comprendenti tutte le misure adeguate destinate a prevenire e combattere ogni forma di violenza che rientri nel campo di applicazione della predetta Convenzione ed a fornire una risposta globale al problema della violenza contro le donne. In buona sostanza, gli Stati che hanno ratificato la Convenzione di Istanbul devono mettere in campo adeguate risorse finanziarie ed umane tali da realizzare i programmi e le politiche volte a combattere il fenomeno della violenza sulle donne, essendo altresì tenuti ad istituire un organismo che coordini e monitori tutte le misure destinate allo scopo in quanto previste della Convenzione medesima;
    fatta questa dovuta premessa appare chiaro che il terreno di coltura della violenza e del sopruso affondi le radici sul piano culturale e alla luce di ciò vada pertanto aggredito e sconfitto attraverso la definitiva emancipazione della donna in tutti gli ambiti del vivere comune e sociale, con specifico riferimento non solo alla famiglia, ma anche e sopratutto al lavoro. Le pari opportunità nel mondo del lavoro costituiscono, tra le altre cose, l’humus necessario a contrastare ogni forma di violenza a danno della donna, in quanto trattasi di violenza psicologica finalizzata alla subordinazione e alla prevaricazione, che nella maggior parte dei casi costituisce l'incubatore della violenza fisica vera e propria;
    si tenga conto che la violenza psicologica a danno della donna attecchisce in primis in ambito familiare con comportamenti del partner, solitamente l'uomo, caratterizzati da una sottile, ripetuta e perversa forma di violenza, appunto, psicologica, che, protratta nel tempo, tende ad annullare la personalità della vittima sino al suo annientamento; si tratta di una fattispecie poco esplorata sia dalla sociologia che dalla giurisprudenza, a cui non si è prestata sufficiente attenzione, ma che riveste, sotto il profilo della incidenza sociale, significativo rilievo e che deve essere urgentemente affrontata con tutti i mezzi a disposizione. Di più, tale tipologia di violenza si interseca con quella perpetrata sui luoghi di lavoro dove la figura della donna appare ancora in molti casi posta in una posizione di fragilità e/o subordinazione rispetto all'uomo. La normativa giuslavoristica non pare sia riuscita ad oggi a valicare i vari problemi legati alle ipotesi di mobbing, talora basate sul ricatto, che ruotano attorno alla figura femminile e sarebbe pertanto opportuno determinare delle fattispecie normative ad hoc, tanto in relazione alla violenza psicologica endofamiliare quanto rispetto a quella che si perpetra nei luoghi di lavoro;
    anche sulla base dei sopraddetti retaggi sociologici e culturali, proliferano le criticità legate alle opportunità occupazionali nell'universo femminile che risultano palesemente più limitate rispetto a quelle offerte alle figure maschili. Si consideri che in Italia sono donne soltanto il 6,5 per cento degli ambasciatori, il 31,3 per cento dei prefetti, il 14,6 per cento dei primari, il 20,3 per cento dei professori ordinari e – nei ministeri – il 33,8 per cento dei dirigenti di prima fascia. Sempre in Italia, più di 5 donne su 10 sono senza reddito da lavoro e, per quelle che il reddito lo hanno, la retribuzione media pro capite (calcolata tra impiegate e operaie) si ferma sotto i 25 mila euro annui, mentre quella di un uomo sfonda il tetto dei 31 mila euro. Peraltro, ostacoli e pregiudizi, talora inconsapevoli, condizionano le scelte formative delle ragazze e, di conseguenza, il loro inserimento nel mercato del lavoro. Pure la ricerca di un lavoro coerente con il proprio percorso di studi è molto più ardua per le donne: a fronte di un 18 per cento dei maschi che non ha trovato un impiego coerente con il proprio ambito di studi, la percentuale sale di oltre dieci punti percentuali nel caso delle donne. V’è da sottolineare che gli indirizzi scolastici universitari privilegiati dalle donne risultano essere spesso disallineati rispetto alle opportunità offerte dal mondo del lavoro. Un problema serio è anche quello relativo all'orientamento scolastico e universitario laddove gli indirizzi scolastici e universitari privilegiati dalle donne presentano tassi di occupazione ridotti e salari modesti (circa 1.200 euro netti al mese a 5 anni dalla laurea), mentre solo il 20-30 per cento opta per una formazione tecnico scientifica (1.500 euro netti mensili a 5 anni dalla laurea) che attualmente schiude in misura maggiore le opportunità occupazionali;
    in questo quadro, già di per sé tutt'altro che confortante, si inseriscono discriminazioni nelle discriminazioni che colpiscono le donne residenti nel Sud d'Italia: basti pensare che quasi la metà (il 48 per cento) dei residenti nel Mezzogiorno è a rischio di povertà. Nel Meridione e nelle Isole il 50 per cento delle famiglie percepisce meno di 20.129 euro (circa 1.677 euro mensili), il reddito medio delle famiglie che vivono nel Mezzogiorno è pari al 73 per cento di quello delle famiglie residenti al Nord. Da varie indagini si evince che la situazione lavorativa del Sud Italia è molto più difficile rispetto a quella del Centro e del Nord Italia, sia dal punto di vista occupazionale sia da quello retributivo; in particolare, si registra un elevato differenziale tra la disoccupazione del Sud e del Nord, un aumento del flusso migratorio dalle regioni del Sud verso Nord ed una significativa disparità retributiva, atteso che, per chi lavorava al Nord, la retribuzione risulta superiore dell'8,2 per cento rispetto a chi lavorava nel Meridione;
    ancora con riferimento alla principio di parità di genere nel mondo del lavoro, si osserva che la perdurante carenza di effettive politiche di conciliazione tra vita familiare e lavoro ha concorso all'aumento della disoccupazione femminile, con effetti negativi per lo sviluppo e la competitività del nostro Paese;
    i dati illustrati nel rapporto Save the children del 2012 evidenziano che, già nel biennio 2008-2010, l'occupazione femminile è fortemente diminuita a fronte di un incremento dell'occupazione non qualificata rispetto a quella qualificata; in particolare:
     a) il dato dell'occupazione delle donne e mamme nel 2010 si attesta al 50,6 per cento per le donne senza figli – ben al di sotto della media europea pari al 62,1 per cento – ma scende al 45,5 per cento già al primo figlio (di età inferiore ai 15 anni), per perdere quasi 10 punti (35,9 per cento) se i figli sono 2 e toccare quota 31,3 per cento nel caso di 3 o più figli;
     b) se l'interruzione del rapporto di lavoro per nascita di un figlio è tra le ragioni principali della fuoriuscita dal mercato del lavoro delle donne, bisogna considerare che spesso non si tratta di una loro libera scelta: nel solo periodo tra il 2008 e il 2009 ben 800.000 mamme hanno dichiarato di essere state licenziate o di aver subito pressioni in tal senso in occasione o a seguito di una gravidanza, anche grazie all'odioso strumento delle «dimissioni in bianco»;
     c) le interruzioni del lavoro poste in essere in concomitanza della nascita di un figlio, che erano il 2 per cento nel 2003, sono quadruplicate nel 2009, diventando l'8,7 per cento del totale delle interruzioni di lavoro;
    i predetti allarmanti dati trovano triste continuità nei recenti dati forniti da Istat e riferiti al primo trimestre del 2014, che confermano il progressivo aumento della disoccupazione delle donne: a fronte di un impercettibile rialzo dell'occupazione maschile si registra, difatti, una significativa diminuzione di quella femminile (rispettivamente più 0,6 e meno 0,3 su base congiunturale; più 0,3 e meno 1,0 su base annua). Ad aprile 2014 le donne occupate erano 9.311.000, a maggio 9.263.000. Mentre il tasso di occupazione maschile sale al 64,8 per cento, quello femminile scende al 46,3 per cento: il tasso di disoccupazione femminile dal 13,3 per cento sale al 13,8 per cento. Oltre al dato disoccupazionale deve considerarsi un'altra anomalia della partecipazione delle donne al mercato del lavoro ovvero la presenza di una forte segregazione orizzontale. Da un'indagine condotta dall'Isfol nel 2012, recante «Analisi di genere del mercato del lavoro», risulta che le donne sono presenti massicciamente in specifici settori di servizi ritenuti «naturalmente femminili», che le confinano nelle qualifiche contrattuali più basse oltretutto con tipologie contrattuali non standard, quali il contratto a termine, l'associazione in partecipazione e la collaborazione continuata e continuativa. Inoltre, l'elevata presenza femminile nei lavori non standard presenta effetti di medio periodo differenti tra lavoratore e lavoratrice, in termini di prospettive di «stabilizzazione». L'Isfol rileva, difatti, che, tra gli uomini che nel 2008 avevano un contratto di lavoro atipico, il 59,4 per cento dopo due anni ha visto una trasformazione in contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato, mentre lo stesso fenomeno ha riguardato solo il 48,4 per cento delle donne. La cosiddetta trappola dell'atipicità risulta più gravosa per le donne che per gli uomini. Sempre l'Isfol sottolinea che le cause della disoccupazione femminile risiedono, oltre che in una diseguale divisione tra i partner dei carichi di lavoro familiari, nell'inadeguatezza dell'attuale modello di welfare, connotato dalla carenza di servizi pubblici per l'infanzia, oltreché di reti informali di supporto, e con un'organizzazione del lavoro poco conciliante e caratterizzata dalla rigidità dei tempi e degli orari, specie in relazione al periodo successivo al parto; in questo contesto di evidente criticità, le misure varate dal Governo non hanno dedicato spazio alcuno alle politiche finalizzate a rimuovere gli ostacoli strutturali alla realizzazione di pari opportunità e di effettiva conciliazione tra cura della famiglia e lavoro, ma, all'opposto, hanno finito per incrementare il trend involutivo sopra evidenziato;
    in ordine alle politiche di incentivo alle assunzioni – ivi comprese quelle delle donne – le misure introdotte dalla cosiddetta riforma Giovannini si sono rilevate fallimentari, a causa delle notevoli restrizioni agli sgravi fiscali previsti, che ne hanno, di fatto, reso impossibile l'utilizzo; anche il successivo intervento dell'attuale Governo, messo a punto con l'iniziativa «Garanzia giovani», non ha sortito alcun effetto positivo sull'occupazione delle donne: oltre ad una scarsa informazione sul contenuto dei piani attuativi regionali e sulla data di avvio del programma, va detto che l'offerta di posti di lavoro è disomogenea, frammentata e disorganica, in quanto ogni regione decide, in autonomia ed in base allo stanziamento di sua competenza, quali azioni finanziare tra quelle previste dal piano nazionale. Sul piano del diritto sostanziale, le modifiche introdotte dal Jobs act sulla disciplina del contratto a termine reso «acasuale» hanno solo incrementato il lavoro precario ed introdotto minori garanzie in caso di interruzione del rapporto per maternità: la flessibilità così concepita è unicamente finalizzata ad incrementare le performance aziendali e non tiene conto delle esigenze delle lavoratrici madri;
    le entrate dei comuni hanno subito una drastica diminuzione per effetto di tagli che hanno indotto molti comuni a ridurre drasticamente, se non addirittura ad eliminare l'offerta di servizi pubblici, quali asili nido, scuole a tempo pieno e centri di assistenza di supporto alle donne e alle mamme. Tale perdurante riduzione dei fondi da destinare alle spese nel settore dei servizi alla famiglia reca effetti negativi sull'occupazione femminile, a causa delle evidenti difficoltà di conciliare famiglia e lavoro, nonché effetti diretti sul personale impiegato nel settore dell'assistenza educativa;
    a fronte del quadro descritto, non sembra che abbia fornito risposte risolutive la misura del voucher, prevista dalla cosiddetta riforma Fornero, ovvero la possibilità per le madri lavoratrici di utilizzare, in alternativa al congedo parentale, «buoni» per l'acquisto di servizi di baby sitting per fare fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l'infanzia o dei servizi privati accreditati; lo strumento del voucher non è risultato in grado di compensare la diminuzione di offerta di servizi pubblici oggi in atto in considerazione dell'esiguità delle risorse stanziate, pari a soli venti milioni di euro l'anno, della farraginosità della procedura di assegnazione del «buono» e della circostanza che si tratta di un intervento sperimentale, destinato a concludersi nel 2015, non promosso a sufficienza;
    questa assenza di serie e concrete politiche per la crescita, la disoccupazione dei giovani che sono costretti a vivere in famiglia imporranno ancora più carico di lavoro alle donne «anziane», che, con l'incremento dell'età pensionabile prevista dalla cosiddetta «legge Fornero», dovranno conciliare lavoro e famiglia per un numero maggiore di anni: un vero e proprio cortocircuito che deve essere arrestato;
    le dimensioni e la gravità del fenomeno analizzato impongono l'adozione di interventi normativi strutturali ed idonei ad invertire rapidamente la tendenza in atto, in maniera tale da aumentare la presenza delle donne sul mercato del lavoro ed eliminare i descritti divari di genere;
    il Jobs act contiene cinque deleghe che spaziano dalla revisione degli ammortizzatori sociali, alle politiche attive, alla semplificazione nella gestione dei contratti, al riordino delle forme contrattuali, alle tutele per la maternità: è questa la sede per introdurre in via definitiva concrete misure di promozione dell'occupazione femminile, anche attraverso nuovi strumenti di conciliazione tra attività di cura e lavoro, tra le misure «flessibili», in funzione conciliativa delle esigenze delle lavoratrici, non potranno non considerarsi le opportunità che riserva il telelavoro, il quale, grazie all'uso della tecnologia, permette un elevato grado di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi e nei tempi. L'invocata flessibilità, finalizzata alla conciliazione dei bisogni familiari con i tempi di lavoro, deve riguardare anche l'attuale disciplina del congedo obbligatorio, introducendo la possibilità di utilizzare i congedi a tempo pieno per un certo numero di mesi e per la parte restante in modalità a tempo parziale, affinché si pervenga ad un bilanciamento tra l'esigenza della lavoratrice di conservare il proprio patrimonio professionale, evitando periodi troppo lunghi di assenza dal lavoro, e la volontà di dedicarsi ai figli per una certa parte della giornata o della settimana. Bisogna, altresì, provvedere ad una rivisitazione dell'istituto degli assegni per il nucleo familiare perché venga concesso anche alle lavoratrici autonome, così come risulta opportuno introdurre ogni misura utile ad incentivare il lavoro a tempo parziale ed il lavoro autonomo;
    a ciò deve affiancarsi il rafforzamento di adeguati incentivi fiscali e sgravi contributivi sia per i genitori che assumono direttamente personale specializzato per la cura dei bambini e delle persone adulte non autosufficienti, sia per i datori che assumono personale in sostituzione dei lavoratori in congedo; politiche ad hoc e risorse devono, inoltre, prevedersi per i datori di lavoro che investono nella realizzazione di asili o baby parking aziendali ovvero che stipulano convenzioni con ludoteche o asili privati;
    in questo quadro desolante, nonostante gli impegni sottoscritti dall'Italia con la ratifica della Convenzione di Istanbul contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, il perdurare di situazioni di discriminazione e disuguaglianza originate da un'ampia gamma di motivi, i descritti divari di genere che penalizzano le donne sul mercato del lavoro, il Governo non ha nominato un Ministro delle pari opportunità e le deleghe sono rimaste nelle mani del Presidente del Consiglio dei ministri, mentre invece «le funzioni di indirizzo politico-amministrativo concernenti le competenze istituzionali relative alle direzioni generali per le politiche dei servizi per il lavoro, ivi comprese le attività di promozione delle pari opportunità» necessitano di un impulso e di un'azione che non può che essere propria di un apposito Ministro. La complessità e l'attualità delle problematiche emarginate, oltreché il rilievo istituzionale e sociale che esse posseggono, devono essere urgentemente rimesse all'attenzione di un Ministro appositamente dedicato, ovvero ad una figura che ne abbia le deleghe: perché discriminazioni ed ostacoli di fatto alla parità di opportunità sono ancora ampiamente presenti; perché la partecipazione al processo di integrazione comunitaria impone all'Italia un vincolo a sviluppare le politiche antidiscriminatorie e di pari opportunità, particolarmente sentite dall'Unione europea. Inoltre, l'effettività della tutela contro le discriminazioni poggia sulla corretta intelaiatura istituzionale opportunamente individuata dal legislatore allo scopo di sostenere e realizzare le politiche di pari opportunità. Le istituzioni rilevanti in tale settore sono identificabili nel Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità (articoli 8-11 del decreto legislativo n. 198 del 2006) e nei consiglieri di parità, nazionale, regionali e provinciali, disciplinati dagli articoli 12-19 del decreto legislativo n. 198 del 2006; in particolare, con il decreto legislativo n. 196 del 2000 si è cercato di rafforzare il ruolo dei consiglieri di parità attraverso la delega di molteplici funzioni in tale materia, nonché grazie all'istituzione di un fondo nazionale destinato a finanziare anche le spese per il funzionamento e le attività della rete nazionale dei consiglieri di parità;
    tuttavia, l'aggravarsi della condizione della situazione occupazionale, specie con riferimento alla presenza delle donne nel mercato del lavoro, richiede un'ottimizzazione del lavoro e del contributo prodotto, in ambito nazionale, dalla Consigliera nazionale di parità e dalle consigliere presenti nei territori, anche attraverso un'attività di razionalizzazione, indirizzo e coordinamento degli organismi di pari opportunità e degli altri attori istituzionali, che, ciascuno per la competenza attribuita, sono chiamati ad intervenire nella materia in esame, nella specie: il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Comitato per l'imprenditoria femminile, le commissioni per le pari opportunità regionali e provinciali, istituite presso i consigli regionali e provinciali, il Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni (CUG) istituito nelle pubbliche amministrazioni, introdotto dall'articolo 21 della legge 4 novembre 2010, n. 183;
    si sottolinea, altresì, come nel giugno 2012 sia stato approvato il primo piano nazionale di politiche familiari, previsto dall'articolo 1, comma 1251, della legge finanziaria per il 2007. Per quanto riguarda le priorità, il suddetto piano individua tre aree di intervento urgente: le famiglie con minori, in particolare le famiglie numerose; le famiglie con disabili o anziani non autosufficienti; le famiglie con disagi conclamati sia nella coppia, sia nelle relazioni genitori-figli, e bisognose di sostegni urgenti. Le azioni previste, fra cui si ricordano la revisione dell'Isee, il potenziamento dei servizi per la prima infanzia, dei congedi e dei tempi di cura, nonché interventi sulla disabilità e non autosufficienza, devono essere adottate all'interno dei piani e programmi regionali e locali per la famiglia, secondo le risorse disponibili,

impegna il Governo:

   a prevedere un coordinamento operativo a livello centrale e nazionale, al fine di una razionalizzazione e valorizzazione degli organismi nazionali e territoriali preposti, a vario titolo, al monitoraggio delle politiche di pari opportunità e alla rimozione delle discriminazioni e degli ostacoli che minano l'effettiva realizzazione della parità di genere;
   ad assumere ogni iniziativa di competenza per introdurre misure volte a contrastare le molteplici forme di diseguaglianza, con particolare riguardo a quelle che si presentano tra cittadini del Nord e cittadini del Sud Italia, che risultano in sensibile aumento per effetto della crisi economica in atto e che si riverberano in misura amplificata sulle donne;
   ad assumere, in tempi rapidi, ogni iniziativa di competenza per introdurre misure volte a contrastare la violenza psicologica endofamiliare e quella sul posto di lavoro, anche attraverso l'individuazione di fattispecie di reato ad hoc;
   ad introdurre nuove e concrete politiche per la conciliazione tra la cura della famiglia e l'attività lavorativa, incentivando particolari forme di flessibilità degli orari e dell'organizzazione del lavoro, quali il part-time, il telelavoro, il lavoro autonomo e imprenditoriale, introducendo la possibilità di un uso flessibile e personalizzato dei congedi obbligatori e facoltativi unitamente alla previsione di sgravi contributivi ed agevolazioni fiscali per il genitore lavoratore che assuma alle proprie dipendenze baby-sitter ovvero professionisti dei servizi di cura ed assistenza della persona;
   ad adottare iniziative volte a incoraggiare le donne a scegliere professioni «non tradizionali», per esempio in settori verdi e innovativi;
   ad adottare iniziative volte allo sviluppo dell'autoimprenditorialità femminile, con particolare riferimento all'agevolazione dell'accesso al credito.
(1-00611) «Mucci, Rostellato, Di Vita, Rizzetto, Bechis, Chimienti, Ciprini, Tripiedi, Cominardi, Prodani, Spadoni, Da Villa, Vallascas, Baldassarre».
(10 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il più significativo cambiamento sociale dei nostri tempi è rappresentato dalla volontà e dal desiderio delle donne di affermare la loro autonomia e indipendenza;
    tale cambiamento sollecita la responsabilità pubblica a realizzare indispensabili misure volte a: riconoscere la libertà femminile, creare più lavoro per tutte e tutti, superare la tradizionale divisione dei ruoli in tutti i campi, prefigurare un welfare universale, per donne e uomini che lavorano e si adoperano per fare in modo di garantire a tutti i soggetti la libertà di dare il loro contributo alla vita e all'economia secondo diverse strategie personali e familiari;
    indirizzi su cui l'Unione europea è impegnata e su cui, però, emergono nel nostro Paese ritardi e arretratezze da affrontare con rapidità in occasione del semestre italiano della Presidenza del Consiglio dell'Unione europea;
    la Strategia per la parità tra donne e uomini 2010-2015 nell'Unione europea, presentata dalla Commissione europea nel settembre 2010, ha previsto specifiche priorità: pari indipendenza economica; pari retribuzione per lo stesso lavoro e lavoro di pari valore; parità nel processo decisionale; dignità, integrità e fine della violenza nei confronti delle donne. Sotto quest'ultimo aspetto il 2013 ha visto da parte dell'Unione europea l'adozione di leggi e azioni volte contrastare la violenza basata sul genere, con un bilancio di circa 15 milioni di euro per finanziare apposite campagne;
    secondo una relazione annuale dell'Unione europea, pubblicata nell'aprile 2014, le disparità uomo-donna stanno diminuendo in Europa, ma i progressi sono ancora lenti. Persistono ancora evidenti disparità fra i due sessi a livello di occupazione, retribuzione e rappresentanza, mentre la violenza contro le donne continua a essere un grave problema;
    nell'ambito dell'Unione europea, malgrado il 60 per cento dei laureati siano donne, le retribuzioni femminili sono ancora del 16 per cento inferiori rispetto a quelle degli uomini per ora lavorata. Inoltre, le donne tendono più spesso a lavorare a tempo parziale (il 32 per cento contro l'8,2 per cento degli uomini) e interrompono la carriera per occuparsi di altri membri della famiglia. Con tutto quello che ciò comporta in termini di divario pensionistico (che si attesta al 39 per cento);
    il tasso di occupazione femminile dell'Unione europea si attesta al 63 per cento contro il 75 per cento per gli uomini;
    la sopradetta relazione dell'Unione europea ricorda, inoltre, che sulle donne incide sensibilmente il lavoro non retribuito in casa e in famiglia e che la presenza femminile ai posti di comando è ancora poco diffusa. Per quanto riguarda, infine, la violenza contro le donne, un'indagine svolta dall'Agenzia dell'Unione europea per i diritti fondamentali mostra come circa il 33 per cento ha subito violenza fisica e/o sessuale dall'età di 15 anni;
    il 13 giugno 2013, l'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere (Eige) ha presentato il primo rapporto sull'indice dell'uguaglianza di genere. Un rapporto che rappresenta un indicatore delle disparità di genere nell'Unione europea e nei singoli Stati membri, nei settori del lavoro, del denaro, della conoscenza, del tempo, del potere e della salute;
    il rapporto mostra come le disparità di genere risultino ancora prevalenti nell'Unione europea, nonostante decenni di politiche volte a sostenere l'uguaglianza di genere a livello europeo;
    l'indice dell'uguaglianza di genere, riportato dal sopradetto rapporto dell'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere, ha un valore tra 1 e 100, dove 1 indica un'assoluta disparità di genere e 100 segna il raggiungimento della piena uguaglianza di genere. Ebbene, l'Unione europea ha un indice medio pari a 54, ossia è ancora a metà strada rispetto all'obiettivo della piena uguaglianza fra donne e uomini;
    se si esaminano gli indici dei vari Stati membri, emerge una forte differenza. Assolutamente negativa è la posizione dell'Italia, a cui il rapporto assegna un indice pari a 40,9, collocandosi al ventitreesimo posto su un totale di 27 Paesi. In testa alla graduatoria si trovano i Paesi scandinavi, con valori superiori a 70. Il Regno Unito ha un indice pari a 60,4; la Francia di 57,1; la Spagna di 54 e la Germania di 51,6;
    peraltro, il medesimo rapporto mostra come il nostro Paese sia quello più ricco tra i tredici Paesi che hanno un indice inferiore a 45;
    a livello mondiale, secondo l'analisi annuale del World economic forum sul Global gender gap, nella graduatoria diffusa nel 2013, l'Italia si colloca al settantunesimo posto su 136 Paesi. Per quanto riguarda altri Paesi europei, il Belgio si colloca all'undicesimo posto, la Germania al quattordicesimo, il Regno Unito al diciottesimo e la Francia al quarantacinquesimo posto. L'indice tiene conto delle disparità di genere esistenti nel campo della politica, dell'economia, dell'istruzione e della salute;
    l'Italia si conferma uno dei Paesi europei a più bassa occupazione femminile. E qui la crisi mostra il suo volto nell'impoverimento dei redditi e delle opportunità e, infine, nella sempre maggiore difficoltà di determinare il proprio progetto di vita;
    per quanto riguarda il nostro Paese, il rapporto annuale 2013 dell'Istat riporta i dati 2012 relativi al tasso di occupazione, che confermano – se mai ve ne fosse bisogno – il sensibile divario tra uomini e donne, laddove l'occupazione maschile si attesta al 66,5 per cento, contro il 47,1 per cento femminile. Nel confronto con il resto d'Europa, sempre l'Istat evidenzia come il tasso di occupazione femminile al 47,1 per cento si «scontra» con un 58,6 per cento della media dell'Unione europea a 27 Stati (59,8 Unione europea a 15 Stati);
    il medesimo rapporto Istat ricorda come «la bassa valorizzazione delle competenze, la segregazione occupazionale e la maggiore presenza nel lavoro non standard, sono elementi che concorrono a spiegare la disparità salariale femminile. In media, la retribuzione netta mensile delle dipendenti resta inferiore di circa il 20 per cento a quella degli uomini (nel 2012, 1.103 contro 1.396 euro)», così come la retribuzione oraria delle donne è dell’ 11,5 per cento inferiore rispetto ai maschi;
    i dati regionali indicano un'occupazione femminile al 56,5 per cento nelle regioni del Nord e al 30 per cento nelle regioni del Sud, con un divario molto più alto con l'occupazione maschile;
    in Italia, quindi, più di 5 donne su 10 sono senza reddito da lavoro e, per quelle che lo hanno, la retribuzione media pro capite (calcolata tra impiegate e operaie) si ferma sotto i 25 mila euro annui, mentre quella di un uomo sfiora il tetto dei 31 mila. Un divario che incide non solo sul quotidiano, ma che si ripercuote anche sulla consistenza della futura pensione;
    una delle vie maestre per risolvere il problema della diversa incidenza della disoccupazione femminile sta certamente nell'investire nelle politiche sociali;
    le donne sono ancora le uniche interpreti del lavoro di cura, con margini di tempo per loro stesse estremamente ristretti e con evidenti minori possibilità di occupazione e crescita professionale, e spesso costrette a lasciare il proprio lavoro dopo la nascita dei figli;
    l'autonomia delle donne è ancora ostacolata da condizioni svantaggiate: precarietà; insufficienza dei servizi di welfare quali strumenti di sostegno nella gestione del lavoro di cura e della vita professionale; dimissioni in bianco; mancato riconoscimento sociale della maternità e dei congedi di paternità; carenza di strutture per l'infanzia; un welfare con alti costi e forti disparità nell'offerta tra le diverse aree del Paese; assenza di politiche organiche e attive di sostegno al lavoro femminile. Questa è la fotografia del nostro Paese in materia di politiche di sostegno alle responsabilità familiari e alle scelte delle donne;
    nella relazione al Parlamento dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza del 2012, l'Autorità aveva sollevato la problematica relativa all'impatto negativo della mancanza di investimenti, da parte dello Stato, a favore dell'infanzia e dell'adolescenza;
    il dossier 2012 di Cittadinanza attiva ha sottolineato come le strutture comunali su cui possono contare le famiglie superano di poco quota 3.600 e sono in grado di soddisfare circa 147 mila richieste di iscrizione. Il 23,5 per cento dei bambini restano in lista d'attesa e i genitori sono costretti a rivolgersi altrove;
    è inevitabile che l'insufficienza nell'offerta dei servizi socio-educativi per l'infanzia aggravi la fatica delle donne alla loro partecipazione al mercato del lavoro;
    un importante ambito che condiziona fortemente e incide sulle opportunità e sulle prospettive di accesso al lavoro, di carriera, di tempo dedicato alla persona, è certamente quello relativo al depotenziamento dei servizi territoriali socio-assistenziali. I tagli di questi anni al sistema del welfare e, più in generale, alle regioni e agli enti locali, hanno visto indebolirsi la rete dei servizi territoriali e l'assistenza socio-sanitaria;
    insomma, se si vuole promuovere una buona e stabile occupazione femminile nel nostro Paese, vanno avviate efficaci politiche per incrementare l'offerta qualitativa e quantitativa della scuola, del tempo pieno, dei servizi socio-educativi per l'infanzia e dell'assistenza socio-sanitaria;
    riguardo al mercato del lavoro va sottolineata la pratica delle «dimissioni in bianco» del lavoratore o della lavoratrice, una delle piaghe più sommerse in questo ambito, una clausola nascosta nel 15 per cento dei contratti di lavoro a tempo indeterminato che costituisce un ricatto che vede coinvolto circa il 60 per cento delle lavoratrici donne e il 40 per cento dei lavoratori maschi;
    secondo i dati forniti dagli uffici vertenza della Cgil, ogni anno circa 2 mila donne chiedono assistenza legale per estorsione di finte dimissioni volontarie. Si può essere dimissionati con molti pretesti, ma i motivi più frequenti sono la nascita di un figlio, una malattia, il rapporto con il sindacato ed altro;
    il Governo ha deciso di non porre fine immediatamente a questa pratica, ma piuttosto di rinviare il necessario intervento normativo alla delega del cosiddetto «Jobs act», appena approvato dal Senato della Repubblica, e dunque di «annullare» così, di fatto, la proposta di legge in materia, già approvata in prima lettura alla Camera dei deputati;
    si ricorda che detta proposta di legge approvata dalla Camera dei deputati vincola la validità della dichiarazione di dimissioni volontarie all'utilizzo di appositi moduli usufruibili solo attraverso gli uffici provinciali del lavoro e le amministrazioni comunali, assicurando che gli stessi siano contrassegnati da codici alfanumerici progressivi e da una data di emissione che garantiscano la loro non contraffazione, e, al tempo stesso, la loro utilizzabilità solo in prossimità dell'effettiva manifestazione della volontà del lavoratore di porre termine al rapporto di lavoro in essere. Viene così meno la possibilità di estorcere al momento dell'assunzione la contestuale sottoscrizione di una possibile, postuma lettera di dimissioni volontarie;
    è inoltre necessario intervenire per aumentare gli sgravi fiscali, in particolare per le micro e piccole imprese, sulle quali incidono in misura proporzionalmente maggiore i costi delle misure a favore della maternità delle lavoratrici;
    per favorire le madri lavoratrici occorre intervenire con incentivi a favore della destandardizzazione degli orari, sotto forma di orari flessibili e riduzioni volontarie temporanee o durature dell'impegno lavorativo;
    in considerazione del costo che la maternità ha in termini di salute e di dedizione totale del proprio tempo a favore dei figli, andrebbe riconosciuta a tutte le donne madri la contribuzione figurativa di almeno un anno per ogni figlio, indipendentemente dallo svolgimento di attività lavorativa al momento della gestazione e un'ulteriore integrazione contributiva per i periodi di lavoro part-time legati alla maternità;
    così come andrebbero rivisti i congedi parentali, ancora troppo poco utilizzati dai padri, estendendoli a tutte le tipologie contrattuali;
    l'articolo 24 della legge n. 92 del 2012, cosiddetta legge Fornero, ha introdotto alcune disposizioni volte a sostenere la genitorialità e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro;
    in particolare, si prevede la possibilità, in via sperimentale per gli anni 2013-2015, di concedere alla madre lavoratrice, al termine del periodo di congedo di maternità, per gli undici mesi successivi e in alternativa al congedo parentale, la corresponsione di voucher di 300 euro, per l'acquisto di servizi di baby-sitting, ovvero per fare fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l'infanzia o dei servizi privati accreditati, da richiedere al datore di lavoro;
    in risposta all'interrogazione n. 5-03085 del 25 giugno 2014, in Commissione XII (Affari sociali), a prima firma dell'onorevole. Nicchi, vertente sul suddetto bonus, il Sottosegretario di Stato Franca Biondelli dichiarava che si sta valutando l'opportunità di aumentare l'importo del voucher da 300 a 600 euro. Tale aumento sembra, infatti, compatibile con lo stanziamento finanziario disponibile e mira a rendere più conveniente tali voucher rispetto ai congedi parentali,

impegna il Governo:

   a rafforzare, di concerto con le regioni, sia in termini di incremento quantitativo che di crescita qualitativa, le politiche a favore dei servizi socio-educativi, attraverso la previsione di maggiori e più adeguate risorse finanziarie per la messa in sicurezza e l'incremento delle strutture e dei servizi socio-educativi per l'infanzia e, in particolare, per la fascia neonatale e pre-scolastica, con particolare attenzione alla riduzione delle attuali forti disomogeneità territoriali nell'offerta di detti servizi;
   ad assumere iniziative, per quanto di competenza, per valorizzare, nel contesto sopraindicato, la rete dei nidi intesi non più come «servizi a domanda individuale»;
   a sostenere politiche attive e misure efficaci per ripensare il rapporto tra tempi di lavoro e di cura al fine di promuovere una maggiore condivisione della cura da parte degli uomini, e favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, valorizzandone la differente soggettività e rimuovendo la disparità economica ancora persistente;
   ad assumere iniziative, per quanto di competenza, per potenziare – anche attraverso adeguate risorse – la rete dei servizi territoriali e l'assistenza socio-sanitaria e, più in generale, le politiche sociali del nostro Paese;
   ad assumere iniziative per incrementare il bonus attualmente previsto in 300 euro, e introdotto dall'articolo 4 della legge n. 92 del 2012, per l'acquisto di servizi di baby-sitting ovvero per far fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l'infanzia o dei servizi privati accreditati, dando così seguito all'impegno preso dal Governo in risposta all'interrogazione in Commissione XII (Affari sociali) n. 5-03085 del 25 giugno 2014, a prima firma l'onorevole Nicchi;
   ad adottare iniziative per introdurre incentivi a favore della destandardizzazione degli orari, sotto forma di orari flessibili e riduzioni volontarie temporanee o durature dell'impegno lavorativo, per favorire le madri lavoratrici;
   ad adottare iniziative per stanziare adeguate risorse finanziarie volte ad aumentare gli sgravi fiscali delle misure a favore della maternità delle donne lavoratrici che ricadono sui datori di lavoro, con particolare riguardo alle piccole e micro imprese, sulle quali i costi incidono in misura proporzionalmente maggiore;
   ad assumere iniziative per elevare a diciotto mesi la durata dei congedi parentali incentivandone il ricorso da parte dei padri, con un aumento della quota indennizzata (almeno al 60 per cento), e prevedendone una maggiore flessibilità e l'estensione graduale a tutte le tipologie contrattuali;
   a considerare le fasi della vita dedicate alla cura, come crediti ai fini pensionistici con il riconoscimento di: contributi figurativi legati al numero dei figli o ad eventuali altri impegni di cura; integrazioni contributive per i periodi di lavoro part-time per ragioni di cura, possibilità di anticipo della pensione per necessità di accudimento di persone non autosufficienti nel quadro di una revisione del sistema pensionistico che contempli flessibilità e libertà di scelta;
   ad adottare, nell'ambito delle proprie competenze, le opportune iniziative volte a favorire la conclusione dell’iter parlamentare della proposta di legge sulle «dimissioni in bianco», già approvata dalla Camera dei deputati.
(1-00613) (Nuova formulazione) «Nicchi, Pannarale, Matarrelli, Scotto, Duranti, Costantino, Ricciatti, Pellegrino, Airaudo, Placido».
(13 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il consolidamento e l'affermazione della cultura di parità, delle pari opportunità e dei diritti delle donne sono entrati, negli ultimi anni, di diritto tra le priorità e tra gli obiettivi strategici per l'azione del Governo italiano e delle istituzioni internazionali ed europee, affermandosi come importante principio trasversale delle politiche pubbliche;
    nel marzo 2011 il Consiglio diritti umani ha approvato all'unanimità la Dichiarazione delle Nazioni Unite sulla educazione ai diritti umani: un risultato di grande rilievo, per il quale l'Italia ha svolto un ruolo propulsore di primo piano. La dichiarazione costituisce un riferimento importante, poiché fissa in modo chiaro le definizioni, i principi, gli strumenti e gli obiettivi dell'educazione ai diritti umani: il precipitare degli eventi nel quadro internazionale al quale si sta assistendo richiama però, con forza, a rimettere al centro della discussione pubblica, anche in occasione del semestre europeo, la necessità che il nostro Paese si faccia promotore dello sviluppo, da parte dell'Unione europea, di una strategia complessiva sui diritti umani, strategia che può essere meglio applicata attraverso l'azione sinergica di tutti gli attori dell'Unione europea;
    il Consiglio dell'Unione europea, in attuazione della strategia comunitaria «Europa 2020», ha approvato, il 21 ottobre 2010, il cosiddetto «pacchetto occupazione» (decisione sugli orientamenti per le politiche degli Stati membri a favore dell'occupazione, 2010/707/UE), con il quale l'Unione europea invita gli Stati membri ad adottare misure in grado di «aumentare la partecipazione al mercato del lavoro e combattere la segmentazione, l'inattività e la disuguaglianza di genere, riducendo nel contempo la disoccupazione strutturale»;
    il Parlamento europeo, il 19 febbraio 2013, ha inoltre approvato una risoluzione sull'impatto della crisi economica sull'uguaglianza di genere e i diritti della donna (2012/2301(INI)), con la quale si invitano gli Stati membri ad «esaminare con grande serietà la dimensione della parità di genere» nel «gestire la crisi e nell'elaborare soluzioni», nonché «a rivedere e a focalizzarsi sull'impatto immediato e a lungo termine della crisi economica sulle donne, esaminando in particolare se, e in che modo, essa accentua le disuguaglianze di genere esistenti e le relative conseguenze»;
    la risoluzione del Parlamento europeo mette, inoltre, in evidenza il doppio impatto negativo che la crisi sta producendo sulle donne europee: un effetto «diretto», «con la perdita del posto di lavoro, i tagli salariali o la precarizzazione del lavoro» ed un effetto «indiretto», quale conseguenza «dei tagli di bilancio ai servizi pubblici e agli aiuti sociali»;
    il 5 marzo 2010 la Commissione europea ha presentato la «Carta delle donne», un documento con il quale rafforza il suo impegno a favore della parità fra uomini e donne entro i successivi cinque anni;
    è necessario registrare e apprezzare un cambiamento che, nel nostro Paese, ha visto le donne protagoniste di significativi passi in avanti in termini di una sempre maggiore presenza nelle istituzioni, nella vita economica e in quella sociale e politica: tale partecipazione, pur offrendo uno straordinario contributo alla crescita del Paese, è ancora, però, distante dagli obiettivi europei;
    è per questo che appare fondamentale e strategico «approfittare» di questo movimento positivo per contrassegnare il semestre europeo a Presidenza italiana come centrale per il tema della parità e dell'occupazione femminile;
    il programma della Presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea prevede, infatti, in materia di pari opportunità, in vista del XX anniversario dell'adozione della Dichiarazione di Pechino e della relativa piattaforma d'azione, una valutazione approfondita dell'attuazione dal 2010 del lavoro volto a conseguire gli obiettivi nelle dodici «aree critiche» della piattaforma d'azione, nel contesto delle priorità e degli obiettivi politici dell'Unione europea, al fine di presentare una situazione aggiornata e indicare i risultati, le lacune e le sfide future per ciascun settore a livello sia europeo che nazionale: da tale valutazione dovrebbero derivare raccomandazioni per ulteriori azioni volte a promuovere la parità di genere nell'Unione europea, che serviranno come base utile per la definizione degli obiettivi per lo sviluppo post-2015;
    per affrontare l'impegnativa sfida ad incrementare l'occupazione femminile è necessaria una valutazione attenta dell'impatto che la crisi economica e sociale in atto sta producendo sulla situazione occupazionale e sulla qualità della vita delle donne italiane: è da tempo noto, infatti, che il sistema economico italiano è caratterizzato da un basso grado di coinvolgimento della popolazione femminile in età attiva nel mercato del lavoro, un dato molto distante da quello dei Paesi dell'Unione europea comparabili all'Italia per livello di sviluppo economico, e gli effetti prodotti dall'andamento marcatamente negativo del ciclo economico, guidato dalla caduta della domanda, si sono riflessi in un peggioramento diffuso delle grandezze più rilevanti del mercato del lavoro: il tasso di disoccupazione ha toccato il 12,6, con un incremento dello 0,5 per cento nei 12 mesi, e si sono anche fortemente ridotte le possibilità quantitative e qualitative di accesso al mercato del lavoro per gli inattivi, in larga parte giovani e donne;
    secondo il Global gender gap report 2013 stilato dal World economic forum, l'Italia si attesterebbe al 71esimo posto per quanto riguarda la partirà di genere: tale graduatoria, stilata ogni anno, valuta la disparità di genere di ogni Paese in base a quattro criteri principali: partecipazione economica, livello di istruzione, politiche di empowerment e rappresentanza nelle strutture decisionali, salute e sopravvivenza. L'Italia, sebbene abbia ottenuto un miglioramento rispetto al 2012, si attesta ad un livello inferiore rispetto ai principali Paesi europei, come Germania, Francia, Inghilterra ed altri;
    il rapporto 2014 dell'Istat, pubblicato a marzo 2014, inoltre, ha restituito una fotografia a dir poco inquietante dello stato dell'occupazione femminile in Italia: i dati riportati sono, infatti, decisamente allarmanti. Nel 2013 il tasso di occupazione femminile si attesta al 46,5 per cento, segnando un ulteriore calo rispetto al dato 2012 (47,1 per cento ), contro il 58,7 per cento della media Ue28 (59,8 Ue15). Il 2013, a differenza della ripresa dell'occupazione femminile registrata nel 2012 rispetto al 2011, evidenzia un calo dell'1,4 per cento rispetto al 2012;
    il tasso di occupazione delle madri è pari al 54,3 per cento, mentre sale al 68,8 per cento per le donne in coppia senza figli. Particolarmente accentuati sono i divari territoriali: nel Mezzogiorno le madri occupate sono il 35,3 per cento contro il 66,4 per cento del Nord e il 61,5 del Centro;
    seppure sia stata rilevata una lieve crescita del tasso complessivo di occupazione femminile, il dato suggerisce preoccupanti dinamiche negative, quali fenomeni di isolamento professionale, incremento di posizioni a bassa qualifica, una ricomposizione a favore di età più anziane quale conseguenza delle riforme pensionistiche: la quota di donne occupate in Italia rimane ancora di gran lunga inferiore a quella dell'Unione europea, si concentra in poche professioni e si associa a fenomeni di sovraistruzione crescenti e più accentuati rispetto agli uomini, anche l'aumento dell'offerta di lavoro femminile che si sta producendo nel periodo più recente è, più che un cambiamento profondo dei modelli di partecipazione, il risultato di nuove e diffuse strategie familiari volte ad affrontare le difficoltà economiche indotte dalla crisi;
    sia dal rapporto Istat 2014 che dal rapporto Bes (Benessere equo e sostenibile) 2014 presentato il 26 giugno 2014, emergono le gravi difficoltà di conciliazione che incontrano le donne, in particolare quelle che continuano a lavorare dopo il parto, così come le laureate, le donne in età più avanzata, le dirigenti, le imprenditrici e le libere professioniste: la quantità di ore di lavoro, la presenza di turni o di orari disagiati (pomeridiano o serale o nel fine settimana) e la rigidità dell'orario sono indicati da più di un terzo delle occupate come gli ostacoli prevalenti alla conciliazione. Per le donne meno istruite risulta un impedimento anche l'eccessiva fatica fisica, mentre sulle più istruite gravano anche l'eccessiva distanza da casa, l'elevato coinvolgimento e le frequenti riunioni o trasferte. La disponibilità di persone o servizi cui affidare i bambini è un requisito imprescindibile per entrare o restare occupate. Le lavoratrici con figli di circa 2 anni si avvalgono principalmente dell'aiuto dei nonni (poco più della metà nel 2005 e nel 2012) o ricorrono al nido, pubblico o privato, con un deciso incremento rispetto al 2005 (35,2 per cento, contro il 27,4 per cento);
    inoltre, nel 2013, le famiglie sostenute da una sola fonte di reddito da lavoro (famiglie monoreddito) sono in tutto 7 milioni 311 mila (+11,7 per cento rispetto al 2008; di cui 50 mila in più nell'ultimo anno). Nel 2013, quelle sostenute dal solo reddito femminile sono il 12,2 per cento, contro il 9,4 per cento del 2008. Sebbene in due casi su tre l'unico reddito da lavoro provenga ancora da un uomo, nell'ultimo quinquennio la crescita delle famiglie con un solo occupato è imputabile quasi esclusivamente all'aumento delle famiglie in cui l'unica persona occupata è una donna;
    dall'inizio della crisi economica e finanziaria, il ritmo di crescita dell'occupazione femminile nelle professioni non qualificate è più che doppio rispetto a quello degli uomini e più che triplo nell'ambito delle professioni che riguardano le attività commerciali e i servizi: le professioni a cui hanno accesso sono, soprattutto, quelle di commesse alla vendita al minuto, colf e segretarie (1 milione 737 mila unità, 18 per cento del totale dell'occupazione femminile);
    il nostro Paese risulta tra quelli maggiormente segnati da tale «doppio impatto negativo», soprattutto con riferimento alle ripercussioni della riduzione della spesa per i servizi alla persona: solo il 12,7 per cento circa dei bambini italiani frequenta gli asili nido (a fronte di una media superiore al 40 per cento di Belgio, Norvegia, Danimarca, Svezia, Francia, Paesi Bassi); la percentuale di donne che dichiara di lavorare part-time per conciliare lavoro e responsabilità familiari risulta del 33 per cento contro una media Ocse del 24 per cento (dati Ocde); il 40,8 per cento delle lavoratrici donne dichiara di aver abbandonato il lavoro dopo la nascita del primogenito, mentre il 5,6 per cento ammette di aver rinunciato alla propria vita professionale per dedicarsi alla famiglia o alla cura di parenti non autosufficienti (dati Isfol);
    va considerata, inoltre, un'elevata sperequazione salariale legata alla differenza di genere: in media, la retribuzione netta mensile delle dipendenti resta inferiore di circa il 20 per cento di quella degli uomini (nel 2012, 1.103 contro 1.396 euro). In una carriera spesso contraddistinta, oltre che dalla maggiore presenza dei fenomeni di sovraistruzione, anche da episodi di discontinuità dovuti alla nascita dei figli, il differenziale salariale a sfavore delle donne aumenta con l'età, soprattutto per le laureate, svantaggio che si riduce solo nei casi di istruzione post laurea fino a rendere la differenza retributiva tra donne e uomini non più significativa;
    il riconoscimento della parità di genere non è solo una questione diritti, ma soprattutto un investimento per il sistema Paese: l'occupazione femminile rappresenta un fattore produttivo che può fortemente contribuire alla crescita e allo sviluppo economico del Paese. Infatti, le ultime proiezioni della Banca d'Italia confermano che se fosse possibile aumentare il tasso di occupazione femminile al 60 per cento ciò comporterebbe un aumento del 9,2 per cento del prodotto interno lordo, a produttività invariata, e del 6,5 per cento se si considera l'effetto depressivo sulla produttività (minore qualificazione forza lavoro, rendimenti decrescenti): sulla stessa linea sono i dati pubblicati da Goldman Sachs, che evidenziano come il raggiungimento della parità di genere porterebbe a un aumento del prodotto interno lordo del 13 per cento nell'Eurozona e del 22 per cento in Italia; nella relazione della Commissione europea, pubblicata ad aprile 2012, sulla parità di genere, si asserisce che un maturo progresso verso la parità tra uomini e donne stimola la crescita economica: «per raggiungere l'obiettivo Europa 2020, di un tasso occupazionale del 75 per cento della popolazione adulta entro il 2020, i Paesi membri devono promuovere maggiormente la presenza delle donne nel mercato del lavoro. Un modo per accrescere la competitività dell'Europa consiste nel conseguire un migliore equilibrio tra uomini e donne nei posti di responsabilità in ambito economico. Vari studi hanno dimostrato che la diversità di genere apporta notevoli benefici e le aziende con una percentuale più alta di donne nei consigli di amministrazione sono più performanti rispetto a quelle guidate da soli uomini»;
    è necessario che il nostro Paese si doti al più presto delle misure necessarie in materia di conciliazione familiare: asili nido, servizi per gli anziani, incentivi per lo sviluppo del settore privato dei servizi alla famiglia, promuovendo un'offerta di qualità a prezzi contenuti (il modello dei voucher sperimentato in Francia, Belgio e Regno Unito), incentivi al lavoro femminile, superamento delle discriminazioni e degli ostacoli, sia per quanto concerne l'accesso al mondo del lavoro delle donne, sia per quanto riguarda la loro crescita professionale e l'avanzamento in carriera;
    con il decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, «Codice delle pari opportunità tra uomo e donna», venivano istituite le consigliere di parità, con qualificazione di pubblici ufficiali nell'esercizio delle proprie funzioni e con il ruolo esclusivo di contrasto e rimozione delle discriminazioni di genere nell'ambito lavorativo, attraverso la ricerca di una conciliazione tra le parti in via stragiudiziale o anche attraverso l'azione in giudizio, ai sensi degli articoli 36 e 37 del medesimo codice: nel corso degli ultimi anni si è registrata una forte riduzione degli stanziamenti per il fondo nazionale destinato all'attività delle consigliere di parità;
    i 27 Paesi dell'Unione europea hanno approvato, a Bruxelles il 28 giugno 2013, un pacchetto di sostegno all'economia a favore dell'occupazione giovanile, che prevede otto miliardi di euro nei prossimi sette anni, di cui sei nel solo biennio 2014-2015, in modo da offrire alle persone con meno di 25 anni un lavoro, uno stage o un periodo di apprendistato entro quattro mesi dalla fine degli studi o dalla perdita del lavoro. La strategia è una risposta all'elevata disoccupazione di alcune regioni europee e all'emergere di partiti estremisti in numerosi Paesi membri;
    l'Italia è stato il primo Paese europeo a dotarsi di una legislazione intervenuta per conciliare i tempi di vita con i tempi del lavoro, contribuendo così in modo sostanziale ad alimentare il dibattito europeo intorno alle politiche temporali, sia in ambito accademico sia in ambito politico ed amministrativo, avvenuto nel nostro Paese con un notevole anticipo rispetto alle altre realtà europee,

