TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 631 di Mercoledì 25 maggio 2016

 
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MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE A FAVORIRE L'ACCESSO AGLI STUDI UNIVERSITARI, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AD UN'EQUA RIPARTIZIONE DELLE RISORSE SUL TERRITORIO NAZIONALE

   La Camera,
   premesso che:
    l'Italia nel 2014 è stato lo Stato membro dell'Unione europea con la minore percentuale di giovani laureati: con il 23,9 per cento si colloca, purtroppo, all'ultimo posto fra i 28 Stati membri, paragonato al 49,9 per cento della Svezia, al 47,7 per cento del Regno unito, ma anche al 31,3 per cento del Portogallo e al 25 per cento della Romania;
    sono dati inquietanti che fanno riflettere profondamente sullo stato di salute delle nostre università italiane e sulle scelte fatte negli ultimi vent'anni con la consapevolezza della necessità, non più procrastinabile, di analisi più approfondite sull'argomento ma anche di un complessivo ripensamento dell'indirizzo di governo che riguardi l'istruzione superiore che significa produzione culturale del Paese, formazione delle classi dirigenti e, in particolare, di quel capitale umano di qualità che è il fattore produttivo decisivo nell'economia di un Paese, specialmente in un paese così diverso al suo interno come l'Italia;
    l'Europa si è data l'obiettivo, nel 2020, di avere il 40 per cento di giovani laureati. L'obiettivo italiano alla stessa data è pari al 26-27 per cento, che continuerebbe a collocarla all'ultimo posto, rischiando di essere superata anche dalla Turchia. La regione con la percentuale maggiore di laureati, il Lazio (31,6 per cento), si colloca su livelli pari al Portogallo. Quattro regioni italiane, tutte del Mezzogiorno, sono fra le ultime dieci nella graduatoria delle 272 europee; la Sardegna (17,4 per cento) è penultima: la sua percentuale di giovani laureati è superiore solo alla regione ceca dello Severozápad;
    il nostro Paese nel giro di pochi anni, ha vissuto un disinvestimento molto forte nella sua università, in totale controtendenza rispetto a tutti i paesi avanzati che continuano invece ad accrescere la propria formazione superiore. Mentre il finanziamento pubblico delle nostre università italiane si contraeva del 22 per cento, in Germania cresceva del 23 per cento; persino i paesi mediterranei più colpiti dalla crisi hanno ridotto di meno il proprio investimento sull'istruzione superiore;
    i fondi del diritto allo studio universitario sono distribuiti alle regioni secondo criteri che generano gravi sperequazioni a danno delle regioni del Sud;
    per effetto di tale distribuzione il 75 per cento degli studenti che, secondo la Costituzione italiana, avrebbero diritto a beneficiare di borse di studio e non ne beneficiano sono iscritti nelle università del Sud;
    il rapporto della Fondazione Res, recentemente presentato, fotografa la condizione degli atenei italiani, da Nord a Sud, come un costante, inesorabile declino a cominciare dalla caduta delle immatricolazioni: dal 2003-04 si riducono di oltre 66 000 unità, fino a meno di 260 000 nel 2014-15 (-20,4 per cento). Fra tutti i Paesi avanzati solo la Svezia e l'Ungheria sperimentano un decremento più forte. Al contrario, gli immatricolati crescono sensibilmente nella media dei Paesi dell'Ocse e a ritmi particolarmente sostenuti, oltre che negli emergenti, in Germania e Regno unito. Il calo delle immatricolazioni, sempre dal 2003-04, è poi differenziato per territori: è particolarmente intenso nelle isole (-30,2 per cento), nel Sud continentale (-25,5 per cento) e nel Centro (-23,7 per cento, specie nel Lazio); più contenuto al nord (-11 per cento);
    è grave il fenomeno migratorio di diplomati che, in numero di 24 mila, ogni anno abbandonano le regioni del Sud per studiare in università del Centro e del Nord e questo aggrava la già depressa situazione del Meridione;
    la mobilità studentesca è un fenomeno estremamente positivo, perché rappresenta un'esperienza di vita indipendente per i giovani, consente la scelta del corso di studio più adatto e una competizione sana tra atenei, ma è una mobilità a senso unico, da Sud verso Nord. Nel 2014-15 oltre 55 000 studenti si sono immatricolati in una regione diversa da quella di residenza;
    al Nord questo fenomeno riguarda il 17,8 per cento degli immatricolati, che rimangono quasi tutti (5/6) all'interno della circoscrizione. Al Centro è meno rilevante (14,5 per cento degli immatricolati), specie per gli studenti toscani e laziali, ma orientata di più verso l'esterno: metà di chi cambia regione va al nord, un terzo rimane al Centro, un sesto va al Sud;
    al Sud la mobilità è molto maggiore: riguarda il 28,9 per cento degli immatricolati, 4 su dieci si spostano al Nord e altri 4 al Centro. È la mobilità dei circa 29 000 immatricolati (in un anno) meridionali il fenomeno più importante, con una mobilità interna al Mezzogiorno assai contenuta e un flusso in uscita dalla circoscrizione a cui non corrisponde un flusso in entrata;
    la mobilità solo in direzione d'uscita è negativa perché genera da una parte una perdita per le aree di origine in termini di capitale umano, dall'altra un trasferimento di reddito a favore delle regioni di entrata per il mantenimento dei figli fuori sede sostenuto dalle famiglie. La scelta del trasferimento è riconducibile a più fattori e, in particolare, a una più elevata capacità attrattiva di singoli atenei centro-settentrionali, nonché alle maggiori prospettive occupazionali nei mercati del lavoro del nord una volta conseguita la laurea;
    Molise (49,5 per cento), Trentino Alto Adige (47,8), Abruzzo (41,3) sono le regioni più piccole che nell'anno accademico 2014-15, hanno mostrato indici di attrattività più elevati spiegabili soprattutto con la qualità della vita urbana (Trento) o con la posizione geografica, come nel caso di Abruzzo e Molise. Le regioni medie e medio-grandi maggiormente attrattive sono tutte localizzate al nord: spiccano in particolare l'Emilia Romagna e la Lombardia. Al contrario risulta estremamente ridotta l'attrattività delle università meridionali, tutte largamente al di sotto della metà della media nazionale, ad eccezione della Basilicata che sfiora il 20 per cento, grazie alla specificità di alcuni indirizzi di studio;
    altro punto di grande criticità è quello dei docenti universitari che fra il 2008 e il 2015 si sono ridotti del 17,2 per cento; il calo è stato notevolmente più intenso di quello registrato in ogni altro comparto del pubblico impiego, ben cinque volte maggiore di quanto avvenuto nella scuola. La diminuzione del personale docente di ruolo è stata dell'11,3 per cento al nord, ma del 18,3 per cento nel Mezzogiorno e del 21,8 per cento nelle università del Centro a causa dei blocchi del ricambio, in presenza dei pensionamenti. Ad esempio nel triennio 2012-14 il turn over (assunzioni in percentuale dei pensionamenti) è stato pari al 27,3 per cento. Il blocco del turn over negli atenei ha comportato un sensibile invecchiamento del personale docente, attualmente i dati disponibili ci dicono che un terzo dei professori ordinari ha più di 65 anni;
    la spesa totale (pubblica e privata) per l'istruzione universitaria, riportata dal rapporto annuale Education at a Glance dell'Ocse (2014) e misurata rispetto al Pil (2011), è in Italia sui livelli più bassi fra tutti i Paesi dell'Ocse: gli unici paesi con livelli comparabili sono Ungheria e Brasile; per tutti gli altri, europei ed extraeuropei, il livello è significativamente superiore. Nel 2011 il totale della spesa (pubblica e privata) era in Italia dell'1 per cento del Pil, contro una media Ocse dell'1,6 per cento e dei paesi europei membri dell'Ocse pari all'1,4 per cento: i grandi paesi europei si collocano fra l'1,2 per cento e l'1,5 per cento; la stessa Turchia è all'1,3 per cento; gli scandinavi su livelli superiori, gli Stati uniti sono al 2,7 per cento;
     il fondo di finanziamento ordinario delle università (Ffo), nasce nel 1993, come veicolo di finanziamento «omnibus» all'interno del quale fare ricadere sia gli interventi per il funzionamento sia allocazioni «premiali» ed è stato proprio questo l'errore di fondo, sarebbe stato meglio fin da allora prevedere due diversi canali di finanziamento: uno destinato, appunto, alle spese ordinarie e un altro, con funzione premiale e incentivante. Fino al 2008 la dimensione del fondo cresce, anche se aumentano le quote relative degli atenei del Nord e del Sud, rispetto a quelli del Centro e delle isole. Con i provvedimenti presi a partire dal 2008, con la cosiddetta Riforma Gelmini (legge n. 240 del 2010), l'investimento destinato alle università si riduce drasticamente. Il fondo di finanziamento ordinario diminuisce ai livelli di metà anni novanta. Sul totale delle entrate degli atenei diminuisce sensibilmente il peso delle risorse attribuite dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca (e in particolare del fondo di finanziamento ordinario), a vantaggio della contribuzione studentesca e di finanziamenti di soggetti terzi, specie privati. Questo cambiamento produce un significativo impatto territoriale, perché colpisce in particolare le università collocate nelle aree meno ricche del Paese;
    l'analisi di tutti questi dati porta a delle conclusioni chiare, risulta necessario ed urgente ripensare questi meccanismi di finanziamento, basandosi su una distinzione netta fra fondi destinati al funzionamento del sistema universitario e fondi premiali destinati alla ricerca, ripristinando una sufficiente quota di finanziamento per tutti gli atenei, a copertura delle funzioni di didattica e di ricerca di base, e con l'allocazione di risorse aggiuntive, finalizzate alle grandi priorità di ricerca del paese, sulla base di criteri di valutazione della ricerca, abbandonando formule e algoritmi onnicomprensivi che hanno dimostrato negli ultimi anni di non essere adeguati alla complessità della realtà,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per incrementare il fondo del diritto allo studio;
   ad assumere iniziative per modificare i criteri di distribuzione del fondo per il diritto allo studio applicando la regola delle quote capitarