TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 384 di Martedì 3 marzo 2015

 
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INTERPELLANZA E INTERROGAZIONI

A) Interpellanza

   I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dello sviluppo economico, il Ministro dell'economia e delle finanze, per sapere – premesso che:
   è noto che la normativa comunitaria e nazionale promuove lo sviluppo dell'energia da fonti rinnovabili prefiggendosi l'obiettivo di potenziare e razionalizzare il sistema, per incrementare l'efficienza dell'energia alternativa anche diminuendo gli oneri relativi alla realizzazione degli impianti da essa alimentati;
   tuttavia, nell'ambito del settore delle energie rinnovabili, vengono adottati di frequente dei provvedimenti che invece di incentivare tali investimenti, come prevede la normativa, li scoraggiano o, addirittura, determinano un danno attraverso l'addebitando di costi/oneri retroattivi per coloro che hanno già provveduto ad investire in queste tecnologie;
   al riguardo, una questione sulla quale è necessario intervenire, con idonei provvedimenti di modifica, concerne l'accatastamento degli impianti fotovoltaici;
   in base alla circolare dell'Agenzia delle entrate 19 dicembre 2013, n. 36/E, l'impianto fotovoltaico installato sul tetto di un edificio è sottoposto all'obbligo di accatastamento se ha una potenza superiore ai 3,00 chilowatt picco;
   dunque, l'amministrazione fiscale è intervenuta con un documento di prassi dove si esprime sulla qualificazione mobiliare o immobiliare degli impianti fotovoltaici e sulle conseguenze che ne derivano in materia catastale e tributaria;
   nel testo della circolare si fa riferimento agli articoli 2 e 3 del decreto ministeriale 2 gennaio 1998, n. 28, rubricato «Regolamento recante norme in tema di costituzione del catasto dei fabbricati e modalità di produzione ed adeguamento della nuova cartografia catastale», che enunciano rispettivamente la definizione di unità immobiliare e, più specificamente, gli immobili oggetto di censimento, nonché quelli non oggetto di inventariazione a meno di una autonoma suscettibilità reddituale;
   la circolare prevede che, ai fini dell'obbligo di accatastamento e della determinazione della rendita catastale di un impianto fotovoltaico, non è fondamentale esclusivamente la facile amovibilità delle sue varie componenti impiantistiche, quanto, piuttosto, il rapporto di tali componenti con la capacità ordinaria dell'unità immobiliare a cui appartengono di produrre un reddito temporalmente rilevante;
   in altri termini, gli uffici dell'Agenzia delle entrate accertano gli immobili che ospitano i medesimi impianti, indagando, ai fini della determinazione della relativa rendita catastale, sulla correlazione che sussiste tra l'immobile e, in generale, quelle componenti impiantistiche rilevanti ai fini della sua funzionalità e capacità reddituale;
   l'Agenzia delle entrate ha quindi proceduto a definire l'irrilevanza catastale delle installazioni fotovoltaiche, qualora la potenza nominale dell'impianto fotovoltaico non è superiore a 3 chilowatt picco;
   di contro, ha qualificato gli impianti fotovoltaici come beni immobili e, di conseguenza, da dichiarare al catasto, quando: a) costituiscono una centrale di produzione di energia elettrica autonomamente censibile nella categoria D/1 oppure D/10; b) risultano posizionati sulle pareti o su un tetto, oppure realizzati su aree di pertinenza comuni o esclusive di un fabbricato;
   dunque, l'amministrazione fiscale ha applicato agli impianti fotovoltaici i criteri relativi all'individuazione dell'unità immobiliare oggetto di censimento catastale, estendendoli inderogabilmente sul presupposto di una sussistente autonomia funzionale e reddituale;
   ebbene, si ritiene che l'Agenzia delle entrate abbia esteso categoricamente agli impianti fotovoltaici con potenza superiore a 3 chilowatt picco i criteri di individuazione delle unità oggetto di censimento catastale, senza la dovuta considerazione delle peculiarità che sono proprie di tali investimenti e, altresì, in mancanza di necessarie direttive per procedere alla dichiarazione di variazione catastale, determinando, pertanto, la dubbia legittimità e la carenza della circolare emessa;
   i moduli fotovoltaici sono installati per abbattere i costi in bolletta ed il Governo più volte ha dichiarato di essere a favore della green economy, settore che va sostenuto anche per la creazione di nuovi posti di lavoro e il mantenimento di quelli attuali; è chiaro che tali fini si contrappongono al riconoscimento di ulteriori oneri, come quelli connessi all'accatastamento per gli impianti installati sulle coperture e/o pertinenze degli edifici al servizio di utenze domestiche o delle piccole e medie imprese, quali sono generalmente gli impianti con potenza inferiore a 20 chilowatt picco;
   stabilendo l'obbligo della dichiarazione di variazione catastale quando l'impianto fotovoltaico integrato a un immobile ne incrementa il valore capitale (o la redditività ordinaria) di una percentuale pari al 15 per cento o superiore, si determina un aumento del valore e un aumento di tutte le imposte che hanno come base il valore catastale per chi procede al predetto virtuoso investimento;
   generalmente, un impianto di 3,00 chilowatt picco è quello che serve per coprire i consumi di una famiglia-tipo; tuttavia, molti proprietari hanno scelto di installare impianti più potenti, così da massimizzare i benefici, sicché, se l'estensione del tetto dell'abitazione lo consente, molti acquirenti hanno scelto potenze sino ai 6/12 chilowatt picco di potenza installata (in media, 1,00 chilowatt picco richiede circa 7 metri quadri di superficie);
   pertanto, a quanto afferma l'Agenzia delle entrate, per gli impianti con potenza superiore a 3,00 chilowatt picco, va verificato se la rendita catastale dell'unità immobiliare deve essere aggiornata, al riguardo, come predetto, la circolare afferma che la variazione catastale è obbligatoria quando il valore dell'impianto è pari o supera il 15 per cento della rendita catastale;
   la circolare in questione, tra l'altro, non ha chiarito attraverso quali procedure il proprietario dell'impianto possa accertare se il valore dello stesso superi o meno il 15 per cento della rendita catastale. È certo che tale calcolo non può essere effettuato dal proprietario stesso, ma da un tecnico abilitato, con l'aggiunta, quindi, di ulteriori costi;
   dunque, non solo non si specificano i criteri per valutare oggettivamente l'aumento della tariffa d'estimo catastale dovuta alla presenza dell'impianto fotovoltaico, ma, altresì, sul punto, non si considerano due ulteriori e rilevanti problematiche che renderebbero necessaria la rimodulazione della tariffa d'estimo al ribasso: innanzitutto la vita media di un impianto è convenzionalmente di circa 25-30 anni durante i quali la produzione di energia decresce e con essa anche la redditività dell'impianto; in secondo luogo, al termine della vita convenzionale dell'impianto, quando lo stesso non produrrà più un alto beneficio per l'utente, quest'ultimo dovrà, altresì, sostenere i costi per lo smaltimento;
   quanto affermato dalla circolare dell'Agenzia delle entrate è gravemente penalizzante per il settore del fotovoltaico, che, invece, andrebbe valorizzato così come previsto dalla normativa comunitaria e nazionale, anche considerando che la realizzazione di impianti da fonti energetiche rinnovabili presenta i caratteri di un servizio di pubblica utilità;
   ad avviso degli interpellanti vi sono fondati dubbi sulla legittimità della circolare dell'Agenzia delle entrate rispetto all'accatastamento degli impianti fotovoltaici con una potenza compresa tra 3,00 a 20,00 chilowatt picco e ciò ha dato luogo ad uno stato d'incertezza in cui versano circa 312 mila impianti (dati Gestore servizi energetici);
   si ritiene che debbano essere esentati dalla rivalutazione della rendita catastale i piccoli impianti con potenza inferiore ai 20,00 chilowatt picco, trattandosi generalmente di utenze domestiche o quelle di piccole imprese, installati con finalità di risparmio energetico ed autoconsumo e non di investimento o mera speculazione, quindi, non soggetti a denuncia di apertura di officina elettrica ed installati sulle coperture e pertinenze degli edifici;
   quantomeno, devono essere esentati dalla rivalutazione della rendita catastale gli impianti, delle medesime taglie e caratteristiche a quelle predette, che non beneficiano delle tariffe incentivanti ai sensi di tutte le edizioni del conto energia e che hanno optato per il regime di scambio sul posto;
   le menzionate criticità della circolare sono state eccepite con interrogazione a risposta in commissione n. 5-02215 pubblicata in data 24 febbraio 2014;
   alla predetta interrogazione è stato dato riscontro con atto pubblicato in data 22 aprile 2014 – nell'allegato al bollettino in Commissione X (Attività produttive) della Camera dei deputati – che nel merito non ha in alcun modo soddisfatto il primo firmatario del presente atto di sindacato ispettivo;
   sul punto, infatti, con la risposta acquisita in Commissione X si presume la legittimità della circolare dell'Agenzia dell'entrate, applicando meccanicamente la normativa in materia di accatastamento e determinazione della rendita catastale, senza effettuare un'interpretazione estensiva che tenga conto anche della normativa europea e nazionale che riconosce specifici benefici per la promozione dello sviluppo degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, affinché tale fonti energetiche alternative diano un sempre maggiore contributo alla produzione di energia elettrica nel mercato italiano e comunitario;
   seppure si volesse ipotizzare che la normativa concernente l'accatastamento e la determinazione della rendita catastale debba essere applicata agli impianti fotovoltaici, così come affermato dall'Agenzia dell'entrate, la cui tesi continuerebbe a giudizio degli interpellati comunque ad essere carente e lacunosa, si sottolinea l'evidente necessità di immediati interventi normativi che aggiornino e conformino tale normativa, nel rispetto di quella prevista per incrementare gli investimenti virtuosi nel settore delle fonti rinnovabili;
   ed invero, anche nell'atto di risposta in Commissione X, per sostenere la tesi assunta dall'Agenzia delle entrate, ci si richiama ad una normativa ormai obsoleta che deve essere adeguata ai nuovi principi normativi sviluppatisi nel tempo come quelli relativi al settore delle energie alternative. In particolare, ci si riferisce al regio decreto-legge addirittura del 1939 che, nel determinare gli elementi che concorrono alla determinazione della rendita catastale, di certo non avrebbe potuto tenere conto delle specificità riconosciute dall'attuale normativa agli impianti alimentati da energie rinnovabili;
   pertanto, si ribadisce che quanto stabilito dalla circolare dell'Agenzia delle entrate sull'accatastamento degli impianti fotovoltaici limita drasticamente e secondo gli interpellanti illegittimamente i benefici riconosciuti al settore, pregiudicando ingiustamente chi ha investito in tali impianti con finalità di risparmio energetico –:
   quali siano gli orientamenti del Governo in merito a quanto premesso e se sia intenzione dello stesso promuovere concretamente lo sviluppo di impianti di energia da fonti rinnovabili in conformità ai principi sanciti dalla normativa in materia;
   se sia intenzione del Governo porre in essere iniziative per rendere efficaci gli investimenti effettuati nel settore delle energie rinnovabili, adottando anche iniziative normative che aggiornino e adeguino la normativa in materia di accatastamento e determinazione della rendita catastale a quella prevista rispetto allo sviluppo ed alla promozione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, esentando dalla rivalutazione della rendita catastale i piccoli impianti con potenza inferiore ai 20,00 chilowatt picco – trattandosi generalmente di utenze domestiche o di piccole imprese installate con finalità di risparmio energetico e non di investimento – e, in particolare, gli impianti, della medesima taglia e delle medesime caratteristiche a quelle predette, che non beneficiano delle tariffe incentivanti ai sensi di tutte le edizioni del conto energia e che hanno optato per il regime di scambio sul posto.
(2-00551)
«Rizzetto, Prodani, Crippa, Mucci».
(27 maggio 2014)

B) Interrogazioni

   BAZOLI, COMINELLI, BERLINGHIERI e GALPERTI. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   come è noto il cromo VI è un metallo classificato come «cancerogeno certo» per l'uomo dalla Iarc (International agency for reserach on cancer);
   oltre all'esposizione per via inalatoria, soprattutto dei lavoratori addetti ad alcune lavorazioni, desta preoccupazione anche l'esposizione per via alimentare a causa della contaminazione delle falde acquifere ad opera dell'attività antropica, industriale o per versamenti di rifiuti industriali;
   gli studi sull'uomo della contaminazione dell'acqua potabile da cromo esavalente sono molto limitati data le difficoltà intrinseche per studi di popolazione. Tuttavia, in uno studio condotto in Cina ove i livelli d'inquinamento erano particolarmente elevati, tanto da far considerare quest'area come la più inquinata al mondo e tra le poche che sono state oggetto di studi epidemiologici, è emerso un aumento statisticamente significativo dei tumori dello stomaco nella popolazione, che offre evidenza di una correlazione tra la presenza di cromo VI nelle acque e l'aumento del rischio di cancro;
   a maggio 2007 il NTP (US – National Toxicology Program) ha comunicato la conclusione di uno studio su ratti che indicano un netto aumento, statisticamente significativo e sulla base della relazione dose-risposta, di neoplasie dell'epitelio di rivestimento della mucosa orale e della lingua nei ratti maschi e femmine e di tumori del piccolo intestino nei topi maschi e femmine;
   sulla base di queste e altre evidenze scientifiche l'Epa della California ha adottato un limite per l'acqua potabile (Maximum Contaminant Level – MCL) di 10 microgrammi/litro di cromo VI nell'agosto 2013;
   i livelli ad oggi ammessi come concentrazione massima nelle acque potabili in Italia sono pari a 50 microgrammi/litro, e derivano dallo standard della Organizzazione mondiale della sanità del 1958, in origine assunto per il solo cromo IV, non tossico come il cromo VI, e poi assunto come riferimento per il cromo totale;
   nonostante ciò, il decreto legislativo n. 152 del 2006 fissa per il cromo VI un valore soglia di contaminazione delle acque sotterranee di 5 microgrammi/litro, che contrasta all'evidenza con il limite ammesso per le acque potabili;
   i dati pubblicati negli ultimi anni dalle autorità preposte circa la concentrazione di inquinanti nei pozzi dell'acquedotto di Brescia, da cui viene prelevata l'acqua potabile per la città e per l’hinterland, hanno spesso indicato presenza significativa di cromo VI, per quanto entro i limiti di legge oggi in vigore di 50 mg/litro;
   in particolare, e da ultimo, il Corriere della Sera del 25 settembre 2013 ha pubblicato i seguenti dati relativi ai livelli di cromo esavalente rilevati ad agosto 2013 (concentrazione in alcuni pozzi di Brescia e dell’hinterland – dati asl Brescia):
    a) nella località Lamarmora 1 il valore è 9;
    b) nella località Lamarmora 2 il valore è 7;
    c) nella località Lamarmora 3 il valore è 10;
    d) nella località Frao il valore è 8;
    e) nella località Chiesanuova 2 il valore è 7;
    f) nella località Folzano 1 il valore è 69;
    g) nella località Folzano 2 il valore è 52;
    h) nella località Sereno 1 il valore è 52;
    i) nella località Sereno 2 il valore è 30;
    l) nella località S. Anna il valore è 8;
    m) nella località Via del monte il valore è 14;
    n) nella località Campo Fiera il valore è 8;
    o) nella località Ospedale civile il valore è 13;
    p) nella località Via Triumplina il valore è 8;
    q) nella località Porta Venezia il valore è 11;
    r) nella località Villa Carcina il valore è 10;
    s) nella località Bovezzo il valore è 9;
    t) nella località Cellatica il valore è 12;
    u) nella località Concesio il valore è 21;
   questo fatto ha destato preoccupazione nell'opinione pubblica tanto che in alcune scuole della città è stato chiesto dai genitori di non dare più acqua del rubinetto ai bambini –:
   se vi siano evidenze scientifiche, o, in alternativa, siano in corso studi finalizzati ad accertare gli effetti sulla salute umana della presenza in concentrazioni significative di cromo VI nell'acqua potabile;
   se, tenuto conto dell'obiettiva vetustà dei limiti oggi in vigore, dell'accertata e conclamata tossicità del cromo VI, della scelta di altri Paesi di abbassare notevolmente la soglia di tolleranza di presenza di tale composto nelle acque potabili, il Ministero della salute e per esso gli organi competenti non ritengano opportuno rivedere il valore limite fissato per il cromo nelle acque potabili;
   se non si ritenga opportuno, in via precauzionale, dare indicazioni ministeriali che raccomandino il rispetto di valori limite più cautelativi di quelli attualmente fissati per le acque per il consumo umano;
   se non si ritenga opportuno assumere iniziative, anche normative, affinché gli enti preposti al controllo, in stretta collaborazione con l'ente gestore della rete di distribuzione idrica, effettuino un sistemico rilevamento dei valori ed un sistematico incrocio «sia a rubinetto» che a «pozzo» nel tempo e per territorio significativo. (3-00598)
(30 gennaio 2014)

   SORIAL, COMINARDI, ALBERTI e BASILIO. — Al Ministro della salute, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   dai rubinetti di Brescia scende acqua sempre più carica di cromo esavalente;
   il cromo esavalente «sulla base di evidenze sperimentali ed epidemiologiche è stato classificato dalla IARC come cancerogeno per l'uomo (classe I)» (fact sheet: «Cromo esavalente», Ispesl, dipartimento di medicina del lavoro, centro ricerche di Parma Cert); diversi studi hanno dimostrato che è molto tossico se ingerito o se i fumi vengono respirati;
   l'aumento del cromo esavalente nell'acqua di Brescia è legato al passato industriale della zona: i bagni di cromo sono una protezione essenziale per tutte le lavorazioni metalliche (dalle posate alle armi) e fino a pochi anni fa le scorie liquide venivano scaricate semplicemente nei corsi d'acqua e nel terreno e, infatti, nel Mella per decenni sono finiti quintali e quintali di liquidi tossici che hanno inquinato i pozzi nella bassa valle, parte della città, fino ad arrivare nella Bassa, il granaio della provincia. Oggi non sono aumentate le fonti inquinanti, ma i veleni rilasciati nell'ambiente in passato proseguono inesorabili la loro discesa e stanno dunque percolando fino alla falda profonda;
   i dati forniti dalla asl nell'ultimo rapporto di agosto indicano una concentrazione crescente del cromo esavalente nell'acqua di rubinetto, giunta a 10 microgrammi per litro, con picchi nelle zone ovest della città e nella bassa Valtrompia, con un aumento rispetto a febbraio anche in zona Lamarmora e Villaggio Sereno; dai rubinetti scende acqua anche con 13 microgrammi di cromo esavalente per ogni litro, un inquinamento che rimane nonostante gli accurati filtraggi a cui il gestore sottopone l'acqua e che l'organismo umano assimila con gravi rischi per la salute;
   le linee guida dell'Organizzazione mondiale della sanità fissano il limite di cromo esavalente a 2 microgrammi per l'acqua destinata al consumo umano, mentre lo Stato della California ha recentemente abbassato il limite da 0,06 a 0,02 microgrammi per litro, quantità ben cinquecento volte inferiore alle concentrazioni medie presenti nell'acquedotto di Brescia;
   ai sensi dell'articolo 14 del decreto legislativo n. 31 del 2001, che dà attuazione alla direttiva 98/83/CE relativa alla qualità delle acque destinate al consumo umano, «Entro il 31 gennaio di ciascun anno, la regione o la provincia autonoma comunica al Ministero della sanità e dell'ambiente le seguenti informazioni relative ai casi di non conformità – dei parametri relativi alle acque destinate al consumo umano – riscontrati nell'anno precedente» in particolare indicando: «a) il parametro interessato ed il relativo valore, i risultati dei controlli effettuati nel corso degli ultimi dodici mesi, la durata delle situazioni di non conformità; b) l'area geografica, la quantità di acqua fornita ogni giorno, la popolazione coinvolta e gli eventuali effetti sulle industrie alimentari interessate; c) una sintesi dell'eventuale piano relativo all'azione correttiva ritenuta necessaria compreso un calendario dei lavori, una stima dei costi e la relativa copertura finanziaria nonché disposizioni in materia di riesame»;
   ai sensi dell'articolo 8 del medesimo decreto legislativo «L'azienda unità sanitaria locale comunica i punti di prelievo fissati per il controllo, le frequenze dei campionamenti e gli eventuali aggiornamenti alla competente regione o provincia autonoma ed al Ministero della sanità secondo modalità proposte dal Ministro della salute (...) e trasmette gli eventuali aggiornamenti entro trenta giorni dalle variazioni apportate»;
   infine, ai sensi dell'articolo 75 del decreto legislativo n. 152 del 2006, che concerne anche lo stato delle acque superficiali: «Con riferimento alle funzioni e ai compiti spettanti alle regioni e agli enti locali in caso di accertata inattività che comporti inadempimento agli obblighi derivanti dall'appartenenza all'Unione europea pericolo di grave pregiudizio alla salute o all'ambiente oppure inottemperanza ad obblighi di informazione il Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio per materia, assegna all'ente inadempiente un congruo termine per provvedere, decorso inutilmente il quale il Consiglio dei Ministri, sentito il soggetto inadempiente, nomina un commissario che provvede in via sostitutiva. Gli oneri economici connessi all'attività di sostituzione sono a carico dell'ente inadempiente. Restano fermi i poteri di ordinanza previsti dall'ordinamento in caso di urgente necessità e le disposizioni in materia di poteri sostitutivi previste dalla legislazione vigente, nonché quanto disposto dall'articolo 132» –:
   se i Ministri interrogati siano a conoscenza dei fatti indicati e se siano stati adottati provvedimenti anche urgenti in relazione alla situazione di cui in premessa, con particolare riferimento alla necessaria tutela dell'ambiente e della salute dei cittadini delle aree interessate, per garantire la salute e la tranquillità della popolazione;
   quale sia il quadro aggiornato della situazione di cui in premessa, e, qualora lo si ritenesse necessario, se si intenda convocare un tavolo tra tutte le parti istituzionali coinvolte per trovare una soluzione condivisa a salvaguardia del territorio e delle popolazioni locali;
   se sussistano i presupposti per l'invio di un'ispezione del comando dei carabinieri per la tutela della salute per accertare la condizione delle acque destinate al consumo umano nella città di Brescia;
   se e come sia stata informata la popolazione sullo stato del loro territorio e dei rischi per la loro salute;
   se si intenda avviare in tempi rapidi, attraverso l'Istituto superiore di sanità, un'indagine epidemiologica aggiornata sugli eventuali effetti nocivi dell'inquinamento della falda acquifera sulla salute dei cittadini;
   se sussistano i presupposti per un intervento ai sensi dell'articolo 75, comma 2, del decreto legislativo n. 152 del 2006, alla luce di quanto rappresentato in premessa. (3-01321)
(presentata il 2 marzo 2015)
(ex 4-02162 del 15 ottobre 2013)

C) Interrogazione

   L'ABBATE, MASSIMILIANO BERNINI, GALLINELLA, GAGNARLI, LUPO e PARENTELA. — Al Ministro della salute, al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   nei primi giorni di giugno 2014, la Repubblica Ceca ha notificato attraverso il sistema di allerta rapido europeo il ritrovamento in un lotto di pomodorini ciliegina, provenienti dal Marocco ed importati dalla Francia, di tossine prodotte da escherichia coli;
   la Francia aveva già allertato i Paesi europei, nei giorni precedenti, sul possibile verificarsi di una tossinfezione alimentare legata al consumo di pomodorini provenienti dal Marocco e distribuiti, oltre che in Francia e Repubblica Ceca, anche in Germania, Slovacchia, Romania, Regno Unito ed Italia;
   già nel 2011, un altro prodotto di origine vegetale – germogli crudi di soia – venne coinvolto da un'allerta alimentare a causa della contaminazione da parte di ceppi di escherichia coli pericolosi per la salute umana. L'intossicazione fu riscontrata in maniera prevalente in Germania e Francia, causando anche alcuni decessi;
   dal Ministero della salute non è giunta, sinora, alcuna informazione volta ad informare i cittadini sulle eventuali precauzioni da adottare nel consumo di pomodorini ciliegina;
   la recente sottoscrizione dell'accordo tra Unione europea e Marocco ha, di fatto, liberalizzato lo scambio commerciale di molti prodotti agricoli e ciò, oltre a compromettere il mercato nazionale di tali produzioni potrebbe, se tali prodotti non fossero sottoposti a stringenti controlli igienico-sanitari, pregiudicarne la qualità, a possibile danno della salute dei cittadini/consumatori –:
   se siano a conoscenza dei fatti esposti in permessa e quali azioni intendano porre in essere al fine di garantire un'adeguata e tempestiva informazione ai consumatori italiani;
   quali misure intendano adottare, in base alle proprie competenze, per evitare l'ingresso o individuare i lotti già in circolazione dei pomodorini ciliegina provenienti dal Marocco per i quali è già partito un allarme a livello internazionale, sul mercato italiano, al fine di tutelare la salute dei cittadini;
   quale sia la tipologia di controlli igienico-sanitari applicata ai prodotti alimentari e agricoli provenienti da Paesi extra Unione europea, con particolare riferimento al regno del Marocco, considerando la facilità d'ingresso dei prodotti agricoli marocchini nel nostro Paese garantita dalla sottoscrizione dell'accordo citato in premessa. (3-01320)
(presentata il 2 marzo 2015)
(ex 4-05058 del 9 giugno 2014)

D) Interrogazione

   BOLOGNESI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   suscita dubbi la procedura attraverso la quale Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, condannati ad almeno 7 ergastoli per vari delitti, tra i quali la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, hanno ottenuto il beneficio della liberazione condizionale;
   dubbi in proposito furono sollevati nell'immediatezza dall'Associazione tra i familiari delle vittime della strage in cui persero la vita 85 persone, per il fatto che non risultavano essersi realizzati i presupposti previsti dalla legge, essendosi nel relativo provvedimento dato atto dell'intervenuto perdono di una sola delle parti offese della strage e tacendosi in proposito la mancata consultazione della predetta associazione, degli altri familiari delle vittime della strage e degli altri omicidi di cui i due terroristi furono ritenuti responsabili. E non avendo dato essi segno ad alcuna resipiscenza;
   la prova dell'avvenuto ravvedimento fu basata solo su un appello di varie personalità in relazione all'attività prestata dagli interessati a favore dell'associazione «Nessuno tocchi Caino», i cui promotori e molti dei cui sottoscrittori erano gli stessi che, a seguito di una campagna mediatica di disinformazione, secondo l'interrogante, abilmente orchestrata, precedentemente avevano sottoscritto l'appello «E se fossero innocenti» sempre a favore dei medesimi;
   attraverso questa identità di ruoli si sono poste le fasi di una confusione di motivazioni che, per quanto possa non essere stata colta dai giudici e da alcuni dei sottoscrittori degli appelli, oggettivamente determinava effetti gravemente distorsivi per la commistione tra i motivi di merito che avevano portato alla condanna e la strumentalizzazione dei mezzi di informazione e dell'istituto della liberazione condizionale, le cui logiche devono essere riferibili esclusivamente all'esecuzione della pena;
   successivamente le perplessità sembrano aver trovato altri supporti oggettivi, quando si è appreso che nel corso del processo penale a carico di Gennaro Mokbel, già componente della stessa banda dei Nar che aveva fatto capo a Valerio Fioravanti, sarebbero emerse a seguito di intercettazioni telefoniche le seguenti circostanze:
    a) che il Mokbel aveva affermato di avere speso un milione e duecento mila euro per la liberazione dei due terroristi Fioravanti e Mambro, facendo carico della relativa spesa alla cassa comune dell'associazione criminale formata dai proventi delle attività illecite per le quali era stato avviato il procedimento penale rg gip/gup n. 6429/2006;
    b) l'entità della spesa certamente eccedeva il semplice costo delle spese legali di assistenza nella procedura relativa all'esecuzione della pena;
   è possibile supporre che questa erogazione potesse essere giustificata da un obbligo di solidarietà che alcuni degli associati ritenevano di dover manifestare nei confronti dei due ex sodali, anche se probabilmente non condivisa da tutti;
   è inevitabile per l'interrogante il sospetto che questa dazione possa essere stata rivolta anche a compensare il silenzio sempre mantenuto dal Fioravanti e dalla Mambro in ordine ai mandanti della strage;
   in altre intercettazioni si afferma che il Mokbel si sarebbe fatto carico anche di altre consistenti spese e della latitanza in Africa dell'ex Nar Antonio D'Inzillo, che sarebbe stato già in precedenza arrestato nel maggio 1994 a casa dello stesso Mokbel;
   il Mokbel, per mantenere inalterato il proprio prestigio all'interno dell'associazione criminale, insidiato da un'iniziativa dell'associato Augusto Murri, aveva ricordato agli associati – nel corso di una conversazione – di essersi reso già responsabile di una decina di omicidi («c'ho dieci omicidi sulla coscienza e non mi hanno mai beccato»), con evidente riferimento all'attività svolta allorché faceva parte del sodalizio egemonizzato dal Fioravanti;
   il rapporto della polizia giudiziaria evidenziava che egli sarebbe stato associato con altre persone in un'associazione a delinquere che affondava le sue radici nell'esperienza pregressa di alcuni degli associati che negli anni Ottanta già avevano militato nei Nar e nella Banda della Magliana;
   dalle stesse intercettazioni emergevano riferimenti anche ad altro appartenente ai Nar, Marco Iannilli e ad esponenti della «’ndrangheta» e della banda della Magliana, uno dei quali esplicitamente indicato nelle telefonate intercettate con «Nicoletti» che avrebbero ancora mantenuto una sorta di signoraggio sul gruppo criminale;
   desta perplessità che il Mokbel e lo Iannilli, nonostante i loro gravi precedenti penali e la natura delle relazioni mantenute, abbiano potuto intrattenere rapporti con società a partecipazione pubblica, tanto da ingenerare a parere dell'interrogante il sospetto che tali rapporti possano aver costituito una sorta di riconoscimento per l'attività precedentemente svolta nell'ambito dei gruppi eversivi di estrema destra;
   proprio in forza di tali rapporti essi avrebbero ricevuto mano libera da parte di soggetti responsabili di settori di tali società per costruire il castello dell'attività illecita loro contestata;
   da varie fonti e dalla stessa ordinanza di rinvio a giudizio sono state poste in evidenza le relazioni che gli associati tentarono di stabilire anche con la Lega Nord, le cui basi risultano essere state già poste agli inizi degli anni Novanta da Stefano Delle Chiaie e Licio Gelli, con il coinvolgimento anche del fratello di Francesca Mambro;
   risulta da varie indagini che già agli inizi degli anni Ottanta Stefano Delle Chiaie si era prestato a mettere a disposizione di Fioravanti e Mambro un rifugio all'estero prima che essi fossero arrestati; un rifugio fu procurato tramite Elio Massagrande in Paraguay a Paolo Marchetti e Rita Stimamiglio (vedasi la missiva di costoro sequestrata dalla polizia tedesca a Bad Nauheim nel giugno 1984). Licio Gelli fu condannato in relazione ad un depistaggio posto in atto nel corso delle indagini sulla strage di Bologna rivolto ad allontanare l'attenzione degli inquirenti dai citati Fioravanti e Mambro, mentre proprio il Marchetti e la Stimamiglio si erano adoperati per procurare un rifugio a Fioravanti e la Mambro in un appartamento di via Liberi 6 di Padova, ove il Fioravanti a febbraio del 1981 fu poi arrestato;
   il medesimo rapporto nel corso di un servizio del programma televisivo Report ha riferito anche di incarichi, analoghi a quelli attribuiti a Mokbel e Iannilli, o rapporti economici stabiliti direttamente o tramite società controllate dalla ex-amministrazione comunale di Roma a favore di altri soggetti gravitanti nell'area dei Nar o della banda della Magliana, tra i quali Riccardo Mancini, già incriminato nel processo ad Avanguardia Nazionale, e Massimo Carminati, che fu complice insieme a Fioravanti di numerosi delitti nonché di rapporti tra Massimo Carminati, Ernesto Diotallevi ed Enrico Nicoletti, tra questi e il boss Carmine Fasciani, e tra questi e Gennaro Mokbel;
   è inevitabile trarre dall'insieme di tali fatti la necessità di verificare che i vari Nicoletti, Gelli e gli ambienti di cui essi erano espressione, avessero l'esigenza di assicurarsi il silenzio degli ex Nar al fine di evitare loro coinvolgimenti nei delitti ascritti a Fioravanti ed alla Mambro;
   del pari sarà necessario verificare se quel milione e duecentomila euro, comunque risultante dal reato, sia stato utilizzato solo per attività di assistenza legale nella procedura di esecuzione della pena di Fioravanti e Mambro, ovvero per altre spese di cui dovrà essere accertata la natura;
   tali circostanze evidenziano la persistenza di rapporti del Fioravanti e della Mambro con ambienti criminali (nelle intercettazioni si fa riferimento a loro contatti diretti con Gennaro Mokbel e Giorgia Ricci) e pongono seri dubbi circa la fondatezza dell'affermazione dell'intervenuto perdono delle parti offese nonché sulla sussistenza di tutte le altre condizioni per l'applicazione dell'articolo 176 del codice penale («il condannato (...) che durante il tempo di esecuzione della pena abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione condizionale. (...)») –:
   di quali elementi il Ministro interrogato disponga sui fatti esposti in premessa anche con riferimento alle procedure amministrative che possono aver creato progressivamente nel tempo una situazione di copertura dei citati terroristi fino a determinarne l'attribuzione loro di incarichi che presupponevano ben altri requisiti morali e di affidabilità;
   se il Ministro interrogato non intenda avviare iniziative ispettive, ai fini dell'eventuale esercizio di tutti i poteri di competenza. (3-00268)
(6 agosto 2013)

E) Interrogazioni

   MELILLA. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   come previsto dal piano carceri i primi di marzo 2014 inizieranno i lavori di ampliamento del carcere di massima sicurezza di Sulmona (L'Aquila). In base al progetto si costruirà un nuovo padiglione in grado di ospitare altri 200 detenuti. Sono previsti 400 giorni di lavoro per l'opera e occorreranno un anno e tre mesi per realizzare il nuovo blocco della struttura carceraria;
   la polizia penitenziaria, tramite le proprie associazioni di categoria, chiede, da tempo, la ridefinizione della pianta organica dell'istituto affinché si ristabiliscano le 328 unità previste nel decreto ministeriale del 2001 rispetto agli attuali 240 agenti impiegati nel penitenziario peligno;
   la polizia penitenziaria chiede almeno 30 nuovi agenti ed assistenti nella struttura sulmonese per coprire l'attuale emergenza e poi altri 60 agenti attraverso l'implementazione;
   inoltre la polizia penitenziaria domanda pagamenti regolari dello straordinario da parte del Ministero dell'economia e delle finanze, evitando così accantonamenti continui di ore. Chiede le ferie e tutti gli altri diritti soggettivi: riposi e recupero ore, ma anche docce all'interno delle celle detentive, automatizzazione di tutti i cancelli, apparato di videosorveglianza innovativo con sale di regia da implementare. Chiede, come da contratto, di non effettuare lo straordinario o il recupero delle ore attraverso riposi compensativi. 10 mila ore di ferie maturate da 240 agenti sulmonesi nel 2012;
   nel carcere di Sulmona, il più grande d'Abruzzo, che dovrebbe ospitare 306 detenuti, ve ne sono 471, cioè ben 167 detenuti in più con un livello intollerabile delle condizioni di vita e di sicurezza dei detenuti e del personale penitenziario;
   nell'ultimo anno vi sono stati 4 tentativi di suicidio e 12 casi gravi di autolesionismo tra i detenuti; negli ultimi 10 anni ci sono stati ben 13 casi di suicidio, al punto tale che questo carcere è diventato tristemente famoso a livello nazionale e internazionale –:
   se non intenda assumere iniziative per superare rapidamente questa situazione di emergenza e prevedere un incontro con le parti sociali per definire misure straordinarie di riorganizzazione della struttura carceraria e di copertura del fabbisogno di personale penitenziario.
(3-00648)
(25 febbraio 2014)

   MELILLA. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
   il carcere di Sulmona (L'Aquila) è, per quanto riguarda il sovraffollamento, il peggiore in termini assoluti tra gli 8 istituti penitenziari dell'Abruzzo;
   ha una capienza massima di 306 detenuti, ma ne ospita 473 con un'eccedenza di 167 detenuti costretti a vivere in condizioni inaccettabili per la loro dignità di persone con conseguenze inevitabili anche rispetto alla funzione rieducativa della loro pena, come prescrive la Costituzione;
   l'indice di sovraffollamento è pari al 54,6 per cento e ciò è particolarmente grave se si pensa che in questo carcere negli ultimi 10 anni si sono tolte la vita 13 persone, nell'ultimo anno ci sono stati 4 tentati suicidi e 12 atti del autolesionismo gravi;
   il personale di polizia penitenziaria è costretto a subire questa situazione con un netto peggioramento delle proprie condizioni di lavoro;
   l'Italia è stata sanzionata a livello europeo per le condizioni inaccettabili dei detenuti –:
   se non intenda prendere iniziative per superare rapidamente questa situazione di sovraffollamento del carcere di Sulmona. (3-00591)
(27 gennaio 2014)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE RELATIVE ALL'IMPATTO AMBIENTALE DELLA CENTRALE TERMOELETTRICA A CARBONE DI CIVITAVECCHIA

   La Camera,
   premesso che:
    la città di Civitavecchia sin dagli anni Sessanta ha visto sul suo territorio la realizzazione di tre centrali termoelettriche. Nel 2003, con l'autorizzazione unica di cui al decreto del Ministro delle attività produttive n. 55 febbraio del 2003, che ha recepito integralmente i contenuti del decreto di valutazione d'impatto ambientale n. 680 del 2003, Enel spa è stata autorizzata alla riconversione dell'impianto di Torrevaldaliga nord da olio combustibile a carbone;
    la «valutazione epidemiologica dello stato di salute della popolazione residente nei comuni di Civitavecchia, Allumiere, Tarquinia, Tolfa e Santa Marinella» redatta dal dipartimento di epidemiologia del servizio sanitario regionale del Lazio, studio pubblicato nel febbraio del 2012, attesta che la popolazione residente nel comune di Civitavecchia nel periodo 2006-2010 presenta un quadro di mortalità per cause naturali (tutte le cause eccetto i traumatismi) e per tumori maligni in eccesso di circa il 10 per cento rispetto alla popolazione residente nel Lazio nello stesso periodo;
    a seguito di molteplici richieste da parte della popolazione, allarmata per la propria salute, nel maggio 2013 l'azienda sanitaria locale Roma F ha deliberato l'istituzione del registro dei tumori;
    con decreto n. 114 del 2013 di rinnovo dell'autorizzazione integrata ambientale è stato autorizzato l'aumento delle ore di funzionamento della centrale da 6000 a 7500 e della quantità di carbone utilizzabile, ben 900.000 tonnellate in più, per un totale di 4,5 milioni di tonnellate, rispetto al progetto autorizzato con il decreto di valutazione d'impatto ambientale n. 680 del 2003. Ciò implica un rilevante incremento del carico inquinante dell'impianto, demolendo, di fatto, le condizioni del giudizio di compatibilità ambientale espresso dalla regione Lazio che imposero la riduzione dei gruppi della centrale, da 4 a 3, nel progetto di riconversione del 2003;
    il parere istruttorio conclusivo dell'autorizzazione integrata ambientale del 2013 consente l'utilizzo di carbone con tenore di zolfo genericamente inferiore all'uno per cento, in contrasto con quanto prescritto dal piano di risanamento della qualità dell'aria della regione Lazio, che prevede per gli impianti di combustione ad uso industriale l'utilizzo di combustibili con tenore di zolfo inferiore allo 0,3 per cento. Peraltro, successivamente al rinnovo dell'autorizzazione integrata ambientale, con la mozione n. 60, approvata dal consiglio regionale del Lazio l'8 ottobre 2013, si è ulteriormente confermata la volontà e la necessità di far rispettare il limite sul tenore di zolfo allo 0,3 per cento per l'impianto a carbone di Torrevaldaliga Nord;
    Enel è una multinazionale controllata al 30 per cento dal Ministero dell'economia e delle finanze;
    l'Agenzia europea per l'ambiente, nel novembre 2011, ha pubblicato uno studio sugli impatti sanitari, ambientali ed economici dell'inquinamento atmosferico dei principali impianti industriali europei, tra cui figura anche Enel, adoperando un metodo di indagine utilizzato anche nel processo «Enel bis» sul caso di Porto Tolle e ripreso anche da Greenpeace nei propri studi;
    i risultati dello studio commissionato da Greenpeace nell'aprile 2012 per la centrale di Torrevaldaliga Nord di Civitavecchia, riprendendo la stessa metodologia utilizzata dall'Agenzia europea per l'ambiente, stimano tra gli impatti sanitari ed ambientali 13 morti premature e 156 migliaia di euro di danni all'agricoltura per l'anno 2009 (tabella 13 dello studio «Enel Today and Tomorrow. Hidden Costs of the path of Coal and Carbon versus Possibilities for a Cleaner and Brighter future» di Somo, autori Wilde-Ramsing, Racz, Scheele e Saaman);
    i periti dell'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) hanno recentemente quantificato per la centrale elettrica di Porto Tolle, riprendendo la stessa metodologia utilizzata da Greenpeace-Somo, 2,6 miliardi di euro di danni sanitari tra il 1998 e il 2009 e più di un miliardo di euro per omessa ambientalizzazione. Tale stima del danno è attualmente usata dall'Avvocatura dello Stato che rappresenta il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e il Ministero della salute contro Enel, alla quale si chiede di risarcire i danni causati nel tempo;
    nel decreto ministeriale 5 aprile 2013, n. 114, di rinnovo dell'autorizzazione integrata ambientale, in evidente contrasto con l'articolo 6, comma 16, del decreto legislativo n. 152 del 2006 e, più in generale, con la direttiva 2010/75/UE relativa alle emissioni industriali (prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento), risulta «non applicata» (pagina 92 dell'allegato parere istruttorio conclusivo) la migliore tecnica disponibile in relazione alle emissioni di monossido di carbonio;
    in conseguenza di tale mancata applicazione, il valore limite di 120 mg/Nm3 previsto per le emissioni di monossido di carbonio nell'autorizzazione integrata ambientale di cui al citato decreto ministeriale n. 114 del 5 aprile 2013 (pagina 111 dell'allegato parere istruttorio conclusivo) è ampiamente superiore ai livelli di emissione associati all'utilizzo delle best available techniques (30-50 mg/Nm3) previsti dal Bref (Reference document on best available techniques) sui grandi impianti di combustione (large combustion plant);
    la quota di controllo pubblico dovrebbe tradursi in un indirizzo industriale per il Paese;
    il «Rapporto annuale e dichiarazione di conformità», stilato da Enel in ottemperanza al piano di monitoraggio e controllo trasmesso al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare nel 2013 per Torrevaldaliga Nord mostra che i limiti sulle quantità di carbone utilizzabili e sulle ore di funzionamento vennero già superati nel 2012, quindi prima del riesame dell'autorizzazione integrata ambientale;
    il consiglio regionale del Lazio, con l'approvazione della mozione n. 60 dell'8 ottobre 2013, ha impegnato la giunta a far rispettare il limite del tenore di zolfo inferiore allo 0,3 per cento nel combustibile anche per l'impianto di Torrevaldaliga Nord come previsto dal piano di risanamento della qualità dell'aria della regione Lazio,

impegna il Governo:

   a disporre il riesame, ai sensi dell'articolo 29-octies del decreto legislativo n. 152 del 2006, dell'autorizzazione integrata ambientale per l'impianto di Torrevaldaliga Nord, al fine di ripristinare i parametri di esercizio, ovvero un funzionamento di 6.000 ore all'anno equivalenti con l'utilizzo di 3.600.000 tonnellate all'anno di carbone, previsti dal decreto di valutazione di impatto ambientale n. 680 del 2003, salvo ulteriori riduzioni, di garantire l'applicazione delle migliori tecniche disponibili e il rispetto dei livelli di emissione ad esse associati in relazione al monossido di carbonio, di fissare, secondo quanto previsto dal piano di risanamento della qualità dell'aria della regione Lazio, il limite dello 0,3 per cento in relazione al tenore di zolfo contenuto nel carbone;
   a permettere a organizzazioni non governative o comitati legalmente costituiti di partecipare ai tavoli decisionali che, di fatto, hanno influenzato e influenzeranno la salute dei cittadini, i destini e lo sviluppo economico dei territori direttamente interessati.
(1-00383)
(Nuova formulazione) «Grande, Manlio Di Stefano, Spadoni, Vacca, Busto, Spessotto, Pinna, Vignaroli, Toninelli, Cozzolino, Lorefice, Scagliusi, Rostellato, Rizzetto, Ciprini, Tripiedi, Cominardi, Baldassarre, Colletti, Luigi Di Maio, Businarolo, Bonafede, Turco, Currò, D'Uva, Rizzo, Terzoni, Prodani, Nicola Bianchi, Tofalo, Battelli, Dall'Osso, Del Grosso, Massimiliano Bernini».
(19 marzo 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la città di Civitavecchia, fin dai primi anni sessanta, ha subito la realizzazione di 3 diverse centrali termoelettriche con una concentrazione di emissioni che ha portato un impatto dirompente sulla salute della cittadinanza e sulle condizioni generali dell'ambiente, pregiudicando, peraltro, uno sviluppo e un'economia alternativi;
    il decreto VIA del 24 dicembre 2003 ha autorizzato Enel a riconvertire la centrale da olio combustibile a carbone impiegando tre gruppi da 660 megawatt ciascuno;
    i cittadini di Civitavecchia, Tarquinia, Allumiere, Tolfa, Santa Marinella, Cerveteri e Ladispoli già dal dicembre 2000, data in cui Enel cominciò a proporre l'idea della riconversione a carbone, si sono organizzati in molteplici comitati e associazioni volti ad impedire detta riconversione;
    i dati relativi alla salute pubblica nel comprensorio di Civitavecchia sono semplicemente allarmanti, tutti gli studi epidemiologici dai primi anni ’90 ad oggi dimostrano la gravità della situazione: nel provvedimento di valutazione dell'impatto ambientale per l'impianto Torrevaldaliga Nord (Tvn) si legge: «in un'area dove non è possibile escludere che le emissioni avvenute nel passato abbiano comportato un impatto sulla salute umana che non si sia ancora completamente manifestato»;
    nel biennio 1990-1991 l'Osservatorio epidemiologico regionale (OER) ha rilevato a Civitavecchia un'incidenza di mortalità per tumore ai polmoni, bronchi e trachea superiore al 35 per cento della media regionale. In dettaglio, nel 1996 l'OER, nell'analizzare i dati relativi al triennio 1990-92 ha accertato che Civitavecchia (comprensiva di Tolfa, Allumiere e Santa Marinella) è al secondo posto nel Lazio per mortalità per tumori e al primo per quella relativa ai tumori ai polmoni;
    nell'ottobre 1999 sempre l'OER ha riscontrato una mortalità delle donne nel territorio di Civitavecchia superiore del 12 per cento rispetto alla media del Lazio. Notevolissime le incidenze di mortalità per cancro alla trachea, ai bronchi e ai polmoni, nella misura del 23 per cento in più. Inoltre la rivista Occupational environmental medicine nel settembre 2004 ha pubblicato una ricerca che dimostra che nell'area di Civitavecchia il rischio di cancro al polmone sarebbe al 20-30 per cento rispetto alla media regionale;
    uno studio commissionato dal National institute of environmental hearth sciences (NIEHS) ha chiaramente messo in relazione l'aumento del rischio di avere il cancro al polmone con l'esposizione cronica alle polveri provenienti dalla combustione dei combustibili fossili;
    il centro pneumologico Conti Curzia di Civitavecchia, in una ricerca effettuata nel 2001 su ragazzi tra gli 11 e i 14 anni, ha riscontrato che il 56,3 per cento dei soggetti è affetto da asma, allergie e altre sindromi dell'apparato respiratorio, la percentuale più alta nella regione Lazio;
    uno studio dell'ottobre 2006 pubblicato in Epidemiologia e prevenzione, a cura di V. Fano, F. Forastiere, P. Papini, V. Tancioni, A. Di Napoli, C. A. Petrucci, ha evidenziato che: «l'analisi dei ricoveri ospedalieri aggiunge informazioni al quadro epidemiologico dell'area, con risultati coerenti con quelli di mortalità e che confermano i risultati di studi precedenti: tumore polmonare pleurico e asma bronchiale sono in eccesso. Una novità rispetto alle conoscenze già note è costituita dall'aumento di incidenza dell'insufficienza renale cronica, rilevato dal registro regionale dialisi»;
    il recente studio condotto dal Dipartimento di epidemiologia della Regione Lazio, relativo al periodo 2006-2010, fa emergere dei dati allarmanti. «A Civitavecchia il tasso di mortalità causato da tumori al polmone e alla pleura è il 30 per cento più alto rispetto al resto della regione Lazio». A dirlo è il dottor Francesco Forastiere, che ha condotto la ricerca. «Insieme a questo vi è anche un aumento delle morti per malattie respiratorie croniche – continua Forastiere – queste due malattie hanno un'origine non solo nel fumo di sigaretta, ma anche nell'esposizione nei posti di lavoro e nell'impatto ambientale». I fattori che hanno portato a questa condizione sono però molteplici. «C’è da considerare l'amianto presente sulle navi, le emissioni delle centrali, l'inquinamento del porto e tutta una serie di circostanze che hanno colpito il territorio negli ultimi venti/trent'anni», precisa Forastiere. Allora, i dati a disposizione non riguardano solamente gli ultimi anni, ma l'esposizione a cui è andata incontro la popolazione di Civitavecchia, Allumiere, Tarquinia, Tolfa e Santa Marinella a partire dagli anni ottanta;
    l'azienda sanitaria locale Asl RmF ha, nel mese di maggio 2013, deliberato l'istituzione del registro dei tumori, strumento epidemiologico ormai irrinunciabile per Civitavecchia ed il suo comprensorio a fronte dell'incidenza delle patologie tumorali riscontrate;
    in data 12 marzo 2013 il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha rinnovato l'autorizzazione integrata ambientale (AIA) dell'impianto di Torrevaldaliga Nord aggravando ulteriormente la già precaria situazione ambientale e sanitaria. Ciò si evince dalla comparazione dei limiti emissivi, delle ore di funzionamento e della quantità di combustibile utilizzato nelle diverse autorizzazioni dal 2003 ad oggi (si vedano: decreto VIA n. 55 del 2003 del Ministero delle attività produttive, Limiti secondo le migliori tecnologie esistenti secondo le normative europee e nazionali, dati da report Enel 2011 e 2012, decreto AIA 2013);
    dalla comparazione si evince chiaramente che dal 2003 al 2013 si è prodotto un complessivo peggioramento delle condizioni di esercizio della centrale con particolare riferimento alle ore di funzionamento che passano da 6.000 a 7.500 all'anno in più per ogni gruppo della centrale Torrevaldaliga Nord;
    il consumo di carbone è passato da 3.600.000 a 4.500.000 tonnellate all'anno con un aumento di 900.000 tonnellate, pari al 25 per cento in più, rendendo nullo il parere della regione Lazio in fase di valutazione di impatto ambientale all'interno della quale veniva richiesta la limitazione di produzione di energia con 3 gruppi e non 4, proprio per limitare l'uso di combustibile fossile;
    va inoltre evidenziato come, ogni impianto, di qualsiasi tipo e a maggior ragione per una centrale dalla portata di 1950 megawatt, ha necessariamente bisogno di periodi di «fermo» per la manutenzione e la sicurezza;
    nell'anno 2013 Enel ha eseguito due fermate programmate di due delle tre caldaie presenti a Torrevaldaliga Nord. La prima è stata effettuata nel mese di maggio 2013 (per l'intero mese) mentre la seconda da ottobre a dicembre 2013 (per un totale di nove settimane);
    nell'anno in corso, anche in conseguenza delle maggiori ore di funzionamento degli impianti, pare che Enel abbia messo in programma due fermate per le caldaie sezione 4 e sezione 2 sempre nei mesi di maggio ed ottobre. A differenza del 2013 però i tempi di intervento saranno drasticamente ridotti; la fermata di Maggio sarà di sole due settimane e quella da Ottobre di sette settimane. Il solo spegnimento e raffreddamento della caldaia comporta due giorni. Il restringimento dei tempi di fermata produce inevitabilmente un peggioramento della qualità delle manutenzioni e, di conseguenza, dell'efficienza degli impianti (come nel caso dei filtri DESOX e GGH per l'abbattimento dei fumi);
    in aggiunta a questo, la riduzione dei tempi destinati alla manutenzione e alla qualità portano all'inevitabile diminuzione della sicurezza per i lavoratori, impegnati nel medesimo delicato lavoro ma con meno tempo a disposizione;
    anche sul piano occupazionale persistono molte criticità: dal 20 marzo Enel ha ridimensionato tutte le lavorazioni non indispensabili per il normale esercizio dell'impianto, ma di vitale importanza per l'imprenditoria locale. Le normali attività di manutenzione, se non supportate dalle cosiddette «attività polmone» non sono sufficienti per la sopravvivenza delle imprese che vi operano, anche perché la maggior parte delle attività possono essere effettuate solo ad impianto spento proprio per tutelare la sicurezza degli operatori;
    quanto suesposto rischia quindi di diminuire i livelli di sicurezza per i lavoratori e l'ambiente;
    un ulteriore aspetto critico (presente a pagina 109 del parere istruttorio conclusivo dell'AIA 2013) consiste nell'autorizzazione ad utilizzare carbone con tenore di zolfo inferiore all'1 per cento anziché inferiore allo 0,3 per cento come previsto dal piano di riqualificazione della qualità dell'aria della Regione Lazio;
    il 14 febbraio 2013 il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha decretato la semplificazione della normativa che prevede la combustione del CDR (combustibile da rifiuti) o del CSS (combustibile solido secondario) e il declassamento del CSS da rifiuto a combustibile di qualità, all'interno di siti produttivi come cementifici o centrali termoelettriche;
    come detto, il comune di Civitavecchia ha deliberato di istituire attraverso la Asl RmF il registro dei tumori, quale studio dell'incidenza e della prevalenza dei tumori;
    il comune di Civitavecchia, attraverso un'ordinanza del sindaco del 26 aprile 2013, ha disposto il divieto totale ed assoluto di combustione presso le centrali elettriche e presso gli altri opifici industriali presenti sul territorio, con qualsiasi modalità e con l'utilizzo di qualsiasi procedimento tecnico, di rifiuti e di materiale di risulta, siano essi di natura organica o inorganica e ha ordinato che le forze dell'ordine, il Corpo della polizia locale, la Asl, 1'Arpa Lazio, l'Ispra ed il competente Servizio comunale ambiente curino l'attuazione ed il rispetto della disposizione;
    i comuni del territorio hanno approvato un'identica mozione che impegna le amministrazioni di competenza a mettere in campo ogni azione necessaria a impedire che le centrali di Torrevaldaliga Nord e di Torrevaldaliga Sud siano utilizzate per l'incenerimento del combustibile da rifiuti e combustibile solido secondario;
    la Provincia di Roma, nel pieno delle sue funzioni, si era più volte espressa, attraverso mozioni approvate all'unanimità del Consiglio, contro ogni ipotesi di incenerimento di rifiuti negli impianti di Torrevaldaliga Nord e Torrevaldaliga Sud,

impegna il Governo:

   a riaprire immediatamente la conferenza di servizi sull'autorizzazione integrata ambientale della centrale di Torrevaldaliga Nord al fine di un generale ridimensionamento delle condizioni di esercizio con una relativa diminuzione delle ore di lavorazione dell'impianto, delle quantità annue di carbone bruciabile e, in modo particolare, riguardo alla chiusura dell'impianto entro e non oltre il 2020 e, nel frattempo, a mettere in campo tutte le azioni necessarie a riconvertire le maestranze attualmente impiegate negli impianti termoelettrici;
   a garantire il rispetto dei limiti imposti dal piano di riqualificazione dell'aria della regione Lazio (per quanto riguarda il limite del contenuto di zolfo dello 0,3 per cento) nei combustibili utilizzati da parte della centrale termoelettrica di Torrevaldaliga Nord, nonché delle navi mercantili e da crociera che transitano nel porto di Civitavecchia;
   ad attivarsi al fine di far osservare, nell'ambito delle proprie competenze, tutte le prescrizioni e compensazioni previste nella valutazione di impatto ambientale di Torrevaldaliga Nord ai sensi del decreto n. 55 del 2003 e successive modificazioni, mai rispettate da Enel;
   ad assicurare che nel territorio di Civitavecchia sia scartata ogni ipotesi di nuova realizzazione e/o utilizzo degli esistenti impianti per la produzione di energia elettrica di termovalorizzazione e ossidazione termica di qualsiasi sostanza, compresi il CDR (combustibile da rifiuti) e il CSS (combustibile solido secondario);
   a mettere in atto tutte le iniziative di competenza, al fine di garantire la tutela e la sicurezza dei lavoratori delle centrali, anche con riferimento alla prevista suddetta riduzione, dal parte dell'Enel, dei tempi di fermata per manutenzione degli impianti;
   a garantire la piena partecipazione delle associazioni e delle comunità locali alle scelte decisionali inerenti all'attività degli impianti di Civitavecchia, per quanto riguarda le ricadute ambientali e sanitarie conseguenti alle medesime scelte.
(1-00708)
«Zaratti, Pellegrino, Zaccagnini, Ricciatti, Ferrara, Scotto».
(15 gennaio 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    l'area di Civitavecchia è sottoposta da molti anni ad una notevole pressione ambientale riconducibile all'attività di:
     a) un rilevante polo energetico costituito da due centrali termoelettriche, una delle quali alimentata a carbone;
     b) uno dei principali porti del mediterraneo, con rilevante traffico crocieristico e di trasporto auto;
     c) un'importante struttura di depositi costieri con una capacità di movimentazione di prodotti petroliferi di oltre un milione di tonnellate all'anno;
     d) un cementificio;
     e) un centro chimico che custodisce tuttora i gas nervini;
    il dipartimento di epidemiologia del servizio sanitario della regione Lazio nel suo rapporto pubblicato nel febbraio 2012 recita testualmente: «La popolazione residente nel comune di Civitavecchia nel periodo 2006-2010 presenta un quadro di mortalità per cause naturali (tutte le cause eccetto i traumatismi) e per tumori maligni in eccesso di circa il 10 per cento rispetto alla popolazione residente nel Lazio nello stesso periodo. Tale eccesso si conferma tra gli uomini residenti nell'area allargata ai comuni di Civitavecchia, Allumiere, Tarquinia, Tolfa e Santa Marinella ma non tra le donne. In riferimento alla mortalità per cause tumorali, si osserva tra gli uomini residenti a Civitavecchia un forte eccesso di rischio per tumore polmonare e della pleura. L'analisi allargata ai comuni del comprensorio conferma l'eccesso di rischio per tumore polmonare»;
    nel 2013, l'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) ha classificato l'inquinamento atmosferico outdoor ed il materiale particellare fine come cancerogeni per l'uomo stabilendo che nessuna dose può essere considerata priva di effetti per la salute umana;
    il consorzio tra i comuni di Allumiere, Civitavecchia, Monte Romano, Santa Marinella, Tarquinia e Tolfa per la gestione dell'osservatorio ambientale, che gestisce la locale rete di monitoraggio dell'inquinamento atmosferico, nel suo rapporto per l'anno 2013 recita che la qualità dell'aria dei comuni di Allumiere, Civitavecchia, Monte Romano, Santa Marinella, Tarquinia e Tolfa rispetta sostanzialmente i criteri di protezione della salute e dell'ambiente dettati dalla normativa (decreto legislativo n. 155 del 2010). Fa eccezione l'ozono che, in analogia con oltre il 90 per cento delle stazioni di rilevamento in tutto il territorio nazionale, nelle postazioni di Allumiere e Sant'Agostino fa registrare concentrazioni che superano i limiti di legge o sono ad essi molto vicine. La valutazione dell'osservatorio, centrata prioritariamente sulla protezione della salute, ha adottato i riferimenti dell'Organizzazione mondiale della sanità che per molti inquinanti sono più restrittivi di quelli imposti dalla normativa. Questo approccio conferma la criticità dell'ozono, ma suggerisce di prestare attenzione anche al materiale particellare (PM10 e PM2,5), le cui concentrazioni in tutti i siti di rilevamento oscillano intorno ai valori di riferimento dell'Organizzazione mondiale della sanità;
    il rinnovo dell'autorizzazione integrata ambientale alla centrale Torrevaldaliga Nord rilasciato dal Ministro dell'ambiente e del territorio e del mare con decreto del 5 aprile 2013, rispetto al 2003:
     a) introduce la concentrazione giornaliera in chiave più restrittiva per tutti i macroinquinanti, ad eccezione del monossido di carbonio che resta inalterato;
     b) lascia inalterati i limiti orari degli ossidi di azoto e del biossido di zolfo, ma impone a quello delle polveri una riduzione quantificabile tra il 30 per cento ed il 50 per cento circa;
     c) interviene sui limiti inerenti le emissioni massiche, riducendo quelli delle polveri e del biossido di zolfo del 60 per cento e del 50 cento rispettivamente;
     d) introduce un limite massico all'emissione del monossido di carbonio che non consentirebbe alla centrale di operare al massimo livello delle emissioni di questo inquinante per più di 10 mesi all'anno circa;
     e) fissa alle emissioni di diossine e furani, che non sono trattate nelle migliori tecniche disponibili (Bat), limiti 10000 volte più bassi di quelli previsti per gli impianti di combustione dal decreto legislativo n. 152 del 2006 (Codice dell'ambiente);
    il citato decreto del 5 aprile 2013 del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare prescrive alla centrale Torrevaldaliga Nord un limite alle emissioni del monossido di carbonio (130 mg/m3) significativamente maggiore delle concentrazioni indicate nel Documento di riferimento europeo sulle migliori tecniche disponibili nell'intervallo 30-50 mg/m3;
    non sono noti gli esiti dei due studi di fattibilità prescritti al gestore dal citato decreto 5 aprile 2013 del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare relativamente:
     a) alla trasformazione della centrale Torrevaldaliga Nord dalla sola produzione di energia elettrica ad impianto di cogenerazione o trigenerazione (produzione di calore e raffrescamento per uso civile);
     b) all'installazione o implementazione di un sistema di abbattimento del monossido di carbonio ai camini della centrale;
    l'European IPPC Bureau della Commissione Europea ha pubblicato nel giugno 2013 il draft del Documento di riferimento europeo che aggiorna le migliori tecniche disponibili e l'approvazione finale di detto documento è prevista entro l'anno 2015,

impegna il Governo:

   a riesaminare l'autorizzazione integrata ambientale concessa alla centrale Torrevaldaliga Nord, al fine di adeguare le emissioni ai riferimenti suggeriti dalle nuove migliori tecniche disponibili (Bat), alla luce dei contenuti del Documento di riferimento europeo (Bref) in corso di pubblicazione da parte della Commissione europea;
   nelle more del riesame, a garantire la puntuale verifica del rispetto delle prescrizioni imposte dal provvedimento di autorizzazione integrata ambientale vigente, dando la più ampia pubblicità dell'esito dei controlli effettuati.
(1-00712)
«Tidei, Minnucci, Carella, Ferro, Gregori, Piazzoni, Giuseppe Guerini, Laforgia, Morassut, Iori, Miccoli».
(15 gennaio 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il settore energetico ricopre un ruolo fondamentale per la vita economica e lo sviluppo del nostro Paese. Il tema dell'energia coinvolge diversi fattori: innanzitutto i costi (in Italia l'energia si paga il 20-30 per cento in più rispetto agli altri Paesi), la qualità del servizio alle persone ed alle imprese, le influenze sul clima, sull'ambiente e sulla vita delle persone;
    le analisi condotte da diverse istituzioni internazionali di ricerca nel settore dell'energia, tra queste, in particolare, l'Agenzia internazionale per l'energia (Iea), individuano alcune tendenze nel settore energetico che dovrebbero caratterizzare lo scenario globale in un arco di tempo di 20-25 anni;
    in particolare, tra le fonti di energia, il gas e le fonti rinnovabili ad oggi sono quelle maggiormente in espansione a scapito invece del petrolio. Quanto al carbone si stima un forte calo di domanda dei Paesi dell'Ocse, dal 20 al 15 per cento;
    l'energia è al centro delle politiche della stessa Unione europea che dopo aver varato il piano energetico europeo, con il regolamento (UE) n. 347 approvato il 17 aprile 2013, ha dettato linee per lo sviluppo integrato e l'interoperabilità delle infrastrutture energetiche a livello europeo, con l'obiettivo di rendere il sistema di erogazione e trasporto dell'energia più competitivo, sostenibile e sicuro, con il fine ultimo di creare il mercato interno dell'energia e garantire la diversificazione e la modernizzazione dell'approvvigionamento;
    è necessario attivare tutti i possibili controlli a livello nazionale, per comprendere il reale impatto delle centrali a carbone sulla salute dei cittadini e sull'ecosistema, al fine di dare delle risposte ai cittadini e, nel contempo, creare un deterrente per speculazioni inutili che potrebbero solo creare allarme ed emergenza sociale;
    il 22 gennaio 2014, la Commissione europea ha presentato il quadro per le politiche dell'energia e del clima per il periodo dal 2010 al 2030 contenente un pacchetto di proposte in materia di politica energetica ambientale. Le misure proposte riguardano: la riduzione, entro il 2030, delle emissioni di gas ad effetto serra del 40 per cento rispetto ai dati del 1990; l'aumento della quota di energie rinnovabili del 27 per cento; il raggiungimento di politiche maggiormente ambiziose in tema di efficienza energetica, un nuovo sistema di governance che assicuri una maggiore competitività e sicurezza al sistema energetico;
    è necessario, per il nostro Paese, l'adozione di una politica nazionale volta a garantire prezzi accessibili all'energia, competitività, sicurezza nell'approvvigionamento ed il conseguimento degli obiettivi climatici e ambientali in materia delle emissioni di gas a effetto serra, energie rinnovabili ed efficienza energetica;
    è, opportuno, altresì, attivare un'indagine epidemiologica nazionale nelle aree esposte al rischio di inquinamento e procedere alle opportune iniziative normative in materia ambientale e sanitaria, relativamente alle attività di monitoraggio e di controllo con particolare riferimento agli impianti industriali altamente inquinanti;
    è necessario avviare un aggiornamento della strategia energetica nazionale con l'obiettivo di una graduale diminuzione dell'utilizzo dei combustibili fossili e della valorizzazione di un sistema energetico distributivo, fondato sul risparmio energetico e sull'efficienza;
    occorre sottolineare come la normativa italiana in materia di valutazione di impatto ambientale sia sufficientemente stringente in merito alla tutela del rispetto dei valori ambientali, al fine di garantire che le procedure autorizzative di qualsivoglia progetto di infrastruttura siano principalmente mirate a prevenire i rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l'ambiente;
    l'area di Civitavecchia è da decenni interessata da una complessa realtà industriale che ha comportato un aggravio della situazione sanitaria locale, coinvolgendo con particolare riferimento i lavoratori dell'area portuale, degli impianti delle centrali e dell'ex cementificio Italcementi;
    per quanto riguarda la produzione di energia elettrica da carbone ed, in particolare, l'impianto di Torrevaldaliga, nell'area di Civitavecchia, occorre un approfondimento soprattutto per quanto riguarda la portata del suo impatto sulla popolazione e sul territorio. Infatti, l'area di Civitavecchia è interessata da diversi decenni da un quadro ambientale complesso per la presenza di insediamenti energetici ed industriali. Il dipartimento di epidemiologia del servizio sanitario della regione Lazio nel suo rapporto pubblicato nel febbraio 2012 ha rilevato un quadro di mortalità per cause naturali e per i tumori maligni in eccesso di circa il 10 per cento rispetto alla popolazione residente nel Lazio nello stesso periodo;
    il collegio peritale del tribunale di Civitavecchia, che ha preso in esame le indagini tecniche sull'impianto Torrevaldaliga nord nell'ambito del procedimento n. 501/04, ha accertato come la situazione sanitaria di Civitavecchia appare «compromessa» e come: « Gli elementi disponibili per la valutazione dell'impatto del progetto sulla qualità dell'aria e della salute della popolazione non sono sufficienti per un giudizio di non nocività date le carenze riscontrate nella procedura d'impatto ambientale»;
    gli studi clinico-statistici condotti da équipe private nei primi anni Duemila, quali la Conti Curzia di Civitavecchia e gli epidemiologi del Policlinico Gemelli di Roma, nonché strutture pubbliche come l'osservatorio epidemiologico della regione Lazio, evidenziarono una morbilità specifica respiratoria, tumorale e degenerativa, in aumento nell’hinterland;
    attualmente non sono noti ricerche e studi di fattibilità che siano in grado di sostenere come l'elevato impatto ambientale e sanitario sull'area di Civitavecchia e su territorio limitrofo sia riconducibile alle attuali emissioni derivanti dall'impianto di Torrevaldaliga nord,

impegna il Governo:

   ad attivare un'indagine epidemiologica nell'area di Civitavecchia con riferimento alle zone esposte al rischio di inquinamento;
   a riesaminare l'autorizzazione integrata ambientale concessa alla centrale Torrevaldaliga nord, al fine di adeguare le emissioni ai riferimenti suggeriti dalle nuove migliori tecniche disponibili (Bat), alla luce dei contenuti del Documento di riferimento europeo (Bref) in corso di pubblicazione da parte della Commissione europea.
(1-00750) «Piso, Dorina Bianchi, Cera».
(presentata il 2 marzo 2015)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE PER L'ISTITUZIONE DI ZONE FRANCHE URBANE IN FRIULI VENEZIA GIULIA

   La Camera,
   premesso che:
    l'istituzione delle zone franche urbane (zfu) è stata introdotta dall'articolo 1, comma 340, legge 24 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria per il 2007), quale strumento di sostegno all'economia in determinate aree del territorio nazionale, particolarmente in ritardo sul versante dello sviluppo e della crescita, che, a seguito dell'espletamento di determinate procedure ed in armonia con il quadro regolatorio comunitario, possono beneficiare di una particolare fiscalità di vantaggio e di una mirata allocazione delle risorse;
    l'iniziativa s'inserisce all'interno di un panorama nazionale delle politiche di promozione dello sviluppo di una specifica parte geografica, finalizzato al concretizzarsi di una serie di sgravi fiscali e agevolazioni per le piccole e micro imprese, che avviano una nuova attività economica in territori ultraperiferici, con potenzialità di sviluppo inespresse;
    il riconoscimento dello status giuridico di zona franca, che prevede specifiche condizioni, quali essere territori ultraperiferici, a rischio di spopolamento e con una situazione socio economica di sottosviluppo, deve tener conto delle disposizioni legislative dello Stato, rafforzate dall'articolo 116 della Costituzione, che attribuisce al Friuli Venezia Giulia, alla Sardegna, alla Sicilia, al Trentino-Alto Adige/Südtirol e alla Valle d'Aosta/Vallee d'Aoste, la disposizione di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale;
    nell'ambito delle caratteristiche riconducibili all'identificazione dei presupposti indispensabili per rendere operativa la misura d'aiuto, attraverso un regime di speciali agevolazioni, lo strumento della zona franca urbana, istituito nelle fasce confinarie regionali, che subiscono la concorrenza di sistemi fiscali, previdenziali e forme contrattuali di lavoro particolarmente vantaggiose, costituisce un contributo rilevante e moderno per promuovere il rilancio dell'economia territoriale;
    la fascia confinaria della regione autonoma Friuli Venezia Giulia con la Slovenia e con l'Austria, rappresentata dalle città di Trieste, Gorizia, Cividale e Tarvisio, nonché la zona di frontiera italo-austriaca del Brennero, nella provincia autonoma di Bolzano, da diversi anni è contraddistinta negativamente dal punto di vista socioeconomico dall'accresciuta concorrenza, essenzialmente di tipo fiscale, messa in atto dai Paesi confinanti;
    il trattamento fiscale e contributivo più favorevole, attuato oltre la linea di confine, da parte dell'Austria e della Slovenia, si rivela essere, infatti, notevolmente vantaggioso rispetto al confine orientale italiano, in considerazione del fatto che i benefici che si riscontrano oltre la fascia confinaria sono soprattutto quelli relativi alle imposte dovute, alle accise, al costo del lavoro e ai differenziali nel complesso più favorevoli dei costi della vita e dei servizi;
    gli effetti negativi e penalizzanti derivanti dall'elevata tassazione italiana, che complessivamente raggiunge livelli anche pari al 68 per cento, rispetto ai sopracitati Paesi confinanti, i quali raggiungono percentuali d'imposizione fiscale rispettivamente pari al 34 per cento e al 50 per cento, stanno determinando inoltre una progressiva delocalizzazione produttiva e commerciale delle imprese friulane;
    la vicinanza geografica all'Italia, unitamente ad un sistema in generale più favorevole, rappresentato da procedure amministrative più «snelle», da semplificazioni fiscali e burocratiche vantaggiose e da un tessuto ambientale che non ha pregiudizi nei confronti della figura imprenditoriale, stimola lo spostamento degli insediamenti produttivi e commerciali oltre le aree confinanti con l'Austria e la Slovenia, entrambi Stati membri dell'Unione europea;
    ulteriori elementi distintivi che inducono le imprese friulane a delocalizzare la propria attività aziendale, determinando considerevoli vantaggi per i relativi bilanci, derivano dallo spostamento della residenza fiscale oltre confine, in considerazione del fatto che tale decisione, oltre a non richiedere un grande sforzo logistico, eviterebbe la doppia imposizione dei redditi d'impresa;
    in termini complessivi, i benefici che riscontrano gli imprenditori interessati a stabilire la propria attività d'impresa in Austria e Slovenia sono rivolti, come in precedenza indicato, ad una complessiva imposizione fiscale più favorevole, se si valuta che in Slovenia e in Austria grava sulle società una pressione fiscale in media, rispettivamente, del 20 per cento e del 25 per cento, a differenza del livello di prelievo fiscale in Italia che ha raggiunto il 43,8 per cento del prodotto interno lordo nel 2013, con una base imponibile delle imposte (Irpef pari al 40 per cento, Ires al 27,5 per cento e Irap al 3,9 per cento) così elevata, che determina un dimezzamento del risultato economico delle società;
    i contributi previdenziali e sanitari, il trattamento di fine rapporto, le aliquote delle accise ed una più ampia e generale libertà d'azione, anche dal punto di vista giuridico, nel creare le condizioni ideali per «fare impresa», stanno conseguentemente provocando una vera «migrazione» delle imprese italiane verso le limitrofe Austria e Slovenia, i cui effetti negativi e penalizzanti si ripercuotono evidentemente sull'economia territoriale friulana, nonché su quella nazionale, in particolare dal punto di vista occupazionale;
    le numerose e articolate criticità sopraesposte configurano, pertanto, un quadro complessivo estremamente svantaggioso dal punto di vista concorrenziale per le imprese italiane, le cui zone di frontiera hanno rappresentato per molti anni lo snodo dei traffici via terra verso l'Europa, con innegabili benefici di natura economica per le popolazioni residenti;
    il successivo allargamento progressivo dell'Unione europea verso est e l'adozione della moneta unica hanno, inoltre, rappresentato ulteriori elementi distintivi svantaggiosi per il Friuli Venezia Giulia, provocando la perdita di un numero considerevole di opportunità commerciali e di servizi, con evidenti ricadute negative sull'economia locale, causate anche, come in precedenza riportato, dalla competizione degli Stati confinanti aumentata nel corso degli ultimi anni;
    l'adozione di strumenti in grado di sostenere il tessuto produttivo posizionato lungo le fasce di confine, al fine di favorire le attività industriali, commerciali, artigianali e turistiche, nonché di sostenere e promuovere lo sviluppo dell'economia locale, dell'occupazione e l'interscambio economico con i Paesi limitrofi, risulta pertanto urgente ed opportuno, al fine di interrompere il processo di delocalizzazione in corso dalla regione friulana e dare un nuovo impulso alla crescita della fascia confinaria friulana;
    si auspica l'introduzione di misure che possano rappresentare un efficace strumento moderno di politica economica e fiscale, in grado di tutelare in maniera costruttiva una parte consistente della sopraesposta regione di confine, volte alla semplificazione fiscale e burocratica e a sostenere la concorrenza operata dai Paesi esteri confinanti, una più ampia libertà di detassazione per le nuove imprese e per le imprese dei giovani, senza gravare sull'amministrazione dello Stato, un regime d'esenzione temporaneo dei dazi extra doganali e l'eliminazione delle imposte sui consumi e sui redditi limitatamente ai redditi prodotti nella zone franche possono costituire, nella totalità, un processo coordinato tra le istituzioni ed i soggetti interessati,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative, per quanto di competenza e in conformità alla disciplina comunitaria in materia di aiuti di Stato, a favore della regione Friuli Venezia Giulia, al fine di contrastare i fenomeni di disagio sociale ed economico causati dalla concorrenza degli Stati confinanti, di interrompere il processo di delocalizzazione degli impianti produttivi in corso, nelle aree oltre confine, e di favorire il rilancio economico e imprenditoriale friulano attraverso:
    a) l'istituzione, in via sperimentale e temporanea per la durata di tre anni, di una disciplina normativa analoga a quella delle zone franche urbane, di cui all'articolo 1, comma 340, legge 24 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria per il 2007), a favore dei territori dei comuni di Trieste, Gorizia, Cividale, Tarvisio e Brennero, finalizzata a prevedere semplificazioni fiscali burocratiche dirette a contrastare la concorrenza dei sistemi più vantaggiosi, dal punto di vista fiscale, dei Paesi confinanti quali Austria e Slovenia;
    b) la previsione in via sperimentale e temporanea per la durata di cinque anni per i territori dei distretti industriali del Friuli Venezia Giulia dello status di zona franca, ai sensi del regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio (UE) n. 952/2013 del 9 ottobre 2013 e del regolamento (CEE) n. 2454/93 della Commissione del 2 luglio 1993, quale elemento positivo di connessione tra il rilancio dell'economia locale e l'inversione di tendenza alla delocalizzazione degli insediamenti produttivi;
    c) la previsione di misure di agevolazione fiscale nei riguardi del settore marittimo al fine di favorire lo sviluppo turistico e l'attività portuale di Trieste, attraverso: l'esenzione da dazi e formalità doganali, prevedendo la libertà di sbarco, imbarco, trasbordo, deposito, manipolazione e lavorazione anche industriale delle merci in regime estero per estero, con mantenimento dell'origine, senza dazi doganali, tasse, aliquote e diritti marittimi; l'esenzione dalle imposte sui consumi e sui redditi limitatamente a quelli prodotti nelle zone franche; la riduzione degli oneri amministrativi per le società estere e la deregulation bancaria e assicurativa;
    d) l'introduzione di adeguate misure per l'incremento del commercio di determinati prodotti, in particolare riducendo la tariffa dei carburanti e dei generi di monopolio, i cui prezzi negli Stati confinanti sono particolarmente contenuti;
    e) l'introduzione di misure sperimentali per l'incremento della produttività del lavoro definendo le modalità di detassazione del salario di produttività, con riferimento al settore privato, e assumendo iniziative a beneficio dell'imprenditoria giovanile e dei titolari di reddito da lavoro dipendente.
(1-00540) «Sandra Savino, Palese».
(14 luglio 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il porto franco di Trieste ha una lunga tradizione storica, avendo ottenuto il suddetto status dall'imperatore austriaco Carlo VI nel 1719. Tale regime è rimasto prerogativa del porto di Trieste anche in seguito al passaggio al Regno d'Italia dopo la Prima guerra mondiale;
    al termine della Seconda guerra mondiale – con il Trattato di Pace di Parigi del 1947 (allegato VIII), la risoluzione n. 16/1947 dell'Organizzazione delle Nazioni Unite e il Memorandum di Londra del 1954 – il porto triestino ha conservato le sue peculiarità e i vantaggi derivanti dal mantenimento della legislazione speciale sia doganale che fiscale, con cinque punti franchi che godono dell'extraterritorialità doganale;
    gli articoli dall'1 al 20 dell'allegato VIII prevedono impegni precisi per l'Italia riguardo alla natura di tale porto, come la sua accessibilità «per l'uso in condizioni di eguaglianza per tutto il commercio internazionale», la sua amministrazione e la garanzia del regime di completa libertà di transito delle merci;
    l'articolo 5 del successivo Memorandum di Londra ha riconosciuto la validità dei dettami contenuti negli articoli dall'1 al 20 del sopracitato allegato VIII al Trattato di Pace;
    il superamento del Memorandum di Londra, da parte del Trattato di Osimo (1975), in merito ai rapporti tra l'Italia e l'allora Jugoslavia, non ha modificato quanto stabilito in relazione agli obblighi dell'Italia sul porto franco di Trieste;
    le peculiarità che distinguono quest'ultimo ed i suoi punti franchi vengono fatte salve nella legge n. 84 del 1994, sul «Riordino della legislazione in materia portuale», in ottemperanza al preciso obbligo assunto dal Governo italiano con la sottoscrizione dei trattati internazionali sopracitati;
    ad oggi il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti non ha emanato il decreto sull'organizzazione amministrativa del porto di Trieste, previsto nell'articolo 6, comma 12, della legge sopracitata;
    l'introduzione delle norme speciali per il porto di Trieste all'interno della legislazione portuale – attraverso il decreto previsto dalla legge n. 84 del 1994 e mai emanato – oltre a mettere fine alle incertezze sull'applicazione della normativa di agevolazione riservata allo speciale regime del relativo porto franco, darebbe piena attuazione alla riforma, finora incompiuta, del sistema portuale italiano e la necessaria, quanto dovuta, chiarezza normativa necessaria per il pieno sviluppo della portualità triestina;
    la mancata valorizzazione del punto franco nord, noto come porto vecchio, ed il suo progressivo declino dimostrano quanto gli impegni del Governo a mantenere il porto in perfetta efficienza siano stati disattesi. Tale problema è stato messo in evidenza quando, nel maxi emendamento alla legge di stabilità per il 2015, sono state inserite delle disposizioni riguardo alla sdemanializzazione per legge di gran parte dei 60 ettari rientranti nel perimetro del porto vecchio di Trieste nonché il trasferimento in altra area ancora da individuare, senza l'esplicito e doveroso coinvolgimento dell'autorità portuale, del punto franco;
    le disposizioni contenute nel maxiemendamento approvato – oltre a sancire per legge la fine della pubblica utilità dell'area in assenza di qualche pronunciamento precedente delle autorità competenti e senza il consenso della popolazione attraverso pronunciamenti ufficiali degli organi elettivi – destano delle preoccupazioni anche in relazione a contenuti che abbiano come oggetto una questione delicata come la trattazione dei punti franchi triestini regolati da specifici vincoli internazionali. Oltretutto, al patrimonio disponibile del comune di Trieste, la cui valutazione economica è strettamente connessa alla progettualità strategica ancora da stabilire per l'area, andrà trasferito un comprensorio decisamente superiore alle sue capacità finanziarie. Risulta evidente come l'immissione improvvisa del milione di metri cubi del porto vecchio di Trieste sul mercato immobiliare creerà delle criticità sul valore immobiliare dell'intero patrimonio cittadino pubblico e privato già interessato da un eccesso di offerta in particolare di grandi immobili storici;
    a tale situazione di prospettive tradite per il capoluogo giuliano si aggiunge la mancata attuazione della legge n. 19 del 1991 per quanto riguarda il centro off-shore del porto vecchio, in seguito a un estenuante rimpallo di responsabilità tra istituzioni italiani ed europee;
    la mancata attuazione delle disposizioni a favore del porto di Trieste risulta tra l'altro incomprensibile in seguito alla segnalazione, da parte del Governo, del progetto per un terminal off-shore del porto di Venezia quale priorità nazionale eleggibile per i finanziamenti della Banca europea per gli investimenti sotto il cosiddetto «Piano Juncker», scelta che ha scatenato la guerra tra i due scali. Si auspica, invece, che i due porti dell'Alto Adriatico possano essere inseriti in una visione strategica complessiva che permetta di competere con i grandi porti del nord Europa;
    l'articolo 4, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica n. 107 del 2009 ed il successivo decreto ministeriale 24 dicembre 2012, nell'indicare in via generale i parametri di riferimento per l'adeguamento delle tasse e dei diritti marittimi in tutti i porti nazionali, ha introdotto una rilevante differenziazione fra il trattamento riservato al complesso dei porti nazionali ed il porto franco di Trieste, nel quale l'aumento delle tasse e dei diritti marittimi è pari al 100 per cento del tasso d'inflazione, anziché del 75 per cento come negli altri scali;
    tale trattamento difforme e discriminante riservato allo scalo giuliano, oltre a disattendere quanto stabilito nella normativa speciale a cui è sottoposto il porto di Trieste, è foriero di rilevanti danni economici per tutti coloro che operino nell'ambito dei punti franchi ed è attualmente oggetto di un ricorso al Consiglio di Stato;
    gli avvisi esplorativi alla vendita di cui attualmente sono oggetto Adriafer srl e Porto Servizi spa – entrambe società concessionarie di servizi primari all'interno del porto, che pertanto sarebbe opportuno che restassero in capo all'Autorità portuale di Trieste – potrebbero rappresentare ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo delle violazioni degli obblighi in merito all'amministrazione del porto franco, derivanti dall'allegato VIII al Trattato di pace;
    il mandato dell'attuale presidente dell'autorità portuale di Trieste è in scadenza il 19 gennaio 2015, circostanza che rende quanto mai urgente l'immediata nomina di un nuovo presidente che goda della piena fiducia delle istituzioni locali, in modo da tutelare la continuità amministrava ed evitare un logorante periodo di commissariamento che potrebbe avere come principale obiettivo quello di far slittare la nomina fino alla più volte annunciata riforma del sistema portuale;
    vista la posizione geografica di Trieste quale importante crocevia per sistemi intermodali nave-rotaia e la specificità dei fondali di cui dispone, il ruolo del capoluogo giuliano e del suo porto potrebbe trarre un grandissimo vantaggio strategico dall'estensione fino a Trieste del progetto della joint venture OBB – Breitspur Planungsgesellschaft mbH per la costruzione di una rete ferroviaria a scartamento largo da Košice (Slovacchia) a Bratislava e Vienna che ha per obiettivo quello di potenziare i volumi di traffico, migliorare i collegamenti diretti e ridurre il tempo del trasporto merci tra Asia ed Europa;
    risulta evidente come l'Italia dovrebbe considerare l'eccezionalità di un porto quale quello di Trieste, sia dal punto fisico che giuridico che fiscale, quale un'importantissima risorsa da valorizzare, una risorsa che, se sostenuta in maniera dovuta e in rispetto agli obblighi internazionali assunti dall'Italia, rappresenterebbe con assoluta certezza un elemento cardine della ripartenza economica di tutto il territorio nazionale;
    si ritiene necessario attivare politiche attive nei confronti della regione autonoma Friuli Venezia Giulia per avviare una concreta ripresa economica di tale territorio, che possa altresì favorire il tessuto economico-sociale del resto del Paese;
    al riguardo, si evidenzia che, in data 11 luglio 2014, è stato approvato dalla giunta regionale il «piano di sviluppo industriale FVG Rilancimpresa» che prevede, in particolare, riforme dei distretti industriali e dei consorzi, nonché generiche linee di intervento rispetto al sistema produttivo, che non sono assolutamente idonee e sufficienti per favorire un'incisiva ripresa economica e occupazionale, in considerazione delle prioritarie e specifiche problematiche che affliggono il Friuli Venezia Giulia;
    pertanto, oltre alla concreta attuazione e potenziamento della zona franca del porto di Trieste, va adottato un più ampio progetto che preveda l'attuazione di zone franche urbane nella fascia di confine della regione autonoma in questione;
    è noto che le zone franche urbane istituite dalla legge finanziaria 2007 (legge 24 dicembre 2006, n. 296, articolo 1, comma 340) sono aree infra-comunali di dimensione minima prestabilita dove si attuano programmi di defiscalizzazione per la creazione di piccole e micro imprese, il cui intento prioritario è favorire lo sviluppo economico e sociale di quartieri ed aree urbane caratterizzate da disagio sociale, economico e occupazionale, e con potenzialità di sviluppo di difficile realizzazione proprio a causa di determinate peculiarità del territorio di interesse;
    la zona franca è uno status giuridico riconosciuto, dunque, sulla base di parametri socio-economici quali: essere territori ultraperiferici, a rischio spopolamento e con situazione socioeconomica di sottosviluppo. Tali condizioni danno luogo al diritto di ottenere misure eccezionali per rivitalizzare l'economia delle aree interessate, attraverso il riconoscimento di un regime fiscale di favore che vuole attivare strumenti e forme di compensazione per consentire alle aree disagiate di mettersi alla pari con il resto del territorio nazionale;
    al riguardo, il Friuli Venezia Giulia nella fascia territoriale di confine accusa notevoli disagi a livello socio-economico. La situazione di tale area è divenuta ancora più critica con l'attuale crisi economica nazionale ed internazionale, che ha determinato ulteriori e gravi difficoltà alla popolazione residente, sia a livello occupazionale sia commerciale, con un sostanziale aumento della concorrenza tra Stati con un trattamento fiscale più favorevole per una moltitudine di beni e servizi attuato oltre il confine;
    sicché, le zone di frontiera situate lungo la fascia confinaria del Friuli con la Slovenia e con l'Austria – Trieste, Gorizia, Cividale e Tarvisio – sono gravemente penalizzate dal trattamento fiscale e contributivo più favorevole applicato oltre la linea di confine;
    sul punto, un'indagine condotta da Confartigianato nell'anno 2014 sostiene l'impossibilità di competere per le imprese regionali con le dirette concorrenti che operano oltre confine, proprio a causa della differente pressione fiscale, che può raggiungere addirittura il 65,8 per cento, indice che scende al 32,5 per cento in Slovenia e al 52,4 per cento in Austria. Inoltre, l'indagine mette in evidenza che la posizione di tali imprese viene aggravata da i maggiori costi del sistema imprenditoriale italiano sul costo del lavoro e sull'energia elettrica, nonché dalla lentezza delle procedure a causa dell'apparato burocratico italiano;
    orbene, rispetto alle aree in questione, Trieste, Gorizia, Cividale e Tarvisio, situate lungo la fascia confinaria del Friuli con la Slovenia e con l'Austria, bisogna intervenire con provvedimenti idonei, per risollevare un'economia gravemente provata e, dunque, favorire i settori dell'industria, artigianato, commercio e turismo, richiamando persone e imprese attraverso più favorevoli condizioni fiscali;
    tali interventi consentirebbero l'incentivazione dei consumi e la promozione occupazionale impedendo l'emigrazione dei residenti e la delocalizzazione delle imprese, fenomeni che ormai da tempo risultano sempre più preoccupanti in tali zone territoriali,

impegna il Governo:

   ad emanare immediatamente il decreto attuativo – previsto dall'articolo 6, comma 12, della legge n. 84 del 1994 – per l'organizzazione amministrativa dei punti franchi del porto di Trieste, che da oltre 20 anni attendono tale atto per dare piena attuazione a una riforma – finora incompiuta – del sistema portuale italiano e a garanzia della certezza del diritto necessario per il pieno sviluppo delle attività portuali triestine;
   ad assumere iniziative per apportare – prima di procedere con la realizzazione di quanto indicato dalla legge di stabilità 2015 in relazione al porto di Trieste – le necessarie e dovute modifiche, prevedendo il necessario accordo e la necessaria pianificazione strategica delle istituzioni sul futuro del porto vecchio, nel rispetto dei vincoli internazionali che regolano i punti franchi triestini;
   a rivedere – attraverso un'iniziativa normativa urgente – i contenuti dell'articolo 4, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica n. 107 del 2009 e del successivo decreto ministeriale 24 dicembre 2012, facendo valere gli impegni assunti a livello internazionale riguardo al regime speciale dei punti franchi del porto di Trieste;
   ad assumere iniziative per sospendere immediatamente le procedure di vendita coinvolgenti le società Adriafer srl e Porto Servizi spa, ribadendo che la proprietà delle società che gestiscono servizi primari restino in capo all'autorità portuale;
   a nominare subito – alla scadenza del mandato dell'attuale presidente dell'autorità portuale di Trieste – il successore nel pieno possesso dei poteri, a garanzia di un impegno di lungo periodo, evitando l'incertezza di un periodo di commissariamento;
   a dare attuazione alla legge n. 19 del 1991 per quanto riguarda l’off-shore del porto vecchio di Trieste;
   a prendere in considerazione l'inserimento di Trieste nei progetti ferroviari internazionali – in particolare della joint venture OBB – Breitspur Planungsgesellschaft mbH per la costruzione di una rete ferroviaria a scartamento largo da Košice a Bratislava e Vienna – in modo da rilanciare il ruolo del porto quale nodo commerciale intermodale;
   a provvedere – ai sensi dell'articolo 1, comma 340, della legge 24 dicembre 2006, n. 296, alla costituzione di zone franche, in via sperimentale e temporanea, per un periodo non inferiore a tre anni, nei territori dei comuni di Trieste, Gorizia, Cividale e Tarvisio della regione autonoma Friuli Venezia Giulia, al fine di contrastare la situazione di svantaggio di tali realtà territoriali dovute alla concorrenza di regimi più vantaggiosi, in particolare quelli fiscali, che vigono in Austria e Slovenia.
(1-00047)
(Nuova formulazione) «Prodani, Pellegrino, Rizzetto, Fantinati, Da Villa, Crippa, Mucci, Businarolo, Grande, Gallinella, Rizzo, Rostellato, Currò, Barbanti, Baldassarre, Turco, Bechis, Segoni, Artini».
(21 maggio 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    l'istituzione delle zone franche urbane è stata disposta dall'articolo 1, comma 340, della legge 24 dicembre 2006, n. 296, legge finanziaria per il 2007, che ha a tal fine costituito nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico un apposito fondo di 50 milioni di euro per ciascuno degli anni 2008 e 2009 per il finanziamento di programmi di intervento da realizzarsi nelle sopradette zone;
    la legge 24 dicembre 2007, n. 244, articolo 2, commi 561, 562 e 563, della legge finanziaria per il 2008, ha confermato il sopradetto stanziamento e ha definito in maggior dettaglio le agevolazioni fiscali e previdenziali in favore delle aree ricadenti nelle zone franche urbane;
    l'articolo 37 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 221 del 2012, per dare concreta attuazione allo strumento delle zone franche urbane, ha previsto la possibilità che le risorse rivenienti dalla riprogrammazione dei programmi cofinanziati dai fondi strutturali 2007-2013 nell'ambito del Piano di azione per la coesione, nonché ulteriori risorse regionali potessero essere destinate anche al finanziamento delle agevolazioni previste per le zone franche urbane. Le agevolazioni consistono nell'esenzione dal pagamento delle imposte sui redditi, dell'Irap, dell'imposta sugli immobili e dei contributi sulle retribuzioni da lavoro dipendente, in favore delle imprese di micro e piccole dimensioni localizzate o che si localizzano nelle zone franche urbane individuate dalla precedente delibera Cipe n. 14 del 2009;
    il sopradetto articolo, attuato con il decreto interministeriale 10 aprile 2013, ha previsto la possibilità di individuare ulteriori zone delle regioni ammissibili all'obiettivo convergenza, nonché di estendere tali agevolazioni nelle aree industriali delle medesime regioni dove è stata avviata una procedura di riconversione industriale;
    lo spirito della legge è quello di accordare un regime di esonero contributivo e fiscale alle piccole e micro imprese che si insediano nelle aree ricadenti nelle zone franche urbane e che sono caratterizzate da disagio sociale, economico ed occupazionale, favorendone lo sviluppo economico e sociale;
    attualmente le zone franche urbane sono localizzate in 22 città distribuite sul territorio nazionale, le quali, ad eccezione di Ventimiglia e Massa Carrara, sono prevalentemente concentrate al centro e al sud del Paese;
    lo strumento della zona franca urbana potrebbe essere efficacemente impiegato per contrastare la competizione di sistemi fiscali, previdenziali e burocratici più vantaggiosi dei Paesi confinanti con l'Italia, come l'Austria e la Slovenia che, da diversi anni, hanno messo in atto una forte concorrenza, di tipo prevalentemente fiscale, nei confronti della fascia confinaria della regione del Friuli Venezia Giulia e, in particolare, nell'area di Tarvisio per il valico austriaco e a tutto il confine con la Slovenia;
    le zone della fascia confinaria della regione autonoma Friuli Venezia Giulia subiscono, quindi, un grave danno dal punto di vista socio economico dall'attuazione di più efficaci politiche di semplificazione amministrativa, burocratica e fiscale dei Paesi confinanti, determinandosi per tali zone i presupposti per il riconoscimento dello status giuridico di zone franche urbane;
    i benefici riconosciuti oltreconfine, in riferimento alle imposte sulle accise, al costo del lavoro e ai differenziali più favorevoli del costo della vita e dei servizi e, più in generale, l'adozione di politiche che stimolano la nascita di figure imprenditoriali e l'ingessamento nel mondo del lavoro dei giovani, rappresentano delle vere e proprie opportunità di sviluppo per le aziende friulane che da tempo hanno attuato una progressiva delocalizzazione produttiva oltre confine;
    gli effetti sul territorio di origine delle imprese dislocanti sono devastanti, generando nel medio e lungo periodo un depauperamento di risorse economiche ed occupazionali, con ricadute sull'economia territoriale friulana e, più in generale, su quella dell'intero Paese;
    particolarmente colpite sono le zone distrettuali per le quali si rende necessaria l'adozione di politiche di rilancio favorendo anche lo sviluppo di produzioni e di occupazione locale;
    si rende, quindi, necessario interrompere il processo di delocalizzazione delle imprese dalla regione friulana attraverso l'attuazione di un'organica azione di difesa e di sostegno del tessuto produttivo posizionato lungo le fasce di confine al fine di promuovere lo sviluppo dell'economia locale e dell'occupazione nei territori interessati;
    unico punto di forza della regione è il porto franco di Trieste che, ad oggi, costituisce un unicum nell'ordinamento giuridico italiano e comunitario, in virtù di ragioni storiche e politiche che lo hanno sempre visto come luogo deputato a vantaggi fiscali e prerogative giuridiche di natura eccezionale in considerazione della sua posizione strategica;
    dopo la Seconda guerra mondiale, al porto di Trieste è stato, infatti, riconosciuto uno «status internazionale» sia dal Trattato di Pace di Parigi del 1947, sia dagli allegati a questo, in particolare dagli articoli 1-20 dell'allegato VIII, «Strumento relativo al porto franco di Trieste», e dagli articoli 34 e 35 dell'Allegato VI, «Statuto permanente del territorio libero di Trieste»;
    il porto franco di Trieste, come stabilito dall'articolo 1 dell'allegato VIII, svolge la funzione internazionale di «assicurare che il porto ed i mezzi di transito di Trieste possano essere utilizzati in condizioni di uguaglianza da tutto il commercio internazionale secondo le consuetudini vigenti negli altri porti franchi del mondo»;
    attualmente i vantaggi riconosciuti al porto consistono, sostanzialmente, in due regimi di specialità, ossia la massima libertà di accesso e transito e l'extradoganalità (o «extraterritorialità doganale»), che riconoscono, tra gli altri vantaggi: il diritto all'ingresso di navi e merci senza discriminazioni con possibilità di sosta, per un tempo indeterminato, in regime di esenzione fiscale e senza necessità di autorizzazioni di imbarco e sbarco; il divieto di ingerenza doganale e quindi anche di controllo doganale sulle merci in entrata e in uscita (che si svolge solo ai varchi), salvo specifiche eccezioni; nessun limite di tempo allo stoccaggio delle merci e nessuna formalità doganale da espletare o diritto doganale da pagare fin quando le merci restano nei punti franchi; tasse portuali ridotte e sistema dogale semplificato per il transito di merci su ferrovia, oltre che transito semplificato per i mezzi commerciali destinati all'estero in transito da e per il porto di Trieste;
    nello specifico, il porto franco triestino gode della possibilità di manipolazione e trasformazione, anche a carattere industriale, delle merci, in completa libertà da ogni vincolo dogale; del cosiddetto «credito doganale», o meglio del diritto, per le merci importate nel mercato comunitario attraverso i punti franchi, di pagamenti dei relativi dazi e delle imposte doganali con dilazione fino a 6 mesi dopo la data dello sdoganamento ad un tasso annuo particolarmente ridotto (50 per cento dell'Euribor a 6 mesi); della possibilità di estensione dei punti franchi;
    i confini dei punti franchi del porto di Trieste sono fissati dall'articolo 3 dell'allegato VIII, secondo cui «l'area del porto libero include il territorio e le installazioni delle zone franche del porto di Trieste entro i limiti dei confine del 1939», il quale, inoltre, stabilisce che «in caso sia necessario dover incrementare l'area del porto libero tale incremento può essere fatto su proposta del direttore del porto libero con decisione del Consiglio di Governo e con l'approvazione dell'Assemblea popolare»;
    in virtù della clausola di salvaguardia di cui all'articolo 307 del Trattato di Roma e in ragione del suo regime giuridico internazionale, il porto franco triestino è l'unica zona franca situata nell'Unione europea che gode di un regime speciale, più favorevole rispetto alla disciplina prevista dal Codice doganale comunitario per le zone e i depositi franchi, ma non adeguatamente valorizzata;
    al fine di implementare ed incentivare lo sviluppo industriale di questa zona, che comporterebbe, naturalmente, un conseguente sviluppo economico di tutta la regione friulana, ma anche non pochi vantaggi in termini di concorrenzialità e produttività dell'intero Paese a livello internazionale, sarebbe opportuno estendere i confini dei territori ricompresi nei suoi punti franchi, prevedere regimi fiscali agevolati e discipline normative più flessibili in materia di regolamentazione del lavoro e maggiori più convenienti condizioni di agevolazione fiscale e doganale;
    logisticamente, i territori ricompresi all'interno delle zone franche potrebbero essere ampliati al fine di permettere, il più possibile, l'insediamento di attività industriali che attualmente non possono svilupparsi in maniera adeguata, poiché le zone ricomprese nei porti franchi, trovandosi a ridosso della città, limitano spazialmente l'insediamento di industrie e di altre attività di tipo produttivo;
    nella stessa logica di valorizzazione di un così importante punto strategico, accanto al potenziamento della presenza di attività industriali, sarebbe opportuno prevedere una nuova disciplina in termini di regolamentazione del mercato del lavoro, predisponendo strumenti giuridici che permettano una maggiore flessibilità delle regole in materia di reclutamento del personale e la detassazione del costo del lavoro per le imprese che operano all'interno della stessa zona franca;
    infine, si rende opportuno potenziare ed estendere le agevolazioni fiscali, ma soprattutto doganali, afferenti all'eccezionale status giuridico extradoganale che, potendo usufruire di una serie di condizioni maggiormente favorevoli rispetto a quelle normalmente riconosciute alle zone franche nazionali e comunitarie, potrebbero non poco contribuire alla formazione di una zona economica speciale molto più competitiva, in grado di contrastare le zone franche vicine, come, ad esempio, quelle del Nord Africa, non sottoposte alle più stringenti normative comunitarie,

impegna il Governo:

   nel rispetto dell'autonomia speciale della regione, ad assumere iniziative per favorire il rilancio economico ed industriale dei territori friulani attraverso:

    a) l'istituzione di zone franche urbane a favore dei territori ricadenti nella fascia confinaria della regione Friuli Venezia Giulia ed in particolare nell'area di Tarvisio per il valico austriaco e in tutto il confine con la Slovenia;

    b) l'introduzione di misure di sostegno dei territori dei distretti industriali del Friuli Venezia Giulia interessati dai processi di delocalizzazione produttiva, attraverso il riconoscimento dello status di zona franca, finalizzato a prevedere una riduzione degli oneri burocratici, fiscali e sociali tale da incentivare le imprese alla permanenza nei luoghi d'origine e all'assunzione di forza lavoro locale;

    c) l'introduzione a regime nelle sopradette aree di misure di detassazione del salario di produttività con riferimento al settore privato, con particolare riferimento all'imprenditoria giovanile e ai titolari di reddito da lavoro dipendente;

    d) il potenziamento, in termini di concorrenza e produttività, della zona del porto franco di Trieste prevedendo, come già specificato in premessa, l'ampliamento dei confini dei territori attualmente ricompresi nei suoi punti franchi, la previsione di regimi fiscali agevolati in materia di regolamentazione e di costo del lavoro e l'attuazione delle condizioni di extraterritorialità.
(1-00704)
«Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini, Simonetti».
(15 gennaio 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il Trattato di Parigi del 1947, alla fine della Seconda guerra mondiale, assegnava al porto di Trieste cinque punti franchi per favorire gli investimenti nell'area di Trieste e l'apertura di nuovi sbocchi verso un'ampia area dell'Europa;
    con la caduta del muro di Berlino, la fine della Guerra fredda e l'allargamento dell'Unione europea, quella motivazione è divenuta più che mai attuale proprio in virtù della posizione geopolitica del Friuli Venezia Giulia, baricentrica rispetto al cuore della nuova Europa;
    al contrario, da diversi anni, l'area di confine compresa tra la regione autonoma Friuli Venezia Giulia, la Slovenia e l'Austria, rappresentata dalle città di Trieste, Gorizia, Cividale e Tarvisio, subisce un'agguerrita concorrenza, soprattutto dal punto di vista fiscale, messa in atto dai Paesi confinanti, che sta causando pesanti ricadute economiche negative;
    dall'analisi dei modelli di sviluppo di quelle aree industriali di confine emergono sostanziali differenze nei sistemi di tassazione;
    in Slovenia il livello di tassazione sul reddito riservato alle imprese che investono e offrono lavoro sul territorio è pari al 20 per cento. Particolari riduzioni e agevolazioni sono riconosciute alle imprese operanti in zone economiche depresse. Inoltre, nella determinazione del reddito d'impresa, i coefficienti di ammortamento delle immobilizzazioni sono in genere fra quelli più elevati presenti nell'Unione europea, quindi molto favorevoli per le imprese che così possono recuperare, in un lasso temporale più breve, i costi per gli investimenti realizzati. Per le imprese che realizzano esportazioni almeno pari al 51 per cento del fatturato è prevista una detassazione del reddito imponibile in relazione a investimenti per nuovi impianti o ampliamenti, ovvero per incrementi occupazionali. I dividendi sono tassati al 15 per cento, sia per i soggetti residenti sia per i non residenti, fatta salva l'applicazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni;
    per quanto riguarda l'Austria, le società che hanno una propria sede legale o amministrativa sul territorio subiscono una tassazione pari al 25 per cento sui redditi ovunque prodotti. Per le aziende straniere, la Carinzia offre alle imprese contributi sugli investimenti fino ad un massimo del 35 per cento e fino al 60 per cento sulle spese nel settore ricerca e sviluppo (nel resto dell'Austria ci si ferma al 35 per cento);
    in Italia, a fronte di un tax rate teorico del 31,4 per cento (27,5 per cento Ires e 3,9 per cento Irap) se ne registra uno effettivo complessivo che, per le piccole e medie imprese, può arrivare a superare il 68,5 per cento. Se questo dato lo si confronta con quello della media europea, pari al 42 per cento, è facile comprendere perché il nostro Paese sia confinato agli ultimi posti della classifica del «Fare business» stilata dalla Banca mondiale;
    a fronte di tale situazione nei Paesi confinanti e dell'elevata tassazione in Italia, le imprese del Friuli Venezia Giulia guardano con attenzione alle opportunità offerte da Austria e Slovenia. L'interesse degli imprenditori non è tuttavia dettato solo dal miglior tax rate gravante sulle imprese, ma anche dal sistema degli incentivi, dalla burocrazia snella, dall'efficienza del sistema giudiziario e dal più basso costo delle fonti energetiche;
    secondo l'Ice il numero delle aziende italiane che negli ultimi anni hanno deciso di delocalizzare o trasferire integralmente le proprie attività in Slovenia supera quota 600, mentre quelle che hanno scelto l'Austria superano le 900 unità;
    secondo la Confapi del Friuli Venezia Giulia, il dato che sorprende, e che preoccupa, è che negli ultimi tempi anche le piccole e le micro imprese stanno iniziando a valutare l'eventualità di trasferirsi, finendo per compromettere nei presupposti ogni prospettiva di ripresa dell'economia regionale, caratterizzata dalla presenza di un tessuto di piccole e medie imprese che nei decenni passati hanno rappresentato il cuore produttivo pulsante della regione e una parte significativa del Nord-Est produttivo;
    completano il quadro degli aspetti che rendono attraenti questi Paesi le convenzioni contro le doppie imposizioni, il veloce rimborso dell'iva a credito, la deducibilità quasi totale dei costi aziendali, una complessità burocratica ridotta ai minimi termini, il recepimento delle normative comunitarie in modo tale da non far gravare sulle imprese altra burocrazia e costi aggiuntivi, le autorizzazioni amministrative quasi automatiche, il contenzioso tributario limitato, l'amministrazione finanziaria efficiente e atteggiata in modo «friendly» nei confronti delle imprese virtuose;
    si sta registrando altresì in Friuli Venezia Giulia uno spostamento della residenza fiscale oltre confine, in considerazione del fatto che tale decisione, oltre a non richiedere un grande sforzo logistico, è in grado di evitare la doppia imposizione dei redditi d'impresa;
    questa tendenza a delocalizzare, alimentata significativamente dalla convenienza fiscale, può essere fermata contrapponendole un «sistema Italia» capace di rendere nuovamente attraente il nostro Paese per i nuovi insediamenti e per il potenziamento di quelli esistenti;
    con la legge finanziaria per il 2007 (articolo 1, comma 340, della legge 24 dicembre 2006, n. 296) sono state istituite le zone franche urbane al fine di sostenere lo sviluppo economico in alcune aree depresse del Paese attraverso una fiscalità di vantaggio, nell'ambito delle procedure derogatorie previste dalla legislazione comunitaria;
    i requisiti necessari ordinari per il riconoscimento dello status giuridico di zona sono quelli di essere territori ultraperiferici, a rischio di spopolamento e con una situazione socio economica di sottosviluppo, ma sarebbe opportuno altresì tenere in conto delle specifiche disposizioni legislative dello Stato, rafforzate dall'articolo 116 della Costituzione, che attribuiscono al Friuli Venezia Giulia, e alle altre regioni a statuto speciale, forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti adottati con legge costituzionale;
    è indubbio, infatti, che l'applicazione della zona franca urbana nelle fasce confinarie regionali che subiscono maggiormente la concorrenza di sistemi fiscali, previdenziali e forme contrattuali di lavoro particolarmente vantaggiose, possa rappresentare uno strumento strategico importante per promuovere il rilancio dell'economia territoriale;
    questa possibilità risulterebbe oltremodo importante per il rilancio dell'economia della regione Friuli Venezia Giulia alla luce del progressivo allargamento dell'Unione europea verso i Paesi dell'est e potrebbe fornire una significativa opportunità per scambi commerciali e di servizi, con evidenti ricadute positive sull'economia locale che è caratterizzata da un tessuto produttivo fatto di piccole e medie imprese industriali, commerciali, artigianali e turistiche,

impegna il Governo:

   ad agire con tempestività al fine di scongiurare il rischio di una deindustrializzazione dell'area, ed in particolare:
    a) a considerare l'opportunità, per quanto di competenza e in conformità alla disciplina comunitaria in materia di aiuti di Stato, di introdurre per la regione di confine sopradetta un regime di fiscalità di vantaggio, anche temporaneo, in materia di dazi doganali ed extra-doganali, di imposte sui consumi e sui redditi limitatamente a quelli prodotti nella zona franca, al fine di interrompere il processo di delocalizzazione già in atto per effetto di una concorrenza impari degli Stati confinanti;
    b) a sostenere le imprese operanti nell'area sopra individuata attraverso un'incisiva semplificazione fiscale e burocratica, per consentire alle nuove imprese e alle imprese dei giovani di poter competere, oltre che sul piano fiscale, anche su quello organizzativo con le imprese omologhe dei Paesi confinanti in quell'area;
    c) a prevedere iniziative volte a contrastare i fenomeni di disagio sociale ed economico causati dalla concorrenza degli Stati confinanti, a interrompere il processo di delocalizzazione degli impianti produttivi in corso, nelle aree oltre confine, e a favorire il rilancio economico e imprenditoriale friulano.
(1-00705) «Gigli, Dellai».
(15 gennaio 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    negli ultimi anni, nel nostro Paese, si parla di zone franche urbane. La zona franca urbana può essere definita come una frazione di territorio urbano caratterizzato da un significativo disagio sociale, economico e occupazionale e spesso degrado ambientale nella quale vengono garantiti regimi di esenzione fiscale e contributiva per obiettivi preminentemente legati alla promozione e alla coesione sociale. Le aree interessate presentano, però, anche forti potenzialità di sviluppo che, per essere concretizzate, necessitano di programmi di defiscalizzazione per la creazione di piccole e medie imprese. Obiettivo degli interventi è, infatti, la riqualificazione di queste aree, tramite l'incentivazione, il rafforzamento e la regolarizzazione delle attività imprenditoriali localizzate al loro interno;
    i territori che nel tempo si sono avvalsi di tale speciale condizione hanno riscontrato una notevole crescita trainata dalla stimolazione dei commerci e degli investimenti in attività produttive superando le condizioni iniziali di difficile accessibilità e, inoltre, sono spesso riusciti a perseguire altri obiettivi di carattere economico funzionali agli interessi del proprio Paese (ad esempio la Francia): infatti, dove sono state create zone franche urbane, queste hanno attirato investimenti esteri, creato posti di lavoro e sviluppato l'industria nazionale e le infrastrutture;
    le zone franche urbane, previste dall'articolo 1, comma 340 della legge 24 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007) sono, come detto precedentemente, aree infra-comunali di dimensione minima prestabilita dove si concentrano programmi di defiscalizzazione per la creazione di piccole e micro imprese. Obiettivo prioritario delle zone franche urbane è favorire lo sviluppo economico e sociale dei quartieri di aree urbane caratterizzate da disagio sociale, economico e occupazionale e con potenzialità di sviluppo inespresse;
    le zone franche urbane appaiono in grado di contribuire ad un'attuazione concreta e consapevole della coesione economica e sociale prevista dalla Costituzione (articolo 119, comma 5, della Costituzione) che recita: «Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati comuni, province, città metropolitane e regioni»;
    la recessione internazionale che ha colpito l'economia mondiale investendo anche il nostro Paese ha reso ancora più difficili le condizioni socio-economiche in cui si trovano moltissime delle cosiddette «zone di frontiera», ovvero quei territori situati presso il confine tra due Stati e che, soprattutto, a causa di una peculiare collocazione geografica, soffrono enormi disagi;
    il processo di delocalizzazione industriale in corso lungo la fascia di confine della regione autonoma Friuli Venezia Giulia con la Slovenia e con l'Austria, a causa delle condizioni fiscali più vantaggiose, previste dai medesimi Paesi di frontiera, ha determinato e sta determinando un progressivo ridimensionamento delle attività produttive della Regione italiana, con evidenti e forti ripercussioni negative sull'economia locale e sui livelli occupazionali;
    l'istituzione delle zone franche urbane può determinare il rilancio dell'economia del territorio della regione Friuli Venezia Giulia evitando, in questo modo, che i cittadini della regione siano costretti ad attraversare il confine, attirati da prezzi e condizioni economiche più vantaggiose che, di fatto, arrecano un danno agli esercizi commerciali italiani e alle entrate tributarie nazionali;
    in particolare, si rileva che la complessiva imposizione fiscale più favorevole in Stati come l'Austria e la Slovenia determina, come sopra detto, un trasferimento delle attività delle imprese del Friuli Venezia Giulia verso quei Paesi con innegabili benefici di natura economica per le popolazioni residenti;
    pertanto, l'introduzione di misure che possano rappresentare un efficace strumento di politica economica e fiscale per la regione Friuli Venezia Giulia costituisce un atto fondamentale per favorire lo sviluppo del territorio e delle popolazioni che vi abitano destinate, oggi, a sopportare oneri gravosi,

impegna il Governo:

   a valutare l'opportunità, compatibilmente con le risorse di bilancio disponibili ed i vincoli di finanza pubblica, di istituire, nei territori compresi nei comuni di Trieste, Gorizia, Cividale, Tarvisio e Brennero, in via sperimentale e per tre anni, zone franche urbane finalizzate a favorire le attività industriali, commerciali, industriali, artigianali e turistiche al fine di favorire la promozione e lo sviluppo dell'economia locale nonché dell'occupazione;
   ad assumere iniziative per introdurre misure di agevolazione fiscale nei riguardi del settore marittimo al fine di agevolare l'attività portuale di Trieste;
   ad assumere le iniziative necessarie a prevedere, sempre in via sperimentale e temporanea, per i territori dei distretti industriali del Friuli Venezia Giulia lo status di zona franca.
(1-00749) «Dorina Bianchi, Causin».
(presentata il 2 marzo 2015)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE PER LA SOSPENSIONE DELL'APPLICAZIONE DEGLI STUDI DI SETTORE

   La Camera,
   premesso che:
    gli studi di settore consistono di elaborazioni statistiche, economiche e matematiche sulla base dei quali l'Agenzia delle entrate stima un ammontare di ricavi per ciascun settore economico;
    nel corso degli ultimi anni, in particolare dall'inizio della crisi economica e finanziaria, l'applicazione pedissequa da parte delle agenzie fiscali degli studi di settore come strumento per decidere automaticamente l'adeguatezza delle dichiarazioni dei redditi, anziché come mero parametro di statistico di analisi, ha portato a distorsioni evidenti;
    le difficoltà economiche peculiari di molte aziende non sono in alcun modo considerate né considerabili nello strumento dello studio di settore, che è diventato, dunque, da strumento di semplificazione fiscale, un elemento di rigidità ed una fonte di ulteriori aggravi negli adempimenti fiscali delle aziende;
    il crollo della redditività delle imprese durante l'attuale crisi economica rende, di fatto, oggi gli studi di settore inutilizzabili e non aderenti alla realtà, tanto che dal 2009 in avanti si è assistito ad una contrazione crescente delle dichiarazioni che decidono di adeguarsi ai parametri degli studi di settore;
    sui redditi 2006 e 2007 oltre 600 mila partite iva avevano integrato i ricavi dichiarati in modo da risultare conformi al software Gerico ed evitare contenziosi con il fisco;
    nel 2008 coloro che avevano scelto gli «adeguamenti» erano stati 520 mila;
    nel 2009 ancora meno, 420 mila, sino a scendere nel 2012 a 330 mila;
    non è noto il dato di quanti hanno negli stessi anni deciso di chiudere la partita iva proprio perché troppo onerosa, a causa della presunzione di reddito degli studi di settore;
    nel 2011 si è garantito uno «scudo» dagli accertamenti a coloro che si allineavano ai minimi di entrate previsti per il settore;
    già nel 2009 la Corte di cassazione ha stabilito che la forza probatoria degli studi di settore può considerarsi mera «presunzione semplice», per cui essi non potrebbero essere utilizzato a fini di accertamento;
    la stessa Corte dei conti, nella sua relazione sul rendiconto dello Stato per l'anno 2013, ha testimoniato la perdita di efficacia di questo strumento,

impegna il Governo

ad assumere iniziative per sospendere entro tempi rapidissimi l'applicazione degli studi di settore.
(1-00607)
(Nuova formulazione) «Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini, Simonetti».
(7 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 62 sexies, comma 3, del decreto legge 30 agosto 1993, n. 331 convertito dalla legge n. 427 del 1993, consente l'accertamento ex articolo 39, comma 1, lettera d), nei casi in cui risulti l'esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dall'applicazione degli studi di settore;
    attraverso gli studi di settore, dunque, l'Agenzia delle Entrate è legittimata a ricostruire la redditività di una determina attività d'impresa o professione e ricostruire la posizione reddituale del contribuente;
    in particolare, partendo dalle relazioni esistenti tra le variabili strutturali e contabili delle imprese e dei lavoratori autonomi con riferimento al settore economico di appartenenza, ai processi produttivi utilizzati, all'organizzazione, ai prodotti e servizi oggetto dell'attività, alla localizzazione geografica e agli altri elementi significativi (ad esempio area di vendita, andamento della domanda, livello dei prezzi, concorrenza, e altro), lo studio di settore consente di stimare i ricavi o i compensi che possono essere attribuiti al contribuente; in tal modo, lo studio di settore diventa uno strumento di controllo basato sulla comparazione tra i ricavi o compensi dichiarati e quelli direttamente desumibili dalla sua applicazione;
    lo stesso contribuente può utilizzare lo studio di settore per verificare, in fase dichiarativa, il posizionamento rispetto alla congruità (il contribuente è congruo se i ricavi o i compensi dichiarati sono uguali o superiori a quelli stimati dallo studio, tenuto conto delle risultanze derivanti dall'applicazione degli indicatori di normalità economica) e alla coerenza (la coerenza misura il comportamento del contribuente rispetto ai valori di indicatori economici predeterminati, per ciascuna attività, dallo studio di settore);
    lo studio di settore, dunque, da un lato assurge a strumento di controllo dell'Agenzia delle entrate circa l'attendibilità dei ricavi o compensi dichiarati dal contribuente; dall'altro, a strumento di indirizzo del contribuente in fase dichiarativa, potendo egli decidere, in caso di incongruità o incoerenza, di uniformarsi comunque al risultato dello studio di settore oppure di discostarsene, ritenendo sussistere comprovate ragioni che ne legittimano la disapplicazione;
    quest'ultimo profilo evidenzia come lo studio di settore assuma di fatto anche una funzione deterrente o, meglio ancora, «condizionante» nelle scelte del contribuente il quale, spesso, pur di non esporsi ad un potenziale controllo dell'amministrazione finanziaria, decide di «adeguarsi» alle risultanze dello studio di settore, sebbene siano superiori ai ricavi o compensi effettivamente conseguiti. In altre parole, la prassi applicativa degli studi di settore evidenzia non pochi casi in cui il contribuente decide di uniformarsi allo studio di settore, sopportando il pagamento di un'imposta maggiore rispetto a quella dovuta al fine di scongiurare il rischio di un accertamento;
    in un tal contesto, dunque, gli studi di settore dovrebbero garantire un elevato grado di attendibilità ovvero rappresentare il più possibile la realtà imprenditoriale del singolo contribuente. Ma al riguardo, è nota la posizione assunta dagli interpreti e, soprattutto, dalla giurisprudenza di legittimità, che ha clamorosamente «bocciato» la valenza degli studi di settore. In più occasioni, infatti, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che i dati comparativi forniti dagli studi altro non sono che parametri astratti e meramente statistici ovverosia il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati disomogenei (Suprema Corte di Cassazione, Sezione Unite, sentenza 10 dicembre 2009 n. 26635, preceduta dalla relazione tematica n. 94 del 4 luglio 2009 redatta dall'Ufficio del massimario della Suprema Corte). Conseguentemente, gli studi di settore sono stati ritenuti idonei a ricostruire la situazione reddituale del contribuente solo se confortati da altri elementi desunti, in contraddittorio con il contribuente, dalla realtà economica dell'impresa;
    l'astratta applicazione degli studi di settore, dunque, non garantisce l'attendibilità delle risultanze in termini di ricavi e compensi da dichiarare, potendo in alcuni casi generare significativi effetti distorsivi. Tale aspetto, a dir poco preoccupante in termini di certezza del diritto ed equità del prelievo, è stato notevolmente accentuato dalla crisi economica degli ultimi anni. La particolare congiuntura economica ha determinato il crollo della redditività delle imprese e professionisti con ovvie ricadute i termini di attendibilità di ricavi. Uno scenario questo, che ha accentuato ulteriormente l'incapacità degli studi di settore a rappresentare adeguatamente la reale situazione reddituale dei contribuenti. Tanto è vero che lo stesso Ministero dell'economia e delle finanze ha ritenuto opportuno intervenire con i decreti ministeriali del 23 dicembre 2013 e del 2 maggio 2014, apportando correttivi «anticrisi» agli studi di settore. In particolare, il decreto ministeriale del 2 maggio 2014 ha previsto quattro tipologie di correttivi:
     1. modifica del funzionamento dell'indicatore di normalità economica «durata delle scorte»;
     2. correttivi specifici per la crisi;
     3. correttivi congiunturali di settore;
     4. correttivi congiunturali individuali;
    i detti correttivi, analoghi a quelli introdotti per gli studi applicati al periodo di imposta 2011 e 2012, sono stati applicati ai soggetti che hanno dichiarato, nel periodo d'imposta 2013, ricavi o compensi inferiori al ricavo puntuale di riferimento determinato dallo studio di settore;
    non va sottaciuto, poi, come gli studi di settore rappresentino in molti casi uno «scudo» a danno dell'amministrazione finanziaria ovvero a favore di quei contribuenti che, pur conseguendo ricavi o compensi superiori a quelli desumibili dallo studio di settore, si adeguano alle sue risultanze scontando un'imposta minore a quella effettivamente dovuta. Se per un verso lo studio di settore rappresenta un disincentivo all'evasione per i contribuenti che si attestano al di sotto dei ricavi standardizzati (invogliandoli ad adeguarsi), è altrettanto vero che gli stessi studi di settore rappresentano un agevole incentivo alla sottofatturazione proprio per le attività d'impresa e professionali più redditizie (e che dovrebbero maggiormente contribuire al sostentamento delle spese pubbliche);
    l'adozione dei suddetti correttivi anticrisi andrebbe estesa anche al periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 2014, considerato il perdurante stato di crisi economica;
    allo stesso modo sarebbe opportuno potenziare la compliance tra amministrazione finanziaria e contribuente in armonia con i principi fondamentali dell'ordinamento tributario sanciti dallo Statuto dei diritti del contribuente e degli orientamenti in ambito comunitario (tra cui il principio dell'obbligatorietà del contraddittorio anticipato per ogni forma di accertamento, espresso dalla sentenza 18 dicembre 2006 C. 349/077 – «Sopropè»), semmai incentivando le forme e gli strumenti di contraddittorio che rappresentano oggi un elemento indefettibile del procedimento di accertamento. A tal fine, sarebbe senz'altro proficua l'attivazione di forme di contraddittorio, anticipate rispetto alla fase dichiarativa, e dirette ad assicurare il costante monitoraggio dell'attività imprenditoriale o professionale ed il suo andamento economico: in tal modo, ancor prima del termine di presentazione della dichiarazione dei redditi annuale, l'amministrazione finanziaria e il contribuente avrebbero la possibilità di vagliare ed esprimersi sulla reale situazione economica dell'impresa o professione esercitata rispetto alle risultanze degli studi di settore, uniformando la successiva dichiarazione dei redditi all'effettiva situazione reddituale dell'impresa (con conseguenti positive ricadute anche in termini di contenzioso tra amministrazione e contribuenti);
    in ogni caso, nell'ottica del potenziamento della collaborazione tra amministrazione e contribuenti, sarebbe auspicabile per il futuro l'abolizione degli studi di settore quale strumento di rilevazione statistica del reddito favorendo, viceversa, procedure di controllo più attinenti alle oggettive caratteristiche di esercizio dell'impresa o professione e, quindi, maggiormente idonee a rilevare la ricchezza effettivamente prodotta. Tutto ciò potrà ovviamente essere favorito anche attraverso interventi diretti ad una progressiva riduzione della pressione fiscale effettiva, da un maggiore investimento di risorse finanziarie per il potenziamento delle risorse umane in forza all'amministrazione finanziaria impiegate nell'esecuzione dei controlli e verifiche fiscali nonché, infine, dal complessivo miglioramento qualitativo dell'attività di accertamento,

impegna il Governo:

   ad aggiornare i parametri, le metodologie di calcolo e le funzioni di stima dei ricavi presunti relativi alle differenti attività soggette agli studi di settore affinché siano allineati, in maniera realistica e puntuale, alla perdurante situazione di crisi economica e finanziaria che attanaglia, da oltre cinque anni, gli esercenti attività di impresa, arte e professione, prevedendone l'applicazione già alle dichiarazioni dei redditi relative al periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 2014;
   a prevedere, con decorrenza dal periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 2015, la riforma degli studi di settore sostituendoli, o in ogni caso affiancandoli, con sistemi di controllo che incentivino una compliance preventiva tra contribuenti ed amministrazione finanziaria, anche attraverso la predisposizione di strumenti informatici gratuiti che consentano agli esercenti di confrontare in tempo reale l'andamento economico e finanziario delle proprie attività rispetto ai modelli statistici standard, comprendere le cause di eventuali scostamenti e porvi rimedio, ove necessario senza attendere i termini previsti per i dichiarativi fiscali;
   a prevedere specifiche procedure di verifica dell'attendibilità dello studio di settore per i contribuenti che presentino un risultato di congruità e coerenza, basate sulla valutazione delle concrete caratteristiche di esercizio dell'attività d'impresa o professionale, garantendo la partecipazione attiva del contribuente alla procedura di controllo;
   ad assumere iniziative, anche normative, volte a promuovere in ogni caso la piena collaborazione tra i contribuenti e l'amministrazione finanziaria nel procedimento di autoliquidazione delle imposte istituendo, a tal fine, appositi canali di assistenza che aiutino i contribuenti a verificare spontaneamente la correttezza formale e l'adeguatezza sostanziale delle proprie risultanze contabili, in un'ottica che stimoli l'adempimento volontario, la fiducia reciproca tra contribuenti ed amministrazione finanziaria, la certezza del diritto e l'emersione della ricchezza effettivamente prodotta e riduca, al contempo, il ricorso a strumenti statici di rilevazione del reddito ed il conseguente proliferare del contenzioso tributario, in armonia e attuazione dei principi di leale collaborazione e obbligatorietà del contraddittorio in via preventiva espressi dallo statuto del contribuente e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea;
   per il perseguimento dei precedenti impegni, a potenziare le risorse umane in forza all'amministrazione finanziaria e a ottimizzare l'attività di accertamento, stabilendo obiettivi che privilegino principalmente la qualità dei controlli, la tutela del contribuente, l'equità distributiva e gli aspetti di educazione fiscale e di leale collaborazione.
(1-00709)
«Pesco, Alberti, Barbanti, Cancelleri, Ruocco, Pisano, Villarosa».
(15 gennaio 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il Governo nell'estate 2014 non ha fatto mistero dell'intenzione di voler mettere in cantiere una revisione degli attuali strumenti per l'accertamento tributario, i cosiddetti studi di settore, ben più approfondita rispetto a quelle periodiche che si sono avvicendate fino ad oggi, adottando nuovi indicatori di coerenza e di normalità economica. Infatti, l'imperante crisi economica che ancora morde fortemente tutti gli strati dell'economia italiana ha oramai reso poco rappresentativi i parametri e gli algoritmi su cui si basa la valutazione della capacità reale di produrre reddito da parte di un contribuente, come, del resto, testimoniato dalla stessa Corte dei conti che, nella Relazione sul rendiconto generale dello Stato per l'anno 2013, attribuisce agli studi di settore, soprattutto nell'ambito della lotta all'evasione fiscale, una perdita dell'efficacia;
    lo stesso piano antievasione del Governo contempla l'adozione di «nuovi indicatori di coerenza economica e di normalità economica» la cui introduzione servirà a contrastare i fenomeni di infedeltà dichiarativa nella fase di presentazione della dichiarazione dei redditi, «inducendo», si legge nel piano, «un prevedibile incremento dei comportamenti dichiarativi corretti e, indirettamente, quindi, della base imponibile e del relativo gettito fiscale». Inoltre, obiettivo di tale aggiornamento, che dovrebbe anche tenere conto di un'auspicata ripresa economica, è quello di arrivare, da una parte, ad una maggiore efficacia in termini di compliance fiscale, e dall'altra, a controlli più serrati sugli accessi a quei regimi premiali che garantiscono ai contribuenti virtuosi uno scudo dagli accertamenti tributari;
    altro obiettivo evidenziato dall'amministrazione finanziaria è quello della necessità che i dati presenti negli studi di settore vengano sempre maggiormente impiegati quale strumento di selezione per l'ulteriore attività di controllo, piuttosto che quale mero strumento accertativo diretto;
    gli studi di settore, introdotti dall'articolo 62-sexies del decreto-legge n. 331 del 1993, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 427 del 1993, nell'ambito di una tutela dell'interesse pubblico all'individuazione di contribuenti infedeli, sono strumenti diretti a facilitare la ricostruzione induttiva dei redditi d'impresa e di lavoro autonomo, qualora l'amministrazione finanziaria ravvisi incongruenze tra redditi dichiarati e presunti, attraverso la determinazione di funzioni di ricavo e compenso per gruppi omogenei di contribuenti operanti nello stesso settore di attività, rappresentando anche uno strumento statistico attraverso il quale il fisco italiano rileva i parametri con i quali monitorare la movimentazione economica delle stesse. Si tratta, quindi, di una raccolta sistematica di dati attraverso i quali poter valutare la capacità reale di produrre reddito e che possono, quindi, essere impiegati per l'accertamento induttivo qualora risultassero anomalie fra questi e il reddito dichiarato. Essi vengono elaborati mediante analisi economiche e tecniche statistico-matematiche, che consentono di stimare i ricavi o i compensi che possono essere attribuiti al contribuente, individuando anche le relazioni esistenti tra le variabili strutturali e contabili delle imprese e dei lavoratori autonomi con riferimento al settore economico di appartenenza, ai processi produttivi utilizzati, all'organizzazione, ai prodotti e servizi oggetto dell'attività, alla localizzazione geografica e agli altri elementi significativi (ad esempio area di vendita, andamento della domanda, livello dei prezzi, concorrenza ed altro);
    il sopracitato articolo 62-sexies, comma 3, del decreto-legge n. 331 del 1993, per legittimare l'accertamento, richiede espressamente che si verifichi una grave incongruenza tra i ricavi o i compensi dichiarati dal contribuente e quelli desumibili «dagli» studi di settore. Se il legislatore avesse voluto attribuire a questi ultimi valore di presunzione legale relativa, avrebbe potuto semplicemente stabilire che gli accertamenti possono essere fondati «sugli» studi di settore. Il legislatore, pertanto, non ha ritenuto sufficiente il risultato degli studi di settore come fatto noto per determinare acriticamente i risultati conseguiti dal contribuente, ma ha richiesto ulteriormente la presenza di «gravi incongruenze» tra questi ultimi e gli studi di settore;
    infatti la Corte di cassazione nel 2009, ma anche successivamente ed a più riprese, ha chiarito che la mera difformità delle percentuali di ricarico applicate, rispetto a quelle emergenti dagli studi di settore, non legittima un accertamento analitico-induttivo, ma occorre che le risultanze degli studi di settore siano «confortate da altri indizi», mettendo in tal modo in discussione la valenza probatoria dello strumento induttivo di accertamento fiscale. D'altra parte già la stessa Agenzia delle entrate precedentemente, con la circolare n. 58/E del 27 giugno 2002, aveva affermato, e quindi riconosciuto, che l'importo determinato in base agli studi di settore ha valore di presunzione relativa;
    ciò dimostra che nel corso degli anni si è consolidato un orientamento giurisprudenziale piuttosto scettico verso una determinazione della ricchezza non facilmente conciliabile con i criteri «analitico aziendali»: secondo tale consolidata giurisprudenza gli studi di settore, pur rappresentando indici rilevatori di possibili antinomie nel comportamento fiscale del contribuente, costituiscono una presunzione semplice che da sola non può realizzare motivazione fondante di un avviso di accertamento;
    di contro e con la previsione dell'utilizzo degli studi di settore nel procedimento di accertamento induttivo, a partire dal periodo di imposta 2011, gli studi di settore sono tornati ad essere al centro delle misure antievasione per le piccole/medie attività di impresa e di lavoro autonomo e, contestualmente, si sono fortemente ampliate le possibilità di rettifica delle dichiarazioni da parte degli uffici tributari, che possono così, per legge, disattendere le risultanze delle scritture contabili non solo quando la loro veridicità è messa in dubbio da contraddizioni ed inesattezze inerenti alla contabilità, ma anche quando i dati della dichiarazione non risultino congrui con quelli ricavati dagli studi di settore;
    per la legislazione, gli studi di settore, secondo il ricorso ad un criterio dimensionale, si applicano a tutte le imprese fino al limite superiore di ricavi dichiarati di 5.164.569 euro annui, esclusi quelli di natura finanziaria, mentre non si applicano ai contribuenti in regime forfettario e sostitutivo (e cioè piccole imprese esercenti attività soggette agli studi di settore, ma che hanno ricavi inferiori ai limiti minimi per la loro applicazione);
    la legge n. 190 del 2014 (legge di stabilità 2015), nell'ambito di un rinnovato rapporto di collaborazione tra fisco e contribuenti, consente all'amministrazione finanziaria di poter incrociare i dati di 128 banche dati pubbliche al fine di verificare eventuali anomalie tra spese effettuate e reddito dichiarato. La stessa legge ha previsto un regime agevolato per alcuni esercenti attività d'impresa e arti e professioni in forma individuale, attraverso un regime forfetario di determinazione del reddito da assoggettare a un'unica imposta in sostituzione di quelle dovute, prevedendo, al contempo, un regime contributivo opzionale attraverso la soppressione del versamento dei contributi sul minimale di reddito;
    tale nuovo assetto, che di fatto ha determinato la soppressione di tutti i previgenti regimi di favore (regime fiscale di vantaggio, disciplina delle nuove iniziative produttive e regime contabile agevolato), opera automaticamente al ricorrere di precisi requisiti (l'aver sostenuto spese per lavoro dipendente, accessorio e per collaboratori non superiori a 5 mila euro lordi e l'essersi avvalsi di beni strumentali, anche a titolo di locazione, noleggio o leasing, il cui costo a fine anno non superi i 20 mila euro), prevedendo, inoltre, l'esclusione dell'applicazione degli studi di settore;
    infatti, sul fronte delle misure di esonero, ad esempio cosiddetto regime dei minimi, prima dell'entrata in vigore dei sopradetti nuovi regimi agevolativi introdotti dalla legge di stabilità 2015, prevedeva l'esonero dall'applicazione degli studi di settore in fase di avvio dell'impresa o di apertura della partita iva (start-up), così come, a partire dal periodo d'imposta per il 2012, l'amministrazione finanziaria, tenendo conto dei minori compensi percepiti dai lavoratori autonomi nei primi anni di attività professionale, applica agli studi di settore dei correttivi, prevedendo parametri di coerenza economica in grado di rappresentare meglio la situazione di inizio carriera ed uno sconto maggiore nei primi due anni di attività e che si riduce ogni due anni fino al limite dei sei anni;
    da tale breve disamina dei regimi emerge che molte piccole e medie imprese, che per requisiti reddituali o di spesa per beni strumentali si posizionano per poco al di sopra del limite minimo reddituale imposto dalla legislazione attuale ai fini dell'esonero dell'applicazione alle stesse degli studi di settore, nonostante gli attuali avversi fattori economici di contesto (crisi del mercato produttivo, credit crunch, calo delle commesse e altro) che rendono sempre più difficile la sopravvivenza sul mercato e nonostante rappresentino, con una diffusione territoriale che garantisce uno sviluppo geografico equilibrato, la spina dorsale del tessuto produttivo italiano, vengono penalizzate da una politica di accertamento fiscale che le sottomette a parametri di congruenza superati o poco rappresentativi della realtà imprenditoriale delle stesse;
    peraltro, gli studi di settore, escludendo di fatto dagli accertamenti i soggetti congrui, determinano uno stato di evasione legalizzata per molti contribuenti, la cui capacità reddituale eccede significativamente quella prevista, senza che esista alcuna necessità di renderla nota,

impegna il Governo:

   a ricorrere agli studi di settore impiegandoli esclusivamente quale strumento di selezione per l'ulteriore attività di controllo piuttosto che quale mero strumento accertativo;
   a recuperare risorse immediate dalla lotta all'evasione, anche al fine di dare risposte e segnali tangibili alla sempre più diffusa e pressante esigenza di legalità ed equità, colpendo i veri evasori, migliorando la qualità dell'attività di accertamento e la scelta adeguata del tipo di controllo, fattori che, sinergicamente combinati, devono portare ad una riduzione del tax gap, attraverso l'emersione di una maggiore base imponibile;
   a proseguire sul cammino già tracciato dalla cosiddetta delega fiscale al fine di aumentare la compliance fiscale e generare nei contribuenti la percezione della correttezza e proporzionalità dell'azione di controllo, con misure normative che, superando i metodi di accertamento induttivo e presuntivo, come gli studi di settore, incoraggino la regolarizzazione tributaria spontanea delle piccole e medie imprese, ma senza addossare alle stesse gli oneri connessi all'accertamento;
   ad assumere iniziative per ampliare la fascia di esclusione dagli studi di settore nei primi 3 anni di attività rispetto a quella attualmente prevista dal regime dei minimi, intervenendo in particolar modo sui parametri relativi ad investimenti e spese per il personale;
   ad assumere iniziative per introdurre per le piccole e medie imprese forme di tassazione diversificata delle loro attività e di componenti rappresentative delle varie fasi del ciclo produttivo.
(1-00714)
«Paglia, Scotto, Melilla, Marcon, Ricciatti, Ferrara».
(16 gennaio 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    la disciplina degli studi di settore è stata introdotta nell'ordinamento dall'articolo 62-bis del decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427;
    nello specifico, gli studi di settore, elaborati mediante analisi economiche e tecniche statistico-matematiche, sono uno strumento utilizzato per determinare il ricavo o il compenso che con la massima probabilità può attribuirsi a un contribuente – impresa o professionista – in funzione di dati contabili ed extracontabili che, unitamente ad alcuni fattori esterni quali la territorialità e la congiuntura economica, ne caratterizzano l'attività produttiva;
    tale istituto identifica, dunque, sia una procedura di calcolo che una procedura di ausilio per l'accertamento che l'Agenzia delle entrate utilizza per stimare i ricavi o i compensi presunti dall'attività di ogni singola impresa o professionista;
    l'elaborazione degli studi di settore, al pari del redditometro, si originano, quindi, dal presupposto che, se il contribuente sostiene un certo ammontare di costi, deve aver realizzato un conseguente ammontare di ricavi e/o compensi che consentano la possibilità di sostenere quei determinati costi. Tuttavia, è fatto notorio che i sistemi di quantificazione statistica o forfetari dei ricavi o del reddito, quando si applicano ad un insieme generalizzato di soggetti, non possono essere concretamente attendibili;
    ne consegue che l'applicazione dell'istituto in questione ha generato una serie di criticità ed anomalie a discapito del contribuente, poiché risulta una procedura il cui risultato rappresenta una presunzione relativa che può essere posta a base di avvisi di accertamento fiscale, in assenza da parte dell'Agenzia delle entrate di specifiche motivazioni in ordine ai risultati ottenuti;
    addirittura, autorevole dottrina ha evidenziato il rischio di esporre il contribuente a tassazione su un dato reddituale immaginario, soprattutto, nel caso in cui non sia in grado di fornire adeguata prova contraria alla quantificazione effettuata sulla base delle risultanze regolamentari;
    la forte rigidità applicativa che ha caratterizzato gli studi di settore, determinata dalla convinzione di assoluta coincidenza tra i ricavi risultanti dall'applicazione dello studio e la capacità reddituale del singolo contribuente, ha generato un'accesa controversia tra gli operatori economici e l'Agenzia delle entrate;
    infatti, soprattutto nell'attuale periodo di crisi, la tendenza degli uffici fiscali a standardizzare il reddito d'impresa è stata avvertita come indebita in modo particolare laddove la stima dei ricavi risulti effettuata prescindendo dalla reale situazione del mercato in cui i singoli contribuenti operano;
    per la determinazione della «congruità» dei ricavi, agli studi di settore vengono attualmente applicati dei correttivi anticrisi, tuttavia, anch'essi ovviamente si basano su dati statistici. Pertanto, un risultato già da «verificare» viene modificato da correttivi medi di categoria, che dovrebbero tenere conto di una situazione in costante evoluzione e di ulteriori variabili (il settore, la zona territoriale e altro), difficilmente analizzabili su base statistica. Ciò rende il conteggio ancora meno significativo e attendibile;
    la stessa Corte di cassazione ha dichiarato che la procedura di accertamento standardizzato mediante l'applicazione degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, pertanto, è evidente che l'applicazione degli studi di settore si scontra con la necessità di cautela che è funzionale ad evitare il rischio che le procedure di accertamento fiscale si risolvano in un'attività sommaria, i cui risultati siano avulsi dal contesto fattuale;
    in particolare, sull'insufficienza e la non attendibilità degli studi di settore, la Corte di cassazione si è espressa con la sentenza n. 15633 del 2014 in cui si mette in rilievo l'illegittimità dell'avviso di accertamento da studi di settore fondato sulla mera difformità tra quanto dichiarato e le medie del settore, poiché necessita del riscontro di ulteriori prove;
    la Corte dei conti, nella delibera 25 luglio 2012, n. 9, ha posto l'attenzione sugli effetti negativi degli studi di settore e l'evoluzione verso forme di «catastizzazione» dei redditi, nonché sulle difficoltà di applicazione di tale procedura agli studi professionali, poiché rispetto agli stessi non è ritenuta efficace l'applicazione di un sistema di accertamento standardizzato;
    ma vi è di più, poiché l'utilizzo di tale strumento ai fini dell'accertamento appare addirittura incostituzionale, considerando che l'articolo 53 della Costituzione stabilisce che tutti i cittadini sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, pertanto, nel quadro dei valori costituzionali, risulta evidente come il riferimento sia fatto alla capacità contributiva personale ed effettiva e non ad una capacità contributiva ipotetica o presunta per legge;
    sicché, trattandosi di un mero strumento presuntivo di accertamento e di determinazione dei ricavi, si ritiene necessario adottare urgenti provvedimenti affinché l'istituto in questione venga regolamentato, prevedendone l'utilizzo, esclusivamente, ai fini di selezione dei contribuenti da assoggettare ad attività di controllo fiscale;
    del resto, è la stessa Agenzia delle entrate che nella circolare n. 25/E/2014 sul contrasto all'evasione evidenzia «la necessità che i dati presenti negli studi di settore vengano sempre maggiormente impiegati quale strumento di selezione per l'ulteriore attività di controllo, piuttosto che quale mero strumento accertativo»;
    detto intervento si ritiene necessario per attuare una corretta e seria politica fiscale che consenta l'applicazione del principio di equità nei confronti di tutti i contribuenti, che devono essere sottoposti ad un carico fiscale proporzionato ai propri redditi,

impegna il Governo

ad assumere iniziative volte a regolamentare gli studi di settore, affinché ne venga previsto un utilizzo come mero parametro statistico di analisi per selezionare i contribuenti da assoggettare ad attività di controllo fiscale e, di conseguenza, ne sia esclusa l'applicazione quale strumento per stabilire automaticamente l'adeguatezza delle dichiarazioni dei redditi.
(1-00726)
«Rizzetto, Barbanti, Rostellato, Mucci, Baldassarre, Artini, Prodani, Segoni, Turco, Bechis».
(11 febbraio 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il livello di pressione fiscale in Italia è insostenibile per qualsiasi sistema produttivo ed incide pesantemente sulle imprese e sulla capacità di queste di creare valore aggiunto e occupazione;
    l'incidenza della tassazione sui profitti raggiunge una percentuale di oltre il sessanta per cento, attestandosi circa venti punti percentuali ai di sopra della media europea, a detrimento sia della competitività sui mercati internazionali, sia delle capacità di effettuare investimenti innovativi ed assunzioni di personale;
    inoltre, nell'arco degli ultimi decenni, si è generato un sistema tributario complicato da capire e da gestire e, pertanto, estremamente costoso per le imprese, le quali, secondo le stime del dipartimento della funzione pubblica, sopportano un costo per gli oneri amministrativi di circa trenta miliardi di euro l'anno, settemila euro circa ad azienda;
    con il decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, sono stati introdotti in Italia gli studi di settore, uno strumento che il fisco italiano utilizza per l'accertamento induttivo degli esercenti arti e professioni e imprese, attraverso la raccolta sistematica dei dati che caratterizzano l'attività e il contesto economico in cui opera l'impresa, allo scopo di valutare la sua capacità reale di produrre reddito;
    gli studi di settore sono costruiti secondo un procedimento statistico che viene verificato e approvato, prima dell'entrata in vigore, dalla cosiddetta commissione degli esperti, un organismo formato da rappresentanti dell'Agenzia delle entrate e del Ministero dell'economia e delle finanze e delle organizzazioni di categoria, secondo un procedimento che si articola essenzialmente nelle fasi di raccolta di elementi quantitativi e qualitativi su una determinata attività, l'individuazione di modalità omogenee di svolgimento della stessa e la determinazione dei ricavi presunti dell'attività;
    fotografando il giro d'affari presumibile di commercianti, artigiani e professionisti, gli studi di settore ne stabiliscono di fatto l'imponibile e questo li ha resi particolarmente invisi alle categorie interessate, soprattutto nell'attuale congiuntura economica sfavorevole, perché non tengono conto della riduzione degli introiti, spingendo gli imprenditori a chiederne una revisione che possa conteggiare gli effetti della crisi;
    l'aspetto maggiormente criticato degli studi di settore è che obbligano chi guadagna poco a dichiarare di più, mentre consentono a chi guadagna tanto di dichiarare di meno, configurandosi, di fatto, come una sorta di condono fiscale mascherato permanente;
    il meccanismo applicato negli studi, infatti, stabilendo a priori un ricavo «congruo» per ogni tipo di attività e inducendo ogni contribuente ad adeguare le dichiarazioni dei redditi a quella cifra, pena controlli fiscali induttivi in cui l'onere della prova è rovesciato, costringono giocoforza chi ha guadagnato meno a dichiarare di più e, al tempo stesso, forniscono l'assoluzione per chi, pur avendo guadagnato di più, dichiarando un reddito «congruo» alle stime dello studio di settore, si vede escludere dalle liste dei contribuenti a controllo;
    se gli studi di settore, da quando sono stati istituiti, hanno generato un aumento del gettito fiscale, questo è dovuto quindi a un sistema ferocemente regressivo, nel quale i poveri pagano più dei ricchi, secondo un meccanismo assolutamente dannoso in particolare in un periodo di crisi economica;
    in tale sistema, quindi, il contribuente onesto si trova a dover combattere contro un complicatissimo meccanismo giuridico che si basa su presunzioni difficilmente contestabili, e tale problema è destinato a restare irrisolto finché si vorrà giustificare l'applicabilità degli studi di settore ai singoli casi concreti, usando, quindi, metodi cosiddetti «standardizzati» o di «massa» per facilitare accertamenti fiscali a tavolino, evitando di svolgere idonee indagini e verifiche fiscali specifiche ed inerenti ai singoli casi;
    le imprese sottoposte agli studi di settore si trovano non infrequentemente nella paradossale situazione di dover licenziare perché in caso contrario non risulterebbero coerenti con gli studi;
    la riunione della cosiddetta commissione degli esperti degli studi di settore, riunitasi in data 10 dicembre 2014 per approvare la revisione dei 68 studi di settore a valere con riferimento al periodo di imposta 2014, ha rilevato molteplici e specifiche criticità in merito agli stessi e ha sollevato diversi problemi in ordine al ruolo e finalità, nonché ai meccanismi di evoluzione e/o revisione di tale strumento;
    in particolare, la riproposizione di indicatori di coerenza estremamente selettivi su tutti gli studi oggetto di revisione sono stati ritenuti dalle associazioni delle imprese e degli ordini professionali non idonei a rappresentare le realtà situazione dei soggetti, soprattutto in un contesto economico nel quale la crisi incide profondamente rendendo anti-economiche (e quindi non coerenti) le scelte aziendali finalizzate a mantenere gli investimenti in beni strumentali e il capitale umano a scapito della marginalità dell'impresa;
    nello specifico, seppur valutando positivamente la rimodulazione del vecchio indicatore di «valore aggiunto per addetto» attraverso la sua suddivisione nei due distinti indicatori «valore aggiunto per addetto» (applicabile però alle sole imprese con dipendenti) e di «margine per addetto non dipendente» (applicabile alle sole imprese senza dipendenti), sono emerse comunque criticità relative a tali indicatori, come ad esempio, per il primo, che considera tra gli addetti anche gli apprendisti la cui produttività è molto relativa e, per il secondo, che si tratta di fatto di un reddito minimo che non tiene conto del contesto economico di riferimento, dell'età dell'imprenditore, della territorialità ed altri fattori;
    un'ulteriore criticità segnalata per tutti gli studi di settore riguarda la riproposizione dell'indice di «copertura dei costo dei beni di terzi e degli ammortamenti» che, presumendo un unico valore di riferimento uguale per tutte le imprese a prescindere dal contesto economico, dalla crisi del settore, dal grado di rigidità strutturale e dalla territorialità in cui opera l'impresa, determina forti anomalie sotto il profilo della coerenza e, se anche è vero che tali indicatori non incidono nella stima dei ricavi, determinano però la qualificazione dei soggetti tra quelli non coerenti, e, quindi, esclusi da eventuali benefici del «sistema premiale»,

impegna il Governo:

   ad assumere le iniziative necessarie per dare immediata e compiuta risposta alle criticità esposte in premessa, attivando il confronto richiesto dalle associazioni delle imprese e dagli ordini professionali;
   nelle more, ad assumere iniziative per provvedere all'immediata sospensione dell'applicazione degli studi di settore per l'anno 2015.
(1-00737)
«Rampelli, Giorgia Meloni, Cirielli, Corsaro, La Russa, Maietta, Nastri, Taglialatela, Totaro».
(17 febbraio 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    gli studi di settore, introdotti nell'ordinamento nazionale con l'articolo 62-bis del decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, costituiscono uno strumento che il fisco italiano utilizza per stimare il volume d'affari che può essere attribuito al contribuente;
    attraverso un metodo informatizzato e l'utilizzo di analisi economiche e tecniche statistico-matematiche, tali studi consentono di stimare i ricavi o i compensi presunti dell'attività di liberi professionisti, lavoratori autonomi e imprese; il procedimento statistico viene verificato prima dell'entrata in vigore, dalla commissione degli esperti (articolo 10, comma 7, della legge n. 146 del 1998), un organismo formato da rappresentanti dell'Agenzia delle entrate, del Ministero dell'economia e delle finanze, della Guardia di finanza, dell'Anci e delle organizzazioni di categoria;
    le stime, che individuano le relazioni esistenti tra le variabili strutturali e contabili delle imprese e dei lavoratori autonomi con riferimento al settore economico di appartenenza, ai processi produttivi utilizzati, all'organizzazione, ai prodotti e servizi oggetto dell'attività, alla localizzazione geografica e agli altri elementi significativi, risultano utili sia per l'amministrazione finanziaria, sia per il contribuente;
    il contribuente può, infatti, utilizzare gli studi di settore per verificare, in sede dichiarativa, il proprio posizionamento rispetto ai criteri di congruità e coerenza, rilevando rispettivamente: se i ricavi o i compensi dichiarati sono congrui rispetto a quelli stimati dallo studio, tenuto conto delle risultanze derivanti dall'applicazione degli indicatori di normalità economica, e se il suo comportamento risulta coerente rispetto ai valori di indicatori economici predeterminati per ciascuna attività;
    lo studio di settore è, quindi, da considerarsi uno strumento di ausilio per il contribuente in fase dichiarativa; egli può infatti decidere, in caso di incongruità, di uniformarsi al risultato dello studio di settore, oppure di discostarsene, avvalendosi di comprovate ragioni che ne legittimano la disapplicazione;
    l'amministrazione finanziaria utilizza gli studi di settore come strumento di supporto per compiere le attività di controllo e accertamento della regolarità delle dichiarazioni, attraverso la comparazione tra i ricavi o i compensi dichiarati e quelli direttamente desumibili dall'applicazione dei citati criteri; in particolare, fra gli indirizzi operativi individuati dall'Agenzia delle entrate nella circolare dell'agosto del 2014, rientra la necessità che i dati presenti negli studi di settore vengano sempre maggiormente impiegati quale strumento di selezione per l'ulteriore attività di controllo, piuttosto che quale mero strumento accertativo diretto;
    gli studi di settore costituiscono inoltre un'efficace forma di contrasto ai fenomeni di infedeltà dichiarativa nella fase di presentazione della dichiarazione dei redditi, poiché hanno indotto un prevedibile incremento dei comportamenti dichiarativi corretti e, indirettamente, quindi, della base imponibile e del relativo gettito fiscale;
    pur restando uno strumento utile in tema di prevenzione e contrasto dell'evasione, negli ultimi anni è stata tuttavia rilevata una perdita di efficacia degli studi di settore; in particolare, si è osservata una minore adeguatezza nella rappresentatività delle trasformazioni strutturali dell'economia italiana, soprattutto per quanto riguarda le piccole e medie imprese;
    per migliorare il grado di attendibilità degli studi nella stima delle situazioni reddituali dei contribuenti, minimizzando gli effetti distorsivi in particolare determinati dalla congiuntura economica negativa che ha caratterizzato gli ultimi anni, il Ministero dell'economia e delle finanze è quindi intervenuto apportando correttivi «anticrisi», da ultimo con il decreto ministeriale del 2 maggio 2014;
    va altresì ricordato che, al fine di ridurre gli adempimenti fiscali e favorire i contribuenti di minore dimensione, nella legge di stabilità per il 2015 è prevista l'esenzione dagli studi di settore, nonché dalla presentazione della dichiarazione Irap, per gli esercenti attività d'impresa e arti e professioni in forma individuale che aderiscono al nuovo regime forfetario di determinazione del reddito;
    inoltre, per perseguire una maggiore efficacia in termini di compliance, dal 2015 è prevista una serie di norme volte al rafforzamento dei flussi informativi tra i contribuenti stessi e l'Agenzia delle entrate e alla modifica delle modalità, dei termini e delle agevolazioni connesse all'istituto del ravvedimento operoso,

impegna il Governo:

   a continuare nel percorso di rafforzamento della collaborazione tra fisco e contribuente, di semplificazione delle procedure e riduzione degli adempimenti, al fine di conseguire il massimo adempimento spontaneo, a tal fine dotando l'amministrazione finanziaria di strumenti conoscitivi adeguati a favorire l'emersione dell'effettiva capacità fiscale di ciascun contribuente già nel momento dell'adempimento tributario, come avviene nei sistemi tributari europei più evoluti;
   a valutare l'opportunità di procedere ad una revisione degli studi di settore per semplificarli, prevedendo la riduzione del loro numero, e per renderli più efficaci, attraverso una continua verifica ed eventuale modifica delle modalità di calcolo, che persegua la massimizzazione dell'attendibilità delle stime e, al contempo, garantisca la fedeltà dei dati dichiarati dai contribuenti.
(1-00751)
«Scuvera, Benamati, Causi, Martella, Folino, Ginefra, Bargero, Montroni, Bonifazi, Capozzolo, Carbone, Carella, Colaninno, De Maria, Marco Di Maio, Marco Di Stefano, Fragomeli, Fregolent, Ginato, Gitti, Gutgeld, Lodolini, Moretto, Pastorino, Pelillo, Petrini, Ribaudo, Sanga, Zoggia».
(presentata il 2 marzo 2015)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE PER IL CONTRASTO DEL GIOCO D'AZZARDO

   La Camera,
   premesso che:
    il gioco d'azzardo patologico è stato riconosciuto ufficialmente come patologia nel 1980 dall'Associazione degli psichiatri americani ed è stato classificato nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali IV come «disturbo del controllo degli impulsi non classificati altrove», tanto che nell'edizione di maggio 2013 del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali è stato inquadrato nella categoria delle cosiddette «dipendenze comportamentali»;
    il fenomeno del gioco d'azzardo patologico riguarda le fasce della popolazione più deboli quali i disoccupati, i giovani, i pensionati e gli indigenti, come dimostrano i dati forniti dall'Eurispes;
    con la liberalizzazione del mercato portata avanti dai Governi che si sono succeduti negli ultimi anni, non si è avuto alcun reale beneficio per le casse pubbliche: infatti, dalla documentazione consegnata dal direttore dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli alla VI Commissione parlamentare (Finanze) della Camera dei deputati nel giugno del 2013, si rileva come negli ultimi anni, a fronte dell'aumento esponenziale del fatturato delle società attive nel settore, viene rilevato: la diminuzione delle entrate erariali, il mancato gettito d'iva conseguente alla diminuzione dei consumi, i costi indiretti necessari per la cura delle vittime da gioco d'azzardo patologico e non ultimi i costi sociali per il sostegno alle famiglie per lo più a carico dei comuni;
    le stime riguardanti il gioco d'azzardo in Italia indicano la sua progressiva diffusione sul territorio nazionale; per l'anno 2012, nel nostro Paese, nel business dell'azzardo sono stati spesi circa 88 miliardi di euro, oltre 6 volte rispetto ai 14 miliardi di euro spesi nel 2000, questo ne fa la terza industria nazionale con il 4 per cento del prodotto interno lordo prodotto. Tali cifre rendono l'Italia il terzo Paese al mondo per quote di denaro speso nel gioco d'azzardo e il primo nell'Unione europea;
    nel nostro Paese, sono circa un milione i giocatori patologici e altri tre milioni di persone si trovano in una situazione di rischio e necessitano cure, attività di prevenzione e sostegno sociale, da parte delle autorità locali civili e sanitarie, secondo quanto riportato dal Consiglio nazionale delle ricerche in un'analisi dei dati Opsad Italia 2010-2011;
    nonostante il notevole impatto sociale e sanitario, continuano ad essere autorizzati e pubblicizzati nuovi giochi che attentano allo stato di crisi che molte famiglie sono costrette a vivere, come da ultimo la nuova lotteria Sisal «Vinci casa», un gioco che fa leva sulle paure dei cittadini sempre più in balia della crisi economica, in un momento in cui l'emergenza abitativa ha raggiunto livelli senza precedenti in Italia;
    dal 7 febbraio 2011, è iniziata la sperimentazione dei biglietti «Gratta e Vinci» anche negli uffici postali, mediante un accordo tra Lottomatica group spa e Poste italiane, generando un problema di regolamentazione; invero, come riportato da alcune testate giornalistiche, secondo parte della giurisprudenza di diritto del lavoro, il problema è di discriminare le attività strettamente connesse al servizio universale postale rispetto a quelle di natura commerciale-finanziaria-ludica (gratta e vinci) peculiari dell'ufficio postale standard. Un servizio pubblico che incentiva una piaga sociale è intollerabile, dato che è stato provato che la riduzione dell'offerta sia l'arma più importante per combattere il gioco d'azzardo patologico;
    gli studi hanno evidenziato che tra i soggetti più a rischio ci sono gli anziani che sono anche tra i maggiori utenti degli uffici postali;
    vi sono, inoltre, sale bingo con servizio di babysitting, dove i genitori possono lasciare i figli in «parcheggio» mentre giocano, come il caso di Cesano Maderno (in provincia di Monza e della Brianza), dove i locali sono separati ma comunque in un'unica stessa struttura, e di Lovere (in provincia di Bergamo), in cui si trova un ristorante e discobar con annessa sala gioco dove famiglie, giocatori e bambini condividono gli stessi spazi;
    da un articolo apparso sul sito post.it si apprende che i giornalisti della Gazzetta dello Sport protestano per la nascita di un'agenzia di scommesse sportive addirittura interna al gruppo RCS, ipotizzando un conflitto d'interessi;
    stando a quanto riportato nel comunicato, GazzaBet sarà un'agenzia di scommesse sportive on-line interna al gruppo RCS ma gestita da un operatore esterno, così da sfruttare il marchio e il nome Gazzetta dello Sport;
    i giornalisti della Gazzetta dello Sport che contestano l'iniziativa hanno sollevato una serie di questioni «di carattere etico, giuridico e deontologico» e una – piuttosto consistente – legata a un possibile conflitto di interesse che si verrebbe a creare all'interno di RCS. Infatti tra gli azionisti del gruppo RCS ci sono anche diversi proprietari di importanti club della Serie A di calcio come l'Inter, la Juventus, la Fiorentina e il Torino; i giornalisti temono dunque che questa condizione possa compromettere l'indipendenza del giornale;
    le ricerche della Direzione nazionale antimafia segnalano cifre allarmanti anche per quanto riguarda il coinvolgimento delle mafie e il gioco illegale: infatti, secondo una ricerca, ammonterebbe a 15 miliardi di euro il fatturato, stimato, del gioco illegale nel 2012;
    un'infiltrazione, quella della mafia, confermata, oltre che dalle indagini giudiziarie e dalle notizie di cronaca, anche da studi e ricerche compiuti da associazioni e da esperti nel settore, dalle relazioni pubblicate dalle medesime forze dell'ordine, tra le quali anche la Direzione nazionale antimafia, e dal lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, soprattutto nei settori più redditizi del sistema, quali gli apparecchi da intrattenimento (new slot e videolottery, di cui circa 200 mila sarebbero illegali), le scommesse sportive e il gioco on-line;
    la criminalità organizzata utilizza il gioco d'azzardo attraverso diversi canali: sia come business, gestendo direttamente sale gioco, sia utilizzando gli strumenti per loro tradizionali e, dunque, costringendo gli esercenti – con la forza dell'intimidazione – a noleggiare gli apparecchi dalle ditte vicine al clan; ma la criminalità ha anche fatto ricorso, per aumentare gli introiti, alla gestione di apparecchi irregolari. Uno dei modi utilizzati per il riciclo di denaro riguarda l'utilizzo delle videolottery, macchinette che accettando banconote, anche di grosso taglio, e, rilasciando ticket, non distinguono tra vincite e denaro immesso, consentendo al giocatore di ritirare il denaro anche senza aver giocato effettivamente, ottenendo, quindi, di fatto, denaro ripulito,

impegna il Governo:

   ad assumere un'iniziativa normativa che vieti l'apertura delle sale da gioco ovvero locali commerciali con slot, vicino ai luoghi definiti sensibili, stabilendo un minimo di 500 metri di distanza, per combattere il proliferare delle slot;
   ad assumere iniziative per obbligare i gestori di sale a chiedere un documento d'identità, per impedire il gioco ai minori, oltre a garantire il libero accesso nei luoghi aperti al gioco agli psicologi delle asl;
   ad evitare autorizzazioni di nuove tipologie di gioco, come ad esempio il «Vinci Casa», che inevitabilmente provocano illusioni in coloro che non hanno un tetto o altro dove vivere e per sopravvivere;
   ad intervenire, per quanto di competenza, affinché all'interno degli uffici di Poste Italiane venga rimossa la vendita di «gratta e vinci» mediante distributori e operatori;
   ad assumere iniziative, anche di carattere normativo, al fine di evitare il riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite tramite il gioco d'azzardo e, nella fattispecie, le videolottery;
   ad aprire un tavolo, in sede di Conferenza unificata, per valutare la possibilità di ridurre i locali del gioco d'azzardo in città, in base al numero degli abitanti;
   ad assumere iniziative, anche di carattere normativo, finalizzate ad impedire conflitti di interesse come quelli denunciati in premessa riguardanti l'agenzia di scommesse sportive interna al gruppo RCS, nonché ulteriori disagi economici e sociali che ne potrebbero derivare;
   ad avviare uno studio epidemiologico di concerto con l'Osservatorio nazionale sulla dipendenza da gioco d'azzardo patologico, trasferito con l'approvazione della legge n. 190 del 2014 (legge di stabilità 2015) presso il Ministero della salute, per accertare tutti i costi diretti ed indiretti sostenuti dallo Stato per prevenire e curare la dipendenza da gioco d'azzardo patologico, con particolare riferimento ai costi sociali, economici e psicologici ad essa associati, nonché ai relativi fattori di rischio, in relazione alla salute dei giocatori e all'indebitamento delle famiglie, trasmettendo al Ministro della salute un rapporto annuale sull'attività svolta.
(1-00594)
(Nuova formulazione) «Mantero, Baroni, Grillo, Di Vita, Silvia Giordano, Cecconi, Lorefice, Dall'Osso, Liuzzi, Simone Valente, Battelli».
(18 settembre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il Governo ha tra le proprie prerogative quella di compiere scelte di politica economica usando ove occorra la leva fiscale. La legge di stabilità 2015 appena approvata prevede una riduzione degli introiti per i concessionari di Stato che gestiscono per conto della Repubblica italiana gli apparecchi automatici da intrattenimento, avvalendosi di una rete capillare di aziende individuate come terzi incaricati della raccolta. La scelta compiuta dal Governo è quella di attingere al settore del gioco, ed in particolare dagli apparecchi da intrattenimento, prelevando un importo pari a 500 milioni di euro, annui, in aggiunta a quelli che ,ad oggi già vengono prelevati, pari a circa 4 miliardi di euro annui. Il Governo ha indicato chiaramente che la somma è dovuta da tutti i soggetti della filiera: non solo dai 13 concessionari;
    la legge di stabilità 2015, in attesa del riordino della disciplina dei giochi pubblici prevista nell'ambito della delega fiscale, disciplina (comma 644) l'attività delle agenzie di scommesse ed estende l'applicazione del piano straordinario di contrasto del gioco illegale, istituendo una apposita banca dati (comma 645). Sono aumentate le imposte sul gioco illegale (commi 646-648) e il comma 649, introdotto al Senato, prevede una riduzione pari a 500 milioni di euro dei compensi spettanti ai concessionari e agli altri operatori di filiera nell'ambito delle reti di raccolta del gioco con newslot e videolottery, mentre il nuovo comma 650, demanda a decreti ministeriali l'adozione di misure di sostegno dell'offerta di gioco. Le maggiori entrate sono state così destinate: 387 milioni di euro a decorrere dall'anno 2015, al fondo per interventi strutturali di politica economica, e 150 milioni di euro al fondo per la riduzione della pressione fiscale (nuovi commi 651 e 652);
    il comma 649 della legge appare a molti degli operatori del settore in contrasto con l'articolo 14, comma 2, lettera g), della legge 11 marzo 2014, n. 23 (delega fiscale) che parla di variazione di aggi e compensi in funzione di una progressività legata ai volumi di gioco, e non di generica una tantum annuale. Il comma 649 appare inoltre in contrasto con le norme europee sulla tassazione e potrebbe indurre un ricorso alla Corte di giustizia dell'Unione europea contro l'aumento retroattivo della tassazione. La richiesta dei 500 milioni di euro fatta ai concessionari, in base al numero di apparecchi o videoterminali installati e censiti al 31 dicembre 2014, è indipendente dal fatto che gli stessi apparecchi abbiano lavorato un giorno, un mese o l'intero anno;
    la norma oltre a stabilire il principio che tutti i soggetti della filiera devono contribuire al reperimento della somma indicata, non chiarisce quanti siano e chi siano questi soggetti e se ci sono dei soggetti che siano in qualche modo esclusi. Sarebbe stato sufficiente identificarli facendo riferimento al decreto istitutivo del cosiddetto Ries, il registro dei soggetti abilitati. L'importo di 500 milioni di euro appare come una prestazione patrimoniale obbligatoria, imposta a soggetti sufficientemente identificati, non bene, ma comunque identificati, a cui però non comunica l'esatta quantificazione dovuta per legge. La nuova imposta obbliga i concessionari a versare «in aggiunta a quanto versato allo Stato ordinariamente, a titolo di imposte ed altri oneri dovuti a legislazione vigente e sulla base delle convenzioni di concessione» ulteriori 500 milioni di euro;
    la ripartizione tra i concessionari dovrebbe essere proporzionale al volume di affari e quindi agli apparecchi di cui all'articolo 110, comma 6, lettere a) e b), del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (TULPS) gestiti nell'esercizio che si chiude con il 31 dicembre 2014. I 500 milioni di euro riguardano sia il comma 6, lettera a) (new slot o AWP), che il comma 6, lettera b (VLT). Dal comma 6, lettera a), ogni anno i concessionari percepiscono lo 0,5 per cento di ritorno come deposito cauzionale pari a circa 220 milioni di euro. (si veda il decreto direttoriale prot. n. 21213 del 12 marzo 2014 – Individuazione dei criteri e delle modalità di restituzione ai concessionari della rete telematica per la gestione degli apparecchi da divertimento ed intrattenimento del deposito cauzionale versato dai medesimi per l'anno 2014);
    secondo il legislatore con la delega fiscale «degli aggi e dei compensi spettanti ai concessionari e agli altri operatori di filiera» non esisterà categoria di apparecchi a vincita esclusa dall'obbligo di contribuire alla nuova imposta. Il rischio è che, dal momento che una apparecchiatura AWP che rende 1000 euro al giorno viene tassata come una che ne incassa 100, i concessionari scelgano di installare gli apparecchi a più alto reddito. Ma in questo modo cresce anche il rischio di indurre in forma ancora più grave una patologia come il gioco d'azzardo patologico, perché si dismetterebbero gli apparecchi che rendono meno, ma garantiscono un intrattenimento meno pericoloso. In questo modo, come naturale conseguenza, si innalzerà il livello di malessere sociale derivante dal gioco d'azzardo patologico e la leva fiscale, che avrebbe dovuto contenere il fenomeno «negativo delle slot-machine», potrebbe ottenere un risultato contrario a ciò che ci si prefiggeva di ottenere. Alla potenziale riduzione del gettito fiscale, si sommerebbe la riduzione del numero dei soggetti che lavorano nel comparto del gioco;
    le associazioni di categoria, scrivendo al Presidente del Consiglio dei ministri, hanno espresso il loro sconcerto di fronte alla relazione della ragioneria generale dello Stato del 13 dicembre 2014 nella quale il settore del gioco veniva dipinto come una realtà alla quale «non corrisponde una vera attività lavorativa» . Mentre invece si tratta di un settore che conta 4.000 aziende sul territorio nazionale, con un indotto che occupa oltre 180.000 addetti e relative famiglie e oltre 110.000 esercizi pubblici, che a loro volta coinvolgono ulteriori 390.000 persone. È evidente che la legge delega dovrà senza indugio (cioè prima che si creino paralisi e danni a privati ed erariali, di interesse pubblico quali cali di gettito o dilagare dell'illegalità) porre rimedio alle lacune della norma;
    altro aspetto problematico della legge è il trattamento riservato al mercato parallelo della distribuzione del gioco al quale è stata offerta una sanatoria a condizioni agevolate. Uno dei problemi che la normativa sul gioco d'azzardo infatti deve ancora affrontare con chiarezza è quella che riguarda i Centri di trasmissione dati, una sorta di rete parallela al sistema concessorio dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli di Stato. Si tratta di un fenomeno che negli anni ha raggiunto proporzioni enormi, se si pensa che il volume delle scommesse raccolte da questi centri è dell'ordine di 2 miliardi e mezzo l'anno contro i 3,7 miliardi dei negozi regolari: astronomica appare l'evasione fiscale connessa a questo sistema parallelo;
    secondo l'amministratore delegato di Stanleybet, i Centri di trasmissione dati sono già legali, per cui non debbono aderire al condono. Secondo lui si tratta di Centri internazionali che negli ultimi anni sono stati spesso discriminati rispetto ai centri nazionali: l'adesione al condono spoglierebbe i Centri di trasmissione dati di tutti i diritti acquisiti dopo anni e anni di battaglie giudiziarie. La nuova normativa comprometterebbe la possibilità di riordinare il sistema nel 2016 e quindi non consentirebbe di adeguarlo ai principi di parità e di uguaglianza tra operatori nazionali e comunitari. Si crea anche il rischio che possano accedere al condono soggetti che gestiscono scommesse clandestine in proprio, senza nessun collegamento con un bookmaker estero. Queste persone, dal passato non sempre limpido, possono oggi pagare il condono proposto e aderire alla regolarizzazione. La legge di stabilità in definitiva è stata approvata, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, solo ed esclusivamente per finalità di raccolta fiscale,

impegna il Governo:

   a considerare come la leva fiscale, prevista dalla legge recante la delega fiscale e dalla stessa legge di stabilità 2015 recentemente approvata, non esaurisce la gravità dei problemi sollevati dalla dipendenza grave dal gioco d'azzardo che rende oggettivamente difficile la vita delle persone che ne sono affette e delle loro famiglie;
   a valutare come meglio integrare le norme legate al gioco d'azzardo in una visione d'insieme che tenga conto di tutte le modalità in cui si sviluppa il gioco, che crea dipendenza, non solo quindi VLT e new slot, ma anche i nuovi giochi che proliferano quotidianamente secondo le modalità del gratta e vinci, i giochi on-line e quelli che sfruttano i canali dei Centri di trasmissione dati;
   a non ridurre le problematiche legate al gioco d'azzardo alla sola dimensione economico-fiscale e a promuovere misure di ordine preventivo e terapeutico-riabilitativo più efficaci ed incisive, così come proposte da iniziative all'esame dei competenti organi parlamentari;
   ad attivare il nuovo osservatorio che dovrebbe svolgere funzioni di controllo sui modelli di gioco che continuamente sorgono e sostituiscono i precedenti, quando questi sembrano aver esaurito la loro funzione di stimolo sui giocatori, posto che il fenomeno delle dipendenze dal gioco è in crescita costante;
   ad assumere iniziative per rivedere in modo concreto le dinamiche pubblicitarie legate alla promozione dei nuovi giochi, prestando attenzione anche alla pubblicità che appare nei luoghi di prossimità alle sale da gioco o a quella diretta che si fa nei locali tipo bar, tabaccherie e altro, in cui spesso la capacità di attrazione è molto spiccata;
   a valutare la possibilità di assumere ogni iniziativa di competenza per rendere più omogenee le norme relative a distanze ed orari, a numero di apparecchi da gioco e altro, superando l'attuale difformità che ai firmatari del presente atto di indirizzo appare eccessiva.
(1-00702)
«Binetti, Buttiglione, D'Alia, Piccone, Tancredi, Garofalo, Saltamartini, Causin, Cera, Calabrò, Roccella, Alli, Pagano, Scopelliti, Sammarco».
(15 gennaio 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo il Ministero della salute per ludopatia (o gioco d'azzardo patologico) si intende l'incapacità di resistere all'impulso di giocare d'azzardo o fare scommesse, nonostante l'individuo che ne è affetto sia consapevole che questo possa portare a gravi conseguenze. Per continuare a dedicarsi al gioco d'azzardo e alle scommesse, chi è affetto da ludopatia trascura lo studio o il lavoro e può arrivare a commettere furti o frodi. Questa patologia condivide alcuni tratti del disturbo ossessivo compulsivo, ma rappresenta un'entità a sé;
    il gioco d'azzardo patologico è una delle prime forme di «dipendenza senza droga» studiate che ha ben presto attratto l'interesse della psicologia e della psichiatria, ma anche dei mezzi di comunicazione di massa, degli scrittori e dei registi, al punto che si continua spesso a riparlarne in relazione alle sue conseguenze piuttosto serie sulla salute ed in particolare sull'equilibrio mentale che questo tipo di problema è in grado di produrre;
    per cominciare ad individuare gli indicatori della patologia da gioco, è estremamente importante chiarire innanzitutto la necessità di operare una distinzione tra giocatori d'azzardo e giocatori patologici. Per molte persone, infatti, numerosi giochi d'azzardo tra quelli elencati sono piacevoli passatempi, in taluni casi occasionali e in altri abituali, ma anche in quest'ultimo caso non significa che il gioco sia necessariamente patologico, dal momento che non è la quantità il fattore discriminante del problema. Il giocatore compulsivo, infatti, si pone lungo un continuum che conta diverse tappe dai confini spesso sfumati che vanno dal gioco occasionale, al gioco abituale, al gioco a rischio fino al gioco compulsivo. Di conseguenza, il gioco d'azzardo patologico si configura come un problema caratterizzato da una graduale perdita della capacità di autolimitare il proprio comportamento di gioco, che finisce per assorbire, direttamente o indirettamente, sempre più tempo quotidiano, creando problemi secondari gravi che coinvolgono diverse aree della vita;
    i testi scientifici dicono come un giocatore veramente dipendente sia una persona in cui l'impulso per il gioco diviene un bisogno irrefrenabile e incontrollabile, al quale si accompagna una forte tensione emotiva ed una incapacità, parziale o totale, di ricorrere ad un pensiero riflessivo e logico;
    si può parlare di una vera e propria «dipendenza dal gioco d'azzardo» se sono presenti sintomi di tolleranza, come il bisogno di aumentare la quantità di gioco, sintomi di astinenza, come malessere legato ad ansietà e irritabilità associati a problemi vegetativi o a comportamenti criminali impulsivi e sintomi di perdita di controllo manifestati attraverso incapacità di smettere di giocare. Se prevalgono altri sintomi maggiormente legati al deficit nel controllo degli impulsi, il comportamento di gioco patologico impulsivo va ricondotto soprattutto ad un problema in quest'area, senza che si possa necessariamente parlare di dipendenza;
    gli operatori del settore lanciano un ulteriore allarme su quello che diventerà una ulteriore emergenza: il disagio psicologico che investe i familiari delle persone affette da ludopatia. Dagli studi tra i più colpiti risultano essere i minori che vengono travolti da una situazione che non riescono a gestire e che provoca ansie, problemi scolastici ed altre patologie;
    di recente, l'articolo 5 del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, ha inserito la ludopatia nei livelli essenziali di assistenza (Lea), con riferimento alle prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione rivolte alle persone affette da questa patologia;
    lo Stato prevede di incassare dal settore giochi circa 35,7 miliardi di euro nel triennio 2015-2017. È quanto chiariscono le tabelle del «Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2015 e bilancio pluriennale per il triennio 2015-2017», approvato contestualmente alla legge 23 dicembre 2014, n. 190 (legge di stabilità 2015) e pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Secondo le tabelle di previsione, nel 2015 dai giochi dovrebbero arrivare oltre 11,85 miliardi: 6,6 miliardi dai proventi del lotto, oltre 4,7 miliardi dai «proventi dei giochi» e 480 milioni dalle lotterie. La cifra è destinata a salire nel 2016, fino a raggiungere quota 11,88 miliardi (sempre 6,6 miliardi dal lotto, con l'aggiunta dei 484 milioni dalle lotterie e degli oltre 4,81 miliardi di proventi giochi). La cifra è ulteriormente in rialzo fino agli 11,95 miliardi nel 2017, grazie al contributo dei 6,6 miliardi del lotto, dei 4,86 miliardi di proventi dei giochi, dei 489 milioni provenienti invece dalle lotterie;
    secondo i dati della guardia di finanza è di 23 miliardi di euro il valore del giro d'affari del gioco illegale in Italia nel 2013. Di questi 23 miliardi, ben 1,5 provengono direttamente dal gioco online. Il settore del gioco costituisce poco più del 13 per cento del giro d'affari complessivo dell'economia illegale, valutato a circa 175 miliardi di euro per l'anno appena concluso;
    nel 2013 la Guardia di finanza ha effettuato complessivamente 9.471 interventi, nel settore del monopolio del gioco e delle scommesse: di questi, 3.425 sono stati scoperti irregolari. 3.545 sono le violazioni riscontrate, 10.171 i soggetti verbalizzati. Sono stati sottoposti a controllo 2.035 punti di raccolta scommesse clandestini, collegati a bookmaker privi di concessione in Italia (in crescita del 30 per cento rispetto al 2012); sono stati rilevati 6,6 milioni di imposta unica inevasa e sono state sequestrate somme per un totale di 860 mila euro. Risultano essere 1.918 gli apparecchi di gioco non conformi sequestrati – il 25 per cento in meno rispetto all'anno precedente. La crescita più significativa si osserva però nel sequestro di locali per la raccolta di scommesse senza la concessione ministeriale: sono 557 i punti sequestrati, con un aumento del 240 per cento rispetto all'anno precedente;
    un problema di fondo continua ad essere eluso. Non si tratta di decidere se sia giusto o meno, ad esempio, stanziare 50 milioni di euro per la lotta alla ludopatia, ossia alla mania del gioco d'azzardo. Bisogna al contrario capire se le strutture pubbliche che ci sono sono davvero capaci di fare qualcosa per combattere questo brutto vizio, oppure no. Solo così si può evitare di sprecare denaro;
    tra le misure inserite nella legge di stabilità 2015 in materia di gioco, si prevedono anche misure di contrasto alla ludopatia e, in dettaglio che, «nell'ambito delle risorse destinate al finanziamento del Servizio sanitario nazionale, quello relativo all'attuazione del Patto per la salute 2014-2016, a decorrere dal 2015 una quota pari a 50 milioni di euro è annualmente destinata alla cura delle patologie connesse alla dipendenza da gioco d'azzardo». Alla ripartizione dell'importo si provvede annualmente all'atto di assegnazione delle risorse spettanti alle regioni e province autonome a titolo di finanziamento del fabbisogno sanitario standard regionale,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per sancire il divieto della pubblicità del gioco d'azzardo che rappresenterebbe un reale contrasto alla ludopatia, destinando i fondi che lo Stato ora chiede ai concessionari del settore alla pubblicità, alla cura e alla prevenzione delle patologie derivati dal gioco;
   ad assumere iniziative per modificare la legislazione vigente in modo che venga dato ai sindaci e alle giunte comunali un reale potere di controllo sulla diffusione e sull'utilizzo degli strumenti di gioco sul proprio territorio;
   ad intensificare i controlli contro il gioco clandestino, al fine di contrastare l'attività della criminalità che si è inserita nel settore, recuperando parte delle risorse che sfuggono all'erario e a destinare le medesime alla lotta alle ludopatie, restituendo la quota di 50 milioni di euro al finanziamento del Servizio sanitario nazionale;
   a promuovere protocolli precisi e stringenti che disciplinino le procedure di intervento per chi si occuperà del sostegno e del recupero sia dei soggetti affetti da ludopatie sia dei loro familiari al fine di evitare abusi e illeciti.
(1-00703)
(Nuova formulazione) «Rondini, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Cristian Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Simonetti».
(15 gennaio 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il purtroppo costante aumento in questi ultimi anni delle offerte di gioco pubblico, sempre nuove e invasive, con il conseguente forte aumento della domanda indotta, è stato favorito anche da una situazione sociale, quale quella di una crisi economica in atto, che spinge sempre più persone a cercare nella fortuna la possibile uscita dalle difficoltà economiche;
    soprattutto in questi ultimi anni lo Stato ha incentivato l'offerta di nuovi giochi, che gli hanno garantito un evidente, e molto «facile» ritorno in termini di consistenti entrate tributarie, senza però tenere in debito conto le ricadute sociali ed economiche fortemente negative connesse a questa decisione. Il gioco d'azzardo compulsivo è una forma morbosa che si sta sempre più trasformando in un'autentica malattia sociale;
    la scelta di incrementare il settore del «gioco pubblico» nel nostro Paese, se ha avuto alcuni aspetti positivi legati a una riduzione delle offerte di gioco illegali, oltre all'aumento conseguente delle entrate erariali, sta mostrando però forti e sempre più preoccupanti ricadute negative in termini di «spesa sociale». Il dilagare dei giochi e l'influenza che essi esercitano soprattutto sui soggetti psicologicamente più fragili, stanno infatti determinando e determineranno sempre di più, conseguenze pesanti a livello sociale e sulla vita di molte persone e famiglie. A questo va aggiunta l'attrattiva che questo settore esercita per le organizzazioni malavitose che hanno capitali da riciclare;
    la ricerca pubblicata nel 2009 dall'Eurispes, ha evidenziato come il fatturato dell'industria del gioco, la pone come il terzo settore del Paese;
    il 2 agosto 2012, la Commissione affari sociali della Camera, ha approvato il Documento conclusivo relativo all'indagine conoscitiva relativa agli aspetti sociali e sanitari della dipendenza dal gioco d'azzardo”;
    quanto emerso dalla suddetta indagine conoscitiva, gli italiani spendono 1200 euro pro-capite all'anno per i giochi e l'universo dei giocatori è di 30 milioni di persone, delle quali, come riferito in primo luogo dall'associazione Libera, ma ribadito anche da altri soggetti auditi, sono a rischio di dipendenza circa 2 milioni mentre sono 800 mila i giocatori patologici;
    se in Italia si stimano in 393 mila i tossicodipendenti, i giocatori patologici sono il doppio;
    giocano le persone che anche in passato cercavano di risolvere i problemi economici con il gioco, ma ora la platea si è enormemente allargata e questo ha determinato l'ampliamento della fascia della dipendenza. Sono interessati con una certa prevalenza i ceti meno abbienti e le persone più povere da un punto di vista relazionale che cercano, attraverso il gioco, di coltivare un sogno che talvolta però si traduce in un incubo. Il fenomeno è legato alla scarsa diffusione della cultura scientifica ed alla larga tendenza a convincersi di poter acquistare un sogno;
    a giocare di più sono gli uomini, con bassa scolarizzazione e tra questi prevalgono coloro hanno una situazione lavorativa precaria;
    secondo l'ANCI, che riferisce ricerche condotte sulla materia, il 10 per cento gioca ad almeno 6 o più giochi, il 10 per cento gioca più di tre volte alla settimana. Il 4,2 per cento spende parecchie centinaia di euro al mese. Il 7,2 per cento è rappresentato da giocatori a rischio e di questi il 2,1 per cento ha le caratteristiche del giocatore patologico;
    quando l'impulso a giocare si fa persistente, e diventa difficile porvi dei limiti, il gioco d'azzardo si definisce patologico, ossia diventa una vera e propria malattia. Il giocatore patologico è colui che gioca più denaro di altri, più a lungo e più spesso di quanto lui stesso ha previsto e soprattutto più di quanto si può permettere. E ciò accade perché ha perso la libertà di astenersi;
    sono migliaia i giocatori patologici in terapia nei SERD (servizio per le dipendenze), ossia i centri per le dipendenze delle nostre Asl, che ora si occupano – con zero risorse in più – oltre che di alcolisti, tossicodipendenti e altro, anche dei malati da gioco. Altri malati si appoggiano invece ad associazioni di volontariato e centri di ascolto. Tra queste persone in cura nei SERD, circa il 40 per cento sono precari, disoccupati, pensionati, casalinghe, fasce deboli della popolazione;
    molto spesso poi, il gioco d'azzardo patologico (g.a.p.) è accompagnato da altre dipendenze, quali alcool, sostanze stupefacenti, e pertanto si rende necessario instaurare percorsi di cura integrati fra SERD e i centri per la salute mentale;
    una più recente indagine sul gioco d'azzardo nei minori, condotta da Datanalysis e promossa da SIMPe e l'Osservatorio Nazionale sulla salute dell'infanzia e dell'adolescenza (Paidòss) e presentata all'International Pediatric Congress on Environment, Nutrition and Skin Diseases, organizzato a Marrakech dal 24 al 26 aprile 2014, ha evidenziato come sono circa 800mila gli adolescenti italiani fra i 10 e i 17 anni che giocano d'azzardo e 400mila i bimbi fra i 7 e i 9 anni che si sono già avvicinati al mondo di lotterie, scommesse sportive, bingo e altro. Inoltre in più della metà delle famiglie, i computer di casa non hanno filtri per impedire di accedere ai siti per il gioco on-line vietati ai minori. Si tratta di uno studio che tratteggia scenari preoccupanti, per questo parte dai pediatri dalla SIMPe, la società italiana medici pediatri, una campagna di sensibilizzazione «Ragazzi in gioco» rivolta ai professionisti e agli studenti delle scuole;
    la medesima indagine, ha segnalato come il 35 per cento degli adulti conosce ragazzini che frequentano sale giochi e in un caso su tre vi ha incontrato minori, dai quali peraltro ha ricevuto la richiesta di giocare al loro posto per eludere i divieti che impediscono alcune tipologie di scommesse a chi non è maggiorenne;
    come ricordato dalla campagna di sensibilizzazione di «Mettiamoci in gioco» contro i rischi del gioco d'azzardo, presentata il 14 novembre 2014, e promossa da Acli, Ada, Adusbef, Anci, Anteas, Arci, Associazione Orthos, Auser, Aupi, Avviso Pubblico, Azione Cattolica Italiana, Cgil, Cisl, Cnca, Conagga, Ctg, Federazione Scs-Cnos/Salesiani per il sociale, Federconsumatori, FeDerSerD, Fict, Fitel, Fp Cgil, Gruppo Abele, InterCear, Ital Uil, Lega Consumatori, Libera, Scuola delle Buone Pratiche/Legautonomie-Terre di mezzo, Shaker-pensieri senza dimora, Uil, Uil Pensionati, Uisp, il gioco d'azzardo ha conosciuto una fortissima crescita nel nostro Paese, che rimane tra i primi al mondo per consumo di giochi. Si è passati da un fatturato di 24,8 miliardi di euro nel 2004 agli 88,5 miliardi di euro del 2012. Solo nel 2013 vi è stato un leggero calo del fatturato (84,7 miliardi di euro);
    come sottolineato dal comunicato della suddetta campagna, il 56,3 per cento del fatturato viene dagli «apparecchi» (slot machine e VLT), ma è in significativa ascesa il gioco on-line;
    al crescere del fatturato non sono però seguiti maggiori introiti per le casse dello Stato. Come ricorda il comunicato della campagna «Mettiamoci in gioco», nel 2004, l'erario ha incassato dal gioco azzardo 7,3 miliardi di euro (il 29,4 per cento del fatturato complessivo), mentre nel 2013 ha registrato un'entrata di 8,1 miliardi (pari al 9,5 per cento del fatturato, nel 2013 era stato addirittura il 9 per cento). Dunque, una cifra non indifferente per le finanze pubbliche, ma molto più bassa del giro d'affari attivato dal settore, con le sue pesanti ricadute sociali e sanitarie che comportano un notevole dispendio di risorse economiche per farvi fronte;
    va ricordato che il 29 gennaio 2014, è stata depositata alla Camera una proposta di legge d'iniziativa popolare recante «Disposizioni per il divieto del gioco d'azzardo», che propone una soluzione radicale del problema, ossia il divieto assoluto e totale dei giochi con puntata di denaro, da considerare giochi d'azzardo (uniche eccezioni: il lotto, escluso il lotto istantaneo, le lotterie nelle loro varie forme e le scommesse sugli eventi sportivi);
    il CNR stima in 17 milioni (42 per cento delle persone residenti in Italia tra i 15 e i 64 anni) il numero di coloro che hanno giocato almeno una volta in un anno, in 2 milioni gli italiani a rischio minimo e in circa un milione i giocatori ad alto rischio (600-700mila) o già patologici (250-300mila);
    le patologie connesse alla dipendenza da gioco d'azzardo ancora oggi non sono state inserite all'interno dei livelli essenziali di assistenza (Lea), nonostante che già l'allora decreto-legge n. 158 del 2012 (cosiddetto decreto Balduzzi) avesse previsto che l'aggiornamento dei Lea, comprensivo di dette patologie, avrebbe dovuto essere aggiornato entro dicembre 2012;
    la legge n. 190 del 2014 (legge di stabilità per il 2015) ha disposto uno stanziamento a partire dal 2015, nell'ambito delle risorse destinate al finanziamento del Servizio sanitario nazionale, di una quota pari a 50 milioni di euro da destinare alla prevenzione, alla cura e alla riabilitazione delle patologie connesse alla dipendenza da gioco d'azzardo;
    inoltre, in attesa del riordino della disciplina in materia di giochi pubblici che discenderà dai decreti attuativi di cui all'articolo 14 della legge n. 23 del 2014, (cosiddetta delega fiscale) volti, tra l'altro, ad affrontare la spinosa questione della rimodulazione degli aggi e dei compensi ai concessionari dei giochi, la suddetta legge di stabilità 2015 interviene prevedendo, a fini condonistici, una maggiore imposizione fiscale per quegli operatori del settore presenti nel nostro Paese senza una regolare licenza;
    dette disposizioni, che vorrebbero operare nel solco di assicurare una maggiore tutela delle fasce sociali più deboli ed esposte, e dei minori d'età, nonché una maggiore prevenzione e contrasto alla «ludopatia», sono però affiancate, con una sorta di vera e propria schizofrenia normativa, da norme che testimoniano l'inconfessato obiettivo del Governo di proseguire con politiche espansive dell'azzardo;
    lo Stato conta infatti di incassare nel triennio 2015-2017, grazie a giochi, lotto e lotterie, circa 35,7 miliardi di euro così ripartiti: oltre 11,85 miliardi nel 2015; 11,88 miliardi nel 2016; 11,95 miliardi nel 2017, con un aumento dell'entrate tributarie pari a +2,5 per cento;
    va inoltre segnalato come il Governo, interrogato lo scorso 21 ottobre 2014 presso la Commissione finanze con l'atto di sindacato ispettivo n. 5/03835 con il quale veniva sollevata la questione della mancata pianificazione nazionale di cui all'articolo 7, comma 10 del decreto legge n.158 del 2012, (cosiddetto decreto Balduzzi) da parte all'Amministrazione autonoma dei monopoli, alla quale lo stesso decreto attribuisce competenza decisoria esclusiva in tema di distribuzione delle sale giochi sul territorio, ed il mancato coinvolgimento fino ad oggi degli enti locali al procedimento di autorizzazione e di pianificazione, come del resto previsto dalla stessa legge di delega fiscale, ha dato una risposta, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, elusiva che non solleva quei comuni che nel frattempo hanno, invece, stabilito con proprio regolamento per ragioni di ordine pubblico distanze minime dai luoghi sensibili dal soccombere ai ricorsi presentati nei loro confronti,

impegna il Governo:

   a provvedere in tempi rapidi all'aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza (Lea), e all'inserimento all'interno dei medesimi, delle patologie connesse alla dipendenza da gioco d'azzardo;
   ad attivarsi fin da subito, con proprie iniziative normative, affinché la propaganda pubblicitaria del gioco d'azzardo, in tutte le sue forme, venga vietata nel territorio nazionale;
   ad assumere iniziative per stanziare ulteriori indispensabili risorse a integrazione di quelle, peraltro insufficienti, già previste dalla legge n. 190 del 2014, per la prevenzione, la cura e la riabilitazione delle patologie connesse alla dipendenza da gioco d'azzardo, con particolare riferimento al rafforzamento dei SERD (servizi per le dipendenze) per la presa in carico dei giocatori patologici;
   a prevedere, laddove necessario, opportune forme di sostegno finanziario anche diretto, nei confronti dei soggetti coinvolti e dei loro nuclei familiari;
   a individuare, quale ulteriore fonte di finanziamento della cura e riabilitazione per le suddette patologie, una quota delle entrate derivanti dal gioco lecito – a carico quindi sia dello Stato che dei concessionari e gestori – nonché una quota delle sanzioni comminate a concessionarie o gestori degli apparecchi da gioco;
   a individuare forme e modalità premiali e un pubblico riconoscimento agli esercizi commerciali che si impegnano, per un determinato numero di anni, a rimuovere o a non installare apparecchiature per giochi con vincita in denaro;
   a introdurre idonei sistemi automatici per impedire l'accesso alle slot e ai giochi on-line, da parte dei minori;
   ad assumere iniziative per vietare l'esercizio di nuove sale da gioco e di nuovi punti vendita in cui si esercita come attività principale l'offerta di scommesse a una distanza inferiore a 500 metri da scuole di ogni ordine e grado, strutture sanitarie, luoghi di culto, centri di aggregazione e altri luoghi sensibili, prevedendo nelle more dell'applicazione della suddetta distanza minima nonché dell'emanazione dei decreti attuativi di cui al citato articolo 14 della legge n. 23 del 2014, che l'Amministrazione autonoma dei monopoli si uniformi, con proprie direttive, a quanto ad oggi già disposto dai singoli comuni in tema di regolamentazione di distanze dai luoghi sensibili, al fine di dare tempestiva regolamentazione ad un settore particolarmente delicato;
   ad assumere comunque, per quanto di competenza, iniziative normative che attribuiscano ai sindaci competenze in materia di apertura, ubicazione e orari delle sale da gioco;
   a introdurre un criterio per regolare e limitare le nuove autorizzazioni e sospendere la proliferazione dei giochi d'azzardo, individuando opportuni parametri a cui agganciarsi, quali, per esempio il tasso di crescita del Paese, o un determinato rapporto tra le autorizzazioni per nuove sale giochi e i cittadini residenti;
   ad agevolare, per quanto di propria competenza, l’iter delle proposte di legge in materia, già all'esame della Commissione affari sociali della Camera dal settembre 2013.
(1-00706)
«Nicchi, Matarrelli, Paglia, Ricciatti, Ferrara, Franco Bordo, Scotto».
(15 gennaio 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    come noto, per ludopatia (o gioco d'azzardo patologico) si intende l'incapacità di resistere all'impulso di giocare d'azzardo o fare scommesse, nonostante l'individuo che ne è affetto sia consapevole che questo possa portare a gravi conseguenze. Per continuare a dedicarsi al gioco d'azzardo e alle scommesse, chi è affetto da ludopatia trascura lo studio o il lavoro e può arrivare a commettere furti o frodi;
    questa patologia condivide alcuni tratti del disturbo ossessivo compulsivo, ma rappresenta un'entità a sé. È stata individuata come evidenza scientifica già dal 1980 da parte dell'Associazione degli psichiatri americani, ed il gioco d'azzardo patologico è presente già dal 1994 nel «Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali» classificato come «disturbo del controllo degli impulsi».;
    recentemente, poi, l'Organizzazione mondiale della sanità ha inserito il gioco d'azzardo patologico tra i disturbi delle abitudini e degli impulsi in forte comorbilità con altri quadri patologici quali depressione, ipomania, disturbo bipolare, impulsività, abuso di sostanze (alcol, tabacco, sostanze psicoattive illegali), disturbi di personalità (antisociale, narcisistico, borderline), deficit dell'attenzione con iperattività, disturbi da attacchi di panico con o senza agorafobia, disturbi fisici associati allo stress (ulcera peptica, ipertensione arteriosa);
     il tema del gioco d'azzardo patologico è ormai assurto all'attenzione delle aule parlamentari, dove con chiarezza sono emersi i contorni preoccupanti del problema e si è iniziato a lavorare per la realizzazione di iniziative finalizzate alla prevenzione e alla cura di questa dipendenza;
    nella scorsa legislatura, nel corso dell'audizione svolta presso la XII Commissione affari sociali della Camera dei deputati nel contesto dell'indagine conoscitiva sugli aspetti sociali e sanitari della dipendenza dal gioco d'azzardo, è stato evidenziato come la dipendenza da gioco d'azzardo presenti «quadri clinici, che hanno in comune con la dipendenza da sostanze (alcol e stupefacenti) il comportamento compulsivo che produce effetti seriamente invalidanti»;
    nell'ambito della stessa indagine conoscitiva, è inoltre emerso che particolare attenzione deve essere riservata al problema dell'accesso al gioco d'azzardo da parte dei minori. In Italia, infatti, il fenomeno interessa circa 450.000 studentesse e 720.000 studenti, ovvero il 47,1 per cento dei giovani che frequentano le scuole secondarie di secondo grado. Tra i maschi in genere il disturbo inizia negli anni dell'adolescenza, mentre nelle donne inizia all'età di 20-40 anni;
    inoltre, da quanto emerge dagli ultimi dati dello studio Ipsad (Italian population survey on alcohol and other drugs) dell'Istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa, nei 3 anni dal 2008 al 2011, la percentuale di persone tra i 15 e i 64 anni che ha puntato soldi almeno una volta su uno dei tanti giochi presenti sul mercato (Lotto, Superenalotto, Gratta e vinci, scommesse sportive, poker on line) è passata dal 42 al 47 per cento. Si tratta di circa 19 milioni di scommettitori, di cui ben 3 milioni a rischio ludopatia, soprattutto uomini, disoccupati e persone con un basso livello di istruzione;
    dai dati registrati, emerge la crescita, anche tra gli adolescenti, della «febbre del gioco»: ammonta a più di un milione il numero di studenti che hanno riferito, nel 2012, di aver puntato denaro sui giochi e, nonostante una chiara legislazione restrittiva per i minori, risulta che ben 630.000 under 18 hanno speso almeno 1 euro giocando d'azzardo;
    secondo l'indagine condotta sempre dall'Ipsad, che ha coinvolto 45.000 studenti delle scuole superiori e 516 istituti scolastici di tutta la nazione, nell'ultimo anno il 45,3 per cento degli studenti ha puntato somme di denaro. Ad essere maggiormente coinvolti nel gioco risultano essere i ragazzi (55,1 per cento contro il 35,8 per cento delle ragazze) e si stima che siano 100.000 gli studenti che già presentano un profilo di rischio moderato e 70.000 quelli con una modalità di gioco problematica;
    dai recenti dati elaborati dall'Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, emerge per il comparto giochi una raccolta di 62 miliardi e 355 milioni di euro nel periodo gennaio-ottobre 2012, l'esistenza di 400.000 apparecchi da intrattenimento e 6.181 locali o agenzie autorizzati, frequentati da 15 milioni di giocatori abituali;
    l'articolo pubblicato su Avvenire il 13 giugno 2013 riporta i dati preoccupanti elaborati dalla Consulta Nazionale delle fondazioni e associazioni antiusura, in base ai quali la dedizione ossessiva a slot machine, videopoker e gratta e vinci sottrae ogni anno 70 milioni di ore lavorative e dirotta almeno 20 miliardi di euro dall'economia reale, cancellando così 115.000 posti di lavoro;
    lo stesso articolo pubblica i dati emersi dallo studio del sociologo Maurizio Fiasco, consulente della Consulta, che quantifica l'emorragia economica provocata dall'azzardo e il tempo usato dai giocatori per le diverse tipologie di azzardo; si legge nell'articolo «le nuove slot machine hanno totalizzato 28 miliardi di giocate, pari a oltre 46 milioni di ore passate a schiacciare tasti; 5 miliardi le giocate alle videolottery (8,3 milioni di ore); 2,2 miliardi per le “grattate” sui Gratta e vinci (quasi 37 milioni di ore); 15 miliardi le giocate on line (circa 167 milioni di ore); 35 miliardi le giocate a lotto, superenalotto e altri giochi tradizionali (230 milioni di ore). Totale: 49 miliardi di operazioni di gioco, pari a 69 milioni 760.000 ore perse inseguendo un miraggio»;
    secondo il sociologo, inoltre, l'azzardo «drena risorse ai consumi, già in forte contrazione»: se nel 2012 sono stati giocati 90 miliardi, tenendo conto del pay out, cioè le vincite, sono almeno 20 i miliardi di euro sottratti al commercio e ai servizi destinati alla vendita. Lo studio ha anche calcolato il «potenziale di occupazione dissipato dalla spesa per giochi, valutabile in circa 90.000 addetti nel commercio e servizi e circa 25.000 addetti nell'industria»;
    l'articolo 5 del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, recante «Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute» ha inserito la ludopatia nei livelli essenziali di assistenza (Lea), con riferimento alle prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione rivolte alle persone affette da questa patologia;
    tuttavia, se da un verso è indispensabile prevedere forme di riabilitazione per tale patologia, è ancora più importante attenzionare il fenomeno sul versante della prevenzione, poiché nulla è stato fatto fino ad ora su questo aspetto;
    l'articolo 7 del decreto citato, infatti, si limita a raccomandare ai «gestori di sale da gioco e di esercizi in cui vi sia offerta di giochi pubblici, ovvero di scommesse su eventi sportivi, anche ippici, e non sportivi» di «esporre, all'ingresso e all'interno dei locali, il materiale informativo predisposto dalle aziende sanitarie locali, diretto a evidenziare i rischi correlati al gioco e a segnalare la presenza sul territorio dei servizi di assistenza pubblici e del privato sociale dedicati alla cura e al reinserimento sociale delle persone con patologie correlate alla g.a.p. (gioco d'azzardo patologico)». Viene inoltre raccomandato di «inserire formule di avvertimento sul rischio di dipendenza dalla pratica di giochi con vincite in denaro (...) schedine, tagliandi di gioco (...) su apposite targhe esposte nelle aree ovvero nelle sale in cui sono installati i videoterminali (dedicati a gioco d'azzardo) e al momento dell'accesso dei siti Internet». Misure che comunque si sono rilevate assolutamente insufficienti per prevenire il fenomeno;
    è ormai innegabile che stiamo di fronte ad una «nuova malattia sociale» che, sovente, genera fenomeni di disgregazione familiare e di impoverimento totale, oltre ad un aumento esponenziale del rischio di cadere nel gravissimo fenomeno dell'usura ed in patologiche dipendenze. È per questo che occorre un'azione forte e decisa perché nel più breve tempo possibile possano essere poste in essere tutte le disposizioni volte ad arginare e a prevenire il fenomeno della ludopatia,

impegna il Governo:

   ad assumere ogni iniziativa utile al fine di regolamentare l'apertura delle sale da gioco ovvero dei locali commerciali con slot, ad una distanza di sicurezza pari almeno a 500 metri rispetto a luoghi sensibili, quali scuole, ospedali, farmacie e altro e comunque proporzionando il numero dei locali adibiti al gioco al numero degli abitanti residenti;
   a prevedere adeguati meccanismi di controllo al fine di non permettere la partecipazione a slot o comunque l'ingresso in sale da gioco ai minori d'età, se del caso prevedendo anche sanzioni amministrative pecuniarie per i gestori delle sale o per i somministratori dei giochi;
   ad assumere ogni iniziativa utile al fine di evitare il riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite legate al gioco d'azzardo.
(1-00707) «Palese».
(15 gennaio 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    in Italia il fenomeno del gioco d'azzardo è in continua crescita e in questi anni sta assumendo dimensioni sempre più rilevanti, come si può rilevare dall'andamento delle statistiche dell'Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato relative alla quantità di denaro giocato. In parallelo si stanno anche rafforzando le evidenze scientifiche che dimostrano come la pratica del gioco d'azzardo possa dar luogo a forme di vera e propria dipendenza (gioco d'azzardo patologico) o a comportamenti a rischio (gioco d'azzardo problematico);
    i dati aggiornati ad ottobre 2012 confermano la grande espansione del gioco d'azzardo in tutta Italia, con il primato per il fatturato della Lombardia (1.284 milioni di euro), seguita nell'ordine dal Lazio (797), dalla Campania (688), dell'Emilia-Romagna (573), del Veneto (503), del Piemonte (484), della Sicilia (468), della Puglia (438), della Toscana (433), dell'Abruzzo (203). Per quanto riguarda la spesa pro capite al primo posto si colloca l'Abruzzo con 155,28 euro a testa, seguito da Lazio (144,83), Lombardia (132,31), Emilia-Romagna (131,96), Molise (127,52), Liguria (122,23), Marche (121,97), Campania (119,30), Umbria (118,74), Valle D'Aosta (118,29), Toscana (117,91);
    il gioco d'azzardo è la terza industria italiana, con il 3 per cento del prodotto interno lordo nazionale, 5.000 aziende, 120.000 addetti, 400.000 slot machine, 6.181 punti gioco autorizzati, oltre il 15 per cento del mercato europeo e oltre il 4,4 per cento del mercato mondiale, il 23 per cento del mercato mondiale del gioco on-line. Nel 2011 sono stati giocati 79.814 miliardi di euro, 70.262 miliardi di euro nei primi 10 mesi del 2012, il 12 per cento della spesa delle famiglie italiane. Sono 15 milioni i giocatori abituali, 2 milioni quelli a rischio patologico, circa 800.000 i giocatori già malati. Sono necessari 5-6 miliardi di euro l'anno per curare i dipendenti dal gioco, mentre le tasse incassate dallo Stato sono 8 miliardi di euro;
    le persone più interessate al gioco sono le fasce più deboli e fragili della società: giocano il 47 per cento degli indigenti, il 56 per cento delle persone appartenenti al ceto medio-basso; il 70,8 per cento di chi ha un lavoro a tempo indeterminato, l'80,2 per cento dei lavoratori saltuari, l'86,7 per cento dei cassintegrati. Giocano di più e con più soldi i ragazzi delle scuole professionali, e giocano il 61 per cento dei laureati, il 70,4 per cento di chi ha il diploma superiore, l'80,3 per cento di chi ha la licenza media. Giocano anche gli adolescenti: si stima che giochi il 47,1 per cento degli studenti tra i 15 e i 19 anni: il 58,1 per cento dei ragazzi e il 36,8 per cento delle ragazze. Gli adolescenti sono più a rischio dipendenza: circa il 4-8 per cento ha un problema di gioco e il 10-14 per cento è a rischio di diventare giocatore patologico. Giocano pure i bambini: l'8 per cento dei bambini tra i sette e gli undici anni gioca con denaro on-line;
    la dipendenza dal gioco è una vera e propria malattia che compromette lo stato di salute fisica e psichica del giocatore, il quale non riesce a uscirne da solo. Il malato di gioco (gioco d'azzardo patologico) è cronicamente e progressivamente incapace di resistere all'impulso di giocare e spesso si trova nella condizione di dover chiedere prestiti a usurai o a fonti illegali; a volte giunge alla perdita del lavoro per assenteismo. Tutto questo produce sofferenza e difficoltà di relazione anche all'interno della famiglia;
    le sale giochi proliferano sempre di più in tutti i centri urbani e, tuttavia, le amministrazioni locali non riescono ad intervenire efficacemente per fermare il dilagante fenomeno, anche per la mancanza di poteri effettivi da parte delle autorità comunali di imporre norme restrittive in grado di impedire almeno la vicinanza delle sale giochi con i luoghi cosiddetti «sensibili» o per far rispettare una distanza congrua fra una sala e l'altra;
    il gioco d'azzardo on-line, conosciuto anche da molti come gambling on-line, sta diventando sempre più pericoloso, proprio perché, a differenza di quello terrestre, abbatte tutte le inibizioni;
    sul portale dell'Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato sezione gioco è possibile avere un'ampia informazione su tutti i giochi presenti suddivisi per: gioco del lotto; giochi numerici a totalizzatore; giochi a base sportiva; giochi a base ippica; apparecchi da intrattenimento; giochi di abilità, carte, sorte a quota fissa; lotterie; bingo; gioco a distanza; mentre non vi sono dati circa il fenomeno del gioco in Italia, né dati aggiornati sono presenti sul sito del Ministero della salute o sul sito della Presidenza del Consiglio dei ministri, dipartimento antidroga;
    diversamente dal modello legislativo e giurisprudenziale europeo, che è influenzato da principi di libera concorrenza, a livello nazionale si ritiene invece che il gioco d'azzardo debba essere sottoposto a concessione, distinguendolo dalle altre attività di gioco. Il tutto allo scopo di evitare e prevenire possibili infiltrazioni del crimine organizzato e/o fenomeni di illegalità e di garantire che si tratti di un'attività regolamentata e trasparente;
    nel corso della passata legislatura la Commissione parlamentare affari sociali ha promosso un'indagine conoscitiva sugli aspetti sociali e sanitari della dipendenza dal gioco d'azzardo dalla quale è emerso nel testo conclusivo l'esigenza di disporre di una conoscenza dei dati epidemiologici tecnicamente e scientificamente validati, la necessità di nuove regole per limitare l'offerta dei giochi, tutelare i minori, liberare l'industria del gioco dagli inquinamenti della malavita ed affrontare il tema della presa in carico dei giocatori patologici;
    in questi ultimi anni più volte il Parlamento e il Governo sono intervenuti a normare questa materia, basta ricordare:
     a) il decreto-legge n. 158 del 2012 (cosiddetto decreto Balduzzi), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, che all'articolo 5, comma 2, ha riconosciuto la ludopatia come una patologia che caratterizza i soggetti affetti da sindrome da gioco con vincita in denaro, così come definita dall'Organizzazione mondiale della sanità, prevedendo anche l'aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza con riferimento alle prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione rivolte alle persone affette da ludopatia; all'articolo 7, comma 4, dispone dal 1o gennaio 2013, al fine di contenere la diffusione delle dipendenze dalla pratica di gioco con vincite in denaro, il divieto di messaggi pubblicitari di giochi con vincite in denaro nelle trasmissioni televisive, radiofoniche e nelle rappresentazioni teatrali o cinematografiche rivolte prevalentemente ai giovani; su giornali, riviste, pubblicazioni, durante trasmissioni televisive e radiofoniche, rappresentazioni cinematografiche e teatrali, nonché via internet, che incitano al gioco ovvero ne esaltano la sua pratica, ovvero che hanno al loro interno dei minori, ovvero che non avvertono del rischio di dipendenza dalla pratica del gioco; al comma 4-bis dispone che la pubblicità dei giochi che prevedono vincite in denaro deve riportare in modo chiaramente visibile la percentuale di probabilità di vincita che il soggetto ha nel singolo gioco pubblicizzato; infine il comma 5-bis prevede che il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca segnali agli istituti di istruzione primaria e secondaria la valenza educativa del tema del gioco responsabile affinché gli istituti, nell'ambito della propria autonomia, possano predisporre iniziative didattiche volte a rappresentare agli studenti il senso autentico del gioco e i potenziali rischi connessi all'abuso o all'errata percezione del medesimo;
     b) la legge 11 marzo 2014, n. 23 (cosiddetta delega fiscale), all'articolo 14, ove si prevede che il Governo è delegato ad attuare il riordino delle disposizioni vigenti in materia di giochi pubblici, indicando, tra i principi e criteri direttivi cui deve uniformarsi, l'introduzione e la garanzia di ”applicazione di regole trasparenti e uniformi nell'intero territorio nazionale in materia di titoli abilitativi all'esercizio dell'offerta di gioco, di autorizzazioni e di controlli, garantendo forme vincolanti di partecipazione dei comuni competenti per territorio al procedimento di autorizzazione e di pianificazione, che tenga conto di parametri di distanza da luoghi sensibili validi per l'intero territorio nazionale, della dislocazione locale di sale da gioco e di punti di vendita in cui si esercita come attività principale l'offerta di scommesse su eventi sportivi e non sportivi, nonché in materia di installazione degli apparecchi idonei per il gioco lecito;
     c) la legge n. 190 del 23 dicembre 2014 (legge di stabilità 2015) all'articolo 1, comma 133, dove si prevede che nell'ambito delle risorse destinate al finanziamento del Servizio sanitario nazionale a decorrere dall'anno 2015 una quota pari a 50 milioni di euro è annualmente destinata alla prevenzione, alla cura e alla riabilitazione delle patologie connesse alla dipendenza da gioco d'azzardo come definita dall'Organizzazione mondiale della sanità. Una quota delle risorse, nel limite di 1 milione di euro per ciascuno degli anni 2015, 2016 e 2017, è destinata alla sperimentazione di modalità di controllo dei soggetti a rischio di patologia, mediante l'adozione di software che consentano al giocatore di monitorare il proprio comportamento generando conseguentemente appositi messaggi di allerta, nonché lo spostamento sotto il Ministero della salute dell'Osservatorio nazionale istituito ai sensi dell'articolo 7, comma 10, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189,

impegna il Governo:

   a dare rapida attuazione a quanto disposto dall'articolo 14 della legge 11 marzo 2014, n. 23, con l'emanazione dei previsti decreti sul riordino della normativa in materia di giochi pubblici e del regime autorizzativo all'esercizio dell'offerta di gioco;
   a predisporre canali ufficiali di informazione nonché una divulgazione periodica con cadenza annuale dei dati statistici relativi al gioco d'azzardo, con particolare attenzione ai dati relativi ai giocatori, alle somme giocate e ai territori più coinvolti;
   ad assumere iniziative per attribuire ai comuni le opportune competenze in materia di pianificazione dell'ubicazione di sale gioco e punti di vendita in cui si esercita l'offerta di scommesse, nonché in materia di installazione di apparecchi idonei per il gioco lecito, anche al fine di garantire il rispetto di parametri di distanza da luoghi sensibili validi per l'intero territorio nazionale;
   ad assumere iniziative per adottare le necessarie disposizioni tese ad impedire l'accesso dei minori ai locali adibiti al gioco d'azzardo e agli apparecchi di gioco, nonché a tutelare i soggetti maggiormente vulnerabili e a rischio di gioco d'azzardo patologico;
   ad assumere iniziative per l'introduzione di nuove disposizioni vincolanti in materia di pubblicità del gioco d'azzardo, con particolare attenzione alla tutela dei minori e dei soggetti vulnerabili, nonché all'esigenza di vietare messaggi pervasivi oppure ingannevoli o illusori circa le probabilità di vincita;
   a valutare possibili iniziative utili a prevenire l'eventualità che gli apparecchi per il gioco d'azzardo divengano strumenti di riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite;
   a garantire attraverso il Ministero della salute adeguate risorse destinate alla cura e alla riabilitazione delle patologie connesse alla dipendenza da gioco d'azzardo;
   a predisporre, anche attraverso l'Osservatorio nazionale sulla dipendenza da gioco d'azzardo patologico, campagne di informazione e sensibilizzazione sui rischi connessi al gioco d'azzardo patologico.
(1-00710)
«Garavini, Miotto, Beni, Lenzi, Causi, Ginato, Gelli, Murer, Carnevali, Sbrollini, D'Incecco, Sgambato, Fabbri».
(15 gennaio 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il settore del gioco d'azzardo legale, composto da circa 5000 aziende che danno lavoro a 120 mila persone, è pari al 4 per cento del prodotto interno lordo, con un giro d'affari registrato, nel 2012, di circa 90 miliardi di euro ed entrate erariali attestate su oltre 8 miliardi di euro, e di circa 85 miliardi di euro nel 2013 (-4,34 per cento sul 2012), con un gettito erariale comunque superiore dell'1,64 per cento rispetto a quello di due anni fa;
    i dati dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli permettono di inquadrare il fenomeno del gioco d'azzardo e rilevare la preponderanza delle slot machine (56,7 per cento), seguite dalle lotterie (12,7 per cento) e dal lotto (8,5 per cento). Ci sono poi i giochi on-line (1,3 per cento) e i giochi di abilità a distanza con vincite in denaro, chiamati attualmente skill game (7,7 per cento);
    come dimostrato da diversi studi dell'Istituto Bruno Leoni, la più recente legislazione italiana ha consentito di ottenere un abbattimento della quota del gioco illegale, passata in pochi anni dal 57 per cento del mercato nel 2003 all'8 per cento del 2013. Tale significativo risultato consente di comprimere tutte le attività dell'intero mondo del malaffare che gravita intorno al gioco illegale, destinato invece a subire il rischio di una nuova espansione qualora si cedesse alla tentazione di eccessivi inasprimenti della normativa fiscale in materia, come da più parti spesso grossolanamente invocato. Va inoltre considerato come, negli ultimi anni, la somma vinta dai giocatori (payout) è cresciuta molto più rapidamente del giro d'affari complessivo del settore e, dunque, la differenza tra giocate e vincite (ricavo effettivo del settore) è cresciuta a percentuali più ridotte rispetto sia al payout che al giro d'affari;
    secondo le cifre della Guardia di finanza diffuse da Il Sole 24 Ore, ben 23 miliardi dei 175 miliardi di euro messi in moto dall'economia illegale sono riferiti al giro d'affari dei giochi illegali e dei 5 miliardi di euro del giro d'affari on-line circa 1,5 miliardi di euro sono la quota parte dei giochi gestiti illegalmente. Altre stime diffuse dall'associazione Libera indicano in 10-15 miliardi di euro il fatturato del mercato illegale dei giochi, un mercato in cui operano 41 clan. Nel 2013 inoltre la Guardia di finanza ha effettuato oltre 9 mila interventi, scoprendo violazioni in 3.500 casi a carico di 10 mila responsabili e 1.934 punti di scommessa clandestini, sequestrando 2.035 congegni e apparecchi di divertimento e rilevando scommesse non assoggettate ad imposta per 123 milioni di euro, mentre nello stesso anno l'Agenzia delle dogane e dei monopoli ha inibito 418 siti irregolari pari a 1 milione e mezzo di tentativi di accesso. Non è da sottovalutare infine che l'ammontare del mancato introito fiscale annuo dal gioco illegale viene stimato in 1 miliardo e 600 milioni di euro;
    l'attività del gioco d'azzardo, legale ed illegale, può purtroppo innescare nei giocatori abituali meccanismi psicologici di tipo ossessivo-compulsivo che inducono in veri e propri stati di dipendenza patologica, devastanti per lo stato di salute dei soggetti colpiti e spesso altrettanto rovinosi per gli equilibri economici delle famiglie;
    tale dipendenza da gioco d'azzardo patologico configura una vera e propria patologia, riconosciuta nell'ambito dei livelli essenziali di assistenza grazie al «decreto Balduzzi» del 13 settembre 2012 e per questo merita pertanto adeguate risorse economiche dedicate alle attività di prevenzione, di diagnosi e di cura;
    da quanto emerge dall'ultimo studio Ipsad (Italian population survey on alcohol and other drugs) dell'Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa, nei tre anni dal 2008 al 2011, la percentuale di persone tra i quindici e i sessantaquattro anni che ha puntato soldi almeno una volta su uno dei tanti giochi presenti sul mercato è passata dal 42 al 47 per cento; si tratta di circa 20 milioni di scommettitori, di cui ben oltre due milioni a rischio ludopatia (soprattutto uomini, disoccupati e persone con un basso livello di istruzione), senza contare che circa 800.000 già sono dipendenti dal gioco d'azzardo patologico;
    l'analisi svolta dalla Consulta nazionale delle fondazioni e associazioni antiusura ha messo in evidenza che la dedizione ossessiva a slot machine, videopoker e gratta e vinci sottrae ogni anno più di 70 milioni di ore lavorative e dirotta almeno 20 miliardi di euro dall'economia reale, cancellando così 115.000 posti di lavoro;
    una categoria particolarmente a rischio è rappresentata dai giovani. Le dinamiche del gioco d'azzardo mal si accompagnano a uno sviluppo armonico del rapporto tra libertà e responsabilità, anche per l'oggettiva difficoltà di rendersi conto in tempi brevi delle conseguenze delle loro decisioni. È soprattutto nel loro interesse e in quello delle loro famiglie che vanno individuati limiti legali adeguati, specialmente sul fronte del gioco d'azzardo on-line;
    nel corso della XVI legislatura, presso la XII Commissione affari sociali della Camera dei deputati, si è svolta e conclusa un'indagine conoscitiva relativa agli aspetti sociali e sanitari della dipendenza dal gioco d'azzardo;
    il 26 giugno 2014 la XII Commissione affari sociali della Camera dei deputati ha concluso l'esame del disegno di legge riguardante le disposizioni per la prevenzione, la cura e la riabilitazione della dipendenza da gioco d'azzardo patologico ed è in attesa dei pareri di competenza delle Commissioni parlamentari I, II, V, VI e della Commissione per le questioni regionali, mentre nella seduta della V Commissione (Bilancio, tesoro e programmazione) del 15 ottobre 2014, il Sottosegretario di Stato per l'economia e le finanze Baretta ha evidenziato la mancata trasmissione da parte del Ministro della salute degli elementi istruttori più volte sollecitati;
    il 14 luglio 2014 la Commissione europea ha adottato una raccomandazione sui servizi di gioco d'azzardo on-line che incoraggia gli Stati membri a realizzare un livello elevato di protezione per i consumatori, gli utenti e i minori grazie all'adozione di principi relativi ai servizi di gioco d'azzardo on-line e alla pubblicità e alla sponsorizzazione,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative, anche di natura normativa, per combattere il gioco illegale ed evitare il riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite tramite il gioco d'azzardo;
   a vietare l'introduzione di nuovi apparecchi e piattaforme on-line per il gioco d'azzardo a valere sulle concessioni già in essere e di nuove tipologie di giochi d'azzardo per un periodo di almeno cinque anni;
   a promuovere a livello europeo un'armonizzata regolamentazione del gioco d'azzardo on-line;
   ad attivare entro tre mesi presso il Ministero della salute l'Osservatorio nazionale sulla dipendenza da gioco d'azzardo patologico, Osservatorio che: effettua il monitoraggio della dipendenza da gioco d'azzardo patologico, con particolare riferimento ai costi sociali, economici e psicologici ad essa associati, nonché ai relativi fattori di rischio, in relazione alla salute dei giocatori e all'indebitamento delle famiglie; redige e trasmette al Ministro della salute un rapporto annuale sull'attività svolta, rapporto che può contenere anche proposte volte a migliorare il sistema degli interventi socio-sanitari e socio-assistenziali in favore dei soggetti affetti da gioco d'azzardo patologico; entro sei mesi dalla sua istituzione, definisce le linee guida per la promozione e la realizzazione di campagne informative, volte a prevenire comportamenti patologici e forme di assuefazione connessi al gioco d'azzardo; definisce linee guida per lo svolgimento di corsi di formazione sui rischi collegati al gioco d'azzardo, rivolti ai soggetti privati che esercitano attività commerciali relative ai giochi d'azzardo e tenuti da soggetti dotati di comprovata competenza ed esperienza nella materia, individuati prioritariamente tra gli operatori dei servizi per le tossicodipendenze; propone al Ministero della salute le caratteristiche del logo identificativo no slot, nonché le modalità per il rilascio in uso e per la revoca; raccoglie le osservazioni dei cittadini o di associazioni in merito al rispetto del divieto di propaganda pubblicitaria dei giochi con vincite in denaro provvedendo alla comunicazione alle autorità competenti;
   a reperire idonee risorse aggiuntive rispetto agli stanziamenti del Fondo sanitario nazionale, ed esterne allo stesso, per la garanzia del rispetto dei livelli essenziali di assistenza per la cura dei soggetti affetti da gioco d'azzardo patologico;
   ad adottare un piano nazionale per garantire le prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione rivolte alle persone affette da gioco d'azzardo patologico e ad assumere iniziative per istituire, nello stato di previsione del Ministero della salute, il fondo per la prevenzione, la cura e la riabilitazione del gioco d'azzardo patologico, al fine di finanziare gli interventi di prevenzione, di informazione, di formazione e di cura in favore delle persone affette da patologia da gioco d'azzardo patologico, nell'ambito del piano obiettivo previsto dal Ministero della salute;
   a predisporre, su iniziativa del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, d'intesa con il Ministero della salute, campagne di informazione e a promuovere progetti di educazione sui fattori di rischio connessi al gioco d'azzardo nelle scuole di ogni ordine e grado;
   ad assumere iniziative per rendere obbligatoria l'introduzione di meccanismi idonei a bloccare in modo automatico l'accesso dei minori ai giochi, mediante l'inserimento, nei software degli apparecchi da intrattenimento, dei videogiochi e dei giochi on-line, di appositi sistemi di controllo dell'accesso, per consentire l'accesso agli apparecchi da intrattenimento e ai videogiochi esclusivamente mediante strumenti di controllo dell'accesso e per far sì che ciascun apparecchio e videoterminale di gioco o tagliando delle lotterie istantanee rechi avvertenze generali e supplementari sui rischi derivanti dal gioco d'azzardo patologico e concernenti i disturbi riconducibili a tale patologia.
(1-00715)
«Vargiu, Capua, Catania, Antimo Cesaro, Cimmino, Dambruoso, Falcone, Monchiero, Molea, Quintarelli, Rabino, Vecchio, Vezzali, Vitelli, D'Agostino, Matarrese».
(19 gennaio 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    la ludopatia è la patologia che caratterizza i soggetti affetti da sindrome da gioco con vincita in denaro, così come definita dall'Organizzazione mondiale della sanità;
    la ludopatia si configura come una dipendenza senza sostanza e, per questo motivo, il ludopate non può fare a meno del gioco poiché quest'ultimo è l'elemento che gli procura sollievo momentaneo dagli stati emotivi angosciosi o depressivi;
    per ludopatia, o, come definito dal manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, per gioco d'azzardo patologico, si intende l'incapacità di resistere all'impulso di giocare d'azzardo o fare scommesse, nonostante tale comportamento determini gravi conseguenze lesive della stabilità economica, lavorativa, affettiva e relazionale;
    per continuare a dedicarsi al gioco d'azzardo e alle scommesse, infatti, la persona con problemi di ludopatia trascura le attività principali della vita, quali lo studio o il lavoro, e può arrivare a commettere furti o frodi al fine di reperire del denaro;
    la ludopatia, mediante l'instabilità emotiva e comportamentale, che sono al contempo causa e concausa della patologia, può determinare rovinose crisi economiche, fino a creare veri e propri tracolli finanziari, congiuntamente al deterioramento graduale dei rapporti umani più in generale, ed in particolare dei rapporti familiari e di coppia;
    come diretta conseguenza di una situazione esasperata, inoltre, la ludopatia si manifesta mediante l'inattendibilità ed il disinvestimento verso i doveri, fino a condurre la persona alla perdita del lavoro, oppure a determinare l'avvio dell'utilizzo di sostanze stupefacenti o una vera e propria cronicizzazione della dipendenza da alcol e/o droghe, fino a condurre, in casi estremi, al suicidio;
    l'aspetto ludico, caratteristico del gioco, diventa secondario rispetto al bisogno di rischiare, di riprovare, di continuare a tentare la fortuna anche a fronte di perdite clamorose o devastanti. Questo atteggiamento si configura come gambling, un comportamento compulsivo, la cui dinamica può essere assimilabile, pur in assenza di uso di sostanze, ad altre forme di dipendenza patologica quali la tossicodipendenza e l'alcolismo;
    il gioco d'azzardo patologico rappresenta un importante problema di salute pubblica: la dimensione del fenomeno in Italia è difficilmente stimabile in quanto, ad oggi, non esistono studi accreditati, esaustivi e validamente rappresentativi del fenomeno;
    la popolazione italiana totale è stimata in circa sessanta milioni di persone, il 54 per cento delle quali, secondo i dati del Ministero della salute relativi all'anno 2012, sarebbero giocatori d'azzardo, mentre la stima dei giocatori d'azzardo problematici varia dall'1,3 per cento al 3,8 per cento della popolazione generale, mentre la stima dei giocatori d'azzardo patologici varia dallo 0,5 per cento al 2,2 per cento;
    secondo l'Organizzazione mondiale della sanità oltre 1,3 milioni di italiani sono a rischio ludopatia, anche in considerazione del fatto che il gioco d'azzardo nel nostro Paese è la patologia da dipendenza a più rapida crescita tra i giovani e gli adulti;
    il panorama dei giochi, in Italia, ha subito profonde modificazioni nel corso degli ultimi anni: la nascita di giochi dal grande appeal per il pubblico, soprattutto più giovane, contribuisce all'innalzamento del rischio di patologie connesse al gioco;
    l'industria del gioco ha conquistato l'ottanta per cento della popolazione adulta italiana e il trenta/trentacinque per cento pratica il gioco con regolarità;
    il settore dei giochi in otto anni ha registrato un incremento del giro d'affari del 500 per cento, passando da 22 miliardi di euro nel 2004 a circa 95 miliardi di euro nel 2012, ovvero circa il 5 per cento del prodotto interno lordo nazionale e, nonostante la crisi, il gioco legale nel 2013 ha fruttato 84,7 miliardi di euro;
    il mercato dei giochi pubblici vede come motore trainante le slot machine, grazie alle quali si realizzano il 55,6 per cento del totale degli incassi;
    al 31 dicembre 2014 risultano autorizzate 379.000 new slot e sessantamila VLT, un particolare tipo di slot machine che, a differenza delle new slot che accettano monete da un euro, si attivano anche con banconote di grosso taglio, così da consentire puntate elevate, un tempo riservate ai soli casinò;
    nel 2011 le VLT raccoglievano il 28 per cento del fatturato totale delle slot, mentre nel 2012 la loro quota ha superato il quaranta per cento del totale; si trovano in sale dedicate, con vetri rigorosamente oscurati, e richiedono una specifica autorizzazione della polizia;
    altresì in progressivo aumento è il fenomeno dei giochi on-line: scommesse sportive, ippiche, poker e gratta e vinci hanno fatto registrare una crescita esponenziale, pari al 16,3 per cento;
    dal 18 luglio 2011, infatti, è possibile giocare a poker dal computer di casa, un affare da 1,5 miliardi di euro al mese, con modalità tali da non assicurare un controllo rigoroso sulla vera età dei giocatori ed è talvolta causa della migrazione di parecchi denari italiani verso altri Paesi, senza che questi possano essere intercettati dalle casse erariali;
    le altre tipologie di gioco si suddividono in lotterie (11,4 per cento), lotto (7,2 per cento); scommesse sportive (4,2 per cento), giochi numerici (2,2 per cento), bingo (2 per cento), tris (1,2 per cento);
    tale mercato, nel suo complesso, vale circa 95 miliardi di euro e nel solo 2012 è cresciuto tra il 13 per cento ed il 14 per cento rispetto al 2011;
    l'azienda del gioco, anche grazie alla costante e sfaccettata pubblicità che giunge a qualunque fascia sociale ed età anagrafica della popolazione, in Italia è ai primi posti per volume d'affari;
    l'offerta del gioco si è notevolmente diversificata negli ultimi otto anni a causa del fatto che si è reso possibile giocare pressoché in ogni dove, dal supermercato al web, coinvolgendo una platea sempre più vasta anche di soggetti deboli, ed è riuscita ad estendersi nell'arco dell'intera giornata;
    nel novembre 2013 il gruppo parlamentare Fratelli d'Italia-Alleanza nazionale ha depositato una proposta di legge recante «Norme per la prevenzione e il contrasto del gioco d'azzardo patologico, nonché in materia di pubblicità del gioco d'azzardo, di tutela dei minori e di disciplina dell'apertura di sale da gioco», esaminata congiuntamente ad altre proposte con il medesimo oggetto già a partire dal successivo mese di dicembre;
    l'esame di tali proposte di legge, tuttavia, si è arenato già nel mese di ottobre 2014 a causa di alcune problematiche connesse ai profili di rilievo finanziario delle stesse;
    durante l'esame in sede consultiva presso la Commissione bilancio della Camera dei deputati del provvedimento, in data 18 settembre 2014, il rappresentante del Governo ha evidenziato che dalla nota della Ragioneria generale dello Stato risultava la richiesta di ulteriori approfondimenti istruttori ai dicasteri competenti, con particolare riguardo al Ministero della salute, ai fini della predisposizione della relazione tecnica;
    tali approfondimenti non sono ad oggi ancora pervenuti,

impegna il Governo:

   ad intervenire con iniziative idonee a contrastare il diffondersi della patologia di cui in premessa mediante azioni coordinate sul territorio nazionale di prevenzione, cura e reinserimento sociale delle persone con ludopatia;
   a porre in essere campagne informative ed educative sul gioco d'azzardo patologico, attraverso la creazione di un portale su Internet, con particolare riguardo alla prevenzione e all'educazione dei giovani, affinché possa essere adeguatamente ridotto il rischio di gap mediante interventi finalizzati all'acquisizione di consapevolezza in tutta la popolazione;
   a fissare le linee guida per lo sviluppo degli interventi di prevenzione, cura e reinserimento delle persone affette da ludopatia;
   a fissare le linee guida per lo sviluppo di sistemi di rilevamento e monitoraggio del fenomeno sul territorio nazionale;
   a promuovere e sviluppare interventi di prevenzione mirata nelle scuole primarie e secondarie, a valenza educativa, inerenti i rischi e le forme del gioco d'azzardo patologico;
   ad assumere iniziative per istituire un sistema individuale, come la «tessera del giocatore», al cui rilascio sarà subordinato l'accesso alle sale da gioco fisiche o virtuali e che servirà a monitorare i comportamenti di gioco nel pieno rispetto della privacy;
   ad assumere iniziative per porre un limite all'apertura di nuove sale da gioco di almeno seicento metri rispetto alle aree ritenute sensibili come scuole, ospedali, luoghi di culto o di aggregazione giovanile;
   ad assumere iniziative per prevedere, per gli esercizi pubblici che mettono a disposizione della loro utenza dei computer con accesso ad Internet, l'obbligo di dotarsi di appositi filtri in grado di bloccare l'accesso ai siti che offrono servizi di giochi d'azzardo e scommesse on-line;
   ad assumere iniziative dirette ad istituire un marchio nazionale destinato a caratterizzare gli esercizi pubblici privi di slot machine e video lotterie, con la possibilità, per i comuni, di procedere con sgravi fiscali per gli esercizi commerciali che decidano di rimuovere le stesse;
   ad adottare le opportune iniziative regolamentari o normative atte ad impedire che nei contratti stipulati tra società concessionaria del gioco ed i singoli esercenti siano previste clausole che in alcun modo limitino il loro diritto di recesso;
   ad assumere iniziative dirette ad introdurre limitazioni sui messaggi pubblicitari concernenti il gioco d'azzardo che tengano conto delle esigenze di tutela dei minori e di rendere noti in maniera comprensibile ed esaustiva sia i pericoli della ludopatia sia le probabilità di vincita nello specifico gioco;
   a porre l'obbligo, in capo ai gestori di sale da gioco, di esporre pubblicamente materiale informativo sui rischi del gioco d'azzardo patologico, con particolare riferimento all'accesso ai percorsi di cura e riabilitazione;
   ad assumere le necessarie iniziative per la creazione di un fondo, finanziato attraverso una percentuale sui proventi derivanti dalla tassazione sul gioco e dalle eventuali sanzioni elevate nei confronti di concessionari e gestori, attraverso il quale verranno finanziati gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione specificatamente destinati alle persone affette da gioco d'azzardo patologico;
   ad adottare tutte le iniziative necessarie al fine di agevolare un rapido iter delle proposte di legge di cui in premessa.
(1-00736)
«Rampelli, Taglialatela, Giorgia Meloni, Cirielli, Corsaro, La Russa, Maietta, Nastri, Totaro».
(17 febbraio 2015)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN SEDE EUROPEA VOLTE A RICHIEDERE LE DIMISSIONI DEL PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE EUROPEA JEAN-CLAUDE JUNCKER

   La Camera,
   premesso che:
    la lotta all'evasione fiscale è uno degli impegni fondamentali nei quali è fortemente concentrata l'Italia al fine di perequare il sistema fiscale e tributario rispetto a cittadini, famiglie e imprese;
    le istituzioni europee hanno in varie circostanze richiamato il nostro Paese ad impegnarsi maggiormente nel contrasto all'evasione fiscale, indicando l'Italia come «maglia nera» dell'economia sommersa, che si attesterebbe su un valore complessivo di 180 miliardi di euro;
    nell'eurozona l'evasione fiscale costituisce uno dei principali problemi in quanto coinvolge numerosi Stati fondatori dell'Unione europea, quali la Germania (con 159 miliardi di euro), la Francia (con 121 miliardi di euro), la Gian Bretagna con (75 miliardi di euro) e la Spagna con (73 miliardi di euro);
    il fiscal compact che l'Italia, insieme agli altri Paesi dell'Unione europea, è tenuta a rispettare, ha un peso estremamente rilevante sui conti dello Stato italiano e delle famiglie;
    il fatto che il Governo non sia in grado di incassare le risorse fiscali e tributarie derivanti da attività illecite impedisce l'alleggerimento della pressione fiscale;
    Jean-Claude Juncker, eletto Presidente della Commissione europea il 1o novembre 2014, è stato Primo ministro del Lussemburgo per diciotto anni, dal 1995 al 2013;
    secondo un'inchiesta giornalistica realizzata dall’International consortium of investigative journalism e pubblicata, in questi giorni, il Governo del Lussemburgo avrebbe promosso accordi con trecento aziende in tutto il mondo, trentuno delle quali in Italia, per spostare flussi finanziari enormi pagando tasse minime;
    oltre a multinazionali quali Amazon, Ikea, Deutsche Bank, Procter&Gamble, Pepsi, Gazprom, sembrerebbero essere coinvolti anche Finmeccanica e alcuni istituti di credito italiani, quali Unicredit, Intesa San Paolo, Banca Marche e Banca Sella;
    i cronisti dell’International consortium of investigative journalism hanno scoperto un quadro inquietante dei rapporti tra enormi multinazionali e le autorità del Granducato;
    secondo quanto riporta l'Espresso, che ha avuto l'esclusiva per l'Italia, si tratta di «un'emorragia di fondi, perfettamente legale, che sottrae risorse dall'economia del resto dell'Ue»;
    secondo l'Espresso, dalle multinazionali alle banche, dalle imprese famigliari ai grandi marchi della moda, migliaia di società hanno trovato rifugio all'ombra del «fisco leggero» del Granducato, in un sistema cresciuto anche grazie al lungo Governo di Jean-Claude Juncker;
    per anni il Lussemburgo è stato fra i Paesi (ultimamente in tandem solo con l'Austria) che hanno rallentato e perfino «preso in ostaggio» la gran parte degli altri Stati membri sulla controversa tassazione delle rendite da risparmio dei cittadini non residenti, in stretta alleanza con i cinque Paesi terzi (Svizzera, Liechtenstein, Monaco, San Marino e Andorra) e ha rallentato la marcia verso lo scambio automatico delle informazioni fiscali tra amministrazioni, rimanendo aggrappato alla difesa sempre più indifendibile di parti sostanziali del segreto bancario;
    la prossima settimana in Australia si ritrovano i Capi di Stato e di Governo del G20 per certificare al massimo livello politico le proposte Ocse contro quella che, con un eufemismo, viene chiamata «ottimizzazione fiscale» per intraprendere procedure di trasparenza;
    l'Esecutivo europeo è per definizione il «guardiano» della regole e la fiducia nei suoi confronti deve essere totale, ed è a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo inaccettabile che sia presieduto da un personaggio coinvolto in fatti come quelli di cui in premessa,

impegna il Governo

ad attivarsi in sede europea per chiedere le immediate dimissioni del Presidente della Commissione europea in quanto non compatibile, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, con il ruolo di garante ed esecutore delle politiche di rigore fiscale e di lotta all'evasione ed elusione.
(1-00666)
«Rampelli, Giorgia Meloni, Cirielli, Corsaro, La Russa, Maietta, Nastri, Taglialatela, Totaro».
(13 novembre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il Consorzio internazionale per il giornalismo investigativo ha condotto un'inchiesta il cui risultato dimostra che 340 aziende hanno spostato una parte delle loro sedi legali in Lussemburgo per quella pratica di «ottimizzazione fiscale» che sottintende l'utilizzo di metodi leciti o quasi per pagare meno tasse «senza contare fondi di investimento di quasi tremila miliardi di euro di attività nette, secondi solo agli Stati Uniti»;
    da questa inchiesta si evincono documenti ufficiali che dimostrano come il neopresidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, una delle più importanti cariche europee, nella sua passata vita politica cioè quando ricopriva l'incarico di Primo ministro del Lussemburgo, è stato responsabile di accordi segreti con grandi multinazionali che, grazie a queste intese, sono riuscite a sottrarre decine di miliardi di tasse ai Paesi dell'Unione europea in cui avrebbero dovuto pagarle;
    per Bloomberg, una delle più note multi-testate finanziarie del mondo, il popolo lussemburghese sarebbe divenuto uno dei più ricchi al mondo, secondo solo al Qatar, perché «regole di segreto bancario simili a quelle svizzere» e «meccanismi di elusione fiscale approvati dal governo» hanno contribuito a garantire un ingente afflusso di capitali. Gli accordi fiscali, descritti nei documenti trapelati, presumibilmente consentivano a multinazionali come Apple e Deutsche Bank, di ridurre i loro oneri fiscali sui profitti maturati in altri Paesi. Il risultato è che «le aliquote fiscali applicate erano minime». Di conseguenza, «si potrebbe dire che Juncker abbia reso ricco il proprio paese andando a borseggiare gli altri stati, inclusi, soprattutto, quelli dell'Unione europea che è ora chiamato a servire», ha rimarcato l'agenzia;
    l'Espresso in contemporanea con altre grandi testate europee come Bbc, The Guardian, Le Monde, Süddeutsche Zeitung, ha pubblicato i documenti riservati che dimostrano come il Lussemburgo di Juncker sia stato un invidiabile paradiso fiscale per tante imprese internazionali, comprese le italiane finora emerse. Vantaggi legittimi in quanto la legislazione europea consente la concorrenza fiscale tra un Paese e l'altro mentre vieta gli aiuti di Stato. E i «tax ruling» lussemburghesi potrebbero configurarsi come tali nei confronti di alcune aziende particolarmente beneficiate da una fiscalità generosa;
    tale passato comportamento di Jean-Claude Juncker è del tutto incompatibile con il ruolo assunto di Presidente della Commissione europea che necessita di una personalità autorevole e meritevole di fiducia da parte di tutti i cittadini dell'Unione europea danneggiati dalle politiche condotte durante il suo quasi ventennale incarico di Primo ministro lussemburghese;
    la permanenza nell'incarico di Presidente dell'Unione europea di Juncker non aiuta la causa europea, in quanto la sua posizione come capo dell'istituzione che sta indagando le pratiche fiscali da lui supervisionate quando era Primo ministro del Lussemburgo, è in evidente conflitto di interesse, e pertanto la credibilità delle istituzioni, se lasciasse l'incarico, se ne avvantaggerebbe,

impegna il Governo

a promuovere l'attivazione, in conformità alle disposizioni del Trattato dell'Unione europea, delle procedure volte alla cessazione dalla carica del Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker per le ragioni esposte in premessa, valutando altresì l'ipotesi di promuovere nelle sedi competenti il ricorso alla Corte di giustizia dell'Unione europea in base all'articolo 247 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea per chiedere che il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker sia dichiarato dimissionario dalla carica ricoperta per incompatibilità con i requisiti richiesti per tale importante ruolo.
(1-00700)
«Kronbichler, Pannarale, Scotto, Palazzotto, Paglia».
(15 gennaio 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    dal novembre 2014 il neo Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker è al centro di uno scandalo definito LuxLeaks emerso a seguito di una inchiesta giornalistica internazionale condotta da un network americano, The International Consortium of Investigative Journalism (ICIJ), e pubblicata in esclusiva per l'Italia dal settimanale l'Espresso, dove emerge che il Granducato di Lussemburgo abbia stretto accordi fiscali, circa 550, a favore di oltre 340 società negli anni dal 2002 al 2010, garantendo aliquote fiscali più basse rispetto all'ordinario. Si parla di aliquote dell'1 per cento che porterebbero ad un risparmio fino a circa il 95 per cento delle imposte dovute nei paesi di origine;
    nel periodo in cui questi accordi sono stati approvati dall'autorità fiscale del Lussemburgo il Presidente Juncker ricopriva la carica di Primo ministro, carica che ha rivestito per ben 18 anni dal 1995 al 2013;
    l'accordo fiscale del quale si fa riferimento nell'inchiesta è il cosiddetto «tax ruling» ovvero quella pratica che permette di conoscere in anticipo il trattamento di questioni fiscali internazionali. In concreto sono delle lettere di intenti emesse da un Paese che forniscono ad una società chiarimenti sul modo in cui sarà calcolata l'imposta da pagare e ottenere garanzie giuridiche. Sulla base del tax ruling le multinazionali, con controllate in diversi Stati, scelgono la destinazione più vantaggiosa dell'imponibile;
    i tax ruling (trattamenti fiscali predefiniti), siglati in Lussemburgo da PriceWaterhouseCoopers (Pwc) – una delle «big four» mondiali della consulenza – sottolinea l'inchiesta, sono perfettamente legali quando questi sono utilizzati dagli Stati membri come strumento per attirare gli investimenti delle imprese, ma se vengono usati a danno della libera concorrenza possono essere considerati aiuti di Stato illegali;
    gli Stati membri, nell'ambito della libera concorrenza nel mercato interno, possono intervenire mediante risorse statali per promuovere alcune attività economiche o proteggere alcune industrie nazionali, questi sono chiamati aiuti di Stato che però, in alcuni casi, possono falsare la concorrenza. Gli aiuti di Stato, infatti, sono vietati dal Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (articolo 107 TFUE), ma sono previste alcune deroghe che li autorizzano a patto che siano giustificati da obiettivi di comune interesse, ad esempio aiuti destinati a servizi di interesse economico generale, sempre che non alterino la concorrenza in misura contraria al comune interesse. Il controllo sugli aiuti di Stato è effettuato dalla Commissione europea e consiste nel valutare l'equilibrio tra gli effetti positivi e negativi degli aiuti;
    l'ex commissario alla concorrenza Joaquín Almunia aveva già aperto nei confronti del Lussemburgo due indagini una relativa ad Amazon e l'altra a Fiat Finance and Trade accusate di aver ottenuto aiuti di Stato illegali. Il neo commissario alla concorrenza Margrethe Vestager ha dichiarato che sulle due indagini aperte dal suo predecessore e sul caso LuxLeaks sarà presa una decisione entro la prossima primavera, in quanto allo stato attuale non si può ancora dire se i tax ruling in questione siano legali o meno e se quindi li si possa considerare aiuti di Stato illegali;
    il Granducato di Lussemburgo ha più holding che abitanti, conta infatti appena 550 mila abitanti. È un paese altamente ricco, basti pensare che il reddito pro capite è di circa 105 mila dollari, il più alto al mondo, quasi il triplo di quello italiano, e che deve il suo benessere alla tasse in quanto da più di 50 anni è meta preferita delle aziende alla ricerca di un trattamento fiscale di favore;
    il sistema fiscale lussemburghese funziona secondo un reciproco accordo dove le aziende spostano i loro flussi finanziari in cambio della possibilità di un trattamento tributario di eccezione. A farne le spese, però, sono i Paesi di origine delle società costretti a rinunciare al gettito sugli affari dirottati nel paradiso fiscale. Il sistema lussemburghese è molto più sofisticato ed efficiente degli altri paradisi fiscali, quali le Cayman, Panama o le Isole vergini britanniche, in quanto più aderente alle normative internazionali;
    dall'inchiesta dell'ICIJ emerge che secondo i dati Ocse, nel 2013 il Lussemburgo avrebbe ricevuto investimenti diretti esteri per 2.280 miliardi di dollari e che soltanto 122 siano andati all'economia reale, il resto si pensa siano soldi portati nel Granducato per sottrarli semplicemente al fisco dei Paesi in cui erano stati prodotti e che quindi sarebbero dovuti essere tassati;
    nonostante l'attuale legislazione europea consenta la concorrenza fiscale tra i Paesi membri è del tutto evidente che un simile sistema di difformità di regimi fiscali, che utilizzano tra l'altro la stessa moneta, sia una delle contraddizioni evidenti di questo tipo di Europa. Un'Europa dove i cittadini italiani che sono costretti a subire aumenti di tasse, riduzione del potere di acquisto dei salari ed una disoccupazione in costante ed inesorabile crescita, vedono le grandi multinazionali avere benefici fiscali smisurati a fronte di guadagni miliardari;
    paradosso del caso LuxLeaks è che il Presidente Juncker si trova ora nella situazione di un «conflitto di interessi» ricoprendo l'incarico di Presidente della Commissione europea e, quindi, come tale dover vigilare sul rispetto delle regole europee, e al tempo stesso essere stato l'artefice di un sistema fiscale, in qualità di Primo ministro del Lussemburgo e quindi direttamente responsabile delle politiche fiscali del suo Paese, che ha permesso a ben 343 aziende di togliere miliardi di euro di risorse economiche ai paesi di origine;
    il Presidente della Commissione europea Juncker ha rilasciato dichiarazioni nelle quali ha promesso di impegnarsi per l'armonizzazione dei regimi fiscali europei e continuare nella lotta all'evasione ed elusione fiscale nell'Unione europea. Dichiarazioni che ora sembrano alquanto stridenti con i fatti accaduti, ovvero di aver causato gravi squilibri e danni al mercato interno europeo;
    si attendono con fiducia le conclusioni delle indagini, conclusioni che l'attuale commissario alla Concorrenza ha promesso arriveranno entro il secondo trimestre di quest'anno, al fine di fare piena luce sul caso LuxLeaks. Sarebbe opportuno che nel frattempo il Presidente Juncker faccia un passo indietro e si faccia, quindi, giudicare da privato cittadino e possa così lasciare la guida della Commissione europea ad una figura seria e trasparente;
    a fine novembre 2014 il Parlamento europeo, riunito in sessione plenaria a Strasburgo, ha respinto una mozione di censura al Presidente Juncker a seguito dello scandalo LuxLeaks, sostenuta anche dalla Lega Nord. Con questo atto di indirizzo si vuole dare una seconda opportunità al Governo italiano di ritornare sui propri passi,

impegna il Governo

ad attivarsi in sede europea affinché si arrivi alle dimissioni del Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, che appare responsabile di politiche di elusione fiscale aggressiva, rimediando in questo modo a quello che i firmatari del presente atto di indirizzo ritengono un clamoroso errore di valutazione, fatto in occasione della designazione del Presidente della Commissione europea, al fine di salvaguardare milioni di cittadini ed imprese europee che sono giornalmente danneggiati da questa Europa che risponde solo agli interessi delle banche e della finanza e non tiene in debita considerazione le loro istanze, permettendo così l'elezione di un nuovo Presidente garante e difensore dei diritti dei cittadini europei.
(1-00701)
«Borghesi, Fedriga, Allasia, Attaguile, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini, Simonetti».
(15 gennaio 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    la lotta alla frode e all'evasione fiscale è una delle maggiori sfide dell'Unione europea in considerazione dell'ingente perdita di denaro derivante da tali illeciti che, non soltanto vanificano gli sforzi di risanamento dei bilanci nazionali, ma mettono in discussione il principio di equità e di uguaglianza dei cittadini;
    alcuni Stati membri dell'Unione europea, come il Granducato del Lussemburgo, predispongono sistemi fiscali che parrebbero agevolare l'evasione e l'elusione fiscale, causando una potenziale perdita di gettito fiscale pari a diversi miliardi di euro;
    da un'inchiesta giornalistica recente denominata LuxLeaks si apprende che l'attuale Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, che per oltre 10 anni è stato primo Ministro del Granducato del Lussemburgo, abbia approvato numerosi accordi fiscali «speciali» con i quali il Granducato del Lussemburgo ha concesso ad oltre trecento aziende e multinazionali (tra cui Amazon, Ikea, Deutsche Bank, Procter&Gamble, Pepsi e Gazprom) un trattamento fiscale agevolato grazie alla cosiddetta tax ruling;
    altresì, dal giugno 2014, la Commissione europea indaga su presunti aiuti di Stato illegali sotto forma di accordi fiscali illeciti tra il Granducato del Lussemburgo e il gruppo Fiat e Amazon;
    le strutture fiscali sono predisposte da società legali e fiscali con sede in Lussemburgo e da grandi società di revisione e consulenza contabile come PricewaterhouseCoopers, Ernst & Young, Deloitte e KPMG. Si ricorda che le richiamate società sono state selezionate dalla Banca centrale europea per l’«Asset quality review» preposta a valutare la solidità delle maggiori banche europee;
    se per molto tempo tali accordi sono stati considerati pienamente legali, ancorché abbiano sottratto all'intera economia europea ingenti quantitativi di denaro, l'esecutivo comunitario ha recentemente chiesto l'apertura di un'inchiesta sulle intese tra il Paese del Benelux ed alcune società tra cui anche una italiana, ritenendo che tali accordi abbiano consentito a quest'ultime di pagare meno tasse di quanto avrebbero dovuto e precisando che, in tal caso, si sarebbero configurati aiuti di Stato incompatibili con le norme dell'Unione europea;
    è all'esame delle istituzioni europee la modifica della direttiva 2011/16/UE per quanto riguarda lo scambio automatico obbligatorio di informazioni nel settore fiscale, al fine, tra l'altro, di ampliare, in ambito europeo, l'ambito di applicazione dello scambio automatico d'informazioni sui dividendi, le plusvalenze e gli altri redditi a partire dal 2015, anno in cui tale obbligo sarà in vigore anche per redditi da lavoro, compensi per dirigenti, pensioni, assicurazioni sulla vita e proprietà e redditi immobiliari;
    è doveroso precisare che lo scambio automatico di informazioni è stato introdotto nella direttiva per la tassazione dei risparmi (2003/48/CE) ed è in vigore dal 2005, ma Austria e Lussemburgo hanno da sempre usufruito di un regime di deroga scegliendo di adottare una ritenuta d'acconto al 35 per cento invece dello scambio di informazioni e, altresì, hanno rallentato l'adozione di normative sulla tassazione delle rendite da risparmio dei cittadini non residenti;
    il 14 ottobre 2014 il Consiglio dei ministri delle finanze dell'Unione europea, nell'ambito dell'esame della sopradetta proposta, ha concesso, al Lussemburgo e all'Austria, una dilazione dei tempi entro i quali aderire allo scambio automatico di informazioni tra gli Stati membri. Per il Lussemburgo la deroga pare risultare a due anni, mentre per l'Austria è pari a tre anni. Allo scadere delle medesime dovrebbe venir meno l'attuale rigido segreto bancario che caratterizza i loro sistemi fiscali e finanziari;
    tale decisione contrasta con il rigido orientamento comunitario che impone misure di austerità sempre più gravose per i cittadini e pare invece evidenziare un'attitudine molto più conciliante nei confronti degli evasori fiscali e degli intermediari bancario-finanziari che spesso si adoperano per occultare al fisco consistenti patrimoni;
    le motivazioni di tale atteggiamento dilatorio nei confronti di due Stati membri dell'Unione europea suscitano più di un dubbio in merito alla possibilità che alcuni Governi, attraverso l'avallo di una posizione estremamente conciliante, finiscano di fatto per favorire il sussistere di paradisi fiscali e la costituzione di «fondi neri» da utilizzare per gli scopi più disparati;
    sembra del tutto inopportuno, sia sul piano politico che sul piano morale, che il responsabile dei sopraddetti accordi fiscali ricopra, oggi, il ruolo di Presidente della Commissione europea, anche in relazione alle stesse competenze che dovrà svolgere la Commissione europea;
    durante il mandato da Primo ministro Juncker ha reso il Granducato del Lussemburgo un’«oasi» finanziaria e fiscale per almeno 340 grandi società internazionali e di fondi d'investimento con almeno 3.000 miliardi di attivi netti, secondo solo agli Stati Uniti, e facendo della sua popolazione la più ricca dopo il Qatar;
    di recente gli accordi bilaterali tra Italia e Lussemburgo consentirà a quest'ultimo di confluire nella White list, «assicurando» un maggior scambio di informazioni fiscali tra i due Paesi. Tale accordo, al pari di altri già sottoscritti, non saranno da soli sufficienti ad escludere ogni possibile forma di evasione ed elusione fiscale internazionale, tanto è vero che Bloomberg ha dichiarato che attraverso complesse procedure è possibile ridurre la tassazione per le aziende fino allo 0,25 per cento;
    in Italia la soglia di povertà ha raggiunto quasi 9 milioni di italiani e nel 2014 sono fallite circa 111 mila aziende;
    le aziende italiane sono subordinate ad una pressione fiscale che arriva fino al 70 per cento e per tal motivo è comprensibile che gli accordi fiscali del Lussemburgo, le pratiche di elusione fiscale e l'assenza di una normativa europea che punisca seriamente ogni forma di abuso ed elusione fiscale renderanno il nostro Paese sempre meno competitivo nello scenario internazionale con ulteriori conseguenze negative in termini di prodotto interno lordo e disoccupazione,

impegna il Governo

ad attivarsi nelle competenti sedi europee per richiedere le immediate dimissioni del Presidente della Commissione europea in quanto ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo non compatibile con il ruolo di garante dell'applicazione di politiche di rigore e di lotta all'evasione fiscale che costituiscono le priorità dell'Esecutivo da lui presieduto.
(1-00711)
«Gallinella, Villarosa, Pesco, Alberti, Pisano, Barbanti, Cancelleri, Ruocco».
(15 gennaio 2015)

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