impegna il Governo:

   a promuovere l'istituzione presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Ministero dell'economia e delle finanze, il Ministero dello sviluppo economico e il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, di una task force con l'obiettivo di rendere coerenti e coordinati tutti gli strumenti vigenti, anche supportando il lavoro di attuazione delle legge delega (jobs act), oltre che di programmare interventi per l'occupazione femminile e misure in favore della conciliazione vita-lavoro per uomini e donne;
   a promuovere, nell'ambito del programma del Governo, la realizzazione di una conferenza nazionale finalizzata ad individuare gli obiettivi e le azioni che il Governo, le amministrazioni pubbliche, gli attori economici e sociali devono condividere e realizzare per la crescita dell'occupazione femminile, tenendo conto dei seguenti concetti chiave:
    a) analisi della realtà anche attraverso la messa a punto di indagini che supportino la valutazione dell'impatto delle politiche sulle reali condizioni di vita di donne e di uomini, sapendo che tra loro sono diverse e disuguali;
    b) empowerment, inteso nel senso della promozione delle donne nei centri decisionali della società, della politica e dell'economia, posto che la consapevolezza dell'aver maggior potere è uno stimolo per le donne per aumentare la propria autostima, autovalorizzarsi e far crescere le competenze e le abilità;
    c) prospettiva di genere intesa come promozione della persona per tutto il ciclo della vita, tenendo conto delle differenze di ogni fase dell'esistenza e della naturale diversità tra i sessi e del fatto che praticare la prospettiva di genere richiede a tutti un grande cambiamento culturale che metta al centro dell'agenda politica i temi della valorizzazione delle risorse umane, del contrasto alle disuguaglianze, delle grandi riforme sociali;
   a realizzare azioni di cooperazione internazionale per promuovere la tutela dei diritti delle donne nei Paesi del sud del mondo ed in via di sviluppo, con il fine di contribuire ad una crescita equa e sostenibile;
   a promuovere un approfondimento sulla strategia a sostegno dell'occupazione femminile nell'ambito dell'azione di lungo periodo dell'Unione europea in materia di pari opportunità, che vada nella direzione di rafforzare la convinzione che il necessario rinnovo del modello socio-economico europeo in un'ottica di genere è fondamentale per il futuro dell'Unione europea;
   ad assumere iniziative per prevedere incentivi per le imprese che assumono a tempo indeterminato manodopera femminile, per mezzo, anche, di una detassazione del lavoro femminile, misura di immediato impatto sul mercato del lavoro, poiché domanda e offerta di lavoro femminile risultano molto più elastiche, mediamente, di domanda e offerta di lavoro maschile, nonché incentivi fiscali per facilitare l'instaurazione di nuovi rapporti di lavoro per l'assunzione delle lavoratrici divenute madri che rientrano, almeno nei tre anni successivi al parto, al fine di controbilanciare la minore spendibilità nel mercato del lavoro delle neo mamme, aumentandone le possibilità di occupabilità, nonché l'implementazione degli incentivi fiscali, oltre alla riduzione del 50 per cento sui contributi previdenziali già in vigore, per le imprese che fanno assunzioni in sostituzione di personale in astensione dal lavoro per maternità obbligatoria e facoltativa nonché per malattia del bambino;
   ad incoraggiare le iniziative, pubbliche e private, volte all'innovazione di modelli sociali, economici, culturali e organizzativi per rendere compatibili sfera privata e sfera lavorativa, così da migliorare la qualità della vita, consentire alle lavoratrici ed ai lavoratori di conciliare le proprie responsabilità professionali con quelle familiari, di educazione e cura dei figli e consolidare la sperimentazione di azioni positive per la conciliazione famiglia-lavoro, come stabilito dall'articolo 9 della legge 8 marzo 2000, n. 53, in modo tale da intercettare i nuovi bisogni di conciliazione emersi, ampliando la platea dei potenziali beneficiari ed aggiornando il novero degli interventi meritevoli di accesso ai finanziamenti, ottimizzandone l'investimento in termini di progettualità, evitando un eccessivo gap tra progetti candidati ed ammessi, e rendendone le regole semplici e chiare anche attraverso un raccordo con altri strumenti di supporto alle imprese, quali gli incentivi ai contratti di rete, e ad incentivare fiscalmente le imprese ad attivare e/o implementare nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori, iniziative innovative di organizzazione del lavoro family friendly e di welfare aziendale ed interaziendale e la conciliazione famiglia-lavoro, anche prevedendo incentivi fiscali per rafforzare il ricorso al congedo di maternità-paternità nella gestione aziendale delle imprese;
   a prevedere, in sede di semplificazione della normativa sul lavoro, la possibilità di adottare modalità di flessibilità organizzativa che consentano una più elastica articolazione spazio-temporale della prestazione lavorativa, prevedendone la contrattazione e la regolazione a livello di contrattazione sia nazionale che territoriale o aziendale e che includano una semplificazione del ricorso all'utilizzo del telelavoro, coerentemente con quanto previsto dal disegno di legge sul cosiddetto smart working;
   a promuovere il fondo nazionale per lo sviluppo dell'imprenditoria femminile istituito dall'articolo 3 della legge n. 215 del 1992, adesso disciplinato dall'articolo 54 del decreto legislativo n. 198 del 2006;
   a monitorare la piena attuazione del decreto del Presidente della Repubblica 30 novembre 2012, n. 251, sulla parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo nelle società pubbliche, affinché sia garantita la presenza delle donne nella pubblica amministrazione e nelle società pubbliche.
(1-00615) «Speranza, De Micheli, Pollastrini, Martella, Roberta Agostini, Fregolent, Garavini, Martelli, Gnecchi, Valeria Valente, Gregori, Villecco Calipari, Iacono, Pes, Cimbro, Iori, Campana, Albanella, Narduolo, Marzano, Cenni, Cominelli, Coscia, D'Incecco, Murer, Carocci, Scuvera, Carnevali, Morani, Sgambato, Giacobbe, Amoddio, Malpezzi, Coccia, Giuliani, Cinzia Maria Fontana, Manzi, Malisani, Maestri, Ascani, Paola Bragantini, Schirò, Sbrollini, Zampa, Miotto, Capone, Gullo, Palma, Sereni, Piccione, Carrozza, Casellato, Rossomando, Blazina, Simoni, Bargero, Moretto, Venittelli, Ghizzoni, Fabbri.».
(13 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo evidenzia come è indispensabile promuovere l'uguaglianza dei diritti dell'uomo e della donna;
    la Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1979, ratificata dall'Italia nel 1985, rappresenta uno degli strumenti di diritto internazionale più importanti in materia di tutela dei diritti umani delle donne. La Convenzione impegna gli Stati che l'hanno sottoscritta ad eliminare tutte le forme di discriminazione contro le donne, nell'esercizio dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali, indicando una serie di misure cui gli Stati devono attenersi per il raggiungimento di una piena e sostanziale uguaglianza fra donne e uomini;
    i diritti delle donne costituiscono parte integrante ed inalienabile di quel patrimonio di diritti universali in cui si riconoscono le moderne società democratiche;
    nonostante la dichiarazione e il riconoscimento di fondamentali diritti civili, sociali e culturali a favore delle donne, la discriminazione sessuale, la negazione di una particolare tutela volta alla presa in carico della donna madre finalizzata a riconsiderare le politiche del lavoro, partendo dal presupposto basilare del riconoscimento del ruolo della famiglia nella società, la violenza fisica e sessuale rappresentano ancora oggi le forme di violazione dei diritti umani più grave e diffusa nel mondo;
    la violenza contro le donne è il primo problema da affrontare per il raggiungimento degli obiettivi di libertà, eguaglianza, non discriminazione e difesa dei diritti umani delle donne;
    la violenza contro le donne, quale risulta caratterizzata a seconda della sua dislocazione geo-politica, assume molteplici manifestazioni, quali la violenza domestica, non solo fisica ma anche intesa come forma di coercizione della libertà personale; la violenza sulla salute, che vede le donne quali soggetti più esposti ai rischi di contagio o alla morte per parto a causa della mancanza di assistenza medica elementare; la violenza contro le bambine, che si manifesta anche attraverso il turpe fenomeno della prostituzione minorile; la violenza nei conflitti armati, che provoca proprio tra le donne un enorme numero di vittime, anche di reati commessi in occasione di conflitti, che vedono le donne assenti ai tavoli negoziali ove si trattino i temi della guerra e della pace; la violenza nel lavoro, che si realizza attraverso le discriminazioni estreme o multiple che possono sommarsi agli ostacoli nell'accesso al mercato del lavoro ed alla disparità di trattamento nelle condizioni di occupazione; ulteriori forme di discriminazione connesse alla condizione di donna immigrata o disabile;
    la crisi economica internazionale, con l'aumento della disoccupazione e della responsabilità delle donne sul luogo di lavoro e della famiglia, induce insieme con la diminuzione del reddito un potenziale aumento della violenza domestica e sociale contro le donne ed una loro maggiore vulnerabilità nelle condizioni di mercato del lavoro;
    è necessario che gli Stati, sotto la Presidenza italiana del semestre europeo, si pongano come obiettivo la promozione della libertà della donna da ogni forma di violenza ed il rispetto della dignità umana delle donne;
    la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica dell'11 maggio 2011 ad Istanbul, per la quale è stata di recente autorizzata la ratifica dal Parlamento, si pone l'obiettivo di proteggere le donne da ogni forma di violenza e di contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione, promuovendo la concreta parità tra i sessi, ivi compreso il rafforzamento dell'autonomia e dell'autodeterminazione delle donne. Inoltre, la Convenzione mira a predisporre un quadro globale, politiche e misure di protezione e di assistenza a favore di tutte le donne vittime di violenza, anche sostenendo e assistendo le organizzazioni e le autorità incaricate dell'applicazione della legge in modo che possano collaborare efficacemente, al fine di adottare un approccio integrato per l'eliminazione della violenza contro le donne e la violenza domestica;
    nel nostro Paese, i primi veri accenni di libertà per le donne possono essere cronologicamente inquadrati nei primi anni Sessanta, il periodo del boom economico e, in particolare, dal Sessantotto in poi, anno celebre non solo per i movimenti studenteschi ma anche per le più aspre rivendicazioni femministe. Come in qualsiasi cambiamento radicale si assunsero presto posizioni talmente estremizzate da travisare il significato originale di quelle che nascevano come giuste rivendicazioni femminili. La libertà si trasformò in liberismo più sfrenato che sfociava, il più delle volte, nel pensiero anarchico. Il nostro tempo porta con sé retaggi non trascurabili di una libertà impropria. Oggi, infatti, le donne hanno una parvenza di maggiore libertà di scelta, ma quasi sempre si tratta di un'illusione. Ad esempio, negli anni l'attuazione della legge sull'interruzione volontaria di gravidanza ha rappresentato l'esempio lampante dell'illusione basata sulla proporzione: maggiore è il diritto di scelta, maggiore è la libertà. La donna, infatti, non è veramente libera di scegliere se le istituzioni non operano per rimuovere quelle condizioni che vincolano la sua reale libertà; Molte donne, di fronte alla mancanza di tutele da parte dello Stato, in caso di gravidanza, compiono una scelta quasi obbligata, in nome di una «libertà» che trascura il valore della vita;
    al contrario di quanto oggi sembra ispirare la linea politico programmatica dell'Esecutivo, basti pensare al disegno di legge delega sulla riforma del lavoro attualmente all'esame del Parlamento; è necessario sviluppare delle politiche a sostegno della donna capaci, da un lato, di creare le stesse condizioni di parità con gli uomini per l'accesso al mondo del lavoro e, dall'altro lato, in grado di valorizzare il ruolo della donna madre all'interno del nucleo familiare, sviluppando, di conseguenza, interventi atti a migliorare i servizi a sostegno della famiglia, a riconsiderare l'imposizione fiscale tenendo conto del fattore famiglia e a sviluppare progetti volti alla ricollocazione nel mondo del lavoro delle donne madri;
    l'introduzione del federalismo fiscale rappresenta un cambiamento epocale che segna finalmente una netta inversione di rotta in merito alle politiche a tutela della famiglia. I firmatari della presente mozione sono convinti, infatti, che l'autonomia impositiva regionale e locale disegnata dalla legge delega sul federalismo fiscale, che tarda ingiustificatamente a trovare la sua piena applicazione, diretta a superare la logica dei trasferimenti vincolati ad alto tasso di burocrazia e a basso tasso d'incidenza sullo sviluppo reale, apra una nuova stagione anche per le politiche fiscali a tutela della famiglia. Questa nuova autonomia regionale e locale sarà, infatti, guidata in base ai principi di coordinamento che sono elencati nella legge delega. Tra questi, quello del favor familiae: «individuazione di strumenti idonei a favorire la piena attuazione degli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione, con riguardo ai diritti e alla formazione della famiglia e all'adempimento dei relativi compiti». Si tratta di principi altamente innovativi che connotano la riforma del federalismo fiscale nella direzione di un maggiore riconoscimento fiscale dei carichi familiari e, quindi, nella direzione di una maggiore attuazione di quel favor familiae che orienta il dettato costituzionale;
    in Italia, il sistema fiscale si ostina ad operare come se la capacità contributiva delle famiglie non sia influenzata dalla presenza di figli e dall'eventuale scelta di uno dei due coniugi di dedicare parte del proprio tempo a curare, crescere ed educare i figli. Mentre di norma in tutti gli altri Paesi europei a parità di reddito la differenza tra chi ha e chi non ha figli a carico è consistente. Il sistema di tassazione deve essere riformulato in modo tale da lasciare a disposizione del nucleo familiare una maggiore disponibilità di reddito, ponendo fine all'iniqua penalizzazione a cui è sottoposta dall'attuale sistema fiscale;
    un'emancipazione matura trova compimento nella sinergia tra la donna madre, sostegno alla crescita dei figli e punto di riferimento nel cammino della vita e della famiglia e la donna lavoratrice, impegnata in tutti gli ambiti della vita sociale, economica, culturale, artistica e politica. Oggi, più che nel passato, le donne sono chiamate ad affrontare nuove sfide. La presenza sociale delle donne è indispensabile per contribuire a far esplodere le contraddizioni di una società organizzata quasi esclusivamente su criteri di produttività;
    in questi anni l'Italia ha visto aumentare progressivamente gli ingressi legali e illegali di immigrati sul proprio territorio nazionale. Il fenomeno dell'immigrazione, inevitabilmente, ha portato il nostro paese a confrontarsi con differenti modi di pensare e stili di vita completamente alieni alle radici culturali e religiose italiane. Si deve necessariamente fare i conti anche con l'islam che, favorito dal diffuso atteggiamento multiculturale e buonista, si sta radicando anche nel nostro Paese;
    secondo i firmatari del presente atto di indirizzo, l'Islam umilia e offende la donna, la considera sottomessa all'uomo dal quale può essere ripudiata (e non viceversa), la obbliga a celare il viso e il corpo, le impone l'infibulazione;
    ma la differenza sostanziale, più che nelle caratterizzazioni esteriori, sta nella concezione stessa che la donna ha di sé. Come l'Islam in quanto sistema rifiuta ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo la mediazione, l'integrazione, la modernità, così la donna islamica, sottomessa, velata, rinchiusa, privata di potestà genitoriale e di qualsiasi autonomia, giustifica ed addirittura difende questo stato. Non può esserci alcuna evoluzione se le principali protagoniste non vogliono modificare la propria condizione;
    a tutto ciò occorre rispondere con la forza generata dall'identità e dai valori di eguaglianza del nostro Paese, che nascono da tutta la tradizione storica italiana, con la consapevolezza che dignità e diritti sono elementi su cui non è possibile scendere a patti,

impegna il Governo:

   a sostenere, nel contesto del semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea, la promozione della libertà della donna da ogni forma di violenza ed il rispetto della dignità umana delle donne;
   a mettere in campo gli strumenti necessari per incentivare le politiche di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro attraverso il potenziamento delle politiche attive per l'occupabilità femminile e dei servizi per il welfare;
   a promuovere reali politiche incentrate sul riconoscimento della famiglia quale nucleo fondamentale della società, dando attuazione al favor familiae declinato nella legge delega sul federalismo fiscale;
   a promuovere un programma di educazione e formazione ai diritti umani per tutti, anche a partire da tutti gli ordini di scuole, dato che il fenomeno della violenza contro le donne rappresenta un problema culturale che investe l'intero Paese, soprattutto in ragione del fenomeno migratorio che comporta il coacervo di culture portatrici di valori profondamente diversificati rispetto alle tradizioni italiane;
   a lanciare iniziative pubbliche di sensibilizzazione e a promuovere codici etici per l'informazione riguardo all'immagine femminile, anche attraverso i siti istituzionali e il servizio di radio-diffusione pubblico nazionale;
   a lanciare iniziative pubbliche di sensibilizzazione affinché tutte le donne utilizzino le strutture pubbliche esistenti, quali i centri di ascolto preposti ad affrontare realtà di sopraffazione e violenza, anche motivate da convinzioni culturali e religiose;
   ad assumere iniziative normative dirette a definire nuove fattispecie di reato connotate da maggior rigore sanzionatorio nei confronti di chi, se pur per motivi di appartenenza culturale o religiosa, istiga a mettere in atto comportamenti compromettenti il principio della parità di genere e della libertà personale.
(1-00620) «Rondini, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Simonetti».
(13 ottobre 2014)


MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MATERIA DI DIRITTI DEI RICHIEDENTI ASILO E DEI RIFUGIATI, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLA REVISIONE DEL REGOLAMENTO DELL'UNIONE EUROPEA NOTO COME «DUBLINO III»

   La Camera,
   premesso che:
    il fenomeno dei rifugiati e richiedenti asilo in Europa – a causa dei drammatici conflitti e delle violenze che stanno investendo l'area mediterranea e, più in generale, il continente africano – sta assumendo dimensioni terribili. Secondo il rapporto di Eurostat sul primo trimestre del 2014, le persone che, tra gennaio e marzo, hanno chiesto asilo sul territorio dei 28 Paesi dell'Unione europea sono state circa 108.300, quasi 25.000 in più rispetto allo stesso periodo del 2013, con un aumento del 30 per cento; in particolare, l'Italia ha ricevuto 10.700 domande, risalendo così al quarto posto tra i Paesi dell'Unione europea come meta dei richiedenti asilo. Tra i Paesi di provenienza, la Siria continua ad occupare il primo posto (16.770), seguita da Afghanistan (7.895) e Serbia (5.960);
    il numero delle vittime e delle violazioni dei diritti umani da parte dei trafficanti, negli anni, è considerevolmente aumentato (in generale, dal 2000 al 2013, sono morti più di 23 mila migranti nel tentativo di fuggire dai conflitti e di raggiungere l'Europa via mare o attraversando i confini del vecchio continente via terra: in media più di 1.600 l'anno);
    nonostante lo straordinario impegno del Governo italiano con l'operazione di soccorso denominata Mare Nostrum, che ha salvato migliaia di vite umane, i drammi e le violazioni dei diritti umani continuano a perpetrarsi;
    la gestione dell'accoglienza, dell'identificazione e dell'assistenza da parte di molti Paesi dell'Unione europea presenta numerose criticità, data la consistenza del fenomeno e considerate le talvolta difficili condizioni sociali ed economiche dei Paesi riceventi, difficoltà che si riflettono sia sulle popolazioni accoglienti che sui rifugiati e richiedenti asilo;
    con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le materie concernenti l'asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea hanno acquisito la qualifica di politica comune dell'Unione europea (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea); pertanto, la concreta regolamentazione di tali materie risulta un'applicazione del Trattato;
    la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che con il Trattato di Lisbona ha acquisito la stessa portata e rilevanza giuridica del Trattato stesso: riconosce e garantisce il diritto di asilo nel rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal Protocollo del 31 gennaio 1967 sullo status dei rifugiati, e a norma del Trattato sull'Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (articolo 18); vieta le espulsioni collettive e le espulsioni ed estradizioni verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti (articolo 19);
    le richieste di asilo nei Paesi dell'Unione europea sono disciplinate dal regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 (cosiddetto regolamento «Dublino III»), che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di Paese terzo o da un apolide;
    il regolamento «Dublino III» intende assicurare il pieno rispetto del diritto d'asilo garantito dall'articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nonché dei diritti riconosciuti ai sensi degli articoli 1, 4, 7, 24 e 47 della Carta medesima (diritto alla dignità umana, proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, rispetto della vita privata e familiare, diritto del bambino e diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale);
    l'obiettivo del regolamento «Dublino III» è quello di realizzare un sistema di asilo europeo basato su criteri omogenei di riconoscimento del diritto d'asilo dei richiedenti, sul rispetto dei diritti umani nei Paesi d'accoglienza e sulla solidarietà tra gli Stati membri e di consentire la rapida determinazione ed identificazione dello Stato membro competente al fine di garantire l'effettivo accesso alle procedure volte al riconoscimento della protezione internazionale, non pregiudicando l'obiettivo di un rapido espletamento delle domande di protezione internazionale;
    nei fatti, l'applicazione del regolamento in questione è di difficile gestione e il principio generale in esso stabilito, secondo cui i Paesi responsabili dell'esame di una domanda di protezione internazionale «anche di coloro che hanno varcato illegalmente le frontiere di uno Stato membro» sono quelli di prima accoglienza, presenta notevoli criticità a causa del numero sempre crescente di migranti;
    tra le principali criticità vi è la gestione nazionale, ossia in carico ai singoli Stati, delle richieste d'asilo, che induce in numerosi migranti il rifiuto di farsi identificare e il loro incontrollato movimento tra i Paesi europei;
    come rilevato da alcune agenzie di protezione dei rifugiati, tra cui l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, alcune disposizioni del regolamento «Dublino III», in particolare quelle relative alle procedure da adottare per la presa in carico dei minori non accompagnati, stanno determinando seri problemi di interpretazione e di implementazione;
    come rilevato da un report dell'Aida 2013, la regolamentazione sta diventando sempre più complicata e complessa e le garanzie a favore dei migranti (nell'espletamento della procedura di richiesta), tra cui il diritto all'assistenza legale, si stanno via via indebolendo;
    a più riprese l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, da sempre particolarmente attenta al tema dei rifugiati e dei richiedenti asilo e, in generale, del rispetto dei diritti umani dei più deboli, ha raccomandato, da ultimo nella risoluzione 2047 (2014), una profonda revisione del suddetto regolamento;
    il Consiglio europeo del 26 e 27 giugno 2014, nel definire gli orientamenti strategici della programmazione legislativa e operativa nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia per gli anni a venire, ha chiesto alle istituzioni dell'Unione europea e agli Stati membri: di dotarsi di una politica efficace in materia di migrazione, asilo e frontiere, guidata dai principi di solidarietà ed equa condivisione delle responsabilità; di recepire ed attuare efficacemente, quale priorità assoluta, il sistema europeo comune di asilo (Ceas), adottando norme comuni di livello elevato e istituendo una maggiore cooperazione per creare condizioni di parità che assicurino ai richiedenti asilo le stesse garanzie di carattere procedurale e la stessa protezione in tutta l'Unione europea; di rafforzare il ruolo svolto dall'Ufficio europeo di sostegno per l'asilo (Easo), in particolare promuovendo l'applicazione uniforme dell’acquis; di intensificare la cooperazione con i Paesi di origine e di transito, anche attraverso l'assistenza volta a rafforzare le loro capacità di gestione della migrazione e delle frontiere; di potenziare ed espandere i programmi di protezione regionale, in particolare nelle vicinanze delle regioni di origine;
    in considerazione del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea e in vista del prossimo Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014, è opportuno che il nostro Paese ponga la necessità di mettere al centro dell'agenda europea la definizione di una politica solida e condivisa, improntata su solidarietà e responsabilità, in materia di immigrazione e diritto d'asilo,

impegna il Governo:

   a proporre nelle competenti sedi europee la necessità di una revisione del regolamento «Dublino III», che ponga al centro:
    a) il rispetto e la protezione dei diritti umani dei rifugiati e dei richiedenti asilo, al fine di garantire un ambiente più favorevole a una loro accoglienza, compatibilmente con le possibilità dei Paesi ospitanti, e di provvedere efficacemente a una loro identificazione per evitare che finiscano vittime del traffico clandestino, fornendo loro un'adeguata assistenza;
    b) un omogeneo sistema europeo che regoli la concessione del diritto di asilo secondo standard e procedure comuni e il coordinamento nella raccolta delle domande dei richiedenti, anche al di fuori del territorio dei Paesi membri e in collaborazione con l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, per permettere agli aventi diritto di raggiungere i Paesi di accoglienza in modo sicuro e prevenire ogni abuso del sistema con la presentazione di domande di asilo multiple da parte di una sola persona;
    c) un sistema europeo di accoglienza che si basi sulla solidarietà tra i Paesi membri e che distribuisca la presenza dei rifugiati per quote definite sulla base degli indici demografici ed economici;
    d) un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della concessione del diritto di asilo, tale da garantire la libertà di stabilimento del beneficiario in ogni Stato membro, per cui il riconoscimento della protezione internazionale ad un richiedente asilo all'interno di un determinato Stato sia valido nell'intero territorio dell'Unione europea, considerato che tale sistema, che presuppone la responsabilità condivisa di un piano comune europeo di protezione temporanea e di riconoscimento dell'asilo, risulta prodromico all'istituzione del sistema europeo di accoglienza;
    e) l'istituzione di un'agenzia europea per l'asilo e l'immigrazione al di fuori del territorio dell'Unione europea, favorendo l'utilizzazione delle sedi diplomatiche già esistenti in alcuni Paesi africani, quali sedi operative nelle zone di maggior transito dei rifugiati, in grado di gestire le domande di protezione internazionale e di contenere il numero dei flussi migratori indistinti.
(1-00603) «Nicoletti, Speranza, Berlinghieri, Amendola, Giuseppe Guerini, Quartapelle Procopio, Campana, Beni, Fiano, Monaco, Chaouki, Moscatt, Iacono, Scuvera, Piazzoni, Migliore, Bruno Bossio, Mattiello, Fabbri».
(3 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la Presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea, considerato che l'Unione europea è soggetta a pressioni migratorie strutturali, conseguenti a cambiamenti sociali e politici negli Stati limitrofi, è tenuta ad assolvere entro il 31 dicembre 2014 il rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali, attraverso un'efficace promozione della migrazione, individuando strumenti operativi;
    secondo i dati dello European asylum support office (Ufficio europeo di sostegno per l'asilo – Easo) diffusi nei giorni scorsi, si è registrato nei primi otto mesi un aumento del 28 per cento delle domande di asilo presentate nell'Unione europea, rispetto allo stesso periodo nel 2013. Uno su cinque dei richiedenti asilo è siriano, infatti la Siria è tra i primi tre Paesi di origine dei richiedenti in diciannove Stati dell'Unione europea;
    secondo i dati del Ministero dell'interno, nei mesi gennaio-settembre 2014 il numero dei richiedenti asilo si attestava a circa 44.000, con un aumento del 153 per cento a fronte dei dati del 2013 negli stessi mesi, pari a circa 17.387;
    in seguito al tragico naufragio di oltre trecento migranti del 3 ottobre 2013, l'operazione militare ed umanitaria italiana Mare Nostrum, iniziata il successivo 18 ottobre 2013, ha costituito un esempio efficace per affrontare e gestire in modo consapevole lo stato di emergenza umanitaria nello stretto di Sicilia, dovuto dall'afflusso eccezionale di migranti. L'operazione Mare Nostrum, operando congiuntamente ed in sinergia con le attività previste dall'europea Frontex, ha contribuito fattivamente a salvare vite umane in pericolo in mare, nonché a contrastare il traffico illegale di migranti. Secondo dati dell'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, le navi di Mare Nostrum hanno salvato circa il 70 per cento dei migranti e richiedenti protezione internazionale sbarcati da gennaio ad oggi in Italia;
    a partire dal prossimo mese di novembre avrà inizio la futura operazione Frontex Plus con obiettivi diversi, legati ad una maggiore vigilanza della frontiera meridionale dell'Unione. Frontex Plus sarà operativa solo nell'area marittima rientrante nella giurisdizione italiana, senza realizzare interventi di salvataggio in acque internazionali o nelle acque di altri Paesi che non riescono a gestire la propria zona di ricerca e salvataggio;
    «il successo di Frontex Plus dipende dalla partecipazione dei singoli Paesi», secondo quanto affermato dal Commissario europeo per gli affari interni Cecilia Malmström ed è necessario l'apporto dei singoli Governi per farsi carico di una gestione europea del fenomeno migratorio. Premesso ciò, le due operazioni dovrebbero essere complementari, convergendo nella promozione dell'integrazione europea delle politiche migratorie;
    negli ultimi anni si sono accentuate le differenze sostanziali tra i sistemi di protezione dei diversi Paesi, sia per quando riguarda le misure di accoglienza, sia relativamente alle percentuali di riconoscimento e alle procedure di esame della domanda;
    con il regolamento «Dublino III» si è voluto realizzare un sistema di asilo europeo basato su criteri omogenei di riconoscimento del diritto d'asilo dei richiedenti, per evitare disparità nel trattamento delle persone e nell'esame delle loro domande;
    tuttavia, l'applicazione del regolamento ha evidenziato alcune criticità, segnalate soprattutto da operatori del settore, relativamente alle procedure di gestione in generale e per la presa in carico dei minori non accompagnati, che necessitano di essere corrette,

impegna il Governo:

   a garantire una forma di protezione temporanea ai richiedenti provenienti dalla Siria, dall'Iraq e dall'Eritrea, attraverso la concessione di un permesso per motivi umanitari, in applicazione della direttiva 2001/55/CE, recepita dall'Italia con il decreto legislativo 7 aprile 2003, n. 85, relativa alla «concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati» e alla «promozione dell'equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell'accoglienza degli stessi»;
   al fine di gestire il fenomeno dei flussi migratori misti, a promuovere la creazione di un centro di accoglienza gestito in collaborazione con altri Paesi europei in Sicilia, che, in modo sperimentale, esamini le domande di protezione internazionale;
   a promuovere, in sede europea ed in collaborazione con l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, la creazione di centri di accoglienza nei Paesi di transito, quali Tunisia, Egitto, Marocco, Etiopia e Giordania, dove presentare domanda di protezione internazionale;
   ad adottare tutte le misure opportune per potenziare il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati;
   a sostenere presso le competenti sedi europee la necessità di una revisione del regolamento «Dublino III» al fine di eliminare le criticità sollevate in più sedi da personalità e istituzioni operanti nel settore, al fine di consentire ai richiedenti asilo di poter ottenere una protezione vera nei Paesi in cui hanno legami familiari o culturali e concrete prospettive di inserimento sociale e lavorativo.
(1-00604) «Santerini, Marazziti, Dellai».
(6 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    l'Europa non ha ancora mostrato di voler adottare una politica comune per la gestione dei flussi migratori e certamente non è stata capace di mostrare il volto umano della solidarietà di fronte all'emergenza umanitaria di flussi crescenti di migranti, lasciando sostanzialmente sola l'Italia, mentre ha il dovere, a fronte di questa continua richiesta di aiuto, di far sì che chi fugge dalla morte per raggiungerla, non trovi la morte nel suo cammino; si tratta di persone costrette a lasciare la propria terra per fuggire da situazioni di violenza, di degrado, di costrizione, di negazione di libertà e di privazione della dignità umana, e ad affidarsi a trafficanti criminali; il numero delle vittime e delle violazioni dei diritti umani da parte di questi ultimi, infatti, negli anni è considerevolmente aumentato (in generale, dal 2000 al 2013, sono morti migliaia di migranti nel tentativo di fuggire dai conflitti e di raggiungere l'Europa via mare o attraversando i confini del vecchio continente via terra, in media più di 1.600 l'anno);
    le ondate di sbarchi degli ultimi mesi sulle coste siciliane ha rimesso al centro del dibattito anche il diritto d'asilo facendo riemergere di nuovo la questione della normativa che lo regola a livello italiano ed europeo e degli strumenti con cui l'Unione europea può aiutare i Paesi membri sottoposti a forti pressioni migratorie alle frontiere;
    come Stato di frontiera esterna dell'Unione europea l'Italia è sottoposta a una pressione maggiore alle proprie frontiere rispetto a quanto non sarebbe se tale ingresso non coincidesse anche con l'ingresso nell'area dell'Unione europea, tuttavia ciò non può sottintendere che il Paese accogliente abbia responsabilità maggiori o speciali;
    pur tra polemiche e criticità, l'operazione di soccorso denominata Mare Nostrum ha comunque raggiunto lo scopo per il quale era stata avviata; infatti, dall'inizio del 2014, è stata salvata la vita a oltre 22.000 persone e il nostro Paese ha ancora una volta confermato la propria vocazione umanitaria che da sempre la contraddistingue in Europa; tuttavia, i sottoscrittori del presente atto di indirizzo non ritengono che Mare Nostrum possa rappresentare una soluzione permanente alla questione immigrazione, anche perché non ha impedito l'incremento dei flussi migratori illegali, garantendo, di fatto, l'arrivo in Italia a tutti coloro che si imbarcano sulle coste libiche;
    secondo il rapporto di Eurostat sul primo trimestre del 2014, sono state 435 mila le richieste di asilo in Europa nel 2013, facendo registrare un forte rialzo rispetto al 2012 quando erano state 335 mila. Secondo le stime, circa il 90 per cento sono nuove domande. Le più numerose sono state presentate da cittadini di nazionalità siriana. Emerge ancora dai dati Eurostat che il 70 per cento delle richieste si è concentrato in Germania, Francia, Svezia, Regno Unito e Italia. Nel 2013 il più alto numero di richieste d'asilo è stato registrato in Germania (127 mila, pari al 29 per cento dell'insieme delle domande), seguito da Francia (65 mila, 15 per cento), Svezia (54 mila, 13 per cento), Regno Unito (30 mila, 7 per cento) e Italia (28 mila, 6 per cento). In questi cinque Stati membri si è concentrato il 70 per cento di tutti i richiedenti asilo dell'Unione europea a 28 nel 2013;
    la gestione dell'accoglienza, identificazione, assistenza da parte di molti Paesi dell'Unione europea presenta numerose criticità data la consistenza del fenomeno e considerate talvolta le difficili condizioni sociali ed economiche dei Paesi riceventi, difficoltà che si riflettono sia sulle popolazioni accoglienti che sui rifugiati e richiedenti asilo;
    il 29 giugno 2013 sono stati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea gli atti legislativi mancanti per completare la «revisione» di tutte le principali norme del Sistema europeo comune di asilo; in particolare, l'adozione del regolamento (UE) n. 604/2013, cosiddetto «Dublino III», entrato in vigore il 19 luglio 2013, in sostituzione del regolamento (CE) n. 343/2003, cosiddetto «Dublino II», ma la cui applicazione è stata prevista solo a partire dal 1o gennaio 2014;
    il regolamento «Dublino III» intende assicurare il pieno rispetto del diritto d'asilo garantito dall'articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, nonché dei diritti riconosciuti ai sensi degli articoli 1, 4, 7, 24 e 47 della Carta medesima (diritto alla dignità umana, proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, rispetto della vita privata e familiare, diritto del bambino e diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale); inoltre, contiene i criteri e i meccanismi per individuare lo Stato membro competente al fine di garantire l'effettivo accesso alle procedure volte al riconoscimento della protezione internazionale, non pregiudicando l'obiettivo di un rapido espletamento delle domande di protezione internazionale;
    il regolamento «Dublino III» è senza dubbio la parte del Sistema europeo comune di asilo più discusso e criticato, non solo dal punto di vista delle conseguenze negative sulla vita dei richiedenti asilo; infatti, il principio generale su cui si basa è lo stesso della vecchia convenzione di Dublino del 1990 e di «Dublino II»: ogni domanda di asilo deve essere esaminata da un solo Stato membro e la competenza per l'esame di una domanda di protezione internazionale ricade in primis sullo Stato che ha svolto il maggior ruolo in relazione all'ingresso e al soggiorno del richiedente nel territorio degli Stati membri, salvo eccezioni; insomma, sono state apportati pochi aggiustamenti;
    tuttavia, malgrado l'Unione europea si sia dotata di un proprio sistema di asilo (basato sulla nozione di protezione internazionale, articolata nelle tre forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione temporanea, volte a consentire a chiunque di vedersi riconosciuto lo status appropriato alla propria situazione), faticosamente completato dopo 12 anni di lavori nel giugno 2013, come già detto, il cammino verso il raggiungimento di un sistema comune europeo di asilo giusto ed efficace appare ancora lungo; la realizzazione di tale sistema costituisce, in ogni caso, l'esito ultimo di un processo di progressivo avvicinamento delle legislazioni nazionali in materia le cui tappe sono state delineate nei programmi pluriennali per lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia;
    tra l'altro, con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le materie concernenti il diritto d'asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea hanno acquisito la qualifica di politica comune dell'Unione europea (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea); pertanto, la concreta regolamentazione di tali materie risulta un'applicazione del Trattato;
    l'applicazione del regolamento in questione è di difficile gestione e il principio generale in esso stabilito, secondo cui i Paesi responsabili dell'esame di una domanda di protezione internazionale «anche di coloro che hanno varcato illegalmente le frontiere di uno Stato membro» sono quelli di prima accoglienza, presenta notevoli criticità a causa del numero sempre crescente di migranti, tra le quali la gestione nazionale, ossia in carico ai singoli Stati delle richieste d'asilo, che induce in numerosi migranti il rifiuto di farsi identificare e il loro incontrollato movimento tra i Paesi europei;
    sia il Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli sia l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati ritengono criticamente che tale sistema non riesca a fornire una protezione equa, efficiente ed efficace, impedisca l'esercizio dei diritti legali e del benessere personale dei richiedenti asilo, compreso il diritto a un equo esame della loro domanda d'asilo e, ove riconosciuto, a una protezione effettiva e conduca a una distribuzione ineguale delle richieste d'asilo tra gli Stati membri;
    la seconda fase del processo, attualmente in corso e recante la definitiva realizzazione di un Sistema europeo comune di asilo, prevede la revisione della citata normativa vigente; a più riprese l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, da sempre particolarmente attenta al tema dei rifugiati e dei richiedenti asilo e, in generale, del rispetto dei diritti umani dei più deboli, ha raccomandato, da ultimo nella risoluzione 2047 (2014), una profonda revisione del sopracitato regolamento;
    il Consiglio europeo del 26 e 27 giugno 2014, nel definire gli orientamenti strategici della programmazione legislativa e operativa nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia per gli anni a venire, ha chiesto alle istituzioni dell'Unione europea e agli Stati membri: di dotarsi di una politica efficace in materia di migrazione, asilo e frontiere, guidata dai principi di solidarietà ed equa condivisione delle responsabilità; di recepire e attuare efficacemente, quale priorità assoluta, il Sistema europeo comune di asilo (Ceas), adottando norme comuni di livello elevato e istituendo una maggiore cooperazione per creare condizioni di parità che assicurino ai richiedenti asilo le stesse garanzie di carattere procedurale e la stessa protezione in tutta l'Unione europea; di rafforzare il ruolo svolto dall'Ufficio europeo di sostegno per l'asilo (Easo), in particolare promuovendo l'applicazione uniforme dell’acquis; di intensificare la cooperazione con i Paesi di origine e di transito, anche attraverso l'assistenza volta a rafforzare le loro capacità di gestione della migrazione e delle frontiere; di potenziare ed espandere i programmi di protezione regionale, in particolare nelle vicinanze delle regioni di origine;
    il Governo italiano si è impegnato a chiedere nelle sedi appropriate una risposta europea più adeguata e a inserire la questione di una più efficace gestione in comune delle politiche migratorie fra le priorità del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea;
    occorre, a questo punto, che a livello europeo si predisponga al più presto almeno un canale umanitario affinché chi fugge dalla guerra possa chiedere asilo alle istituzioni europee nei Paesi che affacciano sul Mediterraneo o lì dove è necessario (presso i consolati o altri uffici) senza doversi imbarcare, con ciò alimentando il traffico di essere umani e il bollettino dei tragici naufragi, per poi accogliere sul suolo europeo chi fugge ed esaminare qui la domanda dei richiedenti;
    la Costituzione italiana, attraverso il terzo comma dell'articolo 10, recita chiaramente: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge», ovvero sussiste l'obbligo dell'accoglienza dei richiedenti asilo;
    è nel pieno della sua attività il semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea (e anche in vista del prossimo Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014) ed è, dunque, opportuno che il nostro Paese ponga la necessità di mettere al centro dell'agenda europea la definizione di una politica solida e condivisa, improntata su solidarietà e responsabilità, in materia di immigrazione e diritto d'asilo,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per adottare un testo unico di tutte le disposizioni di attuazione degli atti dell'Unione europea in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione internazionale e temporanea, in attuazione anche dell'articolo 10 della Costituzione, e per rivedere tutta la normativa esistente in tema di regolamentazione organica dell'intera materia dell'immigrazione dall'estero;
   ad attivarsi in ogni sede dell'Unione europea, soprattutto in occasione del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea, al fine di realizzare il superamento dell'attuale quadro normativo (così detto sistema di «Dublino III») attraverso una sua revisione per favorire: l'inserimento dei richiedenti asilo già dal momento dell'avvio della procedura di protezione, nei Paesi dell'Unione dove già vivono propri parenti, prima ancora che acquisiscano lo status di apolide; il rispetto e la protezione dei diritti umani dei rifugiati e dei richiedenti asilo, al fine di garantire un ambiente più favorevole a una loro accoglienza, compatibilmente con le possibilità dei Paesi ospitanti e di provvedere efficacemente a una loro identificazione per evitare che finiscano vittime del traffico clandestino, fornendo loro un'adeguata assistenza;
   ad assumere iniziative, in sede di Unione europea, per una più efficace azione nei confronti dei Paesi di origine e di transito, impegnando e incentivando i rispettivi Governi in una seria e solidale politica di gestione dei flussi, soprattutto nella lotta alle organizzazioni criminali che lucrano sul traffico di esseri umani;
   a favorire l'avvio di un sistema europeo di accoglienza che si basi sulla solidarietà tra i Paesi membri e che distribuisca la presenza dei rifugiati per quote definite sulla base degli indici demografici ed economici, favorendo le logiche di ricongiungimento familiare, etnico, religioso e linguistico;
   a promuovere l'adozione di:
    a) un omogeneo sistema europeo che regoli la concessione del diritto di asilo secondo standard e procedure comuni e il coordinamento nella raccolta delle domande dei richiedenti, anche al di fuori del territorio dei Paesi membri e in collaborazione con l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, per permettere agli aventi diritto di raggiungere i Paesi di accoglienza in modo sicuro e prevenire ogni abuso del sistema con la presentazione di domande di asilo multiple da parte di una sola persona;
    b) un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della concessione del diritto di asilo, tale da garantire la libertà di stabilimento del beneficiario in ogni Stato membro, per cui il riconoscimento della protezione internazionale a un richiedente asilo all'interno di un determinato Stato sia valido nell'intero territorio dell'Unione europea;
   a favorire l'istituzione di un'agenzia europea per l'asilo e l'immigrazione al di fuori del territorio dell'Unione europea attraverso la creazione di basi europee direttamente finanziate dall'Unione europea o l'utilizzazione delle sedi diplomatiche già esistenti in alcuni Paesi africani, quali sedi operative nelle zone di maggior transito dei rifugiati, in grado di gestire le domande di protezione internazionale e di contenere il numero dei flussi migratori indistinti;
   a rivedere tutte le note del Ministero dell'interno che concernono i finanziamenti dei bandi interministeriali destinati alla prima accoglienza e alla gestione dei servizi connessi, con particolare riguardo ai criteri di spesa ad essi inerenti;
   a verificare la possibilità di promuovere interventi per assicurare beni e servizi per le famiglie italiane meno abbienti con il fine di evitare tensioni tra italiani e richiedenti asilo all'interno della comunità.
(1-00605) «Manlio Di Stefano, Spadoni, Grande, Scagliusi, Del Grosso, Di Battista, Sibilia, Currò, Artini, Carinelli, Silvia Giordano, Rostellato, Brescia, Frusone, Colonnese, Lorefice, Sorial, Mantero, Grillo, D'Incà, Spessotto, L'Abbate, Benedetti, Liuzzi, Dall'Osso, De Lorenzis».
(7 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    i dati forniti da Eurostat sulle richieste di asilo presentate in Europa fotografano un fenomeno, quello dei rifugiati e richiedenti asilo, di imponenti dimensioni e che necessita di una forte politica comune dell'Unione europea;
    secondo il rapporto fornito dall'istituto europeo di statistica, le persone che nei primi tre mesi del 2014 hanno chiesto asilo sul territorio dell'Unione europea sono state circa 108.300, con un aumento di circa il 30 per cento rispetto al dato dello stesso periodo del 2013, che ha registrato nell'anno circa 450 mila richieste di asilo presentate ai 28 Stati dell'Unione europea, con un aumento di circa 100 mila richieste rispetto al 2012;
    l'Italia nel 2013 ha ricevuto 27.800 domande di asilo. Erano state 31.723 nel 2008, 19.090 nel 2009, 12.121 nel 2010, 37.350 nel 2011 e 17.323 nel 2012;
    nel 2013 il più alto numero di richieste d'asilo è stato registrato in Germania (127 mila), seguito da Francia (6 5mila), Svezia (54 mila), Regno Unito (30 mila). Complessivamente, sommato al dato italiano, questi numeri compongono il circa il 70 per cento del totale delle richieste d'asilo presentate nell'Unione europea;
    tra i Paesi di provenienza, la Siria occupa il primo posto (16.770 richieste), seguita da Afghanistan (7.895) e Serbia (5.960);
    secondo l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, il numero totale di persone arrivate via mare in Italia, sempre nei primi mesi del 2014, è di oltre 18.500 e quasi 43.000 persone sono arrivate via mare nel 2013;
    l'operazione di soccorso in mare denominata Mare Nostrum ha salvato in mare, in questi mesi, migliaia di vite umane. Tuttavia, ha dimostrato più volte i suoi limiti, come, ad esempio, nella tragedia del 12 maggio 2014 al largo di Lampedusa e nelle centinaia di morti nei pressi delle coste libiche;
    Mare Nostrum è stata una risposta emergenziale ad una questione strutturale, quale è quella relativa ai flussi migratori. Inadeguata e insufficiente e che, in ogni caso, non previene in alcun modo l'esposizione dei potenziali rifugiati ai rischi delle traversate per mare e che, se pure ha permesso di fermare molti dei cosiddetti scafisti, certo non è in grado di intervenire sull'emergenza della tratta di esseri umani, che ha luogo principalmente in Libia e che vede negli scafisti solo l'ultimo anello della catena;
    le navi dell'operazione Mare Nostrum, se, da un lato, svolgono un'importante opera di pattugliamento e di soccorso, come prescritto dalle convenzioni internazionali in vigore, dall'altro, tuttavia, nulla può rispetto all'altra grande emergenza che l'Unione europea si trova ad affrontare: la gestione dell'accoglienza e l'assistenza ai richiedenti asilo negli Stati europei e, in particolare, nel nostro Paese, specificatamente interessato dalla pressione migratoria;
    la gestione dell'accoglienza, la «presa in carico» e l'assistenza da parte di molti Paesi dell'Unione europea presenta numerose criticità, data la consistenza del fenomeno e considerate le talvolta difficili condizioni sociali ed economiche dei Paesi riceventi, difficoltà che si riflettono sia sulle popolazioni accoglienti che sui rifugiati e richiedenti asilo;
    con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le materie concernenti l'asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea hanno acquisito la qualifica di politica comune dell'Unione europea (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea); pertanto, la concreta regolamentazione di tali materie risulta un'applicazione del Trattato;
    la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che con il Trattato di Lisbona ha acquisito la stessa portata e rilevanza giuridica del Trattato stesso, riconosce e garantisce il diritto di asilo nel rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal Protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati, del Trattato sull'Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (articolo 18); vieta le espulsioni collettive e le espulsioni ed estradizioni verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti (articolo 19);
    le richieste di asilo nei Paesi dell'Unione europea sono disciplinate dal regolamento n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 (cosiddetto regolamento «Dublino III»), che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di Paese terzo o da un apolide;
    il regolamento «Dublino III» intende assicurare il pieno rispetto del diritto d'asilo garantito dall'articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nonché dei diritti riconosciuti ai sensi degli articoli 1, 4, 7, 24 e 47 della Carta medesima (diritto alla dignità umana, proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, rispetto della vita privata e familiare, diritto del bambino e diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale);
    l'obiettivo del regolamento «Dublino III» è quello di realizzare un sistema di asilo europeo basato su criteri omogenei di riconoscimento del diritto d'asilo dei richiedenti, sul rispetto dei diritti umani nei Paesi d'accoglienza e sulla solidarietà tra gli Stati membri e di consentire la rapida determinazione ed identificazione dello Stato membro competente, al fine di garantire l'effettivo accesso alle procedure volte al riconoscimento della protezione internazionale, non pregiudicando l'obiettivo di un rapido espletamento delle domande di protezione internazionale;
    rispetto al precedente regolamento denominato «Dublino II», in particolare, sono state modificate le definizioni di familiari; è stato introdotto l'effetto sospensivo del ricorso; sono stati inseriti i termini anche per la procedura di ripresa in carico; è possibile il trattenimento del richiedente per pericolo di fuga; è introdotto lo scambio di informazioni sanitarie a tutela del richiedente;
    studi effettuati negli ultimi anni mostravano ancora differenze sostanziali tra i sistemi di protezione dei diversi Paesi, sia per quando riguarda le misure di accoglienza, sia relativamente alle percentuali di riconoscimento, sia rispetto alle procedure di esame della domanda; pertanto, l'Unione europea ha riformato il complesso della normativa in materia, ponendolo, nelle intenzioni, come base uniforme al fine di evitare disparità nel trattamento delle persone e nell'esame delle loro domande, proprio come premessa delle misure previste dal regolamento «Dublino», nella sua versione modificata;
    tuttavia, al di là dei buoni propositi sopra richiamati, diverse disposizioni del regolamento «Dublino III» stanno determinando seri problemi di interpretazione e applicazione negli Stati membri;
    l'obiettivo iniziale di tale sistema era quello di garantire che almeno uno degli Stati membri prendesse in carico il richiedente. Tuttavia, è ormai evidente come in realtà l'applicazione di tale insieme di regole sia diventata un insensato percorso a ostacoli per chi cerca protezione: famiglie separate, persone lasciate senza mezzi di sostentamento o addirittura detenute, lungaggini burocratiche e rimpalli tra Stati e uffici che rendono il diritto d'asilo inesigibile;
    in particolare, il regolamento «Dublino III» limita oltremodo la mobilità dei richiedenti asilo nell'Unione europea, con un impatto fortemente negativo sulla vita dei rifugiati;
    per quanto concerne l'Italia, il regolamento di Dublino interessa, in particolare, due categorie di migranti: quelli che sono stati rimandati in Italia, in quanto individuata come Stato responsabile per esaminare la loro domanda d'asilo («dublinati») e quelli che devono essere trasferiti dall'Italia a un altro Stato europeo, dove precedentemente sono stati identificati attraverso le impronte digitali (in attesa di trasferimento);
    il rilievo delle impronte digitali assume un'importanza poiché il regolamento prescrive che il migrante sia «preso in carico» dal Paese di primo accesso. Essendo l'Italia un Paese di transito per la maggior parte dei migranti e vista la diffusione delle notizie sulla lentezza delle procedure del nostro Paese nell'evasione delle richieste d'asilo e sulle limitazioni – pur se illegittime – poste alla libera circolazione in territorio europeo anche successivamente al riconoscimento dello status di rifugiato, sono molti i migranti che si oppongono al rilevamento;
    il regolamento (UE) n. 604/2013, nato per contrastare il fenomeno del cosiddetto asylum shopping (la presentazione della richiesta di protezione in più Paesi), appare del tutto inadeguato a gestire i flussi migratori attuali; esso impedisce, di fatto, la necessaria solidarietà europea nella gestione delle domande di protezione e incentiva fenomeni di fughe collettive dai centri di prima accoglienza e, quindi, di «clandestinizzazione» dei migranti;
    un'altra criticità particolarmente vistosa riguarda l'accoglienza. Occorre segnalare come non sia stato organizzato nel nostro Paese un sistema di prima accoglienza idoneo alla portata del fenomeno delle migrazioni e, in particolare con riferimento ai richiedenti asilo, siano state spesso utilizzate strutture di accoglienza del tutto improprie e al limite della dignità umana;
    un ulteriore elemento critico è la mancanza di un'effettiva ed esigibile tutela legale da parte dei migranti, e ciò ha un forte impatto sull'equità della procedura di asilo. La procedura «Dublino», infatti, può durare molto e il migrante non ha la possibilità di essere aggiornato su come procede il suo caso, né attraverso un apposito ufficio informazioni, né accedendo a un sistema on line o agli sportelli di altri uffici delle autorità competenti, come quelli territoriali dell'immigrazione;
    questo produce frustrazione, depressione e un profondo senso di precarietà, che coinvolge anche le popolazioni locali interessate dalla pressione migratoria;
    la rigidità del «sistema di Dublino», infatti, spinge i richiedenti asilo a muoversi continuamente in Europa in cerca di protezione, piuttosto che fermarsi in un posto solo, nel tentativo di aggirare un sistema percepito come poco sicuro;
    nonostante le criticità del sistema siano note da tempo, l'Unione europea non sembra voler porre rimedio, anzi pare prendere misure che vanno nella direzione opposta a quella della risoluzione dei problemi;
    ne è l'esempio la gigantesca operazione di polizia appena partita in tutta Europa volta a fermare, controllare e identificare tutti i migranti che verranno intercettati sul territorio continentale;
    l'Italia guiderà tale operazione di polizia europea, denominata «Mos Maiorum», un intervento coordinato dalla direzione centrale per l'immigrazione e la polizia di frontiera del Ministero dell'interno italiano, in collaborazione con l'agenzia Frontex, volto a perseguire l’«attraversamento illegale dei confini»; un'operazione più repressiva che di tutela nei confronti di quella moltitudine di individui che approdati in Europa stanno cercando di realizzare un loro nuovo progetto di vita, lontano da guerre, miseria e persecuzioni;
    di fatto, l'identificazione, già dal prelevamento delle impronte digitali, rappresenta oggi per il migrante non una garanzia di tutela dei diritti connessi al proprio status, ma una limitazione della propria libertà di movimento all'interno dell'Unione europea, anche al fine di proporre istanza di protezione in un Paese diverso da quello di primo accesso. Doversi nascondere dall'autorità statuale del Paese di primo accesso rappresenta, in molti casi, l'inizio di un percorso di emarginazione;
    ventuno parlamentari di Italia, Francia, Spagna, Grecia, Croazia, Serbia, San Marino, appartenenti a gruppi politici diversi (Pse, Ppe, Alde – tra gli italiani Pd, Fi, Popolari, Sel, 5Stelle) hanno depositato presso l'Ufficio di Presidenza dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa la richiesta di un rapporto ad hoc sull'applicazione del regolamento «Dublino III», che possa contenere analisi fattuali dei dati e proposte ai Governi per un suo miglioramento, come più volte richiesto dall'Assemblea di Strasburgo;
    sempre l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa ha raccomandato, nella sua ultima risoluzione, la 2047/2014, una profonda revisione del regolamento «Dublino III»;
    riveste particolare importanza la circostanza che l'Italia è presidente di turno dell'Unione europea ed appare qui opportuno che l'Italia ponga la necessità di aggiungere anche tale punto all'ordine del giorno del Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014,

impegna il Governo:

   a proporre nelle competenti sedi europee un'iniziativa tesa a sospendere l'applicazione del regolamento cosiddetto «Dublino III» e a sostenere la necessità di una sua revisione, che ponga al centro:
    a) il rispetto e la protezione dei diritti umani dei rifugiati e dei richiedenti asilo, al fine di garantire un ambiente più favorevole a una loro accoglienza, fornendo loro un'adeguata assistenza fisica, psicologia e legale, nonché un adeguato percorso di integrazione;
    b) un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della concessione del diritto di asilo, che estenda ai richiedenti asilo ed ai rifugiati i diritti previsti per i cittadini europei dal Trattato di Schengen, permettendo così un'allocazione libera e, dunque, più razionale dei flussi migratori;
    c) l'istituzione di un'agenzia europea per l'asilo e l'immigrazione, favorendo l'utilizzazione delle sedi diplomatiche già esistenti in alcuni Paesi africani, quali sedi operative nelle zone di maggior transito dei rifugiati;
    d) a prendere tutti i provvedimenti necessari affinché il tempo richiesto per l'esame delle richieste di asilo in Italia si allinei alla media europea;
    e) ad operare per ottenere le modifiche al regolamento di Dublino III idonee a rendere l'identificazione del migrante non un limite alla propria libertà di circolazione e al pieno godimento dei diritti connessi al proprio status, ma una garanzia del rispetto degli stessi diritti;
   a farsi portatore in sede europea di un'iniziativa che porti al definitivo superamento del sistema Frontex, affinché quelle risorse siano finalizzate in primis ad organizzare un efficiente sistema di monitoraggio e soccorso;
   ad interrompere la prassi di rimpatri cosiddetti «immediati», effettuati prima che sia data ai migranti la possibilità di proporre istanza di protezione, posto che tali provvedimenti, anche se presi in forza di accordi bilaterali, sono illegittimi in quanto costituiscono rimpatri collettivi non motivati singolarmente ed in quanto negano al migrante la possibilità, riconosciuta da numerose convenzioni internazionali, di proporre istanza di protezione;
   a porre in sede europea la questione dell'indifferibilità dell'apertura di canali di «accesso protetto», che tramite corridoi umanitari garantiscano la possibilità ai migranti di fare richiesta di asilo direttamente nei Paesi di transito, come l'Egitto, per poi poter entrare in Europa in sicurezza.
(1-00616) (Nuova formulazione) «Palazzotto, Fratoianni, Scotto, Nicchi, Costantino, Pannarale, Duranti, Piras, Kronbichler, Zaratti».
(13 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il tema dell'immigrazione, di per sé particolarmente complesso e delicato, assume un particolare rilievo in questo momento storico a causa della grave instabilità politica dei Paesi africani del Mediterraneo e di quelli dell'Africa subsahariana. Si sta assistendo, infatti, ad una mutazione delle cause storiche del fenomeno migratorio. Se prima povertà e scarsezza dei mezzi economici rappresentavano il motivo principale della spinta alla migrazione, oggi la causa prioritaria e più significativa è costituita dalle guerre e dalle persecuzioni;
    infatti, la ciclicità delle crisi che attraversano quei Paesi, segnati da fragili equilibri politici interni e debolezza degli apparati statuali, determina spesso tumulti, sommosse e vere e proprie rivoluzioni che rendono impossibile ogni forma di civile convivenza;
    ciò cambia il profilo dei flussi migratori che, inizialmente originati dal desiderio di fuggire dalla povertà e da condizioni sociali allarmanti, oggi, per i motivi esposti, sono soprattutto determinati dal desiderio di sfuggire da guerre e devastazioni e spingono i migranti a richiedere all'Europa asilo politico;
    i cosiddetti «viaggi della speranza» partono da Eritrea, Mali, Siria, Libia, Gambia, Somalia, Senegal, Pakistan, Nigeria, Egitto ed altri;
    secondo il rapporto Eurostat sul primo quadrimestre del 2014, le persone che, tra gennaio e marzo 2014, hanno richiesto asilo sul territorio dei 28 Paesi dell'Unione europea sono state circa 108.300, quasi 25.000 in più rispetto allo stesso periodo del 2013, con un aumento del 30 per cento. In particolare, l'Italia ha ricevuto 10.700 domande, risalendo così al quarto posto tra i Paesi dell'Unione europea come meta dei richiedenti asilo;
    per quanto attiene alla politica europea di asilo, si ricorda che il tema è già stato oggetto, da parte delle istituzioni comunitarie, di dibattito e di specifiche valutazioni in relazione anche ai complessi e difficili percorsi di integrazione nei Paesi dell'Unione europea;
    con il Trattato di Amsterdam, la politica migratoria compie un passo decisivo verso la «comunitarizzazione», diventando oggetto di competenza concorrente tra Unione europea e Stati membri;
    nel 2009 il Trattato di Lisbona, confermando l'impegno dell'Europa verso una comune politica migratoria, ha reso vincolante la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea: pertanto, con il Trattato di Lisbona, le materie concernenti l'asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea hanno acquisito la qualifica di politica comune dell'Unione europea (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea);
    con il regolamento «Dublino III» (regolamento (UE) n. 604/2013) si stabiliscono i criteri ed i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente ad esaminare le domande di protezione internazionale presentate da cittadini di un Paese terzo o da un apolide;
    il nuovo regolamento, che abroga il regolamento (CE) n. 343/2003, detto «Dublino II», modifica alcune disposizioni previste per la determinazione dello Stato membro dell'Unione europea competente per l'esame della domanda di protezione internazionale e le modalità e le tempistiche ad esso correlate. Il nucleo fondamentale di tale regolamento è costituito dai criteri che determinano quale sia lo Stato membro dell'Unione europea competente;
    altro obiettivo del regolamento «Dublino III» è quello di realizzare un sistema di asilo europeo basato su criteri omogenei di riconoscimento del diritto di asilo dei richiedenti: nel pieno rispetto dei diritti umani da parte dei Paesi di accoglienza, della solidarietà degli Stati membri e con l'impegno di pervenire ad una rapida e sicura identificazione;
    il regolamento «Dublino III» (in base al quale lo Stato membro responsabile dell'esame dell'istanza è quello in cui è avvenuto il primo ingresso del richiedente protezione internazionale) risulta ormai superato, essendo già mutato il quadro di riferimento e le stesse condizioni nelle quali esso è stato definito;
    il nostro Paese, ad esempio, risulta essere di gran lunga il primo punto di approdo dei migranti: ma la maggior parte di questi desiderano raggiungere familiari inseriti in comunità già insediate in altre nazioni e rifiutano, pertanto, il riconoscimento considerando l'Italia come un mero Paese di transito;
    il superamento del regolamento «Dublino III» consentirebbe, quindi, il trasferimento legale di questi migranti, ma fino a quando non verrà permesso al richiedente asilo o al rifugiato di muoversi legalmente all'interno dell'Europa, si continuerà ad assistere all'aumento dei flussi migratori considerati illegali verso altri Stati membri, a cui seguono, normalmente, nuovi e costosi trasferimenti nel nostro Paese, punto di prima accoglienza;
    il regolamento «Dublino III» ha, quindi, un grande limite, perché non risponde più alle esigenze attuali e scarica sul nostro Paese, normalmente meta di primo ingresso, l'intero peso dei flussi migratori, con le drammatiche conseguenze economico sociali che tutti possono valutare;
    occorre, pertanto, porre in essere una strategia di ampio respiro che deve potere agire sulle cause e sulla gestione di un tale fenomeno epocale, essendo evidente che non può incombere solo sull'Italia l'immenso peso di questo immane flusso migratorio verso l'Occidente europeo;
    il Consiglio europeo ha presentato il 26 e 27 giugno 2014 il proprio documento programmatico. Nell'agenda strategica trovano spazio le priorità chiave per i prossimi cinque anni, tra cui quelle inerenti alla gestione dei flussi migratori, alla tutela del diritto di asilo e alla libertà di circolazione. Il Consiglio ha, quindi, invitato le istituzioni dell'Unione europea e gli Stati membri ad attuare pienamente tali indicazioni prioritarie;
    l'Unione europea, ad avviso del Consiglio europeo, deve, infatti, dotarsi di una politica efficace e ben gestita in materia di migrazione, asilo e frontiere, guidata dai principi di solidarietà ed equa condivisione delle responsabilità in conformità all'articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e garantendone l'effettiva attuazione;
    il pieno recepimento e l'attuazione del sistema europeo costituiscono una priorità assoluta. In particolare, occorre che ci si avvii verso «norme comuni di livello elevato ed in una maggiore cooperazione, creando condizioni di parità che assicurino ai richiedenti asilo le stesse garanzie di carattere procedurale e la stessa protezione in tutta l'Unione europea»;
    il Governo è già intervenuto incrementando, anche con l'intervento degli enti locali, il sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) e le commissioni territoriali;
    la questione va considerata nel semestre di presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea ed in vista del prossimo Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014,

impegna il Governo:

   a proporre, nelle sedi europee competenti, la necessità di una revisione del regolamento «Dublino III» che riguardi:
    a) compatibilmente con le possibilità dei Paesi ospitanti, l'impegno a provvedere in modo efficace ad una loro identificazione per evitare che possano finire vittime del traffico clandestino;
    b) un sistema europeo di accoglienza che si basi sulla solidarietà tra i Paesi membri e che distribuisca la presenza dei rifugiati per quote sulla base degli indici demografici ed economici;
    c) un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri per la concessione del diritto di asilo in modo tale da garantire che il riconoscimento della protezione internazionale ad un richiedente asilo sia valido per l'intero territorio dell'Unione europea;
   a valutare, insieme ai partner europei, i possibili vantaggi dell'istituzione di un'agenzia europea per l'asilo e l'immigrazione che utilizzi le sedi diplomatiche presenti nei Paesi di origine dei flussi migratori, al fine di analizzare e valutare le richieste di protezione internazionale, anche per arginare la consistenza dei flussi migratori.
(1-00617) «Dorina Bianchi, Misuraca, Bosco, Garofalo, Minardo».
(13 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    con il termine «immigrazione» si tende ad indicare fenomeni tra loro molto diversi da un punto di vista sociologico ma, soprattutto, e di conseguenza, normativo e che l'ormai diffuso utilizzo dell'espressione «migranti», senza la necessaria distinzione tra immigrazione regolare, irregolare e asilo, è una palese discriminazione tra chi ha un titolo legittimo e chi invece viola le leggi;
    l'asilo e l'immigrazione, per le loro implicazioni sul governo e controllo delle frontiere e del territorio, è sempre stata di competenza esclusiva dei singoli Stati, finché l'Unione Europea, a partire dagli anni 2000 e poi con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ne ha eroso la potestà, avocando a sé parte sempre più considerevole della disciplina;
    con riguardo all'immigrazione clandestina, la direttiva 2008/115/CE, cosiddetta «rimpatri» pone in capo agli Stati l'obbligo di procedere all'espulsione di chi entra clandestinamente entro lo spazio europeo e la legittimità del trattenimento amministrativo, onde procedere non solo all'identificazione ma ad un effettivo allontanamento del clandestino, anche ricorrendo a misure coercitive;
    attualmente, secondo anche quanto riportato nel rapporto del luglio 2014 sui centri di identificazione ed espulsione (istituti dalla cosiddetta legge Turco-Napolitano e poi ridisciplinati nel 2011) in Italia: degli 11 centri di identificazione ed espulsione solo 5 sono funzionanti, mentre gli altri sono chiusi a causa dei danneggiamenti provocati dagli ospiti ed altri ancora, snaturandone la funzione, sono stati convertiti in centri di accoglienza per richiedenti asilo; al 4 febbraio 2014, su una capienza complessiva di 1.791 posti, risultava una capienza effettiva di 842 posti e 460 presenze, mentre a luglio 2014 il Ministro dell'interno Alfano dichiarò che i posti disponibili erano già scesi a 500;
    le espulsioni sono drasticamente diminuite di numero, come riporta il rapporto appena citato, il che appare una logica ed inevitabile conseguenza della chiusura dei centri a ciò adibiti e della attuale politica di incentivo all'immigrazione;
    della direttiva cosiddetta «rimpatri», l'articolo 2 ha costituito fonte normativa per legittimamente formulare il cosiddetto reato di clandestinità, mentre l'articolo 15, al comma 6, prevede il trattenimento fino a 18 mesi al fine di procedere all’ «allontanamento»;
    invece, in materia di protezione internazionale le direttive comunitarie attualmente di riferimento sono la direttiva 2013/33/UE cosiddetta «accoglienza», la direttiva 2013/32/UE cosiddetta «procedure», direttiva 2011/95/UE cosiddetta «qualifiche»; tuttavia, nonostante le nuove disposizioni in materia di accoglienza e procedure l'obiettivo di creare un sistema europeo comune di asilo (Ceas) è ormai palesemente fallito per le prassi e le legislazioni ancora molto differenziate tra i diversi Stati membri;
    proprio in virtù di tali obblighi di controllo dei confini e di una crescente legislazione comunitaria in materia è in vigore il cosiddetto regolamento «Dublino III» (riformulato nel 2013): nato come convenzione ma diventato regolamento, pone il principio del Paese di ingresso quale criterio per la gestione degli arrivi anche per «responsabilizzare» gli Stati membri e obbligarli al controllo dei confini nazionali facenti parte di quelli comunitari;
    tali direttive, in forza dei Trattati europei, pongono dei vincoli in materia, tuttavia, come da consolidata giurisprudenza, la regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato è «collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l'ordine pubblico» (sentenze n. 148 del 2008, n. 206 del 2006 e n. 62 del 1994 della Corte costituzionale), cui lo Stato non può rinunciare nell'assicurare la pacifica convivenza sociale;
    mancando un'azione comune a livello comunitario, occorre, infatti, da parte dei Governi una rigorosa legislazione di contrasto all'immigrazione clandestina, una continua cooperazione internazionale con i Paesi di origine per la stipula o il rinnovo di accordi sia con riguardo alle operazioni di controllo dei confini, soprattutto di quelli costieri, sia per velocizzare e agevolare le operazioni di rimpatrio dei clandestini; anche in questo caso, sono i numeri a dimostrare la validità di tale sistema: ad esempio, dal maggio 2009, a seguito dell'accordo stipulato dal Ministro dell'interno pro tempore Maroni tra l'Italia e la Libia, prima della guerra, il flusso di sbarchi di immigrati era quasi cessato, passando da 39.000 persone nel 2008 a 450 nel 2009;
    sicuramente il regolamento «Dublino III» ha particolarmente penalizzato l'Italia, quale Paese di confine marittimo; tuttavia l'Italia è ancora più penalizzata, rispetto agli altri Stati nelle medesime condizioni geografiche, quali, ad esempio, Spagna o Grecia, dalle politiche dell'attuale e del precedente Governo in materia di immigrazione, in totale controtendenza rispetto a quelle degli altri Paesi europei: l'abrogazione del reato di immigrazione clandestina e la missione Mare Nostrum hanno costituito un incentivo per un flusso incontrollato di ingressi nel nostro Paese e per la tratta degli esseri umani;
    in particolare, il fallimento della missione «militare-umanitaria» denominata Mare Nostrum, autorizzata dal Governo italiano ad ottobre 2013, è attestato dai più di 130.000 arrivi attraverso il Mediterraneo solo dall'inizio del 2014, da 2.600 persone annegate o disperse e da un costo complessivo di 1,2 miliardi di euro in anno;
    per il momento di grave crisi economica che stanno attraversando i nostri cittadini è impossibile farsi carico degli ingenti costi diretti e conseguenti all'operazione Mare Nostrum, stante i numeri degli sbarchi, i continui arrivi e il numero di immigrati in attesa di salpare dalle coste libiche e africane (pare 800.000);
    secondo gli ultimi dati pubblicati sul sito del Ministero dell'interno in merito alle richieste di asilo, tra le principali nazionalità dei richiedenti asilo, sia per il 2013 che per il 2014, non compare né la Siria né l'Eritrea, mentre da agosto 2013 a settembre 2014 le variazioni percentuali più consistenti, ossia l'aumento delle richieste di asilo, sono state registrate da Bangladesh (+615 per cento), Senegal (+556 per cento), Gambia (+508 per cento), mentre la Siria ha avuto un calo delle domande del 17 per cento e l'Eritrea del 76 per cento; con riguardo agli esiti delle domande, a luglio 2014, su 4.135 domande esaminate a 376 è stato riconosciuto lo status di rifugiato;
    a fronte dell'emergenza del virus Ebola, ormai arrivato in Europa, e del grave problema costituito dal rischio di infiltrazioni terroristiche, confermato dal Ministro dell'interno e aggravato anche dalle continue dichiarazioni dell'Isis, mentre gli altri Stati europei stanno attuando misure di controllo sempre più stringenti sugli ingressi nel proprio territorio, l'Italia è in totale controtendenza, poiché addirittura va a prendere in acque territoriali di altri Stati chiunque tenti di raggiungere l'Europa via mare e non ha più alcun controllo sul proprio territorio per le continue fughe dai centri di accoglienza e le tendopoli abusive che stanno sorgendo in numerose città;
    la Marina militare e le forze dell'ordine dovrebbero essere impiegate per proteggere i confini italiani e garantire il necessario controllo del territorio, e i cittadini devono essere tutelati dai rischi sanitari a cui vengono oggi esposti;
    anche il Ministro della salute, Beatrice Lorenzin, a fronte dei dati riportati dall'Organizzazione mondiale della sanità (secondo cui «dal dicembre 2013, quando l'epidemia è iniziata alla data di ieri 8 ottobre, sono 8.011 casi probabili, confermati e sospetti, e 3.877 decessi, con un tasso di letalità del 46 per cento nei Paesi dell'africa occidentale») ha dichiarato che «sono necessari più controlli alle frontiere»,

impegna il Governo:

   nelle more o in assenza di un intervento strutturale e strategico, coordinato a livello dell'Unione europea o a livello internazionale, per far fronte a condizioni di pericolo per la sicurezza del territorio nazionale, dovute all'eccezionale pressione migratoria verso l'Italia, anche attraverso l'utilizzo della normativa d'urgenza, ad adottare qualsiasi provvedimento o iniziativa idonea a:
    a) cessare immediatamente l'operazione cosiddetta Mare Nostrum, garantire il pattugliamento e il controllo dei confini, in particolare marittimi, anche mediante il rifiuto a partecipare alla missione Triton o a qualsiasi operazione o missione se non aventi tali finalità di disincentivo e divieto all'ingresso illegale nel nostro Paese;
    b) farsi promotore nelle più opportune sedi comunitarie della revisione del regolamento «Dublino III», senza rinunciare al principio di responsabilità degli Stati in materia di controllo dei flussi di ingresso, e contestualmente ripristinare le politiche di controllo dei confini, anche marittimi, e di contrasto all'immigrazione clandestina adottati dal Ministro dell'interno pro tempore Maroni, nonché, con riguardo al reato di cui all'articolo 10-bis del decreto legislativo n. 286 del 1998, assicurare per quanto di competenza la piena applicazione;
    c) assicurare la piena e immediata operatività dei già esistenti 13 centri di identificazione ed espulsione, prevedendone, nel caso, uno in ogni regione, e l'effettivo allontanamento o rimpatrio dei clandestini dal territorio nazionale, utilizzando le risorse del fondo per i rimpatri solo ed esclusivamente per le finalità stabilite dalla legge;
    d) tutela della sicurezza e della salute dei cittadini, adottare qualsiasi altra iniziativa o promuovere l'adozione di norme speciali per contrastare la pressione migratoria verso il nostro Paese anche in deroga ai trattati comunitari, internazionali e ad ogni disposizione vigente;
    e) concordare strategie comuni con i Paesi dell'Unione europea che si affacciano nel Mediterraneo, impiegando gli stessi strumenti di disincentivo dei flussi migratori via mare;
    f) farsi promotore in tutte le sedi competenti di una strategia europea comune per il contrasto del fenomeno emergenziale degli sbarchi di immigrati sulle coste del Mediterraneo europeo e, altresì, per la gestione di emergenze dovute ad eventi bellici, in coordinamento con le organizzazioni internazionali al fine di predisporre gli interventi più idonei e tempestivi nelle aree confinanti alle zone colpite dai conflitti armati.
(1-00618) «Matteo Bragantini, Molteni, Invernizzi, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Marcolin, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini, Simonetti».
(13 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo i dati Eurostat, 108.300 persone hanno chiesto asilo nei 28 Paesi dell'Unione europea nel primo trimestre del 2014, 24.320 in più rispetto allo stesso periodo del 2013 (+ 29 per cento). Nei primi 3 mesi del 2014, l'Italia ha avuto 10.700 richieste d'asilo, un dato molto superiore (+ 129 per cento) alle richieste registrate nel primo semestre del 2013;
    in particolare, secondo gli ultimi dati elaborati dall'Ufficio europeo di sostegno all'asilo (Easo, ottobre 2014), riguardanti i richiedenti asilo nel territorio dell’«UE+», cioè nei 28 Paesi dell'Unione europea più Svizzera e Norvegia, si conterebbero circa 50 mila richieste di asilo a giugno 2014, 60 mila a luglio 2014 e 58.500 ad agosto 2014, essendo Germania, Svezia, Italia e Francia, i Paesi che registrano il maggior numero di richiedenti (tali Paesi totalizzando insieme, ad agosto, il 62 per cento delle domande di protezione, praticamente due sue tre);
    solo ad agosto 2014, i richiedenti asilo siriani (circa 12.800) sono aumentati del 6 per cento rispetto a luglio 2014, quelli eritrei (6.350) del 21 per cento, mentre quelli ucraini (1.700 persone) del 32 per cento, con l'aumento percentualmente più elevato, i richiedenti fuggiti da questo Paese in Polonia, avendo per la prima volta dall'inizio della crisi in Ucraina superato quelli in Italia;
    secondo il rapporto annuale Global trends pubblicato dall'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), si assiste per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale ad un enorme aumento di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni, che in tutto il mondo sono circa 51 milioni di persone. E solo nel 2013 sono aumentati di sei milioni, passando dai 45,2 milioni del 2012 ai 51,2 milioni del 2013; sempre secondo lo stesso Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, questo rapido e significativo aumento è stato causato in larga misura dalla guerra civile in Siria, un disastro umanitario che da solo ha prodotto 6,5 milioni di sfollati interni e 2,5 milioni di rifugiati all'estero, e in secondo luogo dagli esodi forzati avvenuti nella Repubblica Centrafricana e in Sud Sudan;
    del totale di 51,2 milioni di persone sradicate a forza a livello globale, ci sono circa 33,3 milioni di sfollati interni, 16,7 milioni di rifugiati (i principali Paesi che li hanno accolti e se ne fanno carico come possono sono il Pakistan, 1,6 milioni, l'Iran, 857.000, e il Libano, 856.000) e infine 1,2 milioni di richiedenti asilo (il Paese che ha ricevuto il maggior numero di nuove domande d'asilo è la Germania);
    secondo stime dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel mondo sono circa un milione i rifugiati che avrebbero bisogno di reinsediamento, perché nei Paesi ospitanti, in genere confinanti con quelli d'origine, non trovano condizioni che rispettino il loro diritto a ricostruirsi una vita accettabile, o sono sopravvissuti a torture e violenze;
    l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, pur non costituendo obbligo internazionale, incoraggia fortemente i Paesi ricchi e le democrazie occidentali a farsi carico stabilmente di queste situazioni con quote annuali di reinsediati, ad oggi, su scala globale, trovando posto in questi programmi di accoglienza solo un decimo dei rifugiati che ne avrebbero diritto;
    attualmente l'Europa non riveste un ruolo significativo tra i Paesi attivi nei programmi di reinsediamento dei rifugiati. In particolare, l'Unione europea, per parte sua, offre appena cinquemila posti l'anno, l'8 per cento del totale mondiale; gli sforzi maggiori in questo campo sono compiuti da parte di Paesi, come Stati Uniti, Canada e Australia, che reinsediano annualmente nel proprio territorio circa 60 mila rifugiati, a fronte di un numero di soggetti in Europa che sfiora a malapena le cinquemila unità;
    il regolamento «Dublino III» – che sostituisce il cosiddetto regolamento «Dublino II» (regolamento n. 343 del 2003), che a sua volta innovava la Convenzione di Dublino del 1990 – contiene i criteri e i meccanismi per individuare lo Stato membro che è competente per l'esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo o apolide;
    all'interno del sistema europeo comune di asilo, il regolamento «Dublino III» è stato ampiamente discusso e criticato, non solo dal punto di vista delle conseguenze negative sulla vita dei richiedenti asilo, ma anche per la scarsa efficienza del sistema (COM 2008/820, 3 dicembre 2008); sono state evidenziate una serie di carenze per lo più connesse con il livello di protezione garantito ai richiedenti protezione internazionale soggetti alla «procedura Dublino», e con l'efficienza del sistema istituito dall'attuale quadro normativo, dal momento che appena il 25 per cento circa delle richieste di trasferimento in un altro Stato è stato poi seguito da un trasferimento effettivo;
    il principio generale alla base del regolamento «Dublino III» è lo stesso della vecchia Convenzione di Dublino del 1990 e di «Dublino II»: ogni domanda di asilo deve essere esaminata da un solo Stato membro e la competenza per l'esame di una domanda di protezione internazionale ricade in primis sullo Stato che ha svolto il maggior ruolo in relazione all'ingresso e al soggiorno del richiedente nel territorio degli Stati membri, salvo eccezioni (COM 2008/820, 3 dicembre 2008); la competenza è individuata attraverso i criteri «obiettivi» del regolamento, che lasciano uno spazio ridottissimo alle preferenze dei singoli e, quindi, molti dubbi in merito alla tutela dei diritti umani dei richiedenti asilo, laddove l'esercizio di un loro diritto fondamentale – quello a fare domanda di protezione internazionale – è subordinato ad un regolamento, che, in questo caso, non terrebbe pienamente conto di un principio generale universalmente garantito e sovraordinato nella gerarchia delle fonti del diritto, quale quello del rispetto dei diritti umani;
    pur non intaccando tale principio, «Dublino III» apporta comunque una serie di novità importanti e certamente apprezzabili (molte derivanti in realtà dalla giurisprudenza), in quanto in grado di attenuare parzialmente gli effetti negativi del sistema; è necessario, però, porre rimedio ai problemi alla base del «sistema Dublino», il cui impianto si regge su un presupposto non corrispondente al vero, ovvero che gli Stati membri costituiscano un'area con un livello di protezione omogeneo; le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo e i tassi di accoglimento di domande di protezione cambiano drammaticamente da un Paese all'altro;
    chi ottiene la protezione internazionale non ha poi la possibilità di lavorare regolarmente in un altro Stato dell'Unione europea; ciò significa che, salvo eccezioni, lo Stato che viene individuato dal «sistema Dublino» come competente ad esaminare la domanda, sarà poi anche lo Stato in cui l'interessato dovrà rimanere una volta ottenuta la protezione, non tenendo conto né delle aspirazioni dei singoli, né delle concrete prospettive di trovare un'occupazione nei diversi Paesi europei;
    il Governo italiano, per fronteggiare l'eccezionale afflusso di migranti, ha avviato nel 2013 l'operazione Mare Nostrum per il controllo e il pattugliamento del Canale di Sicilia;
    negli ultimi tempi si è verificata una consistente ripresa degli sbarchi di cittadini stranieri nelle coste italiane, nonché diversi incidenti culminati in tragici naufragi con centinaia di vittime tra i migranti;
    l'attuazione di Mare Nostrum comporta una spesa di oltre 9 milioni di euro al mese, con l'evidente necessità di un interessamento dell'Unione europea, per farsi carico in maniera più decisa della questione migratoria, sia ampliando e rafforzando il ruolo di Frontex, sia intervenendo affinché si assuma un impegno più diretto nelle operazioni volte al controllo della frontiera marittima;
    il 16 aprile 2014 il Ministro dell'interno ha svolto un'informativa urgente sull'ingente incremento del flusso di migranti e sulle misure da adottare per farvi fronte, evidenziando che l'azione di Frontex, l'agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne, costituirà un tema centrale nel semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea (luglio-dicembre 2014);
    l'intenzione è quella di fare in modo che l'agenzia Frontex assuma la regia ed il coordinamento non solo delle attività di pattugliamento del Mediterraneo, ma anche delle attività di cooperazione operativa con i Paesi di origine e di transito dei flussi;
    è evidente la necessità di rendere più efficace il sistema di accoglienza, che ha comportato l'incremento da dieci a venti del numero delle commissioni territoriali destinate alla funzione di velocizzazione dell'esame della decisione delle istanze di protezione internazionale;
    è stato di recente annunciato l'avvio dell'operazione Triton, che avrà inizio a novembre 2014 e che avrà un budget iniziale di 2,9 milioni di euro al mese (a fronte dei 9 milioni mensili spesi per Mare Nostrum);
    la Commissaria per gli affari interni Cecilia Malmström ha lanciato l'appello affinché gli altri Stati membri ascoltino la richiesta di Frontex per avere più attrezzature e ufficiali stranieri, dal momento che l'operazione Triton si estenderà 30 miglia oltre le acque territoriali, coprendo 18 miglia di acque internazionali, con l'obiettivo di unire le due operazioni di Frontex (l'agenzia dell'Unione europea per il controllo delle frontiere con sede a Varsavia) nel Mediterraneo, denominate Hermes (area di intervento: il Canale di Sicilia) e Aeneas (che interviene sul Mar Jonio davanti alle coste di Calabria e Puglia);
    il decreto-legge n. 119 del 2014, da ultimo approvato dalla Camera dei deputati e ora all'esame del Senato della Repubblica, sembra, tuttavia, seguire l'ottica di una prosecuzione dell'operazione italiana, dal momento che dispone nuovi finanziamenti per fronteggiare l’«eccezionale afflusso di stranieri sul territorio nazionale»;
    il decreto-legge n. 119 del 2014 provvede ad incrementare il fondo per i richiedenti asilo di 51 milioni di euro, mentre 9 milioni vengono destinati alle commissioni che devono vigilare sulle richieste d'asilo. Viene, inoltre, istituito ex novo un fondo di 62 milioni di euro per «fronteggiare la nuova emergenza», cioè, si suppone, rifinanziare Mare Nostrum o Frontex. I soldi vengono prelevati dal fondo per i rimpatri, ovvero quel capitolo di spesa creato per rimpatriare gli stranieri giunti illegalmente nel nostro territorio, rendendo, quindi, ancora più difficile espellere dal nostro Paese i clandestini;
    non è credibile la sostituzione di Mare Nostrum da parte di Triton, ma è evidente che questa svolgerà piuttosto un intervento di supporto all'operazione italiana, in quanto dispone di un numero più esiguo di mezzi navali rispetto alla Marina militare italiana e la sua «autonomia» si ferma a 30 miglia dalle coste italiane; non potranno, quindi, essere garantite le operazioni di salvataggio come fino ad ora gestite da Mare Nostrum, considerando, inoltre, che il personale della Marina militare italiana opera anche screening sanitari a bordo, che rappresentano un valido deterrente contro la diffusione delle epidemie (ebola e tubercolosi);
    il 23 ottobre 2013 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sui flussi migratori diretta a realizzare un approccio coordinato basato sulla solidarietà e sulla responsabilità e sostenuto da strumenti comuni a livello di Unione europea, anche al fine di evitare il ripetersi dei tragici eventi di Lampedusa;
    in vista del prossimo Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014, è opportuno che il nostro Paese metta in evidenza l'urgenza di definire una politica condivisa in materia di immigrazione e diritto d'asilo;
    l'individuazione di misure auspicabili volte a migliorare il sistema dell'accoglienza e di gestione dei richiedenti asilo in arrivo non può essere disgiunta dall'obiettivo ultimo di garantire agli stessi condizioni di vita dignitose, nell'auspicio che essi possano costruire in Europa un futuro alternativo in tutta sicurezza rispetto alle realtà da cui fuggono;
    in tal senso, vi è la ferma convinzione che si debba separare il problema dell'asilo da quello dell'immigrazione economica, per evitare che il sistema costruito dagli Stati membri per proteggere chi chiede asilo crolli sotto la pressione, comprensibile, di persone in cerca di accettabili livelli di benessere, ma non bisognose, in senso stretto, di protezione;
    alla luce del «sistema Dublino», per il quale, come già ricordato, risulta competente lo Stato membro attraverso il quale il richiedente ha fatto ingresso nel territorio dell'Unione europea, si pone con forza l'esigenza di equilibrare gli sforzi da parte di tutti i Paesi membri proprio nell'accoglienza dei profughi, cioè di coloro che fuggono da situazioni di violenza, auspicando, in tal senso, una revisione dei criteri per la determinazione dello Stato competente per l'esame della domanda di asilo, che non necessariamente coincide con quello nel cui territorio la domanda è stata presentata;
    alla prova dei fatti, tale sistema presenta almeno due innegabili difetti, rischiando, da un lato, di sovraccaricare gli Stati membri geograficamente più esposti al flusso di profughi (al momento, gli Stati meridionali dell'Unione europea), dall'altro, di ostacolare un'allocazione efficiente dei profughi, quale quella che invece si otterrebbe selezionando lo Stato membro competente in base alla ricettività del suo mercato del lavoro o delle reti di sostegno (parenti, amici) di cui un dato profugo potrebbe soggettivamente godere, nonché dell'effettiva volontà di integrarsi del rifugiato in un Paese che sia stato da lui/lei scelto e non imposto;
    ogni tentativo di riforma che intendesse correggere questi difetti dovrebbe essere accompagnato da una periodica determinazione della percentuale di profughi che ciascuno Stato membro sarebbe tenuto ad accogliere in base alla propria situazione economica e da meccanismi di compensazione (burden sharing) per quegli Stati membri che si trovino ad accogliere una percentuale di profughi superiore a quella loro spettante;
    secondo l'esperienza che in primis l'Italia continua a vivere, appare non più procrastinabile da parte dell'Unione europea la necessità di un cambio di strategia nel rispondere ai fenomeni in atto, caratterizzati da afflussi contingenti di profughi di intensità straordinaria, che seppure generalmente associati a situazioni di guerra o violenza generalizzata, chiamano in causa la capacità di intervento e di mobilitare risorse da parte di tutta l'Unione europea, non solo dei territori più esposti come Lampedusa o Malta;
    rispetto a questo obiettivo, la normativa europea già prevede, con la direttiva 2001/55/CE, che il Consiglio dell'Unione europea possa concedere protezione temporanea a determinati gruppi di persone, con distribuzione dei profughi tra i vari Stati membri in base alla disponibilità accordata da ciascuno Stato;
    l'istituzione di un regime di questo tipo potrebbe essere accompagnata (anche in base alle disposizioni della direttiva stessa) dalla creazione di corridoi umanitari, ossia da misure di evacuazione dei destinatari della protezione, senza che essi debbano affidarsi a trafficanti e scafisti per raggiungere il territorio dell'Unione europea;
    l'istituzione del regime di protezione temporanea non si pone affatto come una modalità emergenziale per il riconoscimento del diritto alla protezione, che resta invece regolato dalle norme a regime, essendo piuttosto da considerarsi come una misura complementare a quanto già previsto in relazione al riconoscimento del diritto a ottenere protezione quando si fugge da un conflitto o da una situazione di violenza generalizzata, un elemento fondamentale della normativa dell'Unione europea, la quale riconosce tale diritto come soggettivamente esigibile (senza che, quindi, gli Stati membri possano opporre alle corrispondenti richieste dinieghi fondati su considerazioni di sostenibilità economica), prevedendo che la richiesta di protezione possa essere presentata solo sul territorio di uno Stato membro;
    drammatiche notizie giungono dal continente africano riguardo all'espandersi del virus ebola, in considerazione del flusso continuo di decine di profughi i quali, raccolti in mare in condizioni disperate mediante operazioni di salvataggio, vengono, quindi, accolti sul territorio senza che i tempi e i mezzi a disposizione permettano uno screening efficace per accertare la presenza o meno del virus;
    la tutela della salute verso i nostri concittadini è da porre su un piano che non può essere considerato di livello inferiore rispetto a quello teso a garantire la tutela e l'accoglienza dei soggetti migranti in arrivo, e quindi debbono espletarsi tutte le procedure, gli sforzi e le iniziative necessarie a garantire che il territorio nazionale possa essere protetto dal rischio di un'epidemia del virus per via dell'accoglienza prestata ai migranti accolti, che attualmente risulta priva di garanzie in tal senso,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative a livello europeo per una rapida revisione del regolamento «Dublino III» affinché si preveda la compartecipazione di tutti gli Stati membri nelle attività di accoglienza e di identificazione dei migranti, superando l'attuale principio del «Paese di primo arrivo», anche al fine di garantire il diritto fondamentale dei richiedenti asilo di presentare domanda di protezione alle autorità del loro Paese di elezione;
   ad adoperarsi affinché il Consiglio europeo del 24 e 25 ottobre 2014 preveda l'applicazione di quanto previsto in caso di «afflusso massiccio di sfollati nell'Unione europea», con le modalità di concessione della protezione temporanea, secondo quanto previsto dalla direttiva 2001/55/CE, definendo quote di accoglienza per ciascuno Stato membro, anche al fine di garantire ai richiedenti asilo e protezione internazionale il diritto costituzionalmente garantito della libertà di circolazione;
   ad assumere iniziative per individuare modalità di identificazione dei beneficiari della protezione temporanea da parte dell'Unione europea anche con il concorso diretto dei Paesi di transito, per esempio, attraverso le delegazioni diplomatiche del servizio europeo per l'azione esterna e/o la rete diplomatico-consolare degli Stati membri, con il coinvolgimento delle organizzazioni internazionali e delle associazioni umanitarie;
   ad assumere iniziative per prevedere la possibilità di introdurre clausole politiche più flessibili per quel che attiene all'identificazione dello Stato membro competente per una domanda di asilo, permettendo anche ad altri Paesi membri, privi di tale competenza, di decidere di assumere comunque titolarità in tal senso, in presenza di condizioni specifiche (una clausola che è costantemente applicata dall'Italia per i minori non accompagnati richiedenti asilo provenienti da altri Paesi);
   a favorire uno sforzo europeo coordinato a beneficio di un maggior utilizzo delle politiche di reinsediamento (resettlement), nonché la promozione di strumenti volti ad assicurare meccanismi di maggiore solidarietà tra gli Stati e di migliore condivisione delle responsabilità fra tutti i Paesi membri, stante il contributo che un più diffuso utilizzo del resettlement potrebbe offrire in termini di soluzione durevole alle problematiche incontrate dai rifugiati (sia quelli presenti sul territorio dell'Unione europea, sia quelli posti al di fuori dei confini europei), garantendo loro piena libertà di circolazione e accesso a tutta l'Europa;
   ad assumere iniziative per individuare chiare modalità e costi dei trasferimenti, prevedendo l'obbligo, prima di un trasferimento, di scambiarsi dati (soprattutto sanitari) necessari a garantire assistenza adeguata, continuità della protezione e soddisfazione di esigenze specifiche, in particolare mediche;
   a promuovere un sistema che regoli la concessione del diritto di asilo secondo standard e procedure comuni in tutti i Paesi e il coordinamento nella raccolta delle domande dei richiedenti, per permettere agli aventi diritto di raggiungere i Paesi di accoglienza in modo sicuro, prevenendo ogni abuso del sistema con la presentazione di domande di asilo multiple da parte di una sola persona;
   ad assumere iniziative volte ad assicurare un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della concessione del diritto di asilo, tale da garantire la libertà di stabilimento del beneficiario in ogni Stato membro, prodromico all'istituzione del sistema europeo di accoglienza;
   a prevedere, al fine di garantire il diritto costituzionale alla salute dei cittadini, che non può essere certamente considerato inferiore al diritto di libertà di circolazione dei migranti, misure di controllo sanitario più stringenti nei confronti dei migranti e dei richiedenti asilo provenienti dai Paesi attualmente focolaio del virus ebola, quali Liberia, Sierra Leone e Nuova Guinea.
(1-00619) «Brunetta, Ravetto, Bergamini, Centemero».
(13 ottobre 2014)


MOZIONI CONCERNENTI L'ACCORDO DI PARTENARIATO PER IL COMMERCIO E GLI INVESTIMENTI TRA UNIONE EUROPEA E STATI UNITI D'AMERICA NOTO COME TRANSATLANTIC TRADE AND INVESTMENT PARTNERSHIP (TTIP)

   La Camera,
   premesso che:
    il 14 giugno 2013 il Consiglio europeo ha accordato alla Commissione europea il mandato per negoziare, a nome dell'Unione europea, l'accordo di partenariato economico-finanziario noto come Transatlantic trade and investment Partnership (TTIP) considerato «il più importante accordo di libero scambio del mondo e della storia» che, ad opinione di molti, viene considerato una «Nato economica», per enfatizzare il ruolo egemone degli Stati Uniti nell'organizzazione del Patto atlantico;
    le condizioni per la creazione di una zona di libero scambio vennero poste già nel 2007 con l'istituzione di un Consiglio economico transatlantico, un anno prima dello scoppio della bolla speculativa che ha aperto la strada alla crisi finanziaria e all'attuale depressione economica; ciò, considerato alla luce delle recenti indiscrezioni che vedrebbero la Federal Reserve intenzionata ad avviare una stretta monetaria – i cui effetti provocherebbero un rialzo dei tassi di interesse statunitensi generando un consistente afflusso di dollari dal resto del mondo agli Usa – renderebbe verosimile la possibilità dell'adozione del dollaro come moneta unica europea quale provvidenziale soluzione all'ormai irreversibile crisi dell'euro;
    già da tempo gli Stati Uniti si sono impegnati a migliorare gli accessi per incentivare gli scambi con l'Unione europea che offre un mercato di oltre 500 milioni di persone, con particolare riguardo ai comparti manifatturiero, dell'agricoltura e dei servizi a conferma delle tesi che ritengono il TTIP un accordo disegnato a misura degli interessi dell'economia americana;
    si legge nell’executive order n. 13534 del marzo 2010, firmato dal Presidente americano Barack Obama, che gli Stati Uniti si sono impegnati a migliorare gli accessi per gli scambi oltreoceano relativi alla propria manifattura, agricoltura e servizi ed è pertanto plausibile sostenere che il TTIP sia disegnato a misura degli statunitensi, dove l'Unione europea è puramente subordinata alle loro scelte;
    le trattative per la conclusione del TTIP si svolgono nel più assoluto segreto; anche i documenti elaborati nei vari incontri che si sono susseguiti sono e saranno secretati; infatti, nessuna bozza o schema è uscito dalle trattative sul TTIP tra Stati e multinazionali, mentre le popolazioni e le organizzazioni sociali vengono tenute rigorosamente all'oscuro e fuori da ogni processo decisionale e nel silenzio complice dei grandi media;
    il 4o round del negoziato Ue-Usa si è svolto il 26 marzo 2014, mentre quello successivo è previsto a Washington prima dell'estate. Sul sito dell'Unione europea si legge che lo scopo dell'accordo è quello di «aumentare lo scambio delle merci, eliminando dazi e barriere commerciali», una deregulation insomma, tramite tre obiettivi: accesso ai mercati, allineamento delle regole e norme in materia di commercio per la globalizzazione;
    il Ministero Usa del commercio con l'estero ha proseguito i nuovi negoziati del TTIP ad Arlington, nello Stato della Virginia, nei giorni dal 19 al 23 maggio 2014; nella settimana precedente alle elezioni europee, nell'intento di aumentare il consenso alle trattative a partire da Francia e Germania, all'idea della necessità di ulteriori liberalizzazioni, il Commissario europeo al commercio De Gucht ha aperto per tre settimane una consultazione online sul sito della Commissione europea per acquietare quella parte dell'opinione pubblica che lo accusa di scarsa trasparenza nel negoziato e ha iniziato una marcia forzata di incontri con imprese e istituzioni competenti;
    il timore per il nostro Paese è più che lecito, poiché basta chiedere ai piccoli imprenditori e agricoltori, che sono la maggior parte in Italia, se l'attuale globalizzazione li ha favoriti; infatti, saranno coinvolti i prodotti agroalimentari e industriali, il mercato dei servizi come il trasporto e la liberalizzazione degli investimenti privati, che coinvolgeranno anche gli appalti pubblici, sicurezza ambientale e alimentare, dei farmaci, dei diritti di proprietà intellettuale;
    il Ministero dello sviluppo economico ha commissionato nel 2013 a Prometeia spa una prima valutazione d'impatto per l'Italia, da cui si evince che i primi benefici delle liberalizzazioni si manifesterebbero nell'arco di tre anni dall'entrata in vigore dell'accordo, immaginando il 2018 quale data più vicina, con un aumento del prodotto interno lordo dello 0,5 per cento nel migliore dei casi; secondo l'Ice solo le prime 10 imprese italiane, su 210 mila, monopolizzano oltre il 70 per cento dell’export italiano, quindi alle piccole imprese, se non già inserite nelle filiere globali, il trattato non risulta dare vantaggi, piuttosto potrebbero non sopravvivere allo shock, mentre le grandi imprese, che già sono ben inserite nel mercato globale, esportando grazie molto spesso alle esternalizzazioni di parti dell'impresa fuori dal territorio italiano, non risultano necessitare del trattato;
    erroneamente si ritiene che per l'Italia l'interesse strategico assoluto sia la riduzione massima delle barriere commerciali, quali i dazi, al fine di avere più aperture di mercato possibili, come se l'apertura dei mercati fosse la panacea per risolvere una situazione di crisi creata dallo stesso sistema economico neoliberista, che promuove, ad esempio, la gestione privatistica di beni e servizi essenziali i cui risultati fallimentari sono ben visibili, essendo l'interesse privatistico unicamente il raggiungimento dell'utile a fine anno e non la fornitura del bene o servizio a fini sociali; l'aumento del prodotto interno lordo può tradursi, a questo punto, nella distruzione di interi settori produttivi italiani, quali la manifattura e la piccola e media trasformazione, i presidi dop e igp;
    sulla natura di tale accordo viene affermato, tra l'altro, che potrebbe far aumentare l'economia europea di 120 miliardi di euro, considerazione frutto di studio che è stato commissionato da un ente, il Center for economic policy research (Cepr) di Londra che, secondo i firmatari del presente atto di indirizzo, non sembra risultare del tutto indipendente;
    sul sito dell’Economic and social research Council, si legge che il Center for economic policy research è finanziato dalla Banca d'Inghilterra, dalla Fondazione Rockfeller, dalla Banca del Canada e di Israele, dalla Banca centrale europea, dall’Alpha Bank, dalla Barclais, dal Citigroup, dal Credit Suisse, dall’Intesa San Paolo, dal gruppo Santander, da JP Morgan e altre banche e con i fondi del MES. Il Center for economic policy research è presieduto da Guillermo De La Dehesa, membro del «gruppo dei trenta» del comitato esecutivo del Banco Santander e consulente internazionale di Goldman Sachs. Alcuni ricercatori del Center for economic policy research risulta che lavorino per la Rockfeller foundation e la Banca mondiale. Il capo progetti del dossier del TTIP elaborato dal Center for economic policy research è Jospeh François economista di Linz (Austria) con cittadinanza statunitense e ha lavorato per l’International trade commission degli Stati Uniti, occupandosi degli accordi Nafta, Gatt E Wto;
    è logico considerare che il TTIP sia lontano dall'essere un progetto neutrale, la zona euro-americana di libero scambio legherebbe in maniera definitiva le sorti dell'Europa e dell'euro a quelle degli Stati Uniti e del dollaro, limitando la residua autonomia di un'Unione europea sempre meno integrata al suo interno e rischia di sfociare in un'annessione totale dell'Europa ai dettami finanziari e commerciali di Washington;
    il paventato rialzo dei tassi di interesse americani non sarebbe senza implicazioni per la politica monetaria nell'eurozona e imporrebbe alla Banca centrale europea di scegliere se svalutare l'euro o elevare il saggio di sconto, spingendo verso la bancarotta alcuni degli Stati periferici come l'Italia;
    sul piano strettamente economico giova rilevare che mentre il mercato unico, quantomeno nelle intenzioni, ha l'obiettivo di creare un'omogeneità di regolamentazione senza precedenti, volta ad assicurare ai cittadini europei uguali condizioni di partenza per l'esercizio dell'attività imprenditoriale, quello statunitense è frutto di anni di deregulation e i nostri operatori economici si troveranno a competere con concorrenti americani in un quadro caratterizzato dalla compresenza di assetti legislativi differenti, poiché difficilmente i negoziatori europei riusciranno a persuadere i colleghi d'oltreoceano sulla bontà delle pesanti normative in vigore nell'Unione europea. Inoltre, le regole e gli standard europei in termini di tutela della salute e delle condizioni di lavoro, come è noto più restrittivi in Europa rispetto agli Stati Uniti, riescono a tenere lontani dai nostri mercati alcuni prodotti non sicuri o tossici (cibi geneticamente modificati e trattati con nanoparticelle di vetro per aumentarne la croccantezza, residui di pesticidi nel cibo, ftalati nei giocattoli, carne agli ormoni, solo per fare qualche esempio), ma la preoccupazione di una concessione alle multinazionali di porsi al di sopra dei bisogni delle persone e di sfruttare in maniera incontrollata risorse naturali fondamentali come l'acqua, il suolo, i minerali rimane forte;
    l'Unione europea, attraverso il TTIP, potrebbe imporre con maggiore facilità le politiche di austerità e di smantellamento delle politiche sociali, inizialmente introdotte in modo forzoso a causa della crisi del debito pubblico, fino alla completa privatizzazione anche dei servizi essenziali alla persona;
    in particolare, relativamente al comparto agricolo, per il quale i fautori dell'accordo vantano benefici a doppio senso, in considerazione delle enormi barriere tariffarie esistenti, le preoccupazioni maggiori riguardano le importazioni di organismi geneticamente modificati, posto che gli Usa cercano sbocchi per grano e soia, e, in assenza di opportune salvaguardie, il rischio di chiusura di molte piccole aziende, in quanto la frammentazione della proprietà agraria che caratterizza il continente europeo comporta un'impari competizione con i grandi farmer statunitensi;
    si rileva l'esautorazione dei tribunali nazionali in caso di dispute legali, in quanto l'accordo prevede, infatti, l'inclusione dell’Investor State dispute settlement (ISDS), uno strumento che consentirebbe a un soggetto privato di denunciare un Governo per i mancati profitti derivanti da politiche sociali; per fare un esempio, accordi simili hanno fatto sì che la Philip Morris stia chiedendo il risarcimento ai Governi uruguaiano e australiano per le politiche di restrizione del fumo a tutela della salute; ciò, unitamente all'esautorazione dei tribunali nazionali nella risoluzione di dispute legali che verranno risolte da un organismo terzo, come già avviene con i panel dell'Organizzazione mondiale del commercio, metterebbe a rischio la tutela ambientale e sociale garantita dalla legislazione europea, di gran lunga più garantista per i cittadini di quanto non lo sia quella statunitense;
    è assolutamente necessario, dunque, sviluppare la dovuta informazione sul significato di tale tipo di scenario per la società, l'ambiente e la democrazia; a questo proposito, infatti, va evidenziato che sul sito della Commissione europea è disponibile il questionario per la consultazione informale sul TTIP, ma nessuna campagna informativa è stata promossa dai Ministeri competenti per i cittadini e le associazioni interessate; tutto questo mentre la legge n. 234 del 2012, recante «Norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa delle politiche dell'Unione europea», prevede che il Governo debba obbligatoriamente rendere conto di tutte le riunioni e delle iniziative che avvengono nell'ambito dell'istituzione dell'Unione europea, compresi i negoziati per i trattati,

impegna il Governo:

   a riferire periodicamente al Parlamento in merito agli sviluppi delle trattative e, nell'ottica di una più ampia partecipazione democratica, a valutare l'opportunità di indire un referendum di indirizzo;
   ad intervenire presso le competenti sedi comunitarie affinché:
    a) si rivedano i termini dell'accordo al fine di escludere qualsiasi intesa che di fatto limiti la portata delle leggi della Repubblica italiana e, in particolare, si riconsideri il meccanismo di composizione delle controversie tra investitori e Stati, escludendo la previsione di un organismo terzo rispetto ai tribunali tradizionali;
    b) il partenariato si articoli su assetti legislativi quanto più omogenei e preveda forti tutele per l'agricoltura comunitaria;
    c) siano esclusi dall'ambito dell'accordo i beni fondamentali, quali la gestione del servizio idrico integrato e i servizi pubblici locali, le materie di carattere sanitario, fitosanitario e di conservazione ambientale, al fine di mantenere l'attuale sistema di tutela dei diritti sociali e del lavoro, nonché la preservazione dei beni comuni, quali acqua e terra/cibo, e le garanzie di accesso ai servizi essenziali;
    d) si svolgano adeguate consultazioni pubbliche attraverso l'attivazione di tavoli di lavoro partecipati volti a informare e coinvolgere i cittadini, le associazioni e la società civile in merito alle ragioni e agli effetti di un tale accordo e alle conseguenze che esso avrebbe sui rapporti politici e diplomatici con gli altri partner commerciali, quali i cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica);
    e) si introducano adeguati meccanismi di salvaguardia degli interessi produttivi degli Stati membri, in particolare di quelli dell'area mediterranea, qualora la Banca centrale europea decidesse di innalzare i tassi di interesse dell'eurozona, posto che il mantenimento di un obiettivo di cambio con il dollaro in rivalutazione genererebbe insormontabili difficoltà per le finanze pubbliche nazionali;
   a richiedere, a norma dell'articolo 218 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea una volta concluso l'accordo, il parere della Corte di giustizia dell'Unione europea circa la compatibilità delle disposizioni in esso contenute con quanto disposto dai Trattati, con particolare riferimento al meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitore e Stato.
(1-00490) (Nuova formulazione) «Gallinella, Daga, Sibilia, Agostinelli, Alberti, Artini, Baldassarre, Barbanti, Baroni, Basilio, Battelli, Bechis, Benedetti, Massimiliano Bernini, Paolo Bernini, Nicola Bianchi, Bonafede, Brescia, Brugnerotto, Businarolo, Busto, Cancelleri, Cariello, Carinelli, Caso, Castelli, Cecconi, Chimienti, Ciprini, Colletti, Colonnese, Cominardi, Corda, Cozzolino, Crippa, Currò, Da Villa, Dadone, Dall'Osso, D'Ambrosio, De Lorenzis, De Rosa, Del Grosso, Della Valle, Dell'Orco, Di Battista, Di Benedetto, Luigi Di Maio, Manlio Di Stefano, Di Vita, Dieni, D'Incà, D'Uva, Fantinati, Ferraresi, Fico, Fraccaro, Frusone, Gagnarli, Luigi Gallo, Silvia Giordano, Grande, Grillo, Cristian Iannuzzi, L'Abbate, Liuzzi, Lombardi, Lorefice, Lupo, Mannino, Mantero, Marzana, Micillo, Mucci, Nesci, Nuti, Parentela, Pesco, Petraroli, Pinna, Pisano, Prodani, Rizzetto, Rizzo, Paolo Nicolò Romano, Rostellato, Ruocco, Sarti, Scagliusi, Segoni, Sorial, Spadoni, Spessotto, Terzoni, Tofalo, Toninelli, Tripiedi, Turco, Vacca, Simone Valente, Vallascas, Vignaroli, Villarosa, Zolezzi».
(9 giugno 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP, Transatlantic trade and investment partnership) è un trattato di libero scambio e investimento, che l'Unione europea e gli Stati Uniti stanno attualmente negoziando;
    i negoziati sono stati avviati ufficialmente il 17 giugno 2013. Si segnala che il 9 ottobre 2014 il Consiglio europeo ha deciso di rendere pubblico il testo del mandato negoziale e, a tal fine, si è aperta una consultazione organizzata dal mediatore europeo, l'irlandese Emily ÒReilly, con cui i soggetti interessati possono dare suggerimenti sulle misure concrete che la Commissione europea dovrebbe intraprendere per rendere più trasparenti i negoziati sul TTIP. Tuttavia, in attesa dell'effettiva desecretazione degli atti, ad oggi non ancora attuata, dai documenti man mano emersi nell'ambito della discussione circa i diversi round, emerge il forte rischio che un trattato di questo tipo, mirando ad un'armonizzazione delle normative, quindi a un abbattimento delle regolamentazioni tra le due aree, porti ad un allentamento della normativa europea, solitamente più rigida, appiattendola ai livelli di quella statunitense;
    si sono avute numerose previsioni sugli effetti economici del Transatlantic trade and investment partnership. La stima citata più frequentemente proviene da una relazione di valutazione d'impatto, commissionata dalla Commissione europea al Centre for economic policy research di Londra. Secondo questa, l'ipotesi più ottimista per l'effetto di un accordo tra Unione europea e Stati Uniti afferma che il prodotto interno lordo dell'Unione europea aumenterebbe dello 0,5 per cento entro il 2027 (in media lo 0,036 per cento in un anno);
    gli Stati Uniti non hanno ratificato diverse convenzioni Ilo e Onu in materia di diritti del lavoro, diritti umani e ambiente. La mancata ratifica di dette convenzioni rende, negli Stati Uniti, il costo del lavoro più basso e il comportamento delle imprese nazionali più disinvolto e competitivo, in termini puramente economici, anche se più irresponsabile. La ratifica e la piena attuazione delle norme fondamentali del lavoro dell'Organizzazioni internazionale del lavoro dovrebbe rappresentare una delle condizioni fondamentali dell'accordo; tuttavia, i negoziati sembra vadano nella direzione opposta;
    per quanto attiene alla perdita di posti di lavoro, effetto collaterale solitamente inevitabile di accordi di libero scambio, la Commissione europea ha confermato la possibilità che il Transatlantic trade and investment partnership favorisca per i lavoratori europei un ricollocamento «dilazionato nel tempo ed effettivo», poiché le aziende verrebbero incoraggiate a procurarsi merci e servizi dagli Stati Uniti dove gli standard di lavoro sono più bassi e i diritti sindacali pressoché inesistenti («Impact assessement report on the future of EU-US trade relations», Strasburgo: Commissione europea, 12 marzo 2013, sezione 5.9.2.);
    in una fase in cui i tassi di disoccupazione in Europa hanno raggiunto livelli-record, con una disoccupazione giovanile in alcuni Stati membri dell'Unione europea che supera il 50 per cento, la Commissione europea ammette «timori fondati» che i lavoratori rimasti disoccupati a seguito del trattato Transatlantic trade and investment partnership non saranno più in grado di trovare un'altra occupazione. Al fine di offrire assistenza all'elevato numero di nuovi disoccupati, la Commissione europea ha suggerito agli Stati membri dell'Unione europea di ricorrere a fondi di sostegno strutturali, come il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione e il Fondo sociale europeo, cui sono stati assegnati 70 miliardi di euro da distribuire nell'arco di sette anni, dal 2014 al 2020;
    molti contadini e consumatori sono preoccupati per un allentamento degli standard ambientali e sul trattamento degli animali, che regolano, ad esempio, le condizioni di vita negli allevamenti in batteria e in altre strutture per la produzione industriale di carne. Al momento, in Europa è possibile incoraggiare i contadini ad allevare gli animali in condizioni accettabili e a produrre per il mercato locale. Se il trattato di libero scambio andasse in porto, si sarebbe, invece, soggetti alle regole del mercato globale ed è risaputo: al mercato globale non importa più di tanto della protezione degli animali e dell'ambiente;
    la minaccia maggiore del Transatlantic trade and investment partnership è costituita probabilmente dalla clausola in esso contenuta che cerca di garantire alle società transnazionali il diritto di citare in giudizio direttamente i singoli Paesi per perdite subite in conseguenza a provvedimenti pubblici. Considerando le implicazioni che comporta, tale disposizione per la «risoluzione delle controversie tra stato e investitori» (Isds, Investor-State dispute settlement) non ha equivalenti nel diritto commerciale internazionale: il Transatlantic trade and investment partnership concederebbe alle imprese americane ed europee il potere di impugnare le decisioni democratiche prese da Governi sovrani e di chiedere risarcimenti nei casi in cui quelle decisioni avessero effetti negativi sui propri utili;
    nei Paesi in cui la Isds è già stata inclusa in trattati d'investimento bilaterali o altri accordi di libero scambio, i danni arrecati allo stato di diritto e alla democrazia sono ormai sotto gli occhi di tutti. Tra gli esempi più rilevanti si citano:
     a) la società energetica svedese Vattenfall sta facendo causa al Governo tedesco per 3.700 milioni di euro per via della decisione presa dal Paese di eliminare gradualmente l'energia nucleare a seguito del disastro nucleare di Fukushima;
     b) il gigante del tabacco americano Philip Morris sta facendo causa per migliaia di miliardi di dollari al Governo australiano per via della sua politica di sanità pubblica che impone la vendita di sigarette solo in pacchetti senza scritte; la Philip Morris ha citato in giudizio anche l'Uruguay a causa delle misure imposte da questo Stato nella lotta contro il fumo;
    l'accordo dovrebbe, inoltre, obbligare l'apertura o la liberalizzazione degli appalti pubblici a livello subnazionale, compreso il livello comunale. I governi locali rischiano, di conseguenza, di non poter far valere qualsiasi criterio sociale e ambientale nell'impiego di denaro pubblico a sostegno dello sviluppo economico locale sostenibile;
    il secondo pilastro del TTIP riguarda la realizzazione di una maggiore convergenza tra standard e regolamentazioni in molti settori. Tra questi, le maggiori divergenze sono distribuite tra istanze di tipo generale che riguardano vari settori dell'economia e problemi relativi a divergenze di approccio in settori chiave come i prodotti chimici e farmaceutici, le telecomunicazioni, la cultura e i servizi finanziari. Per quanto riguarda i temi generali, le maggiori divergenze in termini di approccio regolamentare sono riscontrabili in tre aree: la legislazione in tema di proprietà intellettuale, gli standard sull'approvazione di prodotti che possono avere effetto sulla salute e la protezione dei dati personali. Più nello specifico, nel campo della proprietà intellettuale l'Unione europea ha compiuto importanti passi con l'approvazione del brevetto unitario, ma permangono importanti divergenze con gli Stati Uniti, dove il concetto di denominazione d'origine appare pressoché sconosciuto, mentre nell'Unione europea esso viene utilizzato come baluardo delle tradizioni locali e garanzia di non appropriazione da parte di Paesi terzi. Come conseguenza, la Commissione europea vorrebbe stabilire un registro delle denominazioni di origine che abbia effetto vincolante, mentre gli Usa propendono per un sistema di registrazione puramente volontario e senza effetti cogenti; questo fattore andrebbe ad incidere sulla mancata armonizzazione legislativa e commerciale fra i due continenti;
    quanto ai temi settoriali, i principali problemi sono riscontrabili nei settori dei prodotti farmaceutici, chimici e cosmetici, nel settore alimentare, che rappresenta gran parte dei negoziati, e più in generale, in tutti i settori in cui la regolamentazione mira a garantire la sicurezza dei prodotti. In questi settori, l'Unione europea si affida al cosiddetto principio di precauzione e al controllo amministrativo e sostanziale ex ante nel determinare l'accesso al mercato di prodotti innovativi, come i novel food o gli organismi geneticamente modificati (ogm), mentre gli Stati Uniti prediligono un approccio basato sui costi e i benefici e sul controllo ex post. Ciò soprattutto alla luce del fatto che nell'ambito della negoziazione è emerso come gli Stati Uniti appaiono interessati a vendere una quota maggiore dei loro prodotti agricoli di base, quali il frumento e la soia, obiettivi che mettono in seria discussione la salute dei cittadini europei, nonostante il ribadire della Commissione europea che sottolinea come le norme fondamentali, come quelle in materia di organismi geneticamente modificati, o in difesa della vita e della salute umana, della salute e del benessere degli animali o dell'ambiente e degli interessi dei consumatori, non rientreranno nei negoziati. Quest'ultimo assunto sarà difficile da rispettare, considerando il fatto che proprio il frumento e la soia, alimenti fondamentali nel settore del mangime animale, siano fortemente esposti all'alto contenuto di organismi geneticamente modificati, soprattutto quelli di derivazione americana; inoltre, circa i sistemi di controllo fra i due continenti vi è la fondamentale differenza: mentre in Europa il controllo è fatto ex ante, negli Usa è fatto ex post; questa differenza non è pertanto in grado di mantenere l'obiettivo dichiarato della Commissione europea di salvaguardare la salute dei cittadini e di lasciare fuori dalle norme fondamentali del trattato proprio gli organismi geneticamente modificati che, al contrario, rischiano di essere immessi nella nostra catena alimentare, andando ad alterare la difesa della biodiversità sulla quale si basa prevalentemente il prodotto alimentare made in Europe,

impegna il Governo:

   a richiedere alla Commissione europea il pieno accesso ai documenti negoziali per i Parlamenti nazionali, data l'incidenza del loro contenuto sulle normative nazionali in essere anche in ambito non strettamente commerciale;
   ad istituire un meccanismo efficace di trasparenza e di consultazione in itinere del Parlamento, delle parti sociali e della società civile sui negoziati commerciali in corso a livello bilaterale, plurilaterale e multilaterale;
   a promuovere in sede europea un'azione contro la proliferazione di accordi commerciali di nuova generazione, che travalicano gli ambiti di stretta competenza commerciale, così come previsto dall'articolo 207 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, e minacciano di indebolire i principi più elementari della democrazia, tanto nell'Unione europea che negli Stati Uniti;
   ad assumere le opportune iniziative affinché siano mantenuti inalterati il principio di precauzione e gli standard qualitativi e di sicurezza sui prodotti immessi nei mercati europei e a non approvare alcun trattato sia nel vicino sia nel lontano futuro che preveda un sistema simile o analogo a quello dell’Investor-State dispute settlement (Isds) enucleato in premessa.
(1-00558) (Nuova formulazione) «Kronbichler, Scotto, Fratoianni, Palazzotto, Pannarale, Airaudo, Franco Bordo, Costantino, Duranti, Daniele Farina, Ferrara, Giancarlo Giordano, Marcon, Matarrelli, Melilla, Nicchi, Paglia, Pellegrino, Piras, Placido, Quaranta, Ricciatti, Sannicandro, Zaratti, Zaccagnini».
(23 luglio 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il 9 ottobre 2014, il Consiglio dell'Unione europea ha proceduto alla declassificazione delle «Direttive di negoziato sul Partenariato transatlantico per gli scambi e gli investimenti tra l'Unione europea e gli Stati Uniti d'America», cioè del mandato sulla cui base lo stesso Consiglio aveva autorizzato la Commissione europea, il 14 giugno 2013, ad avviare e sviluppare il negoziato bilaterale con gli Stati Uniti d'America;
    l'analisi delle sopradette «Direttive» conferma, anzitutto, che l'obiettivo dello sviluppo del partenariato transatlantico sugli scambi e sugli investimenti – ovvero di una reciproca liberalizzazione degli scambi di beni e servizi, attraverso un accordo concernente accesso al mercato, ostacoli non tariffari e questioni normative, che si traduca in «un risultato equilibrato tra la soppressione dei dazi, l'eliminazione di inutili ostacoli normativi agli scambi e il miglioramento normativo» – assume a suo fondamento «principi e valori comuni coerenti con i principi e gli obiettivi dell'azione esterna dell'Unione»;
    al riguardo, le «Direttive» prevedono che il preambolo dell'accordo «dovrà contenere, tra l'altro, i seguenti richiami: i valori condivisi in aree come i diritti umani, le libertà fondamentali, la democrazia e lo stato di diritto; l'impegno delle Parti a favore dello sviluppo sostenibile e il contributo del commercio internazionale allo sviluppo sostenibile per quanto riguarda i suoi aspetti economici, sociali e ambientali, inclusi lo sviluppo economico, l'occupazione piena e produttiva e il lavoro dignitoso per tutti, nonché la tutela e la conservazione dell'ambiente e delle risorse naturali; l'impegno delle Parti per la conclusione di un accordo pienamente coerente con i loro diritti e obblighi derivanti dall'OMC e favorevole al sistema di scambi multilaterali; il diritto delle Parti di prendere le misure necessarie per realizzare obiettivi legittimi di politica pubblica in base al livello di tutela della salute, della sicurezza, dei lavoratori, dei consumatori, dell'ambiente e della promozione della diversità culturale sancita dalla convenzione dell'UNESCO sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali, che esse ritengono appropriato; l'obiettivo, che le Parti condividono, di tenere conto dei problemi specifici che le piccole e medie imprese devono affrontare quando partecipano allo sviluppo degli scambi commerciali e degli investimenti; l'impegno delle Parti di comunicare con tutte le altre parti interessate, compresi il settore privato e le organizzazioni della società civile»;
    conseguentemente, le «Direttive» indicano, in sede di «obiettivi», che «l'accordo deve riconoscere che lo sviluppo sostenibile costituisce un obiettivo essenziale delle Parti, le quali intendono anche garantire e facilitare il rispetto degli accordi e delle norme internazionali in materia ambientale e del lavoro promuovendo, nel contempo, elevati livelli di tutela dell'ambiente, del lavoro e dei consumatori, coerenti con l’acquis dell'Unione europea e la legislazione degli Stati membri. L'accordo deve riconoscere che le Parti non promuoveranno gli scambi o gli investimenti diretti esteri rendendo meno severe la legislazione e le norme nazionali in materia di ambiente, lavoro, salute e sicurezza sul lavoro o meno rigide le politiche e le norme fondamentali del lavoro o le disposizioni legislative finalizzate alla tutela e alla promozione della diversità culturale»;
    pertanto, per quel che riguarda gli scambi di merci, le «Direttive» segnalano che «l'obiettivo è sopprimere tutti i dazi sugli scambi bilaterali, con lo scopo comune di raggiungere una sostanziale eliminazione delle tariffe al momento dell'entrata in vigore dell'accordo e una graduale abolizione di tutte le tariffe, salvo quelle più sensibili, in un breve arco di tempo» e, quanto alle norme di origine, che «i negoziati mireranno a conciliare l'approccio dell'UE e degli Stati Uniti in materia di norme di origine in modo da facilitare il commercio tra le Parti e tenere conto delle norme di origine dell'UE e degli interessi dei produttori dell'Unione», prevedendo comunque «una clausola sulle misure antidumping e compensative, la quale riconosca che una qualsiasi delle Parti può prendere le misure appropriate contro il dumping e/o sovvenzioni compensative (...)», nonché «una clausola di salvaguardia bilaterale che consenta ad una qualsiasi delle parti di rimuovere, in parte o integralmente, le preferenze se l'aumento delle importazioni di un prodotto proveniente dall'altra Parte arreca o minaccia di arrecare un grave pregiudizio alla sua industria nazionale»;
    quanto agli scambi di servizi, le «Direttive» annotano che «i negoziati sugli scambi devono tendere a vincolare l'esistente livello autonomo di liberalizzazione di entrambe le Parti al livello di liberalizzazione più elevato raggiunto dagli attuali accordi di libero scambio (...)», fermo restando che la Commissione europea «deve inoltre provvedere affinché nessuna disposizione dell'accordo vieti alle Parti di applicare le loro disposizioni legislative e regolamentari e le condizioni concernenti l'ingresso e il soggiorno purché queste ultime non annullino o compromettano i vantaggi derivanti dall'accordo»;
    restano, inoltre, «applicabili le disposizioni legislative e regolamentari e le condizioni dell'UE e degli Stati membri in materia di lavoro» e «l'elevata qualità dei servizi pubblici dell'UE deve essere preservata conformemente al TFUE e, in particolare, al protocollo n. 26 sui servizi di interesse generale e tenendo conto dell'impegno dell'UE in tale settore, compreso il GATS»;
    sul versante della tutela degli investimenti, ancora, le «Direttive» assumono, quale obiettivo dei negoziati, «disposizioni sulla liberalizzazione e sulla tutela degli investimenti, inclusi i settori di competenza mista quali gli investimenti di portafoglio e gli aspetti della proprietà e dell'esproprio, in base ai livelli più elevati di liberalizzazione e agli standard di tutela più alti che entrambe le Parti abbiano negoziato finora», precisando, altresì, che «previa consultazione con gli Stati membri e conformemente ai trattati UE, l'inclusione della tutela degli investimenti e della risoluzione delle controversie tra investitore e Stato (ISDS) dipenderà dall'eventuale raggiungimento di una soluzione soddisfacente rispondente agli interessi dell'UE (...)», anche in riferimento al non pregiudizio del diritto dell'Ue e degli Stati membri «di adottare e applicare, conformemente alle loro rispettive competenze, le misure necessarie al perseguimento non discriminatorio di legittimi interessi di politica pubblica negli ambiti sociale, ambientale, della sicurezza nazionale, della stabilità del sistema finanziario, della salute pubblica e della sicurezza»;
    in materia, poi, di appalti pubblici «l'accordo deve essere volto a rafforzare l'accesso reciproco ai mercati degli appalti pubblici a ogni livello amministrativo (nazionale, regionale e locale) e a quello dei servizi pubblici, in modo da applicarsi alle attività pertinenti delle imprese operanti in tale campo e garantire un trattamento non meno favorevole di quello riconosciuto ai fornitori stabili in loco», perseguendo una «compatibilità normativa», che tuttavia «non deve pregiudicare il diritto di legiferare conformemente al livello di tutela della salute, della sicurezza, dei consumatori, del lavoro, dell'ambiente e della diversità culturale che ogni Parte ritiene appropriato o di realizzare in altro modo obiettivi normativi legittimi»;
    i negoziati, in particolare, «mireranno a prevedere una protezione rafforzata e il riconoscimento mediante l'accordo delle indicazioni geografiche dell'UE, basandosi sui TRIPS e integrandoli, affrontando inoltre il rapporto con la loro precedente utilizzazione sul mercato statunitense al fine di risolvere in modo soddisfacente i conflitti esistenti» e «prenderanno in considerazione misure per facilitare e promuovere lo scambio di merci rispettose dell'ambiente e a basse emissioni di carbonio, beni, servizi e tecnologie caratterizzati da un uso efficiente dell'energia e delle risorse, anche tramite appalti pubblici verdi e un sostegno alle scelte di acquisto informate da parte dei consumatori»;
    l'accordo deve, altresì, «contemplare disposizioni a sostegno delle norme riconosciute a livello internazionale in materia di responsabilità sociale delle imprese, nonché di conservazione, gestione sostenibile e promozione del commercio di risorse naturali sostenibili (...)», mirando «a garantire un contesto imprenditoriale aperto, trasparente e prevedibile in campo energetico e ad assicurare un accesso illimitato e sostenibile alle materie prime» ed includendo «aspetti connessi al commercio che interessano le piccole e medie imprese»;
    la scelta di procedere alla declassificazione delle «Direttive» – fin qui rapidamente sintetizzate ed originariamente assunte come documento riservato ai fini dell'efficacia della strategia negoziale – può, dunque, certamente contribuire a chiarire interrogativi, dubbi e preoccupazioni da più parti avanzati circa l'impatto economico, sociale ed ambientale dell'accordo – con particolare riferimento agli effetti del partenariato transatlantico rispetto al sistema delle piccole e medie imprese, agli standard europei di salute e sicurezza della filiera agroalimentare e di tutela ambientale, al riconoscimento delle indicazioni d'origine ed al contrasto della contraffazione, alla risoluzione delle controversie tra investitore e Stato, ai diritti del lavoro, alla liberalizzazione dei servizi e degli appalti pubblici – poiché ne emerge un mandato negoziale di fondo per cui il perseguimento del maggiore coordinamento normativo e regolamentare transatlantico – ai fini della riduzione di barriere, duplicazioni e costi superflui – non implica riduzione della qualità della regolazione posta a tutela dell'ambiente, della salute e della sicurezza, così come, su altro ed essenziale versante, la tutela degli investimenti dalla discriminazione, dall'espropriazione e dal trattamento ingiusto ed iniquo, può anche chiamare in causa meccanismi di risoluzione delle controversie tra investitore e Stato (Isds – Investor State dispute settlement), ma senza che ciò mini la possibilità della salvaguardia di legittimi interessi di politica pubblica;
    del resto, il capo negoziatore dell'Unione europea, Ignacio Garcia Bercero, facendo il punto, il 3 ottobre 2041, sull'andamento del negoziato a conclusione del settimo round, ha sottolineato la chiarezza e la fermezza del mandato ricevuto circa il punto che «non sarà fatto nulla che possa indebolire o danneggiare la protezione dell'ambiente, della salute, della sicurezza, dei consumatori o qualsiasi altro obiettivo delle politiche pubbliche perseguito dai regolatori dell'Ue o degli USA» e che, quanto ai servizi, «i Governi restano liberi di decidere in qualsiasi momento che certi servizi siano forniti dal settore pubblico», mentre il Commissario europeo designato, Cecilia Malmström, ha riaffermato, nella sua audizione al Parlamento europeo, che i processi decisionali sulle nuove regolazioni rimarranno soggetti agli esistenti controlli democratici;
    pur essendo fin d'ora chiaro il potenziale del processo di compiuta liberalizzazione di un'area il cui interscambio di beni e servizi vale, già oggi, circa due miliardi di euro al giorno, meritano, comunque, attenta verifica le principali stime fin qui effettuate in ordine all'impatto economico dell'accordo cifrato, in uno scenario di piena attuazione, in 120 miliardi di euro l'anno aggiuntivi a beneficio dell'economia europea, in 90 miliardi di euro a beneficio dell'economia statunitense e in 100 miliardi di euro a beneficio delle altre aree economiche mondiali;
    è, peraltro, evidente il più ampio significato geopolitico del TTIP, poiché – rappresentando le parti interessate circa la metà della produzione mondiale – l'accordo potrebbe assumere il rilievo di uno «standard globale» e concorrere al rafforzamento di modelli di governo democratico della globalizzazione oggi più che mai necessari;
    per quel che specificamente riguarda l'Italia, la «Stima degli impatti sull'economia italiana derivanti dall'accordo di libero scambio USA-UE» – effettuata, a giugno del 2013, da Prometeia – evidenzia che: «Un'estensione ampia dell'accordo di liberalizzazione potrebbe incidere in misura apprezzabile sulla crescita italiana e degli altri paesi coinvolti, arrivando a sfiorare il mezzo punto percentuale per la nostra economia. In questo caso, a tre anni dall'applicazione dell'accordo il Pil aumenterebbe, al netto dell'inflazione, di 5,6 miliardi di euro e l'occupazione totale di circa 30 mila unità»;
    l'ICE – osservando che «i benefici dell'accordo per le imprese europee discenderebbero da una barriera protezionistica “differenziale”, data dalla preferenza per i prodotti europei negli Stati Uniti e americani nell'Unione europea in seguito all'eliminazione dei dazi e degli altri ostacoli al commercio», che «equivarrebbe ad un dazio (o misura di effetto equivalente) “differenziale” sulle merci degli esportatori dei paesi esclusi dall'accordo» – ha sottolineato che in ragione del considerevole «peso relativo sull'export verso gli USA di meccanica, moda, alimentari e bevande, con produzioni sensibili al prezzo ed esposte alla concorrenza asiatica, il “dazio differenziale” aiuterebbe la produzione italiana più di quanto favorirebbe quella di un paese con produzione più differenziata o a maggiore valore aggiunto o che esporta beni a domanda più rigida»;
    al riguardo – come osservato da Confindustria – sarebbe comunque utile «adottare una prospettiva diversa e più ampia nel calcolare le ricadute di questo accordo e degli altri a venire (...). L'analisi d'impatto che la Commissione prevede di condurre a negoziati avviati, anziché limitarsi agli effetti sui flussi commerciali, potrebbe utilmente approfondire le implicazioni dell'accordo sui due sistemi produttivi e trarne al più presto le necessarie conseguenze in termini di politiche industriali e di rafforzamento del proprio settore manifatturiero»;
    peraltro, la portata potenziale dell'accordo e la sua effettiva traduzione in occasione di costruzione di occupazione e crescita aggiuntive chiamano certamente in causa la capacità di coordinamento delle politiche economiche nell'area transatlantica, nonché, in particolare, il coordinamento, pur nella consapevolezza della loro diversità di missione, delle scelte di politica monetaria operate dalla Banca centrale europea e dalla Federal Reserve allo scopo di contrastare sfasature negli interventi e rischi di «conflitti valutari»,

impegna il Governo:

   ad agire, in particolare nella fase del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea, affinché siano concretamente valorizzate le previsioni delle «Direttive di negoziato sul Partenariato transatlantico per gli scambi e gli investimenti tra l'Unione europea e gli Stati Uniti d'America» circa l'impegno della Commissione europea a sviluppare, nel corso della trattativa, «un dialogo regolare con tutte le pertinenti parti interessate della società civile» e ciò, in particolare, in occasione dei diversi round del negoziato, allo scopo di consentire di valutarne l'avanzamento rispetto all'impostazione del mandato originario;
   ad agire ancora, in particolare nella fase del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea, affinché siano concretamente valorizzate le previsioni delle sopradette «Direttive» circa l'esame dell'impatto economico, sociale ed ambientale dell'accordo «mediante una valutazione d'impatto per la sostenibilità (SIA) indipendente, cui partecipi la società civile, che sarà condotta in parallelo ai negoziati e che sarà conclusa prima della sigla dell'accordo», integrando altresì le stime sugli effetti economici dell'accordo fin qui effettuate con un approfondimento delle sue refluenze sulla struttura dei sistemi produttivi coinvolti nel partenariato, sui loro divari di competitività e sulle conseguenti necessità d'intervento, considerato che il Consiglio dell'Unione europea potrebbe indicare come procedere in tal senso, sia ai fini dell'individuazione delle risorse disponibili per effettuare tale valutazione che per la scelta del soggetto che la condurrà;
   a vigilare, in particolare nella fase del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea, su un approccio equilibrato ai meccanismi arbitrali Investor State dispute settlement (Isds), che tenga presente le ragioni della tutela della qualità dei servizi pubblici essenziali, dei diritti sociali e del lavoro e delle norme ambientali;
   a riaffermare, in particolare nella fase del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea e in sede di confronto con il Consiglio e con la Commissione europea, la necessità per il settore alimentare – ai fini dell'avanzamento del negoziato Transatlantic trade and investment partnership (TTIP) – del riconoscimento delle indicazioni geografiche (IIGG) e del contrasto dell’«italian sounding» e, più in generale, la rilevanza delle barriere non tariffarie, di natura tecnico-regolamentare, quale ostacolo all'accesso al mercato statunitense da parte delle imprese europee;
   a sottolineare, in particolare nella fase del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea, l'importanza di un approccio al negoziato Transatlantic trade and investment partnership (TTIP) particolarmente attento alla valorizzazione delle sue opportunità per le piccole e medie imprese e, dunque, alla messa in opera di ogni utile strumento di supporto all'accrescimento della partecipazione di dette imprese all'interscambio commerciale dell'area transatlantica, a partire dagli appositi help-desk già discussi in sede di trattativa;
   a sospingere dunque – in particolare nella fase del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea e con l'adeguato coinvolgimento del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali, cui regolarmente riferire circa stato e sviluppi delle trattative – il tempestivo avanzamento del negoziato, affinché, proprio prendendo le mosse dalla scelta di de-secretazione del mandato negoziale, si proceda alla definizione degli obiettivi effettivamente raggiungibili e della conseguente tabella di marcia, cercando di cogliere – come è anche emerso nel corso dell'appuntamento di Roma sul Transatlantic trade and investment partnership (TTIP) del 14 ottobre 2014, evento promosso dalla Presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea – la finestra di opportunità per la conclusione di un accordo, finestra che si protrarrà fino ai primi mesi del 2016, a ridosso delle primarie americane.
(1-00630) «Taranto, Benamati, Amendola, Berlingheri, Gentiloni Silveri, Martella, Quartapelle Procopio, Tidei, Ginefra, Senaldi, Bargero, Scuvera, Albini, Iacono, Bonomo, Montroni, Petitti, Schirò, Camani, Giulietti».
(20 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    si rileva la straordinaria importanza dei negoziati in corso tra la Commissione europea ed il Governo degli Stati Uniti, finalizzati alla creazione di un Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti, o Transantlantic trade and investment partnership, TTIP;
    si sottolinea, da un lato, come dal raggiungimento di un accordo tra la Commissione europea ed il Governo degli Stati Uniti possa sorgere il più grande e ricco mercato del mondo, con potenziali effetti positivi per le imprese di entrambi i contraenti e come, dall'altro, sussistano tuttavia anche importanti elementi d'incertezza sulla natura del partenariato che si sta negoziando;
    in particolare, l'Unione Europea è un'area economica ad alto tasso di regolamentazione, mentre gli Stati Uniti hanno sperimentato nel corso degli ultimi decenni un'intensa deregulation; si delinea così l'adesione delle due parti negozianti a modelli sociali profondamente differenti;
    sotto il profilo dei contenuti, esistono orientamenti radicalmente differenti negli Stati Uniti e nell'Unione Europea in alcune materie sensibili, come la commerciabilità dei prodotti agricoli geneticamente modificati;
    indiscrezioni sull'andamento dei negoziati euro-americani stanno lasciando intendere che potrebbero essere eliminate anche le barriere non tariffarie che proteggono alcune caratteristiche socio-economiche e culturali dei Paesi membri dell'Unione europea, al punto che si dubita persino della sostenibilità a lungo termine del modello della cosiddetta «economia sociale di mercato»;
    è conseguentemente della massima importanza conoscere, comprendere e discutere l'assetto normativo che assumerà l'area transatlantica in via di realizzazione, anche per potervi incidere in modo funzionale agli interessi del nostro Paese ed alle legittime aspettative della sua opinione pubblica;
    destano preoccupazione:
     a) le sorti di interi comparti produttivi europei, come l'agroalimentare ed i settori a più alta intensità di tecnologia, che rischiano di essere esposti alla concorrenza delle imprese d'oltreoceano, in grado di sfruttare vantaggi competitivi semplicemente incolmabili per le aziende europee, si pensi, ad esempio, alla grande differenza dimensionale che esiste, per ragioni storiche e culturali non trascurabili, tra le farm americane e le imprese agricole europee;
     b) la possibilità che i mercati dell'Unione europea siano invasi da prodotti agroalimentari o farmaceutici non garantiti secondo gli standard imposti dalla disciplina comunitaria;
     c) quanto filtra a proposito del diritto che le imprese nordamericane si vedrebbero riconoscere a citare in giudizio gli Stati europei dai quali si ritenessero danneggiate, ad esempio in materia di appalti, causa tra l'altro di una crescente opposizione della Germania all'avanzata delle trattative;
     d) la possibilità che dalla creazione della partnership transatlantica derivi, altresì, una notevole compressione dell'autonomia politica dell'Unione europea, che potrebbe trovarsi a dover dare automatica attuazione alle scelte degli Stati Uniti in materia di concessione o revoca della clausola della nazione più favorita, rendendo automatica l'adesione dell'Unione europea alle strategie sanzionatorie deliberate dall'amministrazione e dal Congresso statunitensi;
    negli ultimi 18 mesi i Governi della Repubblica hanno sistematicamente espresso l'appoggio pressoché incondizionato del nostro Paese al successo dei negoziati per il TTIP senza aver sottoposto la questione al preventivo vaglio del Parlamento, come se si trattasse di un accordo tecnico di secondaria importanza;
    si registra la perdurante assenza di un vero dibattito nel Parlamento e nel Paese sull'argomento, imputabile in larga misura alla mancanza di informazioni affidabili;
    è ormai indifferibile l'apertura di un confronto serio sulle questioni oggetto del partenariato transatlantico in via di negoziazione, alla luce della rilevanza e potenziale irreversibilità dei suoi effetti,

impegna il Governo:

   a richiedere alla Commissione europea il pieno accesso ai documenti negoziali per i Parlamenti nazionali, data l'incidenza che il loro contenuto potrebbe avere sul diritto e sul futuro socio-economico degli Stati membri dell'Unione europea, anche in ambiti non strettamente commerciali;
   ad informare tempestivamente il Parlamento ed il Paese circa l'andamento ed i contenuti del negoziato finalizzato alla creazione del Partenariato per il commercio e gli investimenti tra Unione europea e Stati Uniti d'America, finora svoltosi in un clima di ingiustificata segretezza, nonché in merito alle posizioni che hanno, nei confronti del Transatlantic trade and investment partnership (TTIP), i principali Stati membri dell'Unione europea;
   ad adoperarsi in tutte le sedi competenti affinché nel negoziato con gli Stati Uniti trovino adeguata tutela gli interessi dei Paesi europei e dell'Italia in particolare, scongiurando in primo luogo il rischio che la realizzazione del Transatlantic trade and investment partnership (TTIP) possa implicare il completo smantellamento della Politica agricola comune e del sistema regolatorio creato a tutela del consumatore europeo, a partire dalle norme che limitano la vendita nell'Unione europea dei prodotti geneticamente modificati;
   a respingere qualsiasi ipotesi di intesa transatlantica suscettibile di cristallizzare ed amplificare i vantaggi competitivi di cui le imprese nordamericane godono nei confronti di quelle europee in numerosi comparti, dall'agricoltura all'aerospazio;
   ad adoperarsi affinché i negoziatori della Commissione europea difendano la specificità socio-economica ed identitaria del modello europeo rispetto a qualsiasi disposizione dell'accordo che possa minacciarla e tutelino l'Unione europea dal rischio di perdere la propria autonomia politica in materia di commercio estero e di eventuali regimi sanzionatori.
(1-00631) «Gianluca Pini, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Prataviera, Rondini, Simonetti».
(20 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    l'8 luglio 2013 si è svolta a Washington la prima sessione negoziale, finalizzata alla conclusione di un importante accordo di libero scambio economico Usa-Unione europea: l'accordo di partenariato per il commercio e gli investimenti tra Unione europea e Stati Uniti d'America (Transatlantic trade and investment partnership – TTIP);
    il trattato, che si presenta come un accordo di ampia portata volto ad includere la riduzione delle barriere normative non tariffarie al commercio di beni e servizi, l'accesso alle commesse pubbliche, la definizione di nuovi e più ambiziosi standard in alcuni settori industriali e gli investimenti, è stato ritenuto dai Presidenti Barroso, Van Rompuy e Obama, come uno degli strumenti di maggiore rilevanza, attraverso il quale il TTIP potrà sostenere sia l'economia europea, che quella americana;
    la conclusione positiva del TTIP, in base ad alcune stime, determinerebbe, a tal fine, una serie di ricadute estremamente positive sull'occupazione e la crescita per entrambe le sponde dell'Atlantico, i cui vantaggi prodotti da un futuro accordo deriverebbero, per una quota compresa fra i due terzi e i quattro quinti, dal taglio della burocrazia e da un più intenso coordinamento fra le autorità di regolamentazione;
    la Commissione europea, a tal fine, ha stimato che dal presente anno 2014 fino al 2027 il prodotto interno lordo dell'Unione europea, in caso di una definizione favorevole dell'accordo, beneficerebbe un aumento annuo medio dello 0,4 per cento, mentre quello americano dello 0,5 per cento, a differenza di altre stime che evidenziano invece elevati aumenti del prodotto interno lordo pro capite (quasi il 5 per cento in più per l'Italia);
    gli effetti vantaggiosi determinati dall'eventuale conclusione di un propizio accordo di partenariato per il commercio e gli investimenti tra Unione europea e Stati Uniti d'America potrebbero, inoltre, recuperare l'iniziativa sul piano della definizione degli standard e delle regole del commercio internazionale;
    l'accordo, tuttavia, potrebbe essere largamente ridimensionato nel corso del negoziato a causa di una molteplicità di difficoltà connesse, dalla difficile armonizzazione degli standard tecnici e degli approcci alla regolamentazione in settori industriali strategici, dalla regolamentazione dei mercati finanziari, dalla protezione dei dati personali e della proprietà intellettuale alle commesse pubbliche e ai sussidi alle imprese locali;
    una vasta parte dell'opinione pubblica si interroga, a tal fine, sull'effettivo significato del valore del TTIP, il cui rapporto nella regolamentazione si propone di individuare metodi razionali per rendere maggiormente compatibili tra loro la regolamentazione dell'Unione europea con quella degli Stati Uniti, garantendo, al contempo, un'adeguata tutela dei cittadini;
    a tal fine risulta importante rilevare che i contenuti dell'accordo di libero scambio sono stati ufficialmente resi noti dall'Unione europea soltanto di recente, attraverso un documento predisposto dal Consiglio dell'Unione europea e composto da 18 pagine, datato 9 ottobre 2014, all'interno del quale tra i 46 obiettivi indicati dall'intesa è inclusa l'apertura del mercato statunitense degli appalti pubblici, nonché l'introduzione dell'arbitrato internazionale Stato-imprese, il cosiddetto Investor State dispute settlement (Isds), il cui meccanismo consentirà agli investitori di citare in giudizio i Governi presso le corti arbitrali internazionali;
    la decisione di declassificare le direttive negoziali, se, da un lato, costituisce un indubitabile aspetto condivisibile, in particolare se rapportato alla possibile incidenza che il nostro Paese potrà determinare nel corso del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea, conferma tuttavia il permanere di una complessiva mancanza di trasparenza e di scarse informazioni rivolte, ad esempio, agli standard su lavoro, ambiente, legislazione sanitaria, prezzi dei farmaci, libero utilizzo di internet, privacy dei consumatori, energia, brevetti e materia di copyright e albi professionali;
    una riduzione di regole e normative, come sostengono fra l'altro alcune numerose organizzazioni non governative, se per alcuni aspetti può liberare le economie di entrambi i continenti, rilanciando la crescita e migliorando i livelli di competitività, dall'altro, se non adeguatamente monitorata, può determinare ripercussioni gravissime, innanzitutto su un comparto strategico dell'economia italiana quale quello agro-alimentare che, in questa trattativa, gli Usa considerano strategico;
    il Presidente del Consiglio dei Ministri la scorsa settimana, esprimendo il suo parere nell'ambito del TTIP, ha rilevato che il semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea deve rappresentare l'occasione per un salto di qualità e uno scatto in avanti per la definizione dell'accordo di libero scambio Unione europea-Usa, aggiungendo inoltre che esso rappresenta una fondamentale scelta strategica;
    le difficoltà connesse alla tempistica per la conclusione dei negoziati, che si auspicava nel corso del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea, sono imputabili ad una serie di rallentamenti dovuti all'insediamento della nuova Commissione europea e del nuovo Consiglio e degli impegni degli Stati Uniti nelle trattative per il partenariato per il commercio e gli investimenti tra Unione europea e Stati Uniti d'America, che rendono improbabile ogni decisione finale, nonostante la crisi in Ucraina e le decisioni sanzionatorie nei riguardi della Federazione russa avessero paradossalmente determinato un imprevisto salto di qualità nell'intesa e solidarietà tra Europa e Usa, rafforzando il rapporto transatlantico in tutte le sue dimensioni: da quella della sicurezza a quella della cooperazione economica e commerciale, fino alla cooperazione nel campo dell'energia;
    una valutazione complessiva sulla regolamentazione che il TTIP intende compiere in maniera risolutiva per i prossimi anni, risulta pertanto prematura, anche in considerazione delle articolate osservazioni in precedenza richiamate, per consentire una previsione ottimistica delle prospettive di ciò che, tuttavia, rimane il più ambizioso progetto transatlantico di cooperazione;
    le rispettive offerte nell'ambito del partenariato per il commercio e gli investimenti tra Unione europea e Stati Uniti d'America (TTIP), che può rappresentare uno strumento utile di stimolo alla crescita per l'Unione europea, assumono per l'Italia un valore strategico e fondamentale sia economico che d'immagine, in considerazione della centralità che il sistema Paese riveste a livello planetario con il made in Italy, le cui caratteristiche uniche ed inimitabili riassumono valori distintivi riconosciuti, non soltanto in Europa e negli Stati Uniti, ma a livello pressoché globale;
    la necessità di vigilare, con particolare attenzione, attraverso un impulso politico rigoroso e incisivo, sul proseguimento dei negoziati al fine di valutare quali scelte decisionali sono state assunte all'interno del futuro accordo per la creazione di un'area transatlantica di libero scambio, riveste pertanto un'importanza determinante per l'Italia, proprio in considerazione del prestigio che il made in Italy riveste a livello nazionale e mondiale;
    rafforzare la leadership italiana e tutti gli attori della filiera coinvolti nella realizzazione delle eccellenze del made in Italy, autentico baluardo dei valori nazionali, nell'ambito dei processi decisionali, del TTIP nei riguardi della vasta gamma dei prodotti offerti sui mercati internazionali, costituisce, a tal fine, una priorità per l'Esecutivo italiano da salvaguardare e tutelare nei diversi capitoli del negoziato, in un'ottica di mutuo vantaggio,

impegna il Governo:

   a riferire periodicamente nelle sedi istituzionali competenti circa l'evoluzione del processo negoziale riferito al partenariato per il commercio e gli investimenti tra Unione europea e Stati Uniti d'America (TTIP), che si presenta come un accordo di portata molto ampia, come richiesto dalle regole dell'Organizzazione mondiale del commercio per gli accordi preferenziali di commercio internazionale, coinvolgendo con maggiore partecipazione anche il Parlamento nei «pacchetti legislativi» che s'intendono proporre;
   a monitorare lo svolgimento delle trattative, con particolare attenzione, affinché ogni decisione intrapresa nell'ambito dei negoziati Unione europea-Usa non produca effetti negativi e penalizzanti per il sistema del made in Italy, il cui giro d'affari, pari a 62 miliardi di euro per il 2014 e 47 miliardi di euro per l’export, implica l'esigenza di innalzare i livelli di tutela e di salvaguardia dei prodotti italiani, in particolare quelli dell'agroalimentare, all'interno dei processi decisionali che s'intendono prevedere nel Transatlantic trade and investment partnership (TTIP);
   ad intervenire in sede europea – in attesa di ulteriori elementi informativi, oltre al documento declassificato da parte del Consiglio dell'Unione europea, datato 9 ottobre 2014, che non risulta essere esaustivo, considerando la vastità delle materie interessate – al fine di chiarire che i negoziati sul Transatlantic trade and investment partnership (TTIP) non determineranno un abbassamento degli standard in materia di sicurezza, ambiente, agroalimentare italiano e tutela dei consumatori finali, e negli altri settori in precedenza riportati;
   a prevedere meccanismi di tutela e salvaguardia per il sistema delle piccole e medie imprese, che rappresentano il tessuto connettivo dell'economia europea, arrivando a rappresentare il 99,8 per cento del totale delle imprese europee, al fine di evitare che il quadro regolatorio definito dalle scelte conclusive dell'accordo di partenariato per il commercio e gli investimenti tra Unione europea e Stati Uniti d'America possa essere sbilanciato a vantaggio delle imprese di grande dimensione;
   a perseguire ogni utile iniziativa in sede comunitaria, affinché il partenariato per il commercio e gli investimenti tra Unione europea e Stati Uniti d'America (TTIP) possa ridurre in maniera significativa gli oneri burocratici, considerando che le conseguenze favorevoli di ciò inciderebbero positivamente sui costi delle attività economiche transatlantiche, facilitando per le imprese il compito di rispettare contemporaneamente la legislazione europea e quella americana, la cui semplificazione potrebbe garantire per le rispettive economie una nuova crescita per alcuni miliardi di euro.
(1-00632) «Palese».
(20 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    nel luglio 2013 si è svolta a Washington la prima sessione negoziale per la conclusione di un grande accordo di libero scambio economico USA-UE: il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Transatlantic trade and investment partnership, TTIP). Il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti è un accordo commerciale che è attualmente in corso di negoziato tra l'Unione europea e gli Stati Uniti con l'obiettivo di rimuovere le barriere commerciali in una vasta gamma di settori economici per facilitare l'acquisto e la vendita di beni e servizi tra Europa e Stati Uniti;
    il TTIP si presenta come un accordo di ampia portata che riguarda la questione delle barriere non tariffarie al commercio di beni e servizi, l'accesso alle commesse pubbliche, la definizione di nuovi e più ambiziosi standard in alcuni settori industriali e gli investimenti. Oltre a ridurre le tariffe in tutti i settori, l'Unione europea e gli Stati Uniti vogliono affrontare il problema delle barriere doganali, come le differenze nei regolamenti tecnici, le norme e procedure di omologazione: spesso, infatti, questi rappresentano un aggravio inutile in termini di tempo e denaro per le società che vogliono vendere i loro prodotti su entrambi i mercati;
    l'accordo porterebbe a ricadute estremamente positive su occupazione e crescita per i Paesi interessati. La Commissione europea ritiene che, da oggi al 2017, il prodotto interno lordo dell'Unione europea beneficerebbe di un aumento annuo medio dello 0,4 per cento e quello americano dello 0,5 per cento. L'Unione europea ha, inoltre, effettuato una valutazione d'impatto dei potenziali effetti dell'accordo. Tale valutazione non si è limitata ad esaminare l'impatto economico, ma anche le potenziali ripercussioni sociali ed ambientali. Sono, quindi, state prese in considerazione le possibili situazioni risultanti da diversi gradi di liberalizzazione tra Unione europea e Usa. In tutti i casi l'effetto complessivo per l'Unione europea si è rilevato positivo, ma è emerso in maniera chiara che esso sarebbe tanto più positivo quanto più elevato sarà il grado di liberalizzazione;
    uno degli studi su cui si è basata la valutazione d'impatto della Commissione europea è una relazione indipendente commissionata dall'Unione europea al Centro di ricerca per la politica economica di Londra. Lo studio suggerisce che il beneficio per l'economia dell'Unione europea potrebbe ammontare a 119 miliardi di euro l'anno. Sempre secondo lo studio l'economia statunitense potrebbe ricavarne un utile supplementare di 95 miliardi di euro l'anno. Questi benefici avrebbero un costo esiguo perché deriverebbero dall'eliminazione delle tariffe doganali e dalla soppressione delle norme inutili e delle lungaggini amministrative che rendono difficile acquistare e vendere oltreoceano. La crescita economica supplementare, quindi, che dovrebbe derivare dal TTIP sarà vantaggiosa per tutti. Rilanciare il commercio è un buon modo di dare impulso alle nostre economie, creando una maggiore domanda ed offerta senza dover aumentare la spesa e l'indebitamento pubblici;
    benché le tariffe tra Unione europea e Stati Uniti siano già basse, le dimensioni sia delle economie dell'Unione europea e degli Usa che dei loro scambi commerciali indicano che uno smantellamento tariffario sarebbe vantaggioso sul piano della crescita e dell'occupazione. L'area in cui tali negoziati potrebbero realizzare un notevole risparmio per le imprese, creare occupazione e garantire maggiori vantaggi per i consumatori è quella relativa all'eliminazione di norme e disposizioni inutili: i cosiddetti ostacoli non tariffari. Il taglio alla burocrazia, pertanto, ridurrebbe i costi delle attività economiche transatlantiche, facilitando alle imprese il compito di rispettare contemporaneamente le leggi europee e quelle americane;
    le imprese, i lavoratori ed i cittadini europei trarrebbero un enorme vantaggio da una maggiore apertura del mercato statunitense. Infatti, l'Unione europea dispone di molte imprese altamente competitive che producono prodotti e offrono servizi di qualità eccellente. Pertanto, l'eliminazione delle tariffe e di altri ostacoli al commercio consentirà ai produttori europei di incrementare le vendite verso gli Usa, fattore positivo sia per le imprese che per l'occupazione. Rimuovere gli ostacoli ai prodotti e agli investimenti originari degli Stati Uniti d'America e dell'Unione europea si traduce in una più ampia scelta e prezzi inferiori per la popolazione europea;
    nonostante USA e Unione europea siano, tra di loro, i principali partner commerciali, nonché i primi fornitori esteri di servizi e i maggiori investitori nei rispettivi mercati, il vasto complesso dell'economia transatlantica non riposa su alcun trattato che ne regoli il funzionamento interno in maniera sistematica;
    il TTIP si presenta come un accordo di portata molto ampia. Il negoziato relativo all'accordo si concentrerà, in particolare, sulla questione delle barriere non tariffarie al commercio di beni e servizi, ma anche sull'accesso alle commesse pubbliche in molti settori, sulla definizione di nuovi e più ambiziosi standard in alcuni settori industriali e sugli investimenti;
    per quanto riguarda le barriere tariffarie tra Usa ed Unione europea, come già detto, si può riferire che tra i due blocchi queste si attestano al 4/5 per cento in media per beni e servizi, anche se vi sono settori nei quali il livello tariffario appare abbastanza elevato (ad esempio, il settore delle infrastrutture, in particolare delle ferrovie, il tessile, l'abbigliamento);
    ben più significative sono le barriere di tipo non tariffario dovute a divergenze regolamentari in molti settori, tra cui quello automobilistico, quello chimico e quello farmaceutico. Basti pensare che nel settore dei prodotti chimici i dazi doganali imposti dagli Stati Uniti ai prodotti europei sono circa dell'1,2 per cento, mentre le barriere non tariffarie comportano un peso addizionale di circa il 19,1 per cento e che nel settore automobilistico le barriere tariffarie applicate dall'Europa nei confronti dei prodotti Usa sono di circa il 10 per cento, ma quelle non tariffarie arrivano al 25,5 per cento;
    nel quadro degli scambi commerciali tra Unione europea ed Usa spicca il settore delle commesse pubbliche soggetto ad un accordo plurilaterale noto come Government procurament agreement (Gpa). Si tratta di un settore in costante espansione. Nell'ambito del Government procurament agreement la differenza tra Unione europea ed Usa è evidente: l'Unione europea ha aperto alla concorrenza circa l'85 per cento dei propri mercati. Negli Stati Uniti, al contrario, le liberalizzazioni sono avvenute in modo parziale. Inoltre, le probabilità di concessioni reciproche da parte di Usa ed Unione europea in settori chiave, come quelli della difesa, dell'aeronautica e delle infrastrutture sono assai modeste;
    i negoziati per il TTIP comprendono anche l'agricoltura. L'apertura dei mercati agricoli comporterà vantaggi reciprochi per l'Unione europea e gli USA. Gli Stati Uniti sono interessati a vendere una quota maggiore dei loro prodotti agricoli di base, quali il granoturco e la soia. Le esportazioni dell'Unione europea verso gli Usa interessano in genere prodotti alimentari di maggiore valore, come alcolici, vino, birra e alimenti trasformati (ad esempio formaggi e prosciutto). L'Unione europea ha un chiaro interesse a potenziare le vendite negli Stati Uniti dei prodotti alimentari di alta qualità che produce, senza inutili ostacoli tariffari o non tariffari. Alcuni prodotti alimentari europei, tra cui i prodotti lattiero-caseari, ma anche le mele e le pere, incontrano notevoli ostacoli non tariffari che ne limitano l'accesso al mercato statunitense. L'eliminazione di questi e di altri ostacoli contribuirebbe a rafforzare le esportazioni dell'Unione europea verso gli Stati Uniti;
    i detrattori dell'accordo sostengono che l'azzeramento delle barriere non tariffarie comporterebbe l'ingresso di prodotti alimentari contenenti organismi geneticamente modificati o prodotti che non ottemperano gli standard di sicurezza europei in materia di uso di sostanze chimiche tossiche, leggi sanitarie, prezzi dei farmaci, libertà di internet e privacy dei consumatori, energia, brevetti e copyright e gli albi professionali; gli Usa considerano strategico l'accordo per la parte agroalimentare, ma non sono chiari gli effetti che questo potrebbe avere sul made in Italy agroalimentare e sulla lotta all’Italian sounding;
    un ulteriore aspetto problematico consiste nell'introduzione dell'arbitrato internazionale Stato-imprese, il cosiddetto Investor State dispute settlement (Isds), il cui meccanismo consentirà agli investitori di citare in giudizio i Governi presso le corti arbitrali internazionali con riflessi problematici sull'applicazione delle norme di maggior tutela dei consumatori di cui dispone l'Unione europea;
    perché i negoziati commerciali funzionino e abbiano esito positivo, è necessario un certo grado di riservatezza, ma nel corso dei negoziati occorre, tuttavia, che la Commissione europea continui ad intrattenere contatti con l'industria, le associazioni di categoria, le organizzazioni dei consumatori e altre rappresentanti della società civile;
    la Commissione europea, pertanto, dovrà comunicare agli Stati membri, in sede di Consiglio e di Parlamento europeo, gli sviluppi dei negoziati,

impegna il Governo:

   a riferire periodicamente al Parlamento, in occasione dei diversi round del negoziato, sugli sviluppi dei negoziati sull'accordo di partenariato per il commercio e gli investimenti tra Unione europea e Stati Uniti d'America (TTIP), allo scopo di consentire di valutarne l'avanzamento rispetto all'impostazione del mandato originario;
   riguardo ai meccanismi arbitrali per la definizione dei contenziosi (Investor State dispute settlement), a vigilare in sede di definizione delle regole, affinché non possano essere utilizzati in danno delle maggiori tutele che l'Unione europea prevede per i propri cittadini;
   a prevedere l'adozione, da parte dell'Italia, di una posizione di principio nella quale si preveda il pieno riconoscimento, da parte degli Usa, delle tutele garantite ai prodotti alimentari tipici italiani (e, di conseguenza, di ciascun Paese componente) dalle normative dell'Unione europea, nonché la piena tutela dei livelli qualitativi del made in Italy agroalimentare e il mantenimento della maggiore tutela dei consumatori garantita dalle normative comunitarie.
(1-00635) «Dorina Bianchi, Alli, Tancredi».
(20 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    nel giugno 2013 la Commissione europea è stata autorizzata ad avviare i negoziati per conto dell'Unione europea per sviluppare un partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP) con gli Stati Uniti, con l'obiettivo di concluderne l’iter entro la fine del 2015. Si sono svolti sette cicli di negoziato, l'ultimo dei quali si è tenuto a Washington dal 29 settembre 2014 al 3 ottobre 2014;
    l'obiettivo prioritario del Transatlantic trade and investment partnership (TTIP) è la soppressione di tutti i dazi sugli scambi bilaterali, con lo scopo comune di raggiungere una sostanziale eliminazione delle tariffe al momento dell'entrata in vigore dell'accordo e una graduale abolizione di tutte le tariffe, salvo quelle più sensibili, in un breve arco di tempo;
    le barriere tariffarie tra le due aree si attestano intorno al 4-5 per cento in media per beni e servizi, anche se vi sono settori nei quali il livello tariffario non è insignificante (infrastrutture, tessile, abbigliamento e calzature, acciaio di elevata qualità, alcuni tipi di veicoli e alimenti come le marmellate, il cioccolato e i prodotti caseari), con un costo totale pari a circa sei miliardi di dollari annui, mentre ben più consistenti sono le barriere di tipo non tariffario, dovute soprattutto a divergenze regolamentari in molti settori, tra cui quello automobilistico, quello chimico e farmaceutico e altri settori chiave come le telecomunicazioni e i servizi finanziari;
    l'armonizzazione di tutte le rispettive regolamentazioni in materia di commercio internazionale è apparsa da subito alquanto problematica, a causa delle evidenti differenze che tuttora intercorrono tra Unione europea ed Usa nelle normative in materia di protezione sanitaria, alimentare, di diritto d'autore e del lavoro;
    gli standard dell'Unione europea, basati sul principio di precauzione, sono infatti molto più stringenti di quelli degli Usa in numerosi settori e l'applicazione del partenariato comporterebbe uno scivolamento verso i livelli di deregolamentazione americani;
    il 9 ottobre 2014, anche grazie all'iniziativa della presidenza italiana, il Consiglio dell'Unione europea ha deciso di declassificare le direttive di negoziato del partenariato. La declassificazione del mandato di negoziato costituisce un passo importante per garantire la trasparenza dei negoziati con gli Stati Uniti;
    grazie a tale classificazione si può leggere che il preambolo dovrà ricordare che il partenariato con gli Stati Uniti si basa su principi e valori comuni coerenti con i principi e gli obiettivi dell'azione esterna dell'Unione europea e dovrà contenere, tra l'altro, i seguenti richiami:
     a) i valori condivisi in aree come i diritti umani, le libertà fondamentali, la democrazia e lo stato di diritto;
     b) impegno delle parti a favore dello sviluppo sostenibile e il contributo del commercio internazionale allo sviluppo sostenibile per quanto riguarda i suoi aspetti economici, sociali e ambientali, inclusi lo sviluppo economico, l'occupazione piena e produttiva e il lavoro dignitoso per tutti, nonché la tutela e la conservazione dell'ambiente e delle risorse naturali;
     c) l'impegno delle parti per la conclusione di un accordo pienamente coerente con i loro diritti e gli obblighi derivanti dall'Organizzazione mondiale del commercio e favorevole al sistema di scambi multilaterali;
     d) il diritto delle parti di prendere le misure necessarie per realizzare obiettivi legittimi di politica pubblica in base al livello di tutela della salute, della sicurezza, dei lavoratori, dei consumatori, dell'ambiente e della promozione della diversità culturale sancita dalla Convenzione dell'Unesco sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali, che esse ritengono appropriato;
     e) l'obiettivo che le parti condividono di tenere conto dei problemi specifici che le piccole e medie imprese devono affrontare quando partecipano allo sviluppo degli scambi commerciali e degli investimenti;
     f) l'impegno delle parti di comunicare con tutte le altre parti interessate, compresi il settore privato e le organizzazioni della società civile;
    l'accordo dovrà riconoscere che lo sviluppo sostenibile costituisce un obiettivo essenziale delle parti, le quali intendono anche garantire e facilitare il rispetto degli accordi e delle norme internazionali in materia ambientale e del lavoro, promuovendo nel contempo elevati livelli di tutela dell'ambiente, del lavoro e dei consumatori, coerenti con l’acquis dell'Unione europea e la legislazione degli Stati membri. L'accordo deve riconoscere che le parti non promuoveranno gli scambi o gli investimenti diretti esteri rendendo meno severe la legislazione e le norme nazionali in materia di ambiente, lavoro, salute e sicurezza sul lavoro o meno rigide le politiche e le norme fondamentali del lavoro o le disposizioni legislative finalizzate alla tutela e alla promozione della diversità culturale;
    l'accordo non dovrà, altresì, contenere disposizioni che potrebbero pregiudicare la diversità culturale o linguistica dell'Unione europea o dei suoi Stati membri, in particolare nel settore della cultura, né impedire all'Unione europea e agli Stati membri di mantenere le politiche e le misure esistenti a sostegno del settore della cultura, considerato il loro status speciale nell'Unione europea e negli Stati membri;
    si teme, tuttavia, che la potenza delle multinazionali possa ledere i diritti dei cittadini e la sovranità dei Paesi membri, d'altronde la segretezza del negoziato, formalmente mantenuta fino al 9 ottobre 2014 ha alimentato tali dubbi, in particolare rispetto al rispetto del citato «principio di precauzione». Introdotto per la prima volta in occasione della Conferenza sull'ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite (Earth summit) di Rio de Janeiro del 1992, il principio era rivolto alla protezione dell'ambiente, ma è finito per estendersi alla politica di tutela dei consumatori, della salute umana, animale e vegetale;
    per il Viceministro dello sviluppo economico, Calenda, «secondo le principali analisi disponibili, l'Italia sarebbe tra i principali beneficiari del TTIP, che potrebbe portare fino a mezzo punto di prodotto interno lordo di crescita aggiuntiva e alla creazione di posti di lavoro»;
    secondo la Commissione europea di qui al 2027 il prodotto interno lordo dell'Unione europea beneficerebbe di un aumento annuo medio dello 0,4 per cento e quello americano dello 0,5 per cento. Per Il Sole 24 ore, grazie all'accordo commerciale con Washington, l'Unione europea potrebbe guadagnare 119 miliardi di euro all'anno e l'Italia mezzo punto di prodotto interno lordo;
    grazie al TTIP, il blocco economico transatlantico rappresenterebbe da solo quasi il 50 per cento del prodotto interno lordo mondiale, un terzo del commercio internazionale in beni e una percentuale molto superiore degli investimenti esteri diretti (56,7 per cento di quelli in uscita e 75 per cento di quelli in entrata) e costituirebbe un polo d'attrazione irresistibile per le altre economie del pianeta. Grazie ad esso Usa ed Unione europea potrebbero recuperare l'iniziativa sul piano della definizione degli standard e delle regole del commercio internazionale e contrastare l'ascesa della Cina e dei Brics,

impegna il Governo:

   nel corso del semestre italiano di presidenza del Consiglio dell'Unione europea:
    a) a verificare l'effettiva applicazione dei principi contenuti nel preambolo delle direttive di negoziato sul partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP) con gli Stati Uniti;
    b) a vigilare, in particolare, sulla corretta applicazione e rispetto del principio di precauzione per quanto riguarda gli aspetti economici, sociali e ambientali derivanti da tale accordo, inclusi lo sviluppo economico, l'occupazione piena e produttiva e il lavoro dignitoso per tutti, nonché la tutela e la conservazione dell'ambiente e delle risorse naturali;
    c) a monitorare l'impatto dell'accordo sul sistema delle piccole e medie imprese, che rappresentano la quasi totalità delle imprese europee per evitare che il nuovo quadro normativo diventi troppo favorevole alle imprese di maggiori dimensioni;
    d) a verificare con particolare attenzione che da tale accordo non risulti penalizzato il sistema del made in Italy in generale, salvaguardando, in particolare, la filiera agroalimentare, sempre più danneggiata dal dilagare di prodotti italian sounding;
    e) a porre in essere tutte le azioni utili per la tutela e promozione della diversità culturale e la conseguente esclusione dei prodotti e servizi culturali e audiovisivi dal negoziato con gli Usa;
    f) a tutelare il rispetto degli ordinamenti giuridici interni dei Paesi nei quali operano le aziende multinazionali;
    g) ad assumere iniziative volte a favorire la rapida conclusione del negoziato, anche al fine di rilanciare il ruolo dell'Unione europea nel panorama mondiale e per cogliere l'opportunità delle riconosciute ricadute positive su occupazione e crescita ad esso collegate.
(1-00638) «Fitzgerald Nissoli, Marazziti, Caruso, Buttiglione, Binetti, De Mita, Fauttilli, Cera, Gigli, Piepoli, Sberna».
(21 ottobre 2014)


MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE RIGUARDANTI I PROFILI DI PREVENZIONE SANITARIA CORRELATI AL FENOMENO MIGRATORIO

   La Camera,
   premesso che:
    lebbra, tubercolosi, poliomelite, scabbia e addirittura ebola. Cresce l'allarme nel nostro Paese per i casi di malattie che sembravano ormai scomparse e che ora rischiano di diventare delle epidemie, che travalicano le zone di origine e potrebbero essere trasmesse dalle persone che si spostano da aree colpite verso l'Europa;
    disposizioni governative e delle autorità sanitarie internazionali rilanciano l'allarme sulla ricomparsa anche sul territorio nazionale di malattie considerate debellate da tempo;
    accanto alla preoccupazione per il contagio che possa arrivare da fuori dai confini nazionali esistono timori relativi agli stranieri che vivono già in Italia, in situazioni alloggiative non sane e in condizioni igieniche precarie. Sono già avvenuti episodi nei quali stranieri sono arrivati al pronto soccorso affetti da tubercolosi, ma all'inizio dell'agosto 2014 all'ospedale trevisano Ca’ Foncello è stato scoperto addirittura un caso di lebbra;
    occorre ricordare come negli ultimi anni la diffusione della tubercolosi è aumentata di quasi il 50 per cento: da 4 a oltre 6 mila casi all'anno soprattutto nelle grandi città, con il 25 per cento dei casi tra Roma e Milano e la Lombardia tra le regioni più colpite. La malattia era stata praticamente debellata negli anni Ottanta, per poi tornare a crescere soprattutto a causa degli arrivi di extracomunitari da Paesi ad alta endemia;
    tra immigrati e ritorno della malattia esisterebbe una connessione. La nuova tubercolosi appartiene, peraltro, a un ceppo altamente resistente ai farmaci. Una ragione in più per vigilare. «Per chi arriva da Paesi con malattie diverse dalle nostre, è necessario fare i controlli sanitari prima dell'inserimento in comunità. Non è un atteggiamento discriminatorio, ma una pratica importante in termini di salute pubblica» secondo quanto dichiarato da Susanna Esposito, presidente della Società italiana di infettivologia pediatrica e direttore dell'unità di pediatria del Policlinico di Milano;
    la regione europea è stata dichiarata dall'Organizzazione mondiale della sanità «libera da polio» nel 2002, anche grazie alla diffusione del vaccino intervenuta subito dopo le grandi epidemie della metà del Novecento;
    il poliovirus è responsabile della terribile poliomielite, una malattia che coinvolge l'apparato neurologico dell'individuo distruggendone i tessuti nervosi e conducendo, nei casi più gravi, alla paralisi;
    nei documenti ufficiali il Ministero della salute precisa che «la recente riemergenza della polio in alcuni paesi è legata a diversi fattori, quali i conflitti bellici in corso, la debolezza dei sistemi sociali e sanitari, incapaci di garantire il raggiungimento di adeguate coperture vaccinali (come in Siria, dove si è assistito al crollo delle coperture passate dal 91 al 68 per cento) o interventi mirati in caso di reintroduzione di poliovirus selvaggi»;
    all'interno degli stessi documenti viene specificato che: «Alla fine del 2013 il 60 per cento dei casi di polio era dovuto alla diffusione internazionale del virus selvaggio, con evidenza di correlazione con viaggiatori adulti sani che avrebbero contribuito alla disseminazione del virus»;
    i Paesi maggiormente «sospettati» di essere portatori del virus sono Siria, Etiopia, Somalia. Camerun, Nigeria. Iraq, Guinea, Pakistan, Afghanistan ed Israele;
    il comitato dell'Organizzazione mondiale della sanità, riunitosi d'urgenza il 28 e 29 aprile 2014, ha emanato le «raccomandazioni internazionali» ai Paesi membri per contrastare la diffusione del virus;
    oltre ai rischi di contagio attraverso malattie «storiche», il mondo sta combattendo il virus dell'ebola che, secondo la definizione del numero uno dell'Organizzazione mondiale della sanità, Margaret Chan, «è una minaccia globale»; ad oggi, va precisato, inoltre, che, sui 8914 casi segnalati, 4447 sono state le vittime e il tasso di mortalità del 70 per cento; le previsioni dell'Organizzazione mondiale della sanità sono che l'epidemia peggiorerà prima di migliorare e richiede un aumento della risposta globale, i cui dati raccontano della più complessa epidemia di ebola nella storia del virus, «una situazione senza precedenti»;
    la presidente di Medici senza frontiere, Joanne Liu, ha tracciato un quadro fosco parlando sempre nella sede Onu: «Il mondo sta perdendo la battaglia contro l'epidemia. In Africa occidentale, i casi e le morti continuano ad aumentare. Ci sono continue rivolte, i centri di isolamento sono sopraffatti. Gli operatori sanitari che combattono in prima linea si stanno infettando e stanno morendo in numeri scioccanti. In Sierra Leone, corpi infetti marciscono nelle strade. Piuttosto che costruire nuovi centri di cura dell'ebola in Liberia, siamo costretti a costruire forni crematori. Per arginare l'epidemia, è imperativo che gli Stati implementino attività civili e militari con esperienza nel contenimento del rischio biologico»;
    l'ebola non si diffonde via aria o con contatti casuali, come sedersi vicino a una persona sull'autobus. Il modo più comune con cui si contrae il virus è toccare il sudore, la saliva o il sangue di una persona infettata o morta a causa della malattia. Anche toccare un oggetto contaminato può essere causa di infezione; l'infezione ha un esordio improvviso e un decorso acuto e non è descritto lo stato di portatore;
    l'incubazione può andare dai 2 ai 21 giorni (in media una settimana), a cui fanno seguito manifestazioni cliniche; la diagnosi clinica è difficile nei primissimi giorni, a causa dell'aspecificità dei sintomi iniziali. Può essere facilitata dal contesto in cui si verifica il caso (area geografica di insorgenza o di contagio) e dal carattere epidemico della malattia. Anche in caso di semplice sospetto, è opportuno l'isolamento del paziente e la notifica alle autorità sanitarie;
    i dati parlano di 8914 casi accertati e 4447 decessi, tra i quali, sino alla metà di settembre 2014, 1089 in Liberia, 800 in Guinea e 623 in Sierra Leone. In Nigeria, che non figura ancora nelle statistiche dell'Organizzazione mondiale della sanità, i morti sono invece 8 e 22 i casi conclamati secondo l'ultimo bilancio dell'Organizzazione mondiale della sanità del 5 settembre 2014. Un primo caso è stato, inoltre, confermato in Senegal la scorsa settimana. Al ritmo attuale di contagio, saranno necessari da 6 a 9 mesi ed almeno 490 milioni di dollari (373 milioni di euro) per riuscire a contenere l'epidemia, che secondo l'Organizzazione mondiale della sanità rischia di colpire 20.000 persone;
    in Italia, dopo Bologna, Varese, Gallarate, anche il Veneto registra i primi casi sospetti di ebola. Il settore igiene pubblica e prevenzione del Veneto ha fatto appena in tempo ad inviare a tutte le aziende sanitarie il protocollo contenente le prime indicazioni operative di risposta regionale per la prevenzione;
    pur avendo predisposto cordoni di sicurezza intorno agli Stati che sono oggetto dell'epidemia, gli esperti, però, ammoniscono che le terapie servono a poco, mentre le armi più efficaci rimangono prevenzione, contenimento dei casi, sorveglianza dei potenziali malati e comunicazione efficace dei rischi;
    il virus ebola è una grande preoccupazione. L'Organizzazione mondiale della sanità nelle nuove direttive riferisce che l'incubazione va dai due ai ventuno giorni. Di ebola si può anche guarire e nel momento in cui uno guarisce, per altri 28 giorni, mantiene il virus nel suo corpo e lo può espellere con i liquidi biologici. Questo significa che esiste un arco temporale di 50-60 giorni nel quale comunque questo virus può essere veicolato dall'uomo che lo ospita;
    come sollevato dal governatore Maroni, in Lombardia l'unico aeroporto attrezzato con un filtro sanitario adeguato ai parametri di legge è lo scalo di Malpensa, dove il servizio è strutturato in modo esemplare, ma bisogna pensare anche a Linate, Orio al Serio e Montichiari, in modo da essere pronti non solo per l'emergenza di ebola ma anche per Expo 2015, che è in arrivo l'anno prossimo e richiamerà a Milano almeno 20 milioni di passeggeri da tutti i Paesi;
    per la sua posizione geopolitica, l'Italia è stata da sempre esposta al fenomeno migratorio. In primo luogo poiché geograficamente protesa verso il mare e, di conseguenza, completamente predisposta ai flussi commerciali o migratori, sempre difficilmente controllabili nella loro interezza. In secondo luogo poiché, trovandosi al centro del Mar Mediterraneo, costituisce il confine meridionale del continente europeo, facilmente raggiungibile non solo dalla vicinissima Africa, ma anche dal più lontano Medio Oriente. Al di là delle sterili cifre, il fenomeno migratorio è progressivamente divenuto più drammatico. L'immigrazione negli ultimi anni ha fatto registrare un aumento esponenziale anche a seguito della cosiddetta «primavera araba», ma soprattutto a causa della rivoluzione economico-sociale che ha sconvolto il mondo negli ultimi venti anni;
    il progetto «mondiali sta» di rivoluzione economica, politica e sociale che ha conformato il pensiero culturale alle logiche liberiste del mercato, ha scardinato l'identità e le economie di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) su cui le popolazioni del sud del Mondo avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli e millenni, privandoli di quel tessuto di solidarietà familiare e comunitaria. In breve, il potere delle risorse prevale sul potere dell'uomo;
    basti pensare che ai primi del Novecento l'Africa era alimentarmente autosufficiente. Lo era ancora, in buona sostanza (al 98 per cento), nel 1961. Ma da quando ha cominciato ad essere aggredita dall'integrazione economica le cose sono precipitate. L'autosufficienza è scesa all'89 per cento nel 1971, al 78 per cento nel 1978;
    tutti gli «aiuti» non solo non sono riusciti a tamponare il fenomeno della fame, in Africa e altrove, ma lo hanno aggravato. Perché gli «aiuti» alle popolazioni del Terzo Mondo tendono ad integrarle maggiormente nel mercato economico mondiale. Ed è proprio questa integrazione, come dimostra la storia dell'ultimo mezzo secolo, che le fa ammalare ed esplodere;
    prima, quindi, di affrontare i problemi connessi all'emergenza sbarchi nel nostro Paese con il solito approccio buonista, si dovrebbe essere capaci di assumersi le proprie responsabilità storiche ma soprattutto si dovrebbe essere in grado di capire che è necessario un intervento in controtendenza fondato, da un lato, su un'azione forte di contrasto all'immigrazione di massa e, dall'altro lato, finalizzato a sviluppare interventi mirati di aiuto sul posto per le popolazioni sofferenti;
    il dramma dell'immigrazione e dei suoi risvolti sociali sta toccando picchi emergenziali. I poteri dello Stato si trovano spesso senza mezzi tecnici, economici e giuridici per fronteggiarne le derive più estreme, complice la legislazione schizofrenica nazionale ed europea. Come è avvenuto in passato in altre situazioni emergenziali (ad esempio, nei fenomeni di contrasto al terrorismo negli anni di piombo, di contrasto alla mafia, di contrasto al terrorismo islamico), soltanto una legislazione speciale, accompagnata da deroghe ai trattati internazionali finalizzate alla sicurezza interna (ad esempio, come avvenne durante il G8 Italia per quanto riguarda il Trattato di Schengen) e accompagnata da una politica di accordi stabili bilaterali di rimpatrio (politica già intrapresa, ad esempio, con Serbia ed Albania), può consentire la reale tutela dell'interesse dei cittadini e degli stranieri regolarmente presenti nonché diminuire realmente la pressione migratoria e, quindi, le tragedie umanitarie «degli sbarchi»;
    nel rispetto del principio costituzionale di cui all'articolo 52 della Costituzione: «la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino», in osservanza dei principi di cui agli articoli 1, 2, 3, 10 e 32 della Costituzione, è necessario che il Governo preveda interventi straordinari per garantire la sicurezza dei cittadini e la salvaguardia e la tutela del territorio nazionale minacciato da un eccezionale afflusso migratorio, motivato da particolari condizioni di instabilità politica negli Stati confinanti e nei Paesi del Nord Africa di sponda mediterranea,

impegna il Governo:

   a sospendere immediatamente l'operazione Mare nostrum al fine di scongiurare ogni rischio di contagio e diffusione dalle sopra indicate malattie tra la popolazione, con particolare riguardo agli agenti delle forze dell'ordine e agli operatori impegnati nell'operazione;
   a predisporre filtri sanitari adeguati ai protocolli internazionali presso tutti gli scali aeroportuali e portuali, oltre che presso le stazioni ferroviarie che hanno collegamenti con treni internazionali;
   ad adottare, nelle more di un intervento strutturale e strategico, coordinato dall'Onu, misure urgenti per predisporre la creazione di campi di accoglienza da collocare negli Stati africani che si affacciano sul Mediterraneo, al fine di soccorrere i migranti che arrivano dall'intero continente per cercare di arrivare in Europa sulle nuove tratte degli schiavi, di verificare i reali presupposti per la concessione di status di rifugiato, di verificare eventuali contagi del virus ebola, posto che, se una persona sospettata di essersi contagiata arriva dall'Africa senza alcun sintomo, questa persona non è contagiosa ma dovrà attendere ventuno giorni per l'eventuale comparsa dei sintomi, ed è solo alla comparsa dei sintomi che diventerà infettiva per le altre persone.
(1-00629) «Rondini, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Simonetti».
(17 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    diventa sempre più diffuso tra i cittadini l'allarme relativo a rischi sanitari collegati al fenomeno migratorio, vista la presenza di emergenze epidemiologiche in zone da cui si spostano quotidianamente persone che decidono di migrare in Europa;
    è, ora più che mai, evidente il bisogno di un cambio di strategia nel rispondere ai fenomeni in atto, caratterizzati da afflussi contingenti di profughi di intensità straordinaria, provenienti da situazioni di guerra o violenza generalizzata, in aree in cui spesso si associano condizioni sanitarie ad alto rischio, che necessariamente chiamano in causa la capacità di intervento e di mobilitare risorse da parte di tutta l'Unione europea;
    su tutti, l'allarme ebola; al riguardo, di recente, il presidente della Commissione dell'Unione europea, Josè Manuel Barroso, ha avuto modo di dichiarare: «L'Ebola può diventare una catastrofe umanitaria di grandissime dimensioni: non è solo un problema dei paesi africani che stanno soffrendo molto per il virus», l'epidemia è una «responsabilità di tutta la comunità internazionale», e ha aggiunto: «Insieme agli Usa ed ai partner internazionali va rafforzato il lavoro. L'ebola è una della priorità principali dell'agenda Ue e nel consiglio Ue sarà deciso qualcosa a riguardo»;
    l'epidemia ha preso avvio nella forest region della Guinea, ai confini con la Sierra Leone e la Liberia, e ha coinvolto successivamente la capitale Conakry. Il primo caso in Liberia è stato notificato il 30 marzo 2014 e in Sierra Leone il 25 maggio 2014; dal dicembre del 2013, ossia da quando l'epidemia avrebbe avuto effettivamente inizio, al 3 ottobre 2014 sono stati riportati dall'Organizzazione mondiale della sanità 7.470 casi probabili, confermati e sospetti, inclusi 3.431 decessi, con un tasso di letalità del 46 per cento in Guinea, Liberia e Sierra Leone;
    in Nigeria, dove il virus ebola è stato introdotto nel mese di luglio 2014 dalla Liberia, sono stati registrati 20 casi e 8 decessi. Oltre al caso indice, si sono verificati casi secondari e terziari e, dopo il focolaio iniziale di Lagos, un cluster di casi è stato registrato a Port Harcourt, nello Stato di Rivers, con tre casi confermati. In Senegal è stato registrato un solo caso di importazione dalla Guinea senza ulteriori casi secondari. Sia in Nigeria che in Senegal è stato completato il periodo di sorveglianza sanitaria di 21 giorni senza evidenza di nuovi casi di malattia;
    il focolaio attualmente in corso nella Repubblica democratica del Congo, con 70 casi, di cui l'ultimo isolato il 25 settembre 2014 e 43 decessi, è del tutto indipendente da quelli dei Paesi dell'Africa occidentale. Anche in Congo vengono messe in atto misure di sorveglianza nei confronti dei soggetti venuti in contatto con casi di malattia, che in gran parte hanno già superato il periodo di osservazione di 21 giorni senza sviluppare sintomi sospetti;
    la situazione è estremamente grave, motivo per il quale è necessario un intervento coordinato e anche estremamente rapido nei Paesi interessati per impedire che l'epidemia possa viaggiare;
    sia le Nazioni Unite sia l'Organizzazione mondiale della sanità hanno previsto che l'epidemia arriverà a un picco di 20.000 casi entro la fine del 2014, perché, ovviamente, si trasmette in modo esponenziale;
    si è passati dai pochi casi nel marzo 2014 ai dati odierni perché, come emerso nell'incontro di Washington sulla sicurezza sanitaria globale, si è di fronte ad un problema di infrastrutturazione dei sistemi sanitari nei Paesi del West Africa. Anche l'azione dell'Organizzazione mondiale della sanità, che è un'azione epidemiologica, non è riuscita a frenare il diffondersi dell'epidemia per motivi strutturali, in particolare per la mancanza di medici;
    si è in presenza di Paesi in cui c’è un medico ogni 100.000 persone, e con la popolazione sparsa in villaggi è evidente il rischio del diffondersi a macchia di leopardo dell'epidemia. Pertanto, ci sono stati anche casi di linciaggi di operatori sanitari che andavano, per esempio, a spruzzare disinfettanti. Questo è uno dei motivi per cui, per esempio, l'azione europea, in particolare quella italiana, è estremamente importante, attraverso l'opera di ong che si trovano nei territori da venti o trent'anni e sono estremamente accettate dalla popolazione;
    il livello dell'emergenza in Africa pone un tema sulla sicurezza dell'area globale e, in particolare, sulla sicurezza dei Paesi europei;
    il coordinamento delle misure sanitarie a livello europeo è sotto l'egida del Health Security Committee dell'Unione europea, che, oltre ad avvalersi della consulenza tecnica del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc), si basa anche sulle raccomandazioni fornite dall'Organizzazione mondiale della sanità, la quale, al momento, non raccomanda restrizioni di viaggi o controlli all'ingresso;
    per quanto riguarda, in particolare, l'operazione Mare nostrum, di cui il Ministro dell'interno, Angelino Alfano, ha annunciato l'imminente chiusura (da ultimo, nel corso dell'informativa urgente tenutasi alla Camera dei deputati il 16 ottobre 2014), la partecipazione del Ministero della salute con propri medici alle attività della Marina militare è volta a consentire, quando ancora i migranti sono a bordo e prima dello sbarco sul territorio italiano, i controlli sanitari per accertare la presenza e i sintomi sospetti di malattie infettive ai sensi del regolamento sanitario internazionale dell'Organizzazione mondiale della sanità;
    in caso di mancanza del medico del Ministero della salute a bordo, i controlli vengono effettuati a terra, prima dello smistamento dei migranti verso i vari centri di accoglienza;
    nonostante l'azione di prevenzione messa in campo, si sono comunque verificati casi che hanno destato l'allarme generale, in particolare per gli operatori e le forze dell'ordine quotidianamente coinvolti nelle operazioni di soccorso e di assistenza ai migranti; quest'estate, la stampa ha diffuso la notizia del caso di meningite accertato in un clandestino maliano sbarcato a Porto Empedocle ed ospite del centro d'accoglienza Villa Sikania di Siculiana, cui sono seguiti altri casi sospetti; sono stati riscontrati, hanno inoltre riassunto i media, 44 casi di scabbia, 4 di tubercolosi e, appunto, un caso di meningite;
    il pericolo di un'emergenza sanitaria non può essere sottovalutato in alcun modo, né può essere minimizzato il rischio a cui sono sottoposte in particolare le forze dell'ordine, svolgendo i servizi legati all'arrivo dei migranti: trascurare tutto questo e non portare avanti opportune iniziative di sicurezza, prevenzione e controllo è un atteggiamento che non garantisce a pieno il diritto alla tutela della salute sancito dalla Costituzione, nonché è segno di grave mancanza di rispetto e di considerazione verso gli operatori coinvolti e verso tutti i cittadini;
    il 1o novembre 2014 partirà Triton, l'operazione messa in campo da Frontex nelle acque del Mediterraneo, con un budget mensile di 2,9 milioni di euro (ovvero meno di un terzo di quanto Mare Nostrum costa all'Italia); quanto all'operatività, il mandato di Triton sembra essere il solo controllo dei confini e non il salvataggio in mare. Le navi e gli aerei impiegati potranno spingersi solo trenta miglia oltre le coste italiane e non fin davanti alle coste libiche, dove sarebbe necessario perché teatro della maggior parte dei naufragi. Non potranno, quindi, essere garantite operazioni di prevenzione come finora sono state fatte su Mare Nostrum. Il personale impiegato non potrà, infatti, come fa la Marina militare italiana, operare screening sanitari a bordo;
    è di tutta evidenza che, vista l'emergenza sanitaria, che non riguarda solo l'ebola, urge la necessità, a partire dall'operazione Triton, di un coinvolgimento e di un rafforzamento dei sistemi di controllo, sia con un'incentivazione delle procedure di sicurezza, sia con azioni di informazione più dettagliata nei confronti dei cittadini;
    è importante avviare un sistema di sorveglianza epidemiologica coordinata a livello globale, a partire dal livello europeo; è una questione di rilievo, soprattutto per l'area mediterranea, tutelare la sicurezza e la salute di quest'area geografica che ha delle esigenze particolari legate al continuo flusso di migranti provenienti da Paesi già colpiti da epidemie e ad alto rischio di contagio;
    la terrificante epidemia di ebola in almeno tre paesi dell'Africa occidentale (Nuova Guinea, Liberia e Sierra Leone) impone non soltanto di dare una risposta immediata per fermarne la diffusione, ma anche di ripensare le politiche legate alla sanità pubblica globale;
    la riunione svoltasi a Bruxelles il 16 ottobre 2014 dei Ministri della salute dell'Unione europea ha posto in evidenza l'incompletezza delle politiche sanitarie e la necessità di un maggior coordinamento tra gli Stati membri,

impegna il Governo:

   ad adottare le opportune iniziative volte a:
    a) provvedere all'interruzione dell'operazione Mare Nostrum, come già dichiarato dal Ministro dell'interno, Angelino Alfano, che ha annunciato, nel corso della recente informativa alla Camera dei deputati, la convocazione di un prossimo Consiglio dei Ministri nel corso del quale sarà stabilita e deliberata la conclusione dell'operazione;
    b) garantire, nell'ambito dell'operazione Triton, adeguati controlli sanitari direttamente a bordo delle navi;
    c) garantire massima tutela, in particolare per gli operatori sanitari e le forze dell'ordine quotidianamente coinvolti nelle operazioni di soccorso e accoglienza dei migranti, attraverso il rafforzamento delle procedure di sicurezza e dei sistemi di prevenzione e controllo del rischio sanitario, relazionando al Parlamento circa le attività portate avanti in merito;
    d) prevedere, in relazione al rischio sanitario, azioni di informazione più dettagliata nei confronti degli operatori coinvolti nelle operazioni di soccorso e accoglienza dei migranti e di tutti i cittadini;
    e) implementare il coordinamento dell'attività dei singoli Ministeri della salute dei Paesi europei, che coinvolga i Ministeri degli esteri, della cooperazione e dello sviluppo e i sistemi di difesa nazionale, per attività di prevenzione e controllo del rischio sanitario;
    f) prevedere, al fine di garantire il diritto costituzionale alla salute dei cittadini, che non può essere certamente considerato inferiore al diritto di libertà di circolazione dei migranti, misure di controllo sanitario più stringenti nei confronti dei migranti e dei richiedenti asilo provenienti dai Paesi attualmente focolaio del virus ebola, quali Liberia, Sierra Leone e Nuova Guinea;
    g) potenziare, in accordo con l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, la rete dei campi di accoglienza esistenti nei Paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo, rafforzando in particolare le procedure interne delle operazioni di sicurezza e controllo per la prevenzione del rischio sanitario;
    h) prevedere l'utilizzo di monitor e strumentazione adeguata negli aeroporti, al fine di attuare operazioni di prevenzione e controllo sanitario dei passeggeri.
(1-00633) «Brunetta, Ravetto, Bergamini, Centemero, Palese».
(20 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il fenomeno migratorio ha assunto, ormai, dimensioni epocali; è in costante crescita ed è soggetto a continue mutazioni sia per quanto riguarda i motivi che lo generano sia per le modalità nelle quali si manifesta. Gli Stati europei, e più di tutti il nostro Paese, si trovano ad affrontare, dunque, un problema estremamente complesso, che assume sempre più carattere strutturale, che richiede risposte la cui enorme difficoltà non sfugge a nessuno;
    in Italia il peso assoluto e relativo degli stranieri sulla popolazione residente è aumentato notevolmente nel tempo e si prevede che tale trend proseguirà nei prossimi anni. Le implicazioni sociali e sanitarie sono considerevoli. I flussi migratori interessano, infatti, una moltitudine di popolazioni e di categorie di persone che, alle più comuni problematiche di carattere sociale, sollecitano risposte sul piano di quelle che attengono al tema della salute, dei bisogni, dei suoi rischi e dei vari livelli di vulnerabilità;
    la salute dei migranti e le tematiche di salute associate alle migrazioni sono dunque, al momento, questioni cruciali per l'agenda internazionale dei Governi e della società civile;
    lo stato di salute dei migranti, determinato in larga parte dalle condizioni sociali ed igienico-sanitarie del Paese di provenienza, può risentire anche delle precarie condizioni di vita e di lavoro e del difficile accesso ai servizi sanitari del Paese ospite. I timori legati alla condizione di irregolarità e la scarsa conoscenza del diritto di accesso ai servizi sanitari, delle modalità di fruizione degli stessi e della lingua locale sono, infatti, alcuni tra i principali fattori che impediscono ai migranti di accedere a percorsi di prevenzione, di diagnosi precoce e di terapia ambulatoriale in Italia e li spingono piuttosto a rivolgersi al Servizio sanitario nazionale in condizioni di urgenza (presso il pronto soccorso);
    una situazione che può favorire l'insorgenza e lo sviluppo di patologie di diversa complessità e gravità: questo aspetto è particolarmente rilevante per le malattie infettive, patologie che si diffondono più facilmente in condizioni di scarsa igiene e di sovraffollamento;
    si sa bene che la prevenzione gioca un ruolo fondamentale nell'evitare l'insorgenza e la diffusione di malattie infettive nella popolazione e che, per molte di queste patologie, sono disponibili terapie mirate risolutive: è evidente, pertanto, che combattere le problematiche relative all'accesso ai servizi sanitari ed intervenire sugli aspetti fondamentali della salute è particolarmente rilevante dal punto di vista della sanità pubblica;
    gli interventi di salute pubblica per ridurre il rischio di patologie infettive devono avere, dunque, sia una prospettiva di breve periodo (occupandosi dei migranti appena giunti in Italia e ospitati nei centri di accoglienza) sia una a lungo termine (rivolgendosi alle persone che si sono stabilite e cominciano a integrarsi nel nostro Paese). Tra le prime misure rientrano: un sistema di sorveglianza e di allerta precoce che preveda una valutazione dello stato di salute dei migranti all'ingresso e un suo monitoraggio nei centri di immigrazione; procedure che favoriscano l'accesso ai servizi sanitari per le popolazioni migranti che consentano la diagnosi precoce di eventuali patologie e una continuità di cura e strategie vaccinali in grado di proteggere bambini ed adulti, nonché assicurare una continuità con la loro pregressa storia vaccinale;
    tra le strategie a lungo periodo diventa fondamentale favorire l'accesso alle vaccinazioni previste nel calendario vaccinale e per categorie professionali, per riuscire a raggiungere obiettivi di sanità pubblica e permettere una maggiore sicurezza sui luoghi di lavoro;
    la tutela della salute in Italia è sancita dall'articolo 32 della Costituzione che, identificando la salute come « fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività» non la vincola alla cittadinanza italiana o allo status (regolare o irregolare) di residenza. Da questo principio deriva la legislazione attualmente in vigore che sancisce il diritto di qualunque cittadino straniero in Italia di usufruire dei servizi sanitari pubblici a prescindere dalla sua situazione;
    per quanto riguarda le misure di prevenzione, il Ministero della salute e lo Stato maggiore della Marina militare hanno concluso un accordo con il quale si prevede che dal 21 giugno 2014 il personale sanitario del Ministero della salute, con specifica formazione per la gestione delle problematiche quarantenarie, che competono direttamente allo Stato, sarà stabilmente a bordo delle unità navali che partecipano all'operazione Mare Nostrum al fine di effettuare le operazioni di controllo sanitario già prima che i migranti arrivino nei porti italiani, utilizzando il lasso di tempo che intercorre tra il recupero e l'arrivo in porto. Il Ministero della salute prosegue, pertanto, nell'opera di rafforzamento del dispositivo di sorveglianza sanitaria nei confronti di potenziali rischi infettivi connessi ai flussi migratori ed ha avviato tale iniziativa volta a rispondere in maniera efficace all'incremento numerico delle persone da controllare: si opera così per la prima volta una proiezione in mare degli uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera del Ministero della salute. Medici ed altro personale sanitario della Marina militare imbarcato sulle stesse unità continuano ad effettuare gli interventi sanitari curativi che si rendono necessari. L'operazione, pertanto, contribuisce ad elevare il livello di tutela dei cittadini residenti nel nostro Paese e quella dei migranti stessi;
    grazie all'operazione scrupolosa di applicazione delle norme di prevenzione sanitaria e dei dispositivi individuali di protezione, l'operazione Mare Nostrum (interpretata e sostenuta con encomiabili perizie e spirito umanitario dalle forze dell'ordine, ed affiancata dalla Croce Rossa e da organizzazioni non governative che operano a bordo delle navi italiane), si è in grado di stabilire in anticipo l'identità di chi entra in Italia e soprattutto le sue condizioni di salute;
    il nostro Paese ha un sistema sanitario universalistico: cura tutti indistintamente senza eccezioni; il Governo sta mettendo in campo un programma straordinario di assistenza ai minori che arrivano sul territorio italiano. Questi impegni sono sostenuti dall'Italia con le sue risorse: ma, rispetto all'evidenza di un fenomeno che coinvolge un intero continente, risulta opportuno, giusto e indispensabile che l'Europa intera sostenga tale sforzo. Sarebbe, infatti, opportuno realizzare una task force a livello europeo proprio per affrontare il tema della salute dei migranti (includendo anche il tema dei rapporti bilaterali con i Paesi da cui provengono i flussi migratori) in un momento in cui il «fenomeno ebola» sta creando un giustificato allarme nel continente e nel mondo intero;
    il rischio di importazioni di malattie da virus ebola, per l'Italia come per gli altri Paesi europei, appare, al momento, sotto controllo. Infatti, il Ministero della salute ha posto in essere ogni necessaria iniziativa volta a potenziare la vigilanza sanitaria sia sul territorio nazionale che nei punti di ingresso transfrontalieri marittimi ed aerei. A tal fine, sono state emanate specifiche circolari e raccomandazioni alle regioni e alle province autonome, agli uffici di sanità marittima, alle aree di frontiera, alle amministrazioni interessate ed al Ministero della difesa;
    l'istituzione delle misure di sorveglianza presso porti, aeroporti e punti d'ingresso internazionali del nostro Paese, continuerà, pertanto, fino alla dichiarazione di cessazione dell'epidemia. Si ribadisce, ancora una volta, che le caratteristiche del Sistema sanitario nazionale e l'efficienza dei sistemi di sorveglianza a livello locale, regionale e nazionale sono in grado di evitare la presenza di fenomeni epidemici;
    è stata, tra l'altro, costituita una task force interministeriale (Ministeri della salute, della difesa, degli affari esteri e della cooperazione internazionale, delle infrastrutture e dei trasporti e dell'interno) per far fronte ad eventuali rischi legati all'epidemia da virus ebola. L'obiettivo è di un rafforzamento dei controlli in porti ed aeroporti, ma anche dell'avvio di una campagna di informazione tra i viaggiatori;
    in relazione all'esperienza della gestione sul territorio nazionale dei casi sospetti di malattia da virus ebola, il Ministero della salute ha stabilito un protocollo centrale proprio in merito ai casi sospetti, probabili e confermati, nonché ai contatti cui fare riferimento nell'organizzazione della preparazione e della risposta al verificarsi degli stessi. In particolare, il protocollo prevede la gestione dei casi di virus ebola indicati a livello centrale, con il coinvolgimento delle regioni e, ove necessario, delle altre amministrazioni dello Stato ed enti privati e l'eventuale trasferimento in modalità protetta presso uno dei centri nazionali di riferimento per la gestione clinica del paziente;
    in Italia, le segnalazioni dei casi sospetti che si sono intensificate nei mesi di luglio ed agosto del 2014, determinate anche da un sistema di allerta attivato nel Paese, e pervenute sino ad oggi al Ministero della salute, sono state oggetto di apposite indagini epidemiologiche e di approfondimento diagnostico, come previsto dalle circolari emanate, riportando un esito negativo. Il Ministero della salute ha fornito, con successive circolari, disposizioni per il rafforzamento delle misure di sorveglianza nei punti di ingresso internazionale (porti ed aeroporti). Da ultimo, con la circolare del 1o ottobre 2014 ed aggiornata il 6 ottobre successivo, sono state fornite indicazioni, non solo sui centri di riferimento nazionali e sui centri clinici a livello di regioni e province autonome, in cui possono essere gestiti casi sospetti e confermati di infezioni da virus ebola. Si è fatto riferimento anche alle modalità di stratificazione del criterio epidemiologico in base al rischio di esposizione, alla valutazione iniziale ed alla gestione di casi sospetti o confermati da virus ebola, alle modalità per il trasporto, alle precauzioni da adottare per la protezione degli operatori sanitari e alle misure nei confronti di coloro che vengono a contatto con tale malattia,

impegna il Governo:

   a proseguire nell'opera di monitoraggio, con particolare riguardo al controllo anche nelle sedi aeroportuali con specifico riferimento agli scali di Milano Malpensa e di Roma Fiumicino, al fine di scongiurare che l'Italia, per la sua peculiare collocazione geografica e per il suo ruolo nell'ambito del Mediterraneo, possa trovarsi in una situazione di maggiore difficoltà rispetto ad un fenomeno tanto grave e complesso;
   a rafforzare e potenziare le procedure per l'individuazione dei soggetti che potrebbero essersi infettati già nei Paesi africani colpiti dall'epidemia da virus ebola prima del loro imbarco sugli aeromobili, con destinazione in uno degli aeroporti europei;
   a promuovere l'attivazione di una campagna informativa in modo omogeneo in tutta l'Unione europea, al fine di garantire la più corretta e totale informazione ai cittadini circa i comportamenti da tenere nell'ipotesi in cui inizino a manifestarsi i sintomi di una possibile infezione;
   ad adottare attività di sostegno ai Paesi interessati che coinvolgano gli Stati membri e le strutture della Commissione europea, in modo da supportare gli stessi Paesi nelle iniziative di ricostruzione dei sistemi sanitari duramente colpiti da questa emergenza.
(1-00634) «Dorina Bianchi, Calabrò, Roccella».
(20 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 32 della Costituzione italiana tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo ed interesse della collettività. Con il termine «individuo» si include nell'ambito della tutela non solo il cittadino italiano, ma chiunque si trovi all'interno dei confini della Repubblica, operando così secondo una logica di tutela e prevenzione collettiva;
    il fenomeno migratorio, pur essendo presente nella storia dell'umanità fin dai suoi albori, è oggi divenuto una realtà globale, strutturale e dalla velocità estremamente rapida. Secondo l'Onu, nel 2010, 191 milioni di persone vivevano fuori dal loro Paese d'origine: ovvero il 2,9 per cento della popolazione mondiale (6 miliardi e 464 milioni). Il 59 per cento di queste persone è diretto nei Paesi ad alto reddito, mentre la restante parte migra nei Paesi meno sviluppati. In Italia la presenza di stranieri ha raggiunto il numero di 3.772.000 persone (includendo circa 800 mila irregolari) all'inizio del 2009: si tratta di oltre il 7 per cento della popolazione totale. Uno ogni cinque stranieri è un minore e un decimo di loro è nato in Italia da genitori stranieri;
    nel fenomeno migratorio appare evidente anche l'ampliamento delle disuguaglianze di salute (health divide) generate dal contesto sociale a sfavore delle fasce deboli della popolazione. Tra gli immigrati le malattie possono essere il risultato di fattori ambientali nel loro Paese d'origine, nel Paese di destinazione o del processo migratorio in sé. Se, da un lato, i migranti non hanno necessariamente una salute peggiore del resto della popolazione, dall'altro essi tendono ad essere esposti ad un rischio maggiore di andare incontro a problemi di salute associati alla povertà, alla scarsità di condizioni igieniche, ad una alimentazione diversa da quella a cui sono abituati. Gli immigrati più vulnerabili ai problemi di salute legati alla povertà sono: le donne, i giovani e gli anziani, ma anche migranti con problemi di lavoro, alcuni gruppi etnici, i richiedenti asilo, i rifugiati e gli immigrati irregolari ed altri;
    appare, quindi, necessario proporre una attività di ricerca, diagnosi, cura e formazione che affrontino questo tema e promuovano le azioni di contrasto. Parallelamente occorre costruire una rete con i centri internazionali, a partire dall'Organizzazione mondiale della sanità, che affrontano queste tematiche emergenti nel contesto più vasto dell'Europa e dei Paesi dell'Est, come anche di quelli in via di sviluppo;
    la salute è stata riconosciuta non solo come un bene prezioso per l'essere umano, ma anche una ricchezza fondamentale per il progresso sociale, economico ed individuale che supera i confini territoriali dello Stato. Dal momento che lo stato di salute non è legato soltanto al settore sanitario, ma è influenzato da numerosi fattori, politici, economici, sociali, culturali, ambientali, biologici e comportamentali. È opportuno considerarli tutti se si vuole raggiungere l'obiettivo prefissato;
    l'ultimo «Rapporto povertà» di Caritas Europa descrive e analizza le condizioni socio-economiche e i bisogni dei migranti e identifica i fattori chiave che nei Paesi di accoglienza possono metterli in difficoltà, fino a ridurli in povertà. Si interessa particolarmente delle condizioni degli irregolari e dei richiedenti asilo perché sono i gruppi più vulnerabili e più a rischio non solo di povertà economica e sociale ma anche di malattia, e proprio per una migliore tutela della salute evidenzia fino a che punto i migranti siano a rischio di esclusione per ciò che concerne il lavoro, l'alloggio e l'istruzione;
    le condizioni di salute degli immigrati emergono misurando lo stato di salute con indicatori di percezione, sia analizzando le informazioni raccolte sulle malattie. Tuttavia, si osservano, per alcune etnie, situazioni di criticità che andrebbero approfondite e monitorate. La domanda di salute espressa con il ricorso ai servizi sanitari evidenzia complessivamente un minore accesso rispetto a quello degli italiani, a parità di età, sebbene con alcune peculiarità;
    i comportamenti di prevenzione adottati dalle persone immigrate risentono della forte eterogeneità di questa popolazione, sia in termini di differenze culturali, che di genere. Considerando alcuni dei principali indicatori che consentono di cogliere l'attitudine alla prevenzione di carattere generale, si evince, infatti, che le donne straniere fanno più controlli dei loro coetanei maschi, ma i livelli rispetto alla popolazione italiana sono decisamente più contenuti;
    la crescente presenza di migranti provenienti da Paesi ad alta incidenza di patologie infettive ha prodotto il rischio della ricomparsa di malattie comunemente considerate debellate, come dimostrano i recenti fatti di cronaca che hanno visto un presunto contagio di tubercolosi tra i militari impegnati nell'operazione Mare Nostrum e così come sta avvenendo con l'epidemia di ebola, che da Guinea, Sierra Leone e Liberia rischia di diffondersi nel resto del mondo;
    l'epidemia di ebola rappresenta una «emergenza di salute pubblica di livello internazionale», come ha stabilito il comitato di emergenza istituito dall'Organizzazione mondiale della sanità, ed è «la peggiore che si sia avuta in almeno 40 anni e serve uno sforzo coordinato a livello internazionale per fermare la diffusione del virus»;
    il 18 settembre 2014, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha riconosciuto lo «scoppio» ebola come «una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale» e ha adottato all'unanimità la risoluzione 2177/2014, per la creazione di un'iniziativa a livello Onu per coordinare le attività di tutte le agenzie delle Nazioni Unite per affrontare la crisi;
    il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale ha stanziato circa 1,5 milioni di euro per contrastare l'epidemia di ebola che sta colpendo alcuni Paesi dell'Africa occidentale;
    la cooperazione italiana ha stanziato un contributo di 240.000 euro per l'Organizzazione mondiale della sanità per l'invio di medici, la fornitura di medicine e di attrezzature, il rafforzamento dei sistemi di sorveglianza epidemiologica e il coordinamento e supporto logistico delle attività di risposta all'emergenza;
    nel corso della discussione dell'atto Camera n. 2498, recante «Disciplina generale sulla cooperazione internazionale per lo sviluppo», il 17 luglio 2014, è stato accolto un ordine del giorno che impegnava il Governo ad assicurare la possibilità che le amministrazioni possano prevedere l'immissione in servizio di figure professionali di pari livello, con contratto a tempo determinato e comunque fino alla durata del periodo di aspettativa richiesto dal titolare, mantenendo a carico del progetto di cooperazione i contributi previdenziali per il personale espatriato,

impegna il Governo:

   a garantire l'adozione di adeguate misure di sicurezza legate al rischio di importazione di casi di ebola, attraverso l'identificazione precoce dei sospetti, evitando pericoli di ritardata diagnosi e conseguente applicazione delle misure necessarie;
   a predisporre l'attivazione o il potenziamento delle strutture atte a gestire questa specifica emergenza sanitaria;
   a valutare l'opportunità di incrementare le risorse destinate a programmi per contrastare l'epidemia di ebola anche attraverso l'invio di medici e la fornitura di medicine e di attrezzature;
   a dar seguito all'impegno preso con l'ordine del giorno citato in premessa per favorire l'espatrio dei dipendenti della pubblica amministrazione che intendono partecipare a progetti di collaborazione internazionale connesse all'emergenza sanitaria;
   a garantire l'accesso ai servizi sanitari a tutti i migranti, regolari e irregolari, prevedendo nei servizi sanitari la presenza di mediatori culturali e a non procedere all'espulsione dei migranti irregolari malati e che non hanno possibilità di accedere alle cure necessarie nel loro Paese di origine;
   a prevedere servizi tempestivi di screening analoghi per quelli che si fanno per i cittadini italiani per le principali patologie previste;
   ad assicurare ai rifugiati, richiedenti asilo e a quanti hanno subito eventi traumatici, come torture, guerre o persecuzioni, adeguate cure mediche e psicologiche e a garantire il diritto per tutti gli immigrati, compresi coloro che risiedono illegalmente, ad un alloggio dignitoso.
(1-00640) «Binetti, Buttiglione, Gigli, De Mita, D'Alia, Cera, Adornato, Piepoli, Sberna, Fitzgerald Nissoli, Caruso».
(21 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo un rapporto pubblicato il 20 giugno 2014, dall'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale il numero di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni in tutto il mondo ha superato i 50 milioni di persone. Alla fine del 2013 si contavano 51,2 milioni di migranti forzati, quasi 6 milioni di persone in più rispetto al 2012 dovute al massiccio esodo dalla Siria;
    in Europa i Paesi che hanno il maggior numero di rifugiati sono la Germania (589.737; 0,72 per cento sulla popolazioni residente), la Francia (217.865; 0,33 per cento), il Regno Unito (149.765; 0,23 per cento), la Svezia (92.872; 0,97 per cento) e l'Olanda (74.598; 0,44 per cento). L'Italia, con oltre 65.000 rifugiati e lo 0,11 per cento sulla popolazione residente, si colloca al sesto posto;
    il numero delle vittime e delle violazioni dei diritti umani da parte dei trafficanti, negli anni, è considerevolmente aumentato (in generale, dal 2000 al 2013, sono morti più di 23 mila migranti nel tentativo di fuggire dai conflitti e di raggiungere l'Europa via mare o attraversando i confini del vecchio continente via terra: in media più di 1.600 l'anno);
    nonostante lo straordinario impegno del Governo italiano con l'operazione di soccorso denominata Mare nostrum, che ha salvato migliaia di vite umane, i drammi e le violazioni dei diritti umani continuano a perpetrarsi;
    la Marina militare, all'interno dell'operazione Mare nostrum, dal 18 ottobre 2013, ha assicurato il costante pattugliamento aeronavale del Mediterraneo e dello stretto di Sicilia; 5 unità navali, circa 5 mila uomini impegnati, uomini e donne che hanno assistito direttamente 149 mila migranti, recuperato a bordo di navi che stavano affondando 93 mila persone e che hanno consegnato alla giustizia più di 500 scafisti;
    a partire da giugno 2014 sono stati 80.000 i controlli sanitari a bordo svolti da medici della Marina militare e del Servizio sanitario nazionale sulle imbarcazioni di migranti soccorse nell'ambito dell'operazione Mare nostrum e, ove questo non è stato possibile, i controlli sono stati svolti da medici a terra prima dello smistamento nei centri di accoglienza;
    tale operazione dovrebbe terminare a novembre 2014, sostituita dall'operazione Triton che Frontex farà partire il 1o novembre 2014 con il contributo di 26 Stati, coordinata dalla stessa Italia e con un budget di 2,9 milioni di euro al mese;
    la gestione dell'accoglienza, dell'identificazione e dell'assistenza da parte di molti Paesi dell'Unione europea presenta numerose criticità, data la consistenza del fenomeno e considerate le talvolta difficili condizioni sociali ed economiche dei Paesi riceventi, difficoltà che si riflettono sia sulle popolazioni accoglienti che sui rifugiati e richiedenti asilo;
    con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le materie concernenti l'asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea hanno acquisito la qualifica di politica comune dell'Unione europea (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea); pertanto, la concreta regolamentazione di tali materie risulta un'applicazione del Trattato; tra il 2007 e il 2013 l'Unione europea ha speso quasi 2 miliardi di euro per proteggere le frontiere esterne e solo 700 milioni di euro per il miglioramento della situazione di richiedenti asilo e rifugiati;
    nell'ambito dell'accoglienza, il tema della tutela della salute è certamente importante tenendo conto della provenienza, dei motivi della migrazione spesso forzata e del percorso migratorio di queste persone, delle condizioni di viaggio e delle possibilità di inserimento sociale;
    se, da una parte, tutte le aziende sanitarie interessate sono state in vario modo coinvolte, sorprende che il dibattito veicolato dai mass media più che sulle tutele si sia focalizzato sui pericoli. Man mano che il fenomeno degli sbarchi si è consolidato nei numeri, i giornali hanno riportato con grande enfasi il rischio delle «solite» (da almeno 30 anni ci si confronta con questi allarmismi) tubercolosi e scabbia, ma soprattutto il pericolo dell'importazione dell'ebola, della lebbra e del vaiolo;
    la tendenza a fare delle malattie infettive uno strumento di discriminazione è parte della nostra storia recente per l'Aids e oggi per l'ebola. L'uso di parole come nuova peste e catastrofe sanitaria, pandemia e malattia che non dà scampo vengono utilizzate spesso strumentalmente per evocare paure nella gente e concentrare le paure sugli stranieri, come se un virus potesse distinguere un migrante da un turista, come veicolo di contagio;
    se è assolutamente corretto far risalire l'allerta, attivarsi e chiedere risorse per un'azione internazionale, oltre a risolvere i focolai epidemici, è anche necessario passare attraverso una corretta informazione. Il panico, la paura dello straniero e il cordone di difesa rispetto ai flussi migratori non sono funzionali a questo obiettivo;
    le priorità di azione rispetto ad un focolaio epidemico, qualunque esso sia, sono la cura dei malati, l'isolamento del focolaio ed il controllo del percorso di contaminazione;
    l'isolamento del focolaio necessita, prioritariamente, di un'azione medica diretta sul focolaio, non di pura difesa dei nostri confini;
    l'intensificazione dei protocolli di ricerca, l'accelerazione del ritmo di lavoro per la realizzazione del vaccino, la risoluzione dell'epidemia del Senegal, i test negativi da oltre venti giorni in Nigeria e in Senegal, la sopravvivenza di personale sanitario contagiato in Spagna e in Norvegia, l'avvio di controlli di massa negli aeroporti internazionali sono il segno dell'attivazione organizzativa e dell'azione della medicina del mondo occidentale;
    diventa, quindi, fondamentale: accelerare la ricerca di cure efficaci e di vaccini preventivi; contribuire alla revisione della politica dell'Organizzazione mondiale della sanità sugli aiuti all'Africa, anche a sostegno del miglioramento dell'efficienza dei sistemi sanitari di quei Paesi poveri; chiedere l'intervento della Fao, perché non sia la fame a completare la strage che sta già compiendo l'ebola;
    la risposta ad un'epidemia, la risposta ad un virus, la risposta alla diffusione di una malattia è fatta di medicina, affiancata a misure di polizia sanitaria, e corrette ed idonee procedure di manipolazione, diagnosi e cura. I virus, siano l'ebola, l'Hiv o gli altri agenti patogeni, non si combattono né con i confini né con la paura: c’è solo uno strumento efficace ed è la scienza,

impegna il Governo:

   a predisporre in tempi rapidi una campagna capillare e chiara di poche e semplici informazioni sul virus ebola, sulle modalità di contagio e sulle precauzioni igieniche, sulle disposizioni precise e tempestive che gli operatori della sanità devono utilizzare in caso di sospetto di infezione e sull'approvvigionamento dei presidi da utilizzare nei casi sospetti, dall'accettazione al trasferimento nella struttura di riferimento;
   a predisporre una rivisitazione su base scientifica delle campagne vaccinali italiane;
   a potenziare le misure di controllo nei principali porti ed aeroporti italiani;
   a rafforzare la rete delle unità operative di malattie infettive nella forma già utilizzata con successo dalla campagna contro l'Aids e, successivamente, depotenziata a seguito di riorganizzazioni e di tagli alla spesa, nonché a potenziare gli ambulatori di prima accoglienza degli immigrati;
   ad attivarsi in sede europea affinché l'operazione Triton, pur attuata nel pieno rispetto degli obblighi internazionali e dell'Unione europea, tra cui il rispetto dei diritti fondamentali e del principio di non respingimento, che esclude le espulsioni, preveda anche il «salvataggio di vite umane» attraverso compiti di ricerca e soccorso;
   a predisporre in tempi rapidi un programma di interventi di emergenza per contrastare l'epidemia di ebola che sta colpendo alcuni Paesi dell'Africa, prevedendo non solo adeguati stanziamenti economici ma anche l'invio di medici specializzati, di forniture di medicine e di attrezzature, nonché il rafforzamento dei sistemi di sorveglianza.
(1-00643) «Amato, Burtone, Lenzi, Albini, Beni, Carnevali, D'Incecco, Grassi, Patriarca, Miotto, Piccione, Capone, Murer, Mariano».
(23 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il 20 ottobre 2014, il Consiglio dei Ministri degli affari esteri a Lussemburgo ha affrontato il tema dell'adozione di misure coordinate per contrastare la diffusione del virus ebola, che, secondo le ultime stime dell'Organizzazione mondiale della sanità, ha già causato oltre 4.500 vittime nei Paesi dell'Africa occidentale colpiti;
    l'idea sarebbe quella di articolare gli aiuti internazionali attorno a tre Paesi leader: gli Stati Uniti per la Liberia, la Gran Bretagna per la Sierra Leone e la Francia per la Guinea, mentre Francia e Germania insistono per la messa a punto di un dispositivo coordinato di evacuazione sanitaria, giudicato indispensabile per assicurare il flusso dei rinforzi europei;
    il virus Ebola ha un tasso di mortalità del cinquanta per cento e si sta diffondendo in modo epidemiologico principalmente in Guinea, Sierra Leone e Liberia, ai quali si sono aggiunti casi isolati in altri Paesi, l'ultimo dei quali in Spagna;
    dai dati in merito ai precedenti casi di diffusione del virus, nel 1995 e nel 2007, in cui i morti complessivamente sono stati meno di trecento, si evince la particolare gravità della situazione in atto;
    già nei mesi scorsi sia gli Stati Uniti sia diversi Paesi europei hanno deciso di alzare il livello di allerta, adottando misure precauzionali in materia sanitaria e di trasporto, soprattutto aereo;
    secondo l'Organizzazione mondiale della sanità la priorità deve proprio essere quella dei controlli aeroportuali in partenza dai Paesi africani colpiti;
    secondo il sito del Ministero della salute «In Italia sono state attivate tutte le possibili misure di preparazione e risposta a livello nazionale, regionale e locale, nell'evenienza che si debba gestire un sospetto caso di EVD», e «anche nel caso di particolari minacce per la salute, il sistema di sanità pubblica è in grado di rispondere, in base alle indicazioni centrali, al loro contenimento, essendo presenti, sul territorio, due strutture dotate di laboratori di massima sicurezza e di stanze ad alto isolamento, nonché il protocollo per il trasporto in alto biocontenimento di pazienti affetti da febbri emorragiche virali»;
    appena un paio di giorni fa, tuttavia, il segretario nazionale del sindacato delle professioni infermieristiche ha denunciato come gli infermieri italiani non siano adeguatamente preparati «a fare fronte ad eventuali casi di Ebola: non hanno ricevuto una formazione specifica né rispetto alla malattia né circa l'utilizzo dei dispositivi di protezione», dispositivi che, peraltro, in molti ospedali mancano ancora;
    il nostro Paese è particolarmente esposto ad un rischio di contagio se si tiene conto del costante flusso di immigrati che arrivano proprio da Paesi africani attraverso gli sbarchi di clandestini sulle coste italiane;
    in occasione di uno sbarco di migranti irregolari avvenuto a Trapani nel mese di maggio 2014 si era già ipotizzata la presenza di una persona affetta dal virus ebola, come anche di alcuni casi di tubercolosi;
    a parte il personale delle navi che effettuano i salvataggi in mare, ad ogni sbarco di clandestini sulle banchine dei porti si trovano ad attenderli carabinieri, agenti di polizia, militari della guardia costiera e della guardia di finanza, nonché associazioni di volontariato e protezione civile, tutti esposti al rischio di contagio per qualunque tipo di infezione che abbia colpito i migranti, ma solitamente dotati solamente di guanti in lattice e mascherine;
    è un fatto che l'alto numero di migranti che arrivano quasi quotidianamente sulle coste italiane e la mancanza di controlli preventivi operati a bordo delle navi militari fanno si che questi migranti costituiscano un evidente rischio epidemiologico, e non è da escludere che qualche migrante possa sfuggire al calcolo probabilistico legato ai tempi d'incubazione dell'ebola;
    oltre al possibile contagio da ebola, a preoccupare gli operatori dell’ «emergenza immigrazione» c’è anche la tubercolosi, la cui diffusione negli ultimi anni è aumentata di quasi il 50 per cento, passando da quattro a seimila casi all'anno, dopo che negli anni Ottanta era stata quasi debellata;
    la causa di tale aumento è la crescente immigrazione da Paesi ad alta endemia, unita al fatto che la terapia seguita sin qui nel contrasto alla malattia, basata su massicce dosi di antibiotici, sta selezionando ceppi batterici che diventano sempre più resistenti alle cure;
    nel nostro Paese l'incidenza di tubercolosi tra gli immigrati si ipotizza che sia di cinquanta casi su centomila persone, circa cinque volte superiore all'incidenza nella popolazione italiana;
    secondo gli studi condotti sullo stato di salute degli immigrati che arrivano in Italia, su di essi si può osservare il cosiddetto «effetto migrante sano», che dipende dal fatto che solo i soggetti più forti e sani tendono a optare per il difficile percorso migratorio, auto-selezionandosi quindi già nei Paesi di origine, ma, ciononostante, «lo stato di benessere di questi migranti “pionieri” può esaurirsi nel tempo a causa di condizioni di vita e di lavoro precarie e dello scarso accesso ai servizi sanitari nel Paese ospite»;
    sempre secondo gli studi effettuati in merito dal Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute è tuttavia «verosimile che nel tempo la rilevanza dell’“effetto migrante sano” in Italia tenda a diminuire. Infatti, con la stabilizzazione del fenomeno migratorio, i nuovi immigrati giungeranno seguendo percorsi già attuati da parenti o amici che si trovano in Italia. Questo tragitto, più semplice e meno rischioso, richiede una minore autoselezione iniziale ed è motivato, oltre che dalla ricerca di lavoro, anche dall'opportunità di ricongiungimento familiare. I nuovi arrivi presenteranno quindi caratteristiche più eterogenee dal punto di vista demografico e dello stato di salute»;
    alcune patologie ad alta endemia in Paesi a forte spinta migratoria, come l'epatite B e la tubercolosi, possono essere asintomatiche al momento dell'arrivo in un Paese di immigrazione, ma manifestarsi in seguito a causa delle cattive condizioni di vita dell'individuo, abitative, igieniche o alimentari, che esercitano un ruolo rilevante nel favorirne la progressione;
    nonostante l'introduzione da numerosi anni di un vaccino sicuro ed efficace, l'epatite B rimane ancora oggi una patologia associata ad elevate morbilità e mortalità, con una diffusione globale di circa 400 milioni di persone infettate cronicamente e con un'incidenza in alcune aree geografiche pari o oltre l'otto per cento;
    tra le regioni a più alta endemia per l'infezione da epatite B figura la Cina, posto che, secondo gli ultimi dati epidemiologici, la prevalenza di tale infezione nella popolazione cinese e del sud-est asiatico va dall'otto al venti per cento ed è una delle principali cause di morte;
    tra le popolazioni immigrate nel nostro Paese quella cinese è sicuramente ben rappresentata e, anzi, in alcune aree si è assistito ad una crescita esponenziale della popolazione cinese, giunta nel dicembre 2013 a contare oltre trecentoventimila persone, e mancano informazioni riguardo agli individui non regolarizzati;
    recentemente il sindacato di polizia Consap ha lanciato l'allarme per il contagio da tubercolosi occorso a numerosi poliziotti impiegati nell'ambito della gestione dell'immigrazione clandestina;
    al momento degli sbarchi gli immigrati sono sottoposti ad una visita medica, a dir poco approssimativa, di pochi minuti, nel corso della quale è possibile accertare solo patologie già conclamate e visibili ad occhio nudo;
    dopo lo sbarco i clandestini, una volta assegnati ai diversi centri di accoglienza dislocati nel territorio nazionale, vengono trasportati, prevalentemente in pullman, verso tali centri, sempre accompagnati da alcuni agenti di polizia;
    nel corso di tutte le operazioni che si svolgono sia nell'ambito del servizio immigrazione, sia all'interno dei centri di identificazione ed espulsione e dei centri di accoglienza per i richiedenti asilo, i poliziotti, come anche tutti gli altri operatori impiegati e coinvolti, non sono dotati di un equipaggiamento idoneo, ai fini della protezione sanitaria;
    il citato sindacato di polizia, insieme ad Assotutela, ha anche promosso una class action contro il Ministero dell'interno per chiedere l'interruzione dell'operazione Mare nostrum perché «il nostro sistema sanitario e i mezzi di cui disponiamo non ci permettono di affrontare tali rischi»;
    sarebbero, infatti, già circa quaranta i poliziotti che hanno contratto la tubercolosi nello svolgimento del proprio servizio nell'ambito dell'operazione Mare nostrum;
    il segretario nazionale della Consap ha stigmatizzato come la profilassi per la salvaguardia e la tutela dei poliziotti non solo sia insufficiente ma sia anche «ben al di sotto degli standard di altri Paesi», mentre Assotutela ha sottolineato come vi sia stata, da parte degli organi preposti, una «reiterata violazione della normativa in materia di protezione del personale impegnato nelle attività di Mare Nostrum o comunque per ragioni di servizio costantemente a contatto con fonti epidemiologiche, con un danno alla salute, morale e biologico del soggetto colpito e della propria famiglia, ma anche erariale ed economico in un Paese dove la Sanità ha già ritardi cronici irreversibili»,

impegna il Governo:

   a disporre, in concomitanza dell'avvio dell'operazione Triton promossa in ambito europeo, la definitiva cessazione delle attività dell'operazione Mare nostrum;
   a fornire tempestivamente ogni elemento circa gli esiti del Consiglio dei Ministri degli affari esteri del 20 ottobre 2014 con riferimento al contrasto della diffusione del virus ebola;
   ad adottare con urgenza tutte le misure precauzionali necessarie a contrastare la diffusione del virus ebola e di ogni altra patologia infettiva sul territorio nazionale, con particolare riferimento alla gestione dei flussi di immigrati irregolari;
   ad elaborare, nell'ambito di tale quadro, un sistema di sorveglianza e di allerta precoce, che preveda una valutazione dello stato di salute dei migranti all'ingresso e un suo monitoraggio nei centri di immigrazione, nonché ad individuare procedure che favoriscano l'accesso ai servizi sanitari per le popolazioni migranti che consentano la diagnosi precoce di eventuali patologie ed una efficace strategia vaccinale;
   a disporre l'adozione di ogni misura utile a prevenire il rischio di contagio da patologie per tutti i soggetti impiegati nelle attività di accoglienza e gestione degli immigrati, soprattutto nella primissima fase del loro arrivo sul territorio nazionale, provvedendo, altresì, alla redazione delle norme di prevenzione e profilassi a ciò necessarie e prevedendo la dotazione di un adeguato equipaggiamento.
(1-00646) «Rampelli, Cirielli, Giorgia Meloni, Corsaro, La Russa, Maietta, Nastri, Taglialatela, Totaro».
(28 ottobre 2014)


MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE PER L'IMPIEGO DI PARTE DEL RISPARMIO PREVIDENZIALE PER INTERVENTI A SOSTEGNO DELL'ECONOMIA

   La Camera,
   premesso che:
    la Commissione parlamentare di controllo sull'attività degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza sociale ha approvato il 9 luglio 2014 una relazione intitolata «Iniziative per l'utilizzo del risparmio previdenziale complementare a sostegno dello sviluppo dell'economia reale del Paese»;
    la relazione è stata trasmessa alle Presidenze della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica in data 10 luglio 2014;
    la Commissione ha svolto un approfondito lavoro, nell'ambito dell'ampliamento delle competenze che il legislatore ha previsto, con l'ultima modifica approvata con la legge di stabilità per il 2014, affidando ad essa non solo le tradizionali funzioni di controllo sugli istituti di previdenza, ma un quadro esteso di funzioni di vigilanza: sull'efficienza del servizio in relazione alle esigenze degli utenti, sull'equilibrio delle gestioni e sull'utilizzo dei fondi disponibili, anche con finalità di finanziamento e sostegno del settore pubblico e con riferimento all'intero settore previdenziale ed assistenziale; sulla programmazione dell'attività degli enti e sui risultati di gestione in relazione alle esigenze dell'utenza; sull'operatività delle leggi in materia previdenziale e sulla coerenza del sistema previdenziale allargato con le linee di sviluppo dell'economia nazionale;
    in tale quadro la Commissione sta svolgendo un'approfondita indagine conoscitiva su «Funzionalità del sistema previdenziale pubblico e privato, alla luce della recente evoluzione normativa ed organizzativa, anche con riferimento alla strutturazione della previdenza complementare», che sinora ha contato 37 audizioni a partire dal gennaio 2014, con la partecipazione di tutte le istituzioni rappresentative ed istituzionali interessate al settore previdenziale (Corte dei conti, Banca d'Italia, Consob, Covip, Mefop, Inps, Inail, casse private e privatizzate, fondi pensioni dei settori della previdenza complementare, organizzazioni sindacali e datoriali), nonché esperti del settore, consulenti della Commissione;
    la Commissione europea si è fatta promotrice di una modifica della direttiva 2003/41/CE Iorp (Institutions for occupational retirement provision) – proposta COM(2014) 167 final 2014/0091 (COD) del 27 marzo 2014 (c.d. Iorp 2) di revisione della cosiddetta direttiva Iorp, relativa alle attività e alla vigilanza degli enti pensionistici aziendali o professionali – approvata il 27 marzo 2014, varando un pacchetto complessivo che prevede un piano della Commissione europea per soddisfare le esigenze di finanziamento a lungo termine dell'economia europea del 27 marzo 2014 e una comunicazione in tema di crowdfunding (finanziamento collettivo) per offrire possibilità di finanziamento alternative per le piccole e medie impresse (MEMO/14/240); il pacchetto si basa sulle risposte ricevute nel corso dell'esame del libro verde del 2013 e sulle discussioni avvenute in vari consessi internazionali, come il G20 e l'Ocse ed identifica una serie di misure specifiche che l'Unione europea deve adottare per promuovere il finanziamento a lungo termine dell'economia europea;
    il tema centrale proposto dalla Commissione europea è quello di favorire l'istituzione di fondi comuni europei specializzati nell'investimento di lungo termine in determinate attività produttive in tutto il territorio dell'Unione europea, in quanto «l'Europa ha notevoli esigenze di finanziamento a lungo termine per favorire la crescita sostenibile, il tipo di crescita che aumenta la competitività e crea occupazione in modo intelligente, sostenibile e inclusivo»; «occorre diversificare le fonti di finanziamento in Europa e migliorare l'accesso ai finanziamenti per le piccole e medie imprese, che rappresentano la spina dorsale dell'economia europea»; con riferimento specifico alle norme sulle pensioni aziendali o professionali, si rileva che: «Tutte le società europee devono affrontare una duplice sfida: si tratta di approntare un quadro pensionistico che tenga conto dell'invecchiamento della popolazione e, nel contempo, di realizzare investimenti a lungo termine che favoriscano la crescita. I fondi pensionistici aziendali o professionali sono doppiamente coinvolti nella questione: dispongono di oltre 2.500 miliardi di euro di attivi da gestire con prospettive a lungo termine, mentre 75 milioni di europei dipendono in gran parte da loro per la propria pensione. La proposta legislativa di oggi permetterà di migliorare la governance e la trasparenza di tali fondi in Europa, migliorando, quindi, la stabilità finanziaria e promuovendo le attività transfrontaliere, per sviluppare ulteriormente i fondi pensionistici aziendali e professionali come imprescindibili investitori a lungo termine»;
    tra le azioni previste nella Iorp 2 vi sono la finalizzazione dei dettagli del quadro prudenziale per banche e imprese di assicurazione che sostengono i finanziamenti a lungo termine all'economia reale, una maggiore mobilitazione di risparmi pensionistici personali e la valutazione delle modalità per incoraggiare maggiori flussi transfrontalieri di risparmio; la proposta di direttiva Iorp 2 si propone complessivamente di tutelare gli aderenti alle forme di previdenza complementare adeguatamente dai rischi di gestione, di incentivare i benefici derivanti da un mercato unico delle pensioni aziendali o professionali, rafforzando la capacità dei fondi pensionistici aziendali o professionali di investire in attività finanziarie con un profilo economico a lungo termine e sostenendo, quindi, il finanziamento della crescita nell'economia reale; si tratta in sostanza di favorire l'uso dei finanziamenti privati, aggiuntivi rispetto a quelli pubblici, per investimenti in infrastrutture e migliorare il quadro complessivo del finanziamento sostenibile a lungo termine;
    tali prospettive sono state oggetto di un importante confronto tra il Vicepresidente della Commissione europea e Commissario per il mercato interno e i servizi Michel Barnier e i componenti della Commissione bicamerale nel corso dell'audizione svoltasi alla Camera dei deputati il 3 luglio 2014; Barnier ha illustrato i contenuti del pacchetto di misure riguardanti l'incentivazione dell'uso del risparmio previdenziale per il finanziamento a medio e lungo termine dell'economia reale in Europa, nel quadro del complesso delle iniziative assunte dalla competente direzione generale per lo sviluppo dell'economia e la liberalizzazione delle attività economiche;
    sulla necessità di utilizzare il risparmio previdenziale per operazioni di finanziamento dell'economia reale si ricordano anche gli orientamenti emersi nel corso delle audizioni svolte: la Corte dei conti, nel corso dell'audizione del 27 febbraio 2014, ha rilevato che «un significativo contributo al finanziamento delle imprese può essere assolto dalle casse privatizzate e dalla previdenza complementare, nella peculiare funzione di intermediazione del risparmio previdenziale di lungo periodo»; la Consob, in audizione presso la VI Commissione finanze della Camera dei deputati, ha sottolineato come il mondo della previdenza complementare-domestico mostri una ridotta propensione all'investimento in titoli di capitale, ivi compresi quelli italiani; la Banca d'Italia, nell'audizione dell'11 giugno 2014, ha evidenziato che le attività dei fondi pensioni in Italia rappresentano il 5,6 per cento del prodotto interno lordo, a fronte di percentuali pari al 96 per cento nel Regno Unito, al 75 per cento in USA e alla media dei Paesi europei pari al 21 per cento, e che il criterio che deve orientare gli organi di governo dei fondi pensione è quello dell'ottimizzazione delle scelte di investimento e che «a condizione che i fondi si dotino di competenze e assetti organizzativi adeguati, potrebbero esistere margini per una composizione dei portafogli meno tradizionale»;
    nella relazione approvata la Commissione bicamerale, allineandosi alle proposte formulate dalla Commissione europea, tenendo conto anche degli orientamenti nell'ambito di un tavolo tecnico di confronto al quale hanno partecipato rappresentanti del Governo e dei dicasteri interessati (Ministero dell'economia e delle finanze, Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e Ministero dello sviluppo economico), nonché molti delle istituzioni audite in Commissione, ha valutato la percorribilità di iniziative istituzionali volte a far sì che l'impiego di parte dei patrimoni gestiti dai fondi pensione e dalle casse professionali possa concorrere a destinare rilevanti risorse finanziarie a sostegno di programmi strategici per lo sviluppo del sistema Paese, quali l'innovazione tecnologica, le fonti di energia sostenibili, la ricerca, il rilancio di aree industriali in crisi, il salvataggio e la ristrutturazione di piccole e medie imprese in difficoltà, i programmi di edilizia abitativa e scolastica e altro;
    occorre sottolineare che sia per la previdenza complementare che per le forme di previdenza obbligatoria degli iscritti negli ordini professionali, in assenza di una forte iniziativa politica, decine e decine di miliardi del risparmio previdenziale, per un totale di quasi 200 miliardi di euro complessivi, continueranno ad essere investiti in strumenti finanziari, per lo più all'estero, in una misura che oggi è pari a circa il 70 per cento del totale degli impieghi; il restante 30 per cento degli impieghi è sostanzialmente investito in titoli di Stato;
    tale andamento determina oggi, di fatto, l'impossibilità di finanziare le imprese italiane e le iniziative di sviluppo infrastrutturale del nostro Paese, in un momento in cui il tema delle risorse finanziarie da recuperare per lo sviluppo dell'economia reale dell'Italia è assolutamente rilevante;
    nella relazione approvata dalla Commissione, che qui si intende integralmente richiamata, sono ipotizzate una serie di misure volte a conseguire tale obiettivo, secondo tre principali linee di intervento:
     a) interventi fiscali per stimolare gli investimenti della previdenza complementare in iniziative di sviluppo del Paese, con misure di equiparazione del regime di tassazione ovvero di agevolazione fiscale in rapporto alla partecipazione ad investimenti in iniziative a sostegno dell'economia reale del Paese; l'idea di fondo è che lo strumento fiscale non deve rispondere solo all'esigenza contingente di ripristinare o mantenere la tenuta dei conti pubblici, ma anche costituire una leva di politica economica a disposizione del Governo e del Parlamento per una politica di sviluppo, così come avviene in altri Paesi europei che utilizzano le agevolazioni fiscali per incentivare l'economia e per operare in senso competitivo con gli altri Stati, dal momento che gli strumenti di politica monetaria sono ormai devoluti alla Banca centrale europea;
    nella relazione si analizzano le normative estere esistenti in materia di tassazione dei fondi pensione e delle Casse previdenziali degli ordini professionali;
    il sistema prevalente in Europa, ad esempio nel Regno Unito, è il cosiddetto sistema «eet» (esente, esente, tassato), con riferimento, rispettivamente alla fase dell'accumulazione, alla tassazione dei rendimenti maturati in ciascun anno da parte dei soggetti gestori del risparmio previdenziale e della tassazione delle prestazioni pensionistiche complementari erogate in forma di rendita;
    in Italia la fase di accumulazione è sostanzialmente esente, in quanto l'articolo 8, comma 4, del decreto legislativo n. 252 del 2005 prevede che i contributi versati dal lavoratore e dal datore di lavoro, sia volontari sia dovuti in base a contratti o accordi collettivi, alle forme di previdenza complementare sono deducibili dal reddito complessivo per un importo non superiore ad euro 5.164,57;
    i contributi versati dal datore di lavoro usufruiscono, altresì, delle medesime agevolazioni contributive;
    ai fini del computo del predetto limite si tiene conto anche delle quote accantonate dal datore di lavoro ai fondi di previdenza di cui all'articolo 105, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi;
    la tassazione dei rendimenti maturati in ciascun anno è stata elevata per il 2014 all'11,5 per cento (prima del decreto-legge n. 66 del 2014, che ha ulteriormente incrementato la pressione fiscale in materia, era, infatti, dell'11 per cento);
    la tassazione delle prestazioni pensionistiche complementari erogate in forma di rendita, infine, ai sensi dell'articolo 11, comma 6, del citato decreto legislativo n. 252 del 2005, sono imponibili per il loro ammontare complessivo al netto della parte corrispondente ai redditi già assoggettati ad imposta e a quelli di cui alla lettera g-quinquies del comma 1 dell'articolo 44 del testo unico delle imposte sui redditi: sulla parte imponibile delle prestazioni pensionistiche erogate è, pertanto, operata una ritenuta a titolo d'imposta con l'aliquota del 15 per cento ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari con un limite massimo di riduzione di 6 punti percentuali (sino al 9 per cento, quindi, nell'ipotesi di un'anzianità contributiva di 35 anni); le prestazioni pensionistiche complementari erogate in forma di capitale sono imponibili per il loro ammontare complessivo al netto della parte corrispondente ai redditi già assoggettati ad imposta; per le casse private rispetto alle tre fasi della tassazione (accantonamento dei contributi, accumulo dei rendimenti, percezione della rendita), si ha una situazione del tipo «eet», ma più gravosa rispetto a quello previsto per i fondi pensione, in quanto se i contributi versati dagli iscritti sono esenti da tassazione fiscale (articolo 38, comma 11, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, che ha esteso anche all'esercizio di attività previdenziali e assistenziali da parte di enti privati di previdenza obbligatoria la disciplina dell'articolo 74 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, per gli enti pubblici), il trattamento fiscale dei rendimenti mobiliari è tassato al 20 per cento (articolo 2, comma 6, del decreto-legge n. 138 del 2011, a partire dal 2012), mentre le prestazioni sono assoggettate alle aliquote irpef: la relativa base imponibile è data dal valore della prestazione pensionistica al lordo dei rendimenti conseguiti dall'ente previdenziale, con una sorta di doppia tassazione quindi;
     b) interventi ordinamentali concernenti la normativa della previdenza complementare, sia per i fondi pensione che per le casse previdenziali, per stimolare il settore e favorire l'impiego, in condizioni di sicurezza del risparmio, di parte delle risorse ottenute per la promozione di interventi a sostegno dell'economia del Paese; in particolare, nella relazione si ipotizzano: revisione dei meccanismi di adesione alla previdenza complementare; forme di compensazione o garanzia pubblica per le imprese derivante dall'eventuale incremento dell'impiego del trattamento di fine rapporto in forme di previdenza complementare, in rapporto alla mancata disponibilità dello stesso come forma di autofinanziamento delle imprese; revisione dei limiti quantitativi e tipologici agli impieghi oggetto di definizione per i fondi pensione con il decreto del Ministero dell'economia e delle finanze n. 703 del 1996 e successiva revisione; definizione dello status giuridico delle casse professionali, che la legge ha previsto come private ma che sia in sede amministrativa – per esempio: dell'inclusione nell'elenco consolidato delle pubbliche amministrazione gestito dall'Istat; dei controlli; della sottoposizione al regime della spending review; dei regimi autorizzatori per gli impieghi del patrimonio; delle modalità di redazione dei bilanci, anche in sede giurisdizionale, sono state, di fatto, ricondotte ad un ambito pubblicistico; altre misure possono riguardare lo sblocco di parte delle risorse degli enti previdenziali pubblici, segnatamente l'Inail, attualmente immobilizzati nel conto di tesoreria unica;
     c) definizione delle modalità per la destinazione del risparmio previdenziale a sostegno di investimenti nell'economia reale, attraverso investimenti diretti a sostegno delle imprese, ovvero ampliando il ruolo di raccolta del risparmio della Cassa depositi e prestiti, estendendolo anche al risparmio previdenziale, al fine di favorire l'impiego di interventi strutturali a sostegno dell'economia, in connessione con lo sviluppo dell'impiego di risorse a sostegno del Paese derivanti dalla previdenza complementare;
    altro tema importante è quello dello sviluppo delle campagne informative per la sensibilizzazione dei lavoratori, specie i giovani, sulla rilevanza della previdenza complementare per un positivo futuro pensionistico;
    per la realizzazione di tale iniziativa dovranno essere assicurate importanti condizioni tecniche, quali acquisire il consenso degli enti interessati, prevedere forme di garanzia dello Stato atte ad assicurare la certezza degli investimenti e la loro adeguata remuneratività, in modo comunque da garantire l'equilibrio della gestione finanziaria degli enti interessati e il rispetto delle normative comunitarie in tema di aiuti di Stato,

impegna il Governo:

   ad attuare le linee direttive contenute nella relazione della Commissione parlamentare di controllo sull'attività degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza sociale per l'Assemblea, doc. XVI-bis n. 1 del 9 luglio 2014 e trasmesse alle Presidenze delle Camere in data 12 luglio 2014, al fine di favorire l'impiego di parte del risparmio previdenziale, su base consensuale e garantendo la tutela del risparmio previdenziale, risorse ottenute per la promozione di interventi a sostegno dell'economia del Paese, intervenendo per introdurre misure:
    a) per armonizzare il trattamento fiscale delle forme di previdenza complementare e della previdenza riguardante gli ordini professionali, definendo una tassazione a livello inferiore rispetto a quella attualmente prevista per i fondi pensione e valutando, altresì, l'introduzione di un sistema «eet» anche nel nostro Paese;
    b) per definire lo status giuridico delle casse degli ordini professionali o enti previdenziali privatizzati ai sensi del decreto legislativo n. 509 del 1994 e del decreto legislativo n. 103 del 1996, anche alla luce delle recenti e ripetute decisioni in sede di giustizia amministrativa che hanno richiamato il carattere pubblicistico di tali enti;
    c) per valutare forme eventuali di accorpamento delle casse degli ordini professionali al fine di realizzare economie di gestione e modalità di impiego delle risorse più efficienti, fatta salva la separazione delle gestioni relative agli specifici ordini professionali;
    d) per prevedere modifiche alla disciplina ordinamentale dei fondi pensione volti a stimolare l'accesso alla previdenza complementare; in particolare nella relazione si ipotizzano: revisione dei meccanismi di adesione alla previdenza complementare; forme di compensazione o garanzia pubblica per le imprese derivante dall'eventuale incremento dell'impiego del trattamento di fine rapporto in forme di previdenza complementare, in rapporto alla mancata disponibilità dello stesso come forma di autofinanziamento delle imprese; la revisione dei limiti quantitativi e tipologici agli impieghi oggetto di definizione per i fondi pensione con il decreto del Ministero dell'economia e delle finanze n. 703 del 1996, e successiva revisione;
    e) per avviare campagne di informazione per tutti i lavoratori, anche per i dipendenti pubblici, sulle opportunità offerte dalla previdenza complementare, atteso che la piena entrata a regime del sistema contributivo per la previdenza pubblica determinerà la necessità di pensioni complementari anche nel settore pubblico;
    f) per valutare l'adozione di altre misure finalizzate a aumentare le risorse finanziarie a disposizione di investimenti di rilevanza pubblica, quali lo sblocco di parte delle risorse degli enti previdenziali pubblici, segnatamente l'Inail, attualmente immobilizzati nel conto di tesoreria unica;
    g) per promuovere, d'intesa con i fondi pensione e le casse professionali, un patto per l'Italia per prevedere che, a fronte di interventi di agevolazioni, anche fiscali, e di miglioramento del quadro normativo complessivo del settore, sia verificata la disponibilità di effettuare investimenti di parte dei patrimoni gestiti a favore di iniziative per lo sviluppo infrastrutturale dell'Italia, garantendo la remuneratività degli investimenti, nel quadro della salvaguardia dell'equilibrio finanziario degli enti del secondo e del terzo pilastro e del diritto dei lavoratori a percepire le prestazioni previdenziali.
(1-00602) (Nuova formulazione) «Di Gioia, Morassut, Di Salvo, Di Lello, Dorina Bianchi, Piazzoni, Palese, Distaso, Aiello, Galati, Fucci, Caruso, Lacquaniti, Capelli, Fava, Adornato, D'Alia, Formisano, Gebhard, Lauricella, Ginoble, Melilla, Piepoli, Zoggia, Ginefra, Pastorelli, Meta, Marzano, Carella, Rostan, Scanu, Pilozzi, Rubinato, Pelillo, Sannicandro, Migliore, Carbone, Francesco Sanna, Grassi, Fioroni, Catania, Bosco».
(3 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    l'indirizzo politico adottato dal Governo e dalla maggioranza parlamentare che lo sostiene è quello di utilizzare il risparmio previdenziale per operazioni di finanziamento dell'economia reale;
    tale orientamento trova conferma nel disegno di legge di stabilità per il 2015 e nella relazione intitolata «Iniziative per l'utilizzo del risparmio previdenziale complementare a sostegno dello sviluppo dell'economia reale del Paese», approvata dalla Commissione parlamentare di controllo sulle attività degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza sociale il 9 luglio 2014 e trasmessa alle Presidenze della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica in data 10 luglio 2014;
    in particolare, per quanto riguarda la legge di stabilità per il 2015, secondo le indiscrezioni di stampa, il documento prevede la possibilità per il lavoratore – anche se ha già scelto di trasferire il trattamento di fine rapporto verso i fondi pensione – di richiedere l'anticipo del trattamento di fine rapporto tramite liquidazione diretta mensile della quota maturanda in busta paga, fino al 100 per cento della somma maturata nel corso dell'anno;
    per quanto concerne le modalità operative dell'erogazione del trattamento di fine rapporto, a fronte della richiesta del dipendente, per evitare problemi di liquidità alle piccole e medie imprese, l'idea allo studio sembrerebbe quella che l'azienda si faccia rilasciare dall'Inps una certificazione al diritto alla prestazione, che sarà trasmessa alle banche per ottenere l'erogazione di un finanziamento destinato all'anticipo del trattamento di fine rapporto; allo scadere del finanziamento, in caso di mancata restituzione delle somme da parte dell'azienda, la banca si rivolgerà all'Inps per recuperare il credito vantato verso l'azienda;
    sempre il documento della legge di stabilità per il 2015 prevederebbe poi, per recuperare risorse, un aumento della pressione fiscale sulla previdenza integrativa e complementare, con l'elevazione dell'aliquota oggi all'11,5 per cento tra il 20 ed il 26 per cento;
    pur comprendendo lo sforzo compiuto dal Governo per reperire le risorse necessarie a far ripartire l'economia italiana, tali decisioni sembrano essere caratterizzate da una logica emergenziale priva di una visione lungimirante; esse, infatti, non sembrano considerare i rischi a cui si espone nel medio-lungo periodo il sistema pensionistico italiano, né tantomeno sembrano tener conto del progressivo invecchiamento della popolazione e, quindi, della necessità di garantire pensioni sicure ed adeguate;
    non è, peraltro, la prima volta che un Governo di centrosinistra utilizza soldi dei lavoratori per «fare cassa»; si ricorda a tal proposito la legge finanziaria per il 2007 (articolo 1, commi 755 e seguenti, della legge n. 296 del 2007), con cui il Governo Prodi ha operato un vero e proprio «scippo» del trattamento di fine rapporto nell'intento di recuperare risorse per circa 5 miliardi di euro o il decreto-legge cosiddetto «salva-Italia» (articolo 24 del decreto-legge n.201/2011), con il quale il Governo Monti e la Ministra Fornero hanno tentato di risanare i conti pubblici elevando d'emblée i requisiti pensionistici;
    dalla costituzione del fondo presso l'Inps del trattamento di fine rapporto inoptato, con l'entrata in vigore appunto della legge finanziaria per il 2007, si sta utilizzando in maniera secondo i firmatari del presente atto di indirizzo illegittima quella che costituisce una retribuzione indiretta dei lavoratori per spese correnti, come addirittura il finanziamento di lavori socialmente utili o di comuni e province in dissesto finanziario;
    la stessa Corte dei conti ha rilevato che «a partire dal 2010, sulla base della legislazione sopravveniente (...) sembra cessare l'impiego ad investimenti delle somme prelevate (...) a seguito di tale fenomeno può concludersi che il prelievo stesso diviene un'entrata indifferenziata dello Stato, senza alcun vincolo di destinazione e senza l'istituzione di correlate poste passive, destinate alla reintegrazione del fondo», sottolineando il rischio di equità intergenerazionale nonché di pareggio di bilancio derivante dall'utilizzo degli accantonamenti di trattamento di fine rapporto presso il fondo per mere spese correnti,

impegna il Governo:

   ad adottare le opportune iniziative, anche di carattere normativo, per il superamento delle previsioni normative di cui ai commi 755 e seguenti dell'articolo 1 della legge n.296 del 2006, affinché il trattamento di fine rapporto inoptato rimanga in azienda e possa così rappresentare per le imprese stesse, come in passato, una forma di autofinanziamento per ristrutturarsi, investire e ritornare competitive, salvaguardando ed incrementando l'occupazione;
   a favorire, in termini fiscali, lo sviluppo della previdenza complementare al fine di garantire al lavoratore la possibilità di costituirsi una previdenza integrativa che compensi la riduzione delle prestazioni del sistema previdenziale pubblico;
   ad attuare tutte le opportune iniziative per garantire alle future generazioni pensioni certe e dignitose, considerato che la media dei trattamenti pensionistici italiani è tra le più basse d'Europa.
(1-00639) «Prataviera, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Rondini, Simonetti».
(21 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la previdenza complementare nasce come sistema regolamentare autonomo e strutturato all'inizio degli anni Novanta (articolo 2, comma 1, lettera v), della legge delega 23 ottobre 1992, n. 421 e decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124), in corrispondenza di una revisione complessiva dell'ordinamento pensionistico obbligatorio culminata nella legge n. 335 del 1995. L'obiettivo è quello di introdurre un secondo livello di tutela previdenziale che funga da strumento di compensazione per le riduzioni dei trattamenti pensionistici obbligatori e che concorra a soddisfare gli obiettivi di adeguatezza pensionistica (articolo 38 della Costituzione), ovvero a garantire ai lavoratori più elevati livelli di copertura;
    la normativa sui fondi pensione poi è stata riformata dalla legge delega 23 agosto 2004, n. 243, (articolo 1, commi 1, lettera c) e 2, lettera e) e seguenti) e dal decreto legislativo di attuazione 5 dicembre 2005, n. 252, (entrato in vigore il 1o gennaio 2007), con l'intento di aumentare il tasso di adesione dei lavoratori alle forme complementari e i flussi di finanziamento dei fondi pensione. La previdenza di secondo livello interessa tutte le forme di lavoro, autonomo, subordinato, professionale, ma è stata progressivamente estesa anche a soggetti che si trovano al di fuori del perimetro costituito dalle varie tipologie di lavoro;
    i fondi pensione vanno oggi considerati anche alla luce delle altre forme di previdenza contrattuale, introdotte nell'ordinamento dalla legislazione più recente, quale ad esempio la legge n. 92 del 2012, che all'articolo 3 disciplina nuovi sistemi di ammortizzazione sociale di fonte contrattuale collettiva;
    a livello di normativa europea due sono i principali interventi regolatori in materia e cioè la direttiva n. 49 del 1998 e la direttiva n. 41 del 2003 (cosiddetta direttiva sugli Epap – Enti pensionistici aziendali o professionali), quest'ultima recepita con l'introduzione di apposite disposizioni all'interno del decreto legislativo n. 252 del 2005;
    la prima regolamentazione organica della previdenza complementare è stata realizzata con la legge delega 23 ottobre 1992, n. 421, (articolo 2, comma 1, lettera v) e il decreto legislativo attuativo 21 aprile 1993, n. 124;
    tale regolamentazione, come detto, è stata sottoposta a revisione nel 2004-2005 con la legge delega 23 agosto 2004, n. 243, (articolo 1, commi 1, lettera c) e 2, lettera e) e seguenti) alla quale si è dato attuazione con il decreto legislativo 5 dicembre 2005 n. 252 (entrato in vigore il 1o gennaio 2007) sul presupposto di una più efficace messa a punto della strumentazione necessaria, anche a livello di flussi di finanziamento, per assicurare l'effettività della diffusione del secondo pilastro previdenziale;
    secondo la relazione annuale della Covip del 2013 (dati 2012), tale obiettivo è ancora lontano: alla fine del 2012 le forme pensionistiche complementari contavano su 5,8 milioni di iscritti con un tasso di adesioni, rispetto al totale dei lavoratori occupati (pubblici, privati e autonomi), pari a 25,5 per cento. È solo leggermente più alto il tasso di adesione per il lavoro dipendente privato: supera il 30 per cento se si tiene conto dei soli dipendenti occupati, mentre si riscende sotto tale soglia (circa 27 per cento) se si tiene anche conto dei dipendenti disoccupati (pari all'incirca a 3 milioni);
    sul fronte dell'impianto normativo si ritiene poi che talune scelte «tecniche» aumentino le remore dei lavoratori a dare la propria adesione ai fondi pensione. In tal senso, si è posto l'interrogativo se l'attuale situazione di irreversibilità del conferimento del trattamento di fine rapporto – forse discordante con le premesse di un sistema fondato sulla libertà di adesione – non abbia finito per fungere da deterrente per le conseguenze drastiche e definitive che determina;
    infatti, subito dopo la riforma del 2005 e alla luce dei dati deludenti sulla conseguente destinazione esplicita o tacita del trattamento di fine rapporto alla previdenza complementare, si è quindi ragionato in ordine all'opportunità di prevedere, a certe condizioni, il «diritto di ripensamento» del lavoratore (senza arrivare ad alcun «approdo» normativo);
    va comunque sempre tenuto in considerazione come la previdenza complementare trovi il suo fondamento nell'articolo 38, comma 2, della Costituzione: ciò significa che essa condivide l'obiettivo di garantire l'adeguatezza delle prestazioni pensionistiche;
    la previdenza complementare, dunque, per espressa indicazione normativa (articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 252 del 2005) deve concorrere a assicurare ai lavoratori «più elevati livelli di copertura previdenziale», anche in funzione della corrispondente contrazione dei livelli di copertura della previdenza pubblica, in una prospettiva costituzionale di adeguatezza del reddito pensionistico;
    occorre certamente una revisione dei meccanismi di adesione alla previdenza complementare. In merito, risulta necessario tenere in considerazione la limitata entità dell'attuale tasso di adesione, a fronte dell'ampia platea di potenziali contribuenti. Ciò è indice della scarsa propensione del lavoratore medio alla ricerca di forme di risparmio in funzione della garanzia di adeguati trattamenti di quiescenza, nonostante gli effetti prodotti dalle recenti riforme previdenziali;
    l'adozione di soluzioni complementari ed integrative della previdenza obbligatoria è attenuata dalla sussistenza di una forte diffidenza nel contribuente medio derivante anche dalla presupposta ed avvertita scarsa tutela, dalla necessaria ed insoddisfatta esigenza di garantire la sorte contributiva e una sufficiente remunerazione del risparmio, oltre che dall'inadeguata convenienza fiscale;
    in tale situazione il ventilato ricorso ad un sistema di adesione obbligatoria cagionerebbe un'ulteriore e fisiologica forma di chiusura, acuendo nel contempo la resistenza dei potenziali contribuenti e il contrasto sociale. Una soluzione praticabile è riconducibile alla commistione tra il mantenimento del sistema dell'adesione volontaria, la predisposizione di adeguate agevolazioni fiscali con la previsione di ampi margini di deducibilità e la realizzazione di un solido sistema di garanzie;
    in tale ottica – ed in considerazione della perseguita finalità di rendere conveniente per i contribuenti l'adesione ai fondi – appare sì praticabile l'attuazione dell'armonizzazione del trattamento fiscale ma non certamente alcuna soluzione riferibile a forme di adesione obbligatoria che risulterebbe invece del tutto improduttiva;
    certamente fruttuoso sarebbe invece provvedere, tra le altre cose, alla realizzazione di un accorpamento delle casse previdenziali;
    risulta, infatti, improcrastinabile un intervento di riorganizzazione del sistema delle casse – non circoscritto alla sola forma dell'accorpamento – con la necessaria esigenza di mantenere distinte le evidenze contabili riferibili alle singole casse private o privatizzate;
    tale intervento, oltre a consentire l'eliminazione o riduzione delle diseconomie esistenti, renderebbe più agevole l'attuazione dei prescritti controlli di gestione e contabili;
    la stessa predisposizione e ridefinizione del sistema di governance – oltre a realizzare evidenti ed immediati risparmi – attuerebbe una lineare e meno variegata azione amministrativa e gestionale, con conseguenti e auspicabili benefici sulla valorizzazione del patrimonio e sulla deflazione del contenzioso;
    nel caso di fondi pensione negoziali, la gestione dei singoli fondi è demandata a un consiglio di amministrazione paritetico al 50 per cento designato dagli imprenditori e al 50 per cento dai lavoratori. La percentuale designata dai lavoratori viene nella maggioranza dei casi eletta con liste prestabilite dalle organizzazioni cosiddette «associate» – di fatto Cgil-Cisl-Uil di categoria – e quindi nel consiglio di amministrazione entrano quasi esclusivamente i rappresentanti dei tre sindacati sopra citati;
    quello che si vuole sottolineare è che dette organizzazioni sindacali stipulanti gli accordi istitutivi di ciascun fondo poggiano la loro rappresentanza su quella che ai firmatari del presente atto di indirizzo appare un'iniqua posizione di rendita e di vantaggio, non suffragata da alcuna raccolta di firme con cui si devono invece misurare altre organizzazioni sindacali o associazioni di lavoratori;
    tale discriminazione, oltre alle difficoltà tecniche richieste alle liste che si vogliono presentare ex novo o che vogliono rinnovare la loro presenza ma non facenti parti dell'accordo costitutivo del fondo, fa sì che nei fatti siano ben pochi i delegati eletti fuori dell'ambito Cgil, Cisl E Uil, fuori della già citata «corsia privilegiata»;
    a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo questo alimenta un senso di sfiducia del lavoratore (contribuente del fondo) ed elettore verso un'istituzione che presenta delle asimmetrie così forti nella propria rappresentanza e potenziali opacità nella gestione del fondo stesso, a causa del fatto che i propri rappresentanti non sono direttamente responsabili di fronte ai lavoratori ma sono «mediati» da un'organizzazione che decide i nominativi nelle liste;
    una maggiore iniezione di democrazia partecipata, con posizione paritetica di tutte le liste e con formazione di liste provenienti dal basso ed autonomamente formate, contribuirebbe non poco ad aumentare la platea dei lavoratori aderenti;
    l'articolo 1, comma 1, del decreto legislativo n. 252 del 2005 disciplina le forme di previdenza per l'erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio, ivi compresi quelli gestiti dagli enti di diritto privato di cui ai decreti legislativi 30 giugno 1994, n. 509, e 10 febbraio 1996, n. 104, al fine di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale;
    l'azione del Governo ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo non può che essere improntata al perseguimento della tutela degli interessi degli iscritti alle forme di previdenza che deve risultare primario,

impegna il Governo:

   a garantire la massima trasparenza della gestione dei risparmi dei lavoratori, ponendo in essere ogni iniziativa utile a garantire, con ampia certezza, il rendimento e la sicurezza del diritto alla pensione da parte del fondo pensione;
   a valutare l'adeguatezza dei fondi pensione e la loro aderenza alle previsioni di cui all'articolo 38 della Costituzione, posto che la previdenza complementare, dunque, per espressa indicazione normativa (articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 252 del 2005) deve concorrere ad assicurare ai lavoratori «più elevati livelli di copertura previdenziale», anche in funzione della corrispondente contrazione dei livelli di copertura della previdenza pubblica;
   ad assumere iniziative per rivedere l'attuale sistema del silenzio assenso nel conferimento del trattamento di fine rapporto ai fondi pensione;
   a promuovere iniziative normative volte ad avviare serie campagne di informazione sui diritti dei lavoratori e sui modi di impiego del proprio trattamento di fine rapporto;
   a promuovere l'accorpamento delle casse degli ordini professionali al fine di realizzare economie di gestione e modalità di impiego delle risorse più efficienti, fatta salva la separazione delle gestioni relative agli specifici ordini professionali;
   ad assumere iniziative per superare l'attuale sistema di elezione dei rappresentanti dei lavoratori in seno al fondo negoziale (assemblea dei delegati e/o consiglio d'amministrazione) al fine di eliminare meccanismi elettivi che possano penalizzare l'eterogeneità delle rappresentanze;
   a prevedere un metodo elettivo dei rappresentanti dei lavoratori unico ed omogeneo a livello nazionale, valido per ogni fondo ed in ogni azienda;
   ad assumere iniziative per definire lo status giuridico delle casse degli ordini professionali o enti previdenziali privatizzati ai sensi del decreto legislativo n. 509 del 1994 e del decreto legislativo n. 104 del 1996, richiamando il carattere pubblicistico di tali enti già previsto nell'articolo 2 di quest'ultimo decreto;
   ad assumere iniziative per prevedere audit annuali sui bilanci di tutti i fondi pensione e gli enti previdenziali pubblici e privatizzati, eseguiti da un collegio valutatore indipendente internazionale, al fine di stabilire in quale misura i criteri di investimento prefissati siano stati soddisfatti o meno in relazione alla preservazione del patrimonio, al «rendimento target» e alla sostenibilità dell'erogazione pensionistica.
(1-00650) «Ciprini, Baldassarre, Lombardi, Tripiedi, Rizzetto, Chimienti, Bechis, Rostellato, Cominardi, Currò».
(29 ottobre 2014)


MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE ALLA NOMINA DI UN MINISTRO SENZA PORTAFOGLIO COMPETENTE IN MATERIA DI PARI OPPORTUNITÀ

   La Camera,
   premesso che:
    le minacce all'uguaglianza di genere, alla parità di trattamento in campo lavorativo, alla riduzione della povertà, al raggiungimento dell'istruzione e al miglioramento della salute delle donne – in poche parole, a tutti gli Obiettivi di sviluppo del Millennio – sono estremamente serie. A seguito della crisi, la qualità della vita delle donne in Italia si sta deteriorando notevolmente, obbligandole ad una retrocessione in tutti i campi e gli ambiti sociali. Ma la difficile situazione finanziaria ed economica sia nazionale che internazionale non può essere una scusante per non applicare anche nel nostro Paese una reale parità di genere e un possibile modello di convivenza globale secondo i dettami ed i principi emersi ormai quasi vent'anni fa nel forum e nella IV Conferenza Onu sulle donne di Pechino del 1995;
    anche gli abusi e la violenza nei confronti delle donne aumentano in tempo di crisi. Dal 1o agosto 2014, proprio durante il semestre europeo presieduto dall'Italia, entra in vigore la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, meglio nota come Convenzione di Istanbul, la prima dedicata agli abusi e ai maltrattamenti domestici contro la popolazione femminile che specifica uno standard sulla prevenzione, la protezione e i servizi dedicati alle vittime. Gli Stati che la ratificano, tra i quali anche il nostro Paese che ha provveduto nel giugno del 2013, sono vincolati a mettere in atto servizi e politiche volti all'eradicazione del fenomeno;
    nonostante questo, l'Italia non si è ancora dotata del fondamentale interlocutore istituzionale qual è il Ministro per le pari opportunità;
    nel 2011, sotto il Governo Monti, la delega per le pari opportunità è stata conferita fino all'aprile 2013 a Elsa Fornero, Ministro del lavoro e delle politiche sociali, manifestando una scarsa e poco approfondita conoscenza delle diverse tematiche delicate e complesse e non solo attinenti al mondo del lavoro ma ai rapporti e alle politiche di parità;
    dal 28 aprile 2013 al 24 giugno 2013 Josefa Idem è stata Ministro per le pari opportunità, lo sport e le politiche giovanili nel Governo Letta. Il Ministro per le pari opportunità, lo sport e le politiche giovanili in tal modo ricopriva più incarichi, quali sport e politiche giovanili. Con le sue dimissioni, due mesi dopo il conferimento del mandato, la guida del dipartimento per le pari opportunità è stata affidata a Maria Cecilia Guerra, già Viceministro del lavoro e delle politiche sociali. Come noto, il Viceministro esercita una delega ma non partecipa al Consiglio dei Ministri: ciò è stato ancora una volta chiaro indice di un secondario interesse del Governo pro tempore sulle questioni relative alle donne, mentre veniva perpetrata la frammentazione e, quindi, il mancato coordinamento delle politiche di genere dando mandato ad altri Ministeri di occuparsi in maniera isolata di alcuni aspetti, come accaduto per la gestione di questioni relative alle politiche per la prevenzione e il contrasto alla violenza, nel caso del Ministero dell'interno per la formulazione del decreto-legge n. 93 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 119 del 2013 sul cosiddetto «femminicidio»;
    l'attuale Governo, in carica dal 22 febbraio 2014, non ha nominato un Ministro per le pari opportunità e le deleghe sono rimaste nelle mani del Presidente del Consiglio dei ministri. Il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali dell'8 maggio 2014 (decreto ministeriale n. 11814 del 2014), all'articolo 1, lettera c), attribuisce al Sottosegretario di Stato, onorevole Bellanova, «le funzioni di indirizzo politico-amministrativo concernenti le competenze istituzionali relative alle Direzioni generali per le politiche dei servizi per il lavoro, ivi comprese le attività di promozione delle pari opportunità»: considerata la situazione più volte segnalata che riguarda la componente femminile del mercato del lavoro delle donne italiane, si potrebbe anche apprezzare lo sforzo, ma risulta chiaro a tutti che le stringate deleghe attribuite coprono solo in minima parte, ed in particolare solo sul versante lavorativo e comunque non in modo esaustivo, le problematiche, le criticità e, in generale le questioni attinenti la condizione delle pari opportunità, senza dunque creare realmente un interlocutore istituzionale valido, sotto ogni sfaccettatura, ad affrontare la condizione di genere in cui versa il nostro Paese;
    non è sufficiente nominare una squadra di Governo per metà «al femminile» per risolvere le questioni di genere in Italia: l'attuale Governo non ha mai ritenuto opportuno effettuare una nuova nomina che prenda in carico un dipartimento che, non avendo alcun indirizzo politico ed istituzionale dedicato, si limita a portare avanti l'ordinaria gestione amministrativa;
    presso il dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri operano infatti diversi organismi collegiali e diverse segreterie tecniche che, senza un indirizzo politico, sono in una situazione di stallo. Si ricorda, ad esempio, la commissione per le pari opportunità tra uomo e donna: la commissione si è riunita per l'ultima volta il 12 luglio 2011 e non è stata mai più riconvocata. Restano senza convocazione e in alcuni casi senza nemmeno rinnovo, la Commissione interministeriale per il sostegno alle vittime di tratta, violenza e grave sfruttamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 14 maggio 2007, n. 102; la commissione per la prevenzione e il contrasto delle pratiche di mutilazione genitale femminile; l'Osservatorio per il contrasto della pedofilia e della pornografia minorile;
    senza alcuni indirizzo politico si trova anche l'Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali), nonostante l'importante funzione di garantire, in piena autonomia di giudizio e in condizioni di imparzialità, l'effettività del principio di parità di trattamento fra le persone, anche in un'ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse discriminazioni possono avere su donne e uomini, nonché dell'esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso, ai sensi dell'articolo 7, comma 2, del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215 e del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri dell'11 dicembre 2003;
    i lavori avviati dalla «Task Force interministeriale contro la violenza», istituita dal Governo del Premier Enrico Letta non sono mai stati completati né mai ripresi dall'attuale Governo. Mancando l'autorità politica per convocare i gruppi di lavoro, si attende con urgenza un indirizzo sulla predisposizione del nuovo piano nazionale antiviolenza la cui prima e ultima stesura risale al febbraio 2011. A tal fine si ricorda che, secondo i dettami dell'articolo 10 della Convenzione di Istanbul, lo Stato ratificante è tenuto all'istituzione o almeno alla designazione di uno o più organismi ufficiali responsabili del coordinamento, dell'attuazione, del monitoraggio e della valutazione delle politiche e delle misure destinate a prevenire e contrastare ogni forma di violenza oggetto della Convenzione, con il compito di coordinare la raccolta dei dati statistici disaggregati pertinenti su questioni relative a qualsiasi forma di violenza al fine di studiarne le cause profonde e gli effetti, la frequenza e le percentuali delle condanne, come pure l'efficacia delle misure adottate ai fini dell'applicazione della Convenzione;
    l'articolo 5 del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, recante «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province», convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, demanda al Ministro delegato per le pari opportunità il compito di elaborare un piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, in sinergia con la nuova programmazione dell'Unione europea per il periodo 2014-2020 e prevede, inoltre, un finanziamento di 17 milioni di euro per la realizzazione di azioni a sostegno delle donne vittime di violenza. Tralasciando il dato per cui il carattere straordinario del piano non è coerente con la natura strutturale della questione delle violenze, si registra che, nell'attesa di un interlocutore istituzionale, sono numerosissimi i centri antiviolenza, specialmente di natura indipendente, che chiedono spiegazioni senza ottenere risposta in merito alle modalità, ai criteri di mappatura, alla definizione dei requisiti e standard minimi per la gestione dei centri e per la distribuzione dei fondi, nella paura che di fatto si tratti di finanziamenti «a pioggia» aperti anche a soggetti che non hanno maturato alcuna esperienza specifica sul fenomeno;
    senza un adeguato controllo politico e senza un adeguato coordinamento, si rischia non solo lo stallo sulle politiche di pari opportunità, ma si sfiora la possibilità di incorrere in pericolosi passi indietro, come recentemente accaduto nel decreto-legge n. 92 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 117 del 2014, recante «disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, nonché di modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all'ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e all'ordinamento penitenziario, anche minorile» (A.C. 2496), ove solo grazie alla tempestiva attività emendativa di alcuni parlamentari si è statuito che rimangano esclusi i delitti di maltrattamenti in famiglia (articolo 572 del codice penale) e di stalking (articolo 612-bis codice penale) dalla nuova normativa (articolo 275, comma 2-bis, del codice di procedura penale), la quale dispone che non si possa applicare la misura cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena o se la pena detentiva da eseguire non sia superiore a tre anni di reclusione;
    altro esempio di totale mancanza di coordinamento è stato inoltre quello, relativo alla possibilità, fornita dall'articolo 4, comma 24, lettera b), della legge 92 del 2012, per il triennio 2013-2015 per le madri lavoratrici di richiedere un contributo di 300 euro mensili per l'acquisto di voucher e per i servizi di babysitting e asilo nido pubblici o privati, al termine del congedo di maternità e in alternativa al congedo parentale. La legge istitutiva della misura aveva garantito 20 milioni di euro a copertura dell'operazione per il triennio sopra indicato che, secondo la relazione tecnica, avrebbe dovuto soddisfare per l'anno 2013 la domanda di 11.111 beneficiari. Tuttavia, all'avvio della misura il contributo ha riscosso pochissimo successo, come testimoniano le poche richieste pervenute: a fronte di potenziali 11.111 beneficiari, solo 3.762 lavoratrici, secondo dati Inps, sono state ammesse al beneficio, mentre dal punto di vista delle strutture accreditate per il servizio, meno di un terzo degli asili pubblici o privati nazionali si sono convenzionati con lo Stato. Tra le principali cause si deve sicuramente annoverare la scarsa pubblicizzazione dell'iniziativa lasciata soltanto a comunicati stampa, senza un'adeguata promozione sui luoghi di lavoro e senza coinvolgimento di sindacati e associazioni datoriali e, dunque, in definitiva, una totale assenza di politiche di coordinamento che un'istituzione dedicata avrebbe garantito;
    per continuare gli esempi di totale disattenzione del Governo sulle politiche di genere, si ricorda ancora che a fine maggio 2014 il dipartimento per le pari opportunità ha invitato le associazioni della società civile impegnate sulle «questioni di genere» a dare un loro contributo alla relazione sull'attuazione del programma d'azione sulle donne di Pechino (rilevazione quinquennale: 2009-2014), così come richiesto dall'Onu, e in vista della presentazione che il Governo italiano dovrà tenere sul tema a Ginevra nel mese di novembre 2014. Si è a tal fine riunita una rete di organizzazioni per la promozione dei diritti umani, associazioni delle donne, organizzazioni non governative, coordinamenti sindacali e singole esperte di genere, per la redazione del contributo da inviare al governo. A sorpresa, però, nel giugno 2014 il Governo ha inviato autonomamente un proprio rapporto senza attendere né avvisare le associazioni che stavano lavorando al contributo, di fatto escludendo la lettura della società civile sullo stato di applicazione delle politiche di pari opportunità attuate dal nostro Paese;
    senza alcun monitoraggio a livello politico-istituzionale, si segnala inoltre che con la cosiddetta legge di stabilità 2014 i compensi a carico dello Stato per i difensori sono stati ridotti di un terzo: anche questa riduzione, passata in silenzio, avrà ripercussioni su tutte le donne vittime di violenza sessuale, maltrattamenti e stalking che hanno diritto ad accedere al gratuito patrocinio, a prescindere dal reddito, e non sono stati ancora erogati i fondi destinati alla copertura integrale dell'attività difensiva prestata;
    persiste la carenza di una formazione sistematica e specializzata in materia di violenza contro le donne degli operatori nei diversi settori: dalla magistratura alle forze dell'ordine agli operatori sanitari. In questa maniera non si favorisce un cambiamento culturale verso di stereotipi di genere e i pregiudizi che sminuiscono e giustificano le violenze e non si favorisce la diffusione di prassi a tutela delle vittime e a prevenzione della violenza;
    anche nell'ambito dell'istruzione scolastica e della formazione universitaria persiste la carenza di una formazione sistematica e specializzata sulle questioni attinenti la parità di genere. Non si può eradicare la violenza se non si eradicano gli stereotipi di genere fin dai banchi di scuola. È necessario un atto forte d'indirizzo per promuovere un'adeguata formazione del personale della scuola, un'adeguata valorizzazione della tematica nei libri di testo, un'adeguata programmazione didattica curricolare ed extracurricolare delle scuole di ogni ordine e grado atta a promuovere la sensibilizzazione, l'informazione e la formazione degli studenti al fine di prevenire la violenza nei confronti delle donne e la discriminazione di genere: è un messaggio che non può che passare attraverso la scuola che, tra le istituzioni, è quella in cui i giovani crescono, maturano e definiscono, attraverso il percorso educativo, il loro essere cittadini e membri della società civile;
    a tal fine, è necessario intervenire, nell'ambito delle indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell'infanzia e del primo ciclo di istruzione, per i licei e per gli istituti tecnici e professionali, con interventi che abbiano il fine preciso di educare le nuove generazioni al rispetto dell'altro, al rifiuto di ogni forma di violenza o discriminazione, al valore civico dell'inclusione sociale, ritenendo questa attività un sicuro investimento per il futuro, nel rispetto delle scelte educative delle famiglie. Così come avvenne con esperienze positive quali l'istituzione della «settimana nazionale contro le violenze nelle scuole», la cui prima edizione risale al protocollo d'intesa ministeriale siglato nel 2010, o come s'intervenne, nell'ambito delle università, con i percorsi formativi tematici dedicati all'educazione all'affettività o alla partecipazione delle donne alla vita attiva del Paese, come avvenne con i percorsi didattici «Donne, politica e Istituzioni», per la promozione della cultura di genere e per le pari opportunità, dedicata ad una platea di giovani che avrebbero fatto tesoro, nel successivo passaggio al mondo del lavoro, dei valori culturali e sociali appresi nei percorsi universitari;
    sul versante della partecipazione femminile, l'ultimo grande passo risale alla riforma attuata nel 2003 con la modifica dell'articolo 51 della Costituzione per il riconoscimento delle pari opportunità per uomini e donne nell'accesso alle cariche elettive nei pubblici uffici, passo storico con cui si è rafforzato il principio dell'uguaglianza sostanziale. Su tale scia è avvenuta l'approvazione della legge n. 120 del 2011, recante «Modifiche al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, concernenti la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati» ed il successivo regolamento;
    allo stato attuale, ci vorranno circa 30 anni per raggiungere l'obiettivo dell'Unione europea del 75 per cento di donne occupate, 70 anni affinché la parità retributiva diventi realtà e 20 anni per una pari rappresentanza nei parlamenti nazionali. È quanto emerge dalla relazione annuale della Commissione europea sulle pari opportunità negli Stati membri, pubblicata ad aprile 2014;
    manca un interlocutore istituzionale unico dedicato ad una concreta e seria azione di Governo volta a promuovere e coordinare le azioni per assicurare l'attuazione delle politiche concernenti la materia dei diritti e delle pari opportunità di genere con riferimento ai temi della salute, della ricerca, della scuola e della formazione, dell'ambiente, della famiglia, del lavoro, delle cariche elettive e della rappresentanza di genere;
    manca un interlocutore istituzionale unico dedicato ad una concreta, coordinata e seria azione di Governo volta a promuovere la cultura dei diritti e delle pari opportunità nel settore dell'informazione e della comunicazione, con particolare riferimento al diritto alla salute delle donne, alla prevenzione sanitaria, alla maternità ed alla procreazione assistita;
    manca un interlocutore istituzionale unico dedicato ad una concreta e seria azione di Governo volta a promuovere e coordinare i provvedimenti atti ad assicurare la piena attuazione delle politiche in materia di pari opportunità tra uomo e donna sul tema dell'imprenditoria e del lavoro, con particolare riferimento alle materie dei congedi parentali e della carriera, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali;
    manca un interlocutore istituzionale unico dedicato ad una concreta e seria azione di Governo volta a promuovere e coordinare le azioni in tema di diritti umani delle donne e diritti delle persone, nonché volte a prevenire e rimuovere le discriminazioni per cause direttamente o indirettamente fondate, in particolare, sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale;
    manca un interlocutore istituzionale unico dedicato ad una concreta e seria azione di Governo volta a promuovere e coordinare le politiche per la famiglia e le politiche governative per sostenere la conciliazione dei tempi di lavoro e dei tempi di cura della famiglia;
    manca un interlocutore istituzionale unico dedicato ad una concreta e seria azione di Governo volta ad adottare le iniziative necessarie per la programmazione, l'indirizzo, il coordinamento ed il monitoraggio dei fondi strutturali europei in materia di pari opportunità, comprese la compartecipazione al gruppo di alto livello per il gender mainstreaming nei fondi strutturali dell'Unione europea e la partecipazione all'attività di integrazione delle pari opportunità nelle politiche comunitarie;
    manca un interlocutore istituzionale unico dedicato ad una concreta e seria azione di Governo volta a promuovere la verifica dell'impatto di genere in tutte le iniziative governative, nonché l'evidenziazione del genere nei dati di bilancio delle pubbliche amministrazioni, anche non statali, e in quelli attinenti alla ricerca e alle indagini statistiche;
    manca un interlocutore istituzionale unico dedicato ad una concreta e seria azione di Governo volta a coordinare, anche in sede internazionale, le politiche relative alla tutela dei diritti umani delle donne, con particolare riferimento agli obiettivi indicati nella piattaforma di azione adottata dalla IV Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne, svoltasi a Pechino nel settembre del 1995, in relazione alla povertà femminile ed alla facilitazione del loro accesso ai circuiti economici-produttivi, all'istruzione, formazione e salute delle donne, alla lotta alla violenza contro le donne, anche in riferimento e in occasione di conflitti armati, all'accesso delle donne ai mezzi di informazione ed alla tutela dell'infanzia femminile in tutte le forme;
    manca un interlocutore istituzionale unico dedicato ad una concreta e seria azione di Governo volta a promuovere e coordinare le azioni in materia di sfruttamento e tratta delle persone, di violenza contro le donne, nonché di violazione dei diritti fondamentali all'integrità della persona e alla salute delle donne e delle bambine, anche alla luce della ratifica e conseguente applicazione della Convenzione di Istanbul,

impegna il Governo

a sostenere e proporre nel più breve tempo possibile la nomina di un Ministro senza portafoglio cui affidare ampia delega relativa alle politiche delle pari opportunità.
(1-00572) «Centemero, Bergamini, Carfagna, Prestigiacomo, Brunetta, Calabria, Castiello, Giammanco, Petrenga, Polverini».
(7 agosto 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    ogni anno dal 2006 il World Economic Forum predispone il Global gender gap report, che fornisce un quadro delle disuguaglianze di genere in 136 Paesi, stilando una graduatoria che fotografa lo stato delle disparità in ogni realtà nazionale;
    i criteri per la compilazione della graduatoria prendono in considerazione indici che si riferiscono a quattro ambiti: l'economia, la presenza nelle istituzioni, l'educazione e la salute; per ogni ambito viene compilata una graduatoria; a loro volta le quattro graduatorie costituiscono la base per un quadro di sintesi che fotografa la realtà mondiale in ordine decrescente di disparità;
    il rapporto del 2013 indica che l'Italia è al settantunesimo posto della graduatoria generale e ventiduesima tra i Paesi membri dell'Unione europea – dopo l'Italia si collocano quasi esclusivamente Paesi di recente adesione: Slovacchia, Cipro, Grecia, Repubblica Ceca, Malta e Ungheria;
    mentre la nuova composizione di Parlamento e Governo colloca l'Italia in posizione dignitosa per rappresentanza politico-istituzionale, il nostro Paese continua ad essere fanalino di coda in molti altri campi, in particolare nel mondo del lavoro e in generale dell’empowerment economico;
    significativi sono i ritardi nelle attuazioni delle politiche per prevenire e combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica, nonostante nella XVII legislatura siano state a approvate leggi come quella contro il femminicidio o quelle di ratifica della Convenzione di Istanbul;
    anche le tematiche dei diritti civili ad oggi non hanno ricevuto l'attenzione dovuta: la legge sull'omofobia è da mesi bloccata al Senato della Repubblica; la legge sulle unioni civili non è ancora stata calendarizzata nonostante numerose siano le proposte depositate;
    con l'eccezione dell'attuale Governo, dal 1996 gli Esecutivi hanno sempre previsto nella loro composizione o il Ministro per le pari opportunità o una figura che ne avesse le deleghe;
    le esperienze di questi ultimi mesi sembrano indicare che senza un dicastero dedicato non ci possano essere l'attenzione e l'impegno necessari a portare avanti tempestivamente efficaci politiche di genere e delle pari opportunità,

impegna il Governo:

   a proporre la nomina di un Ministro senza portafoglio cui affidare la delega in materia di pari opportunità;
   in alternativa, ad individuare presso la Presidenza del Consiglio dei ministri una figura cui assegnare le stesse deleghe e che abbia anche il compito di valutare prima e verificare poi l'impatto di genere di tutti i provvedimenti assunti.
(1-00569) «Locatelli, Di Salvo, Di Lello, Pastorelli, Di Gioia, Labriola, Nardi, Piazzoni, Migliore, Lacquaniti, Zan, Fava, Pilozzi, Lavagno, Nesi, Schirò, Capua, Formisano, Tacconi, Petrini, Malpezzi, Marzano, Ricciatti».
(4 agosto 2014)


MOZIONE CONCERNENTE INTERVENTI A FAVORE DEL MEZZOGIORNO

   La Camera,
   premesso che:
    il quadro già grave e complesso evidenziato dalla Svimez, (Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno), nell'anticipazione del rapporto 2014 sull'economia del Mezzogiorno, presentato a fine luglio 2014, si è ulteriormente aggravato in sede di presentazione del rapporto Svimez 2014 e delle proiezioni elaborate dal medesimo istituto per l'anno 2015, al punto che apertamente si parla di un «Sud a rischio desertificazione umana e industriale»;
    la riduzione del prodotto interno lordo nel 2014, quantificata dal Governo in -0,4 per cento, è la risultante tra la stazionarietà del Centro-Nord (0 per cento) e la flessione del Sud (-1,5 per cento); il quadro risulta ancora più divergente nel 2015: il prodotto interno lordo nazionale secondo le stime Svimez è previsto a +0,8 per cento, quale risultato tra il positivo +1,3 per cento del Centro-Nord e il negativo -0,7 per cento del Sud;
    a livello regionale, nel 2013, il calo del prodotto interno lordo è compreso tra il -1,8 per cento dell'Abruzzo e il -6,1 per cento della Basilicata, fanalino di coda nazionale, che ha così registrato un segno negativo per la crisi dell`industria meccanica e dei mezzi di trasporto. In posizione intermedia la Campania (-2,1 per cento), la Sicilia (-2,7 per cento), il Molise (-3,2 per cento). Giù anche Sardegna (-4,4 per cento), Calabria (-5 per cento) e Puglia (-5,6 per cento). Tra il 2008 e il 2013 difficoltà, soprattutto in Basilicata e Molise, che segnano cali cumulati superiori al 16 per cento, accanto alla Puglia (-14,3 per cento), la Sicilia (-14,6 per cento) e la Calabria (-13,3 per cento). Ha perso oltre il 13 per cento di prodotto anche la Sardegna, mentre cali superiori al 12 per cento si registrano in Campania, Marche e Umbria;
    dal 2008 al 2013 il settore manifatturiero al Sud ha perso il 27 per cento del proprio prodotto e ha più che dimezzato gli investimenti (-53 per cento). Nello stesso periodo al Centro-Nord il manifatturiero ha perso circa il 16 per cento del proprio prodotto e oltre il 24 per cento degli investimenti;
    i consumi delle famiglie meridionali sono ancora scesi, arrivando a ridursi nel 2013 del 2,4 per cento, a fronte del -2 per cento delle regioni del Centro-Nord. Dal 2008 al 2013 la caduta cumulata dei consumi delle famiglie ha sfiorato nel Sud i 13 punti percentuali (-12,7 per cento), risultando di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7 per cento);
    tra il 2008 ed il 2013 delle 985mila persone che in Italia hanno perso il posto di lavoro, ben 583mila sono residenti nel Mezzogiorno. Nel Sud, pur essendo presente appena il 26 per cento degli occupati italiani si concentra il 60 per cento delle perdite determinate dalla crisi. Nel solo 2013 in Italia sono andati persi 478mila posti di lavoro, di cui 282mila al Sud. La nuova flessione riporta il numero degli occupati del Sud per la prima volta nella storia a 5,8 milioni, sotto la soglia psicologica dei 6 milioni, il livello più basso dal 1977, anno da cui è possibile disporre della serie storica dei dati;
    tra il 2008 ed il 2013 si registra al Sud una caduta dell'occupazione del 9 per cento, a fronte del -2,4 per cento del Centro-Nord. Negli anni Settanta il tasso di occupazione al Sud era del 49 per cento; nel 2013 è sceso al 42 per cento; al Centro-Nord invece si è passati dal 56 per cento degli anni Settanta al 63 per cento del 2013; Sud e Centro-Nord sono lontani dal target del 75 per cento di Europa 2020, ma per il Meridione l'obiettivo si allontana e continua ad allontanarsi. In calo soprattutto l'occupazione giovanile: al Sud nel 2013 fra gli under 34 flette del 12 per cento, contro il -6,9 per cento del Centro-Nord;
    al Sud appena il 21,6 per cento (1 su cinque) delle donne sotto i 34 anni ha un lavoro contro il 43 per cento del Centro-Nord ed una media nazionale del 34,7 per cento; il confronto con la media dell'Unione europea è impietoso: nell'Europa a 27 le donne sotto i 34 anni che lavorano sono il 50,9 per cento. Considerando tutte le classi di età, l'occupazione femminile meridionale si ferma al 33 per cento; al Centro-Nord la percentuale di donne che lavorano non è lontana dalla media europea (59,2 per cento rispetto al 62,6 per cento dell'Unione europea). Anche la nuova occupazione che si crea per le donne perde di qualità: dal 2008 al 2013 le professioni qualificate femminili sono scese dell`11,7 per cento, mentre sono aumentati del 15 per cento i posti di lavoro nelle professioni poco qualificate. Indicativo anche il dato sul part-time: le donne che lo scelgono, circa il 30 per cento del totale in Italia, non lo fa per scelta: al Sud addirittura il 75 per cento dei part-time femminili è involontario;
    i consumi delle famiglie meridionali sono ancora scesi, arrivando a ridursi nel 2013 del 2,4 per cento, a fronte del -2 per cento delle regioni del Centro-Nord. Dal 2008 al 2013 la caduta cumulata dei consumi delle famiglie ha sfiorato nel Sud i 13 punti percentuali (-12,7 per cento), risultando di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7 per cento);
    al di là delle aride cifre riferite a prodotto interno lordo, produzione e occupazione, la questione che riveste assoluta gravità è quella sociale: nel 2007 la povertà assoluta interessava il 4,1 per cento delle famiglie italiane (3,3 per cento al Centro-Nord e 5,8 per cento al Sud), mentre a fine 2013 si è arrivati al 7,9 per cento a livello nazionale, con il 5,8 per cento di nuclei familiari in povertà assoluta al Centro-Nord e il 12,6 per cento al Sud; in termini assoluti, nel periodo 2007-2013 al Sud le famiglie assolutamente povere sono cresciute oltre due volte e mezzo, da 443mila a 1 milione 14mila, con un incremento del 40 per cento solo nell'ultimo anno della serie. Nel 2012 il 9,5 per cento delle famiglie meridionali guadagna meno di mille euro al mese, mentre per il Centro-Nord tale dato si attesta al 3,8 per cento; si tratta, in particolare, del 9,2 per cento delle famiglie lucane, del 9,3 per cento delle calabresi, del 10,9 per cento delle molisane e del 14,1 per cento di quelle siciliane;
    secondo stime Svimez, anche nel 2013, come nel 2012, nel Meridione i decessi hanno superato le nascite: un risultato negativo che si era verificato solo nel 1867 e nel 1918. Proseguendo questo trend, il Sud avrebbe una perdita di 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, arrivando così ad una consistenza del 27 per cento sul totale nazionale a fronte dell'attuale 34,3 per cento; la situazione è aggravata dall'emigrazione: negli ultimi venti anni sono emigrati dal Sud al Centro-Nord circa 2,3 milioni di persone. Nel 2013 secondo Svimez si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Centro-Nord circa 116 mila abitanti; altro elemento da valutare è che anche gli stranieri rifuggono dal Sud: a dicembre 2013 i residenti stranieri nel nostro Paese sono circa 5 milioni, di cui solo 717mila al Sud e 4 milioni e 200mila nel Centro-Nord;
    i giovani meridionali si trovano di fronte ad una drammatica realtà sociale e culturale: secondo una recente ricerca l'80 per cento dei giovani meridionali maschi sotto i 30 anni vive ancora in casa con i propri genitori, mentre oltre tre quinti delle giovani del Sud intravedono per sé un futuro di casalinga: una situazione simile a quella dei primi anni del dopo guerra. Le abitazioni non mancano: mancano le risorse per potersi stabilire;
    annualmente il Sole 24 Ore pubblica un'indagine sulla qualità della vita condotta nelle 107 città italiane capoluogo di provincia. L'indagine è piuttosto approfondita e complessa e si basa su 36 parametri, raggruppati in sei macro-aree (tenore di vita, affari e lavoro, servizi ambiente e salute, popolazione, ordine pubblico e tempo libero), fino alla compilazione di una classifica generale. Anche per il 2014 il Sud continua a essere fanalino di coda della classifica e Napoli in particolare si conferma la città dove si vive peggio, mentre Palermo è la penultima; a salire si trovano: Reggio Calabria; Taranto; Caserta; Vibo Valentia; Catania; Caltanissetta, Foggia, Trapani, Bari, Agrigento e Cosenza; la prima città non meridionale è Frosinone all'87esimo posto;
    in termini di ricchezza prodotta la città che ne produce di meno è Crotone (12.930 euro; Milano 37.642 euro), seguita da Agrigento, Enna e Caserta; la prima città non meridionale è Isernia al 78esimo posto;
    in termini di propensione al risparmio la provincia peggiore è Carbonia-Iglesias (7.903 euro, Trieste 43.228 euro), seguita da Crotone, Trapani e Siracusa; la prima città non meridionale è Rieti all'82esimo posto;
    in termini di assegno pensionistico medio la città in cui la media è più bassa è Catanzaro (485 euro, Milano 1.100 euro), seguita da Agrigento, Campobasso, Benevento ed Enna;
    in termini di ambiente favorevole agli affari e al lavoro, la città meno attraente è Reggio Calabria, seguita da Caltanissetta, Caserta, Napoli e Cosenza;
    in termini di servizi, ambiente e salute, la città nelle peggiori condizioni è Crotone, seguita da Vibo Valentia, Foggia, Caltanissetta e Agrigento;
    le risorse inizialmente programmate nel quadro strategico nazionale 2007-2013 ammontavano originariamente a oltre 60 miliardi di euro, di cui circa 28,8 miliardi di euro di fondi strutturali provenienti dall'Unione europea e circa 31,6 miliardi di euro di risorse di cofinanziamento nazionale (iscritti sul fondo di rotazione per l'attuazione delle politiche comunitarie previsto dalla legge n. 183 del 1987); la gran parte di tali risorse, 43,6 miliardi di euro (all'incirca il 75 per cento del totale), risultava destinata all'obiettivo «convergenza», che interessa le regioni Calabria, Campania, Puglia, Sicilia e Basilicata;
    a seguito del Piano di azione per la coesione, l'ammontare complessivo delle risorse destinate ai programmi operativi (quota comunitaria più cofinanziamento nazionale) si è ridotto da 60,1 miliardi di euro (28,5 miliardi di euro di fondi comunitari e 31,6 miliardi di euro di cofinanziamento) a circa 48,5 miliardi di euro. Sulla base delle informazioni disponibili (fornite dalla Ragioneria generale dello Stato), alla data del 30 giugno 2014 le risorse ancora da spendere entro il 31 dicembre 2015 (termine ultimo per effettuare pagamenti) ammontano a circa 20 miliardi di euro, la maggior parte dei quali (15 miliardi di euro) nell'area dell'obiettivo «convergenza»;
    secondo le indicazioni offerte dal Governo nei primi giorni del mese di ottobre 2014, la programmazione 2014-2020 potrà contare su 32 miliardi di euro di fondi strutturali europei, cui ne andrebbero aggiunti altrettanti di cofinanziamenti nazionali (24 miliardi di euro a carico dello Stato, il resto a carico delle regioni). È stata avanzata anche la proposta di ridurre, nelle regioni «convergenza», la quota di cofinanziamento regionale e sono state indicate tre priorità per questo nuovo programma: competitività delle imprese, occupazione e istruzione/formazione. Nel decreto-legge «sblocca Italia» (n. 133 del 2014) si affidano nuove funzioni al Presidente del Consiglio dei ministri al fine di accelerare l'impiego delle risorse comunitarie nelle regioni «convergenza»; il Presidente del Consiglio dei ministri avrà la facoltà di proporre al Cipe il definanziamento e la riprogrammazione delle risorse non impegnate;
    ma, a seguito della presentazione della legge di stabilità 2015, è intervenuto un richiamo comunitario che ha richiesto un ulteriore aggiustamento di bilancio; il Governo ha pertanto provveduto riducendo, tra l'altro, di 500 milioni di euro la quota delle risorse nazionali dai fondi di cofinanziamento di coesione dell'Unione europea; inoltre l'articolo 12 della legge di stabilità per finanziare gli sgravi contributivi per assunzioni a tempo indeterminato ha ridotto di un miliardo di euro per ciascuno degli anni 2015, 2016 e 2017 e a 500 milioni di euro per l'anno 2018 le risorse del fondo di rotazione di cui all'articolo 5 della legge 16 aprile 1987, n. 183, già destinate agli interventi del Piano di azione per la coesione;
    se è vero che i dati di per sé risultano aridi e che, comunque, vanno integrati, si può convenire che dagli elementi presentati emerge una realtà drammatica e fortemente preoccupante per l'intero Mezzogiorno d'Italia;
    una parte fondamentale del Paese ha nella storia, nella cultura, nell'economia un bacino di potenzialità a sua disposizione e gli strumenti per crescere svilupparsi, integrare e sostenere con vigore lo sforzo dell'esecutivo per risanare e rilanciare il Paese;
    il quadro macroeconomico che emerge dalle considerazioni effettuate suscita timori sotto diversi profili. Ma ciò che risalta soprattutto è l'allarmante crisi sociale che impedisce il formarsi di nuove famiglie, la crescita delle famiglie esistenti e la stessa natalità. Una preoccupazione forte che ha sollecitato il Ministro della salute a dar vita al piano nazionale per la fertilità, nel quale sono coinvolti esperti di natalità, pediatri, sociologi, esperti di economia sanitaria ed altri. Un'operazione questa che, se risulta indubbiamente utile al Paese intero, lo è ancor di più per il Sud che, nelle condizioni attuali, non è di sicuro sostenuto e assecondato sul piano della crescita demografica: una questione, quest'ultima, che è strettamente collegata ora e di più lo sarà nel futuro al tema della sostenibilità del sistema sanitario e previdenziale,

impegna il Governo:

   ad adottare ogni iniziativa, anche attraverso ulteriori interventi normativi, volta ad attribuire adeguate quote di cofinanziamento e comunque adeguate risorse comunitarie e nazionali alle regioni meridionali ed individuando la sede idonea in cui Governo, regioni ed i competenti organi parlamentari, a seguito di un naturale, approfondito confronto, siano in grado di definire un insieme coordinato di opere strategiche di importanza prioritaria, la cui realizzazione favorisca la crescita economica complessiva delle regioni meridionali;
   ad assicurare, attraverso una specifica programmazione infrastrutturale, forti politiche di investimento da parte dello Stato a favore delle regioni meridionali ed impegnandosi, altresì, a riconsiderare le regole del patto di stabilità per gli enti territoriali;
   a perseguire con decisione, in sede di Unione europea e quale obiettivo del semastre di Presidenza italiana, l'obiettivo della riduzione delle quote di partecipazione nazionale ed in particolare regionale, con specifico riferimento alle regioni meridionali, da erogare a titolo di concorso al cofinanziamento del Fondo europeo per lo sviluppo regionale e del Fondo sociale europeo;
   con riferimento alla programmazione 2014-2020, a prevedere l'utilizzo di parte significativa delle risorse del Fondo sociale europeo per realizzare politiche attive di lavoro e inserimento professionale nei confronti dei giovani disoccupati meridionali;
    ad avviare politiche a sostegno della natalità e della genitorialità, con particolare riferimento alle zone socialmente ed economicamente più disagiate;
   ad assicurare tempestiva e rigida applicazione dei poteri sostitutivi del Governo in materia di utilizzo delle risorse comunitarie, previsti dall'articolo 9 del decreto-legge n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98 del 2013, e dall'articolo 12 del decreto-legge n. 133 del 2014 in caso di ritardo delle regioni nelle assegnazioni ed erogazioni;
   ad adoperarsi al fine di consentire all'Agenzia per la coesione territoriale di operare da subito e con poteri rafforzati negli ambiti di sua competenza.
(1-00653) «De Girolamo, Pagano, Garofalo, Calabrò, Dorina Bianchi, Pizzolante, Bosco, Minardo, Misuraca, Scopelliti, Cicchitto, Alli, Bernardo, Piccone, Piso, Roccella, Saltamartini, Sammarco, Tancredi, Vignali».
(31 ottobre 2014)

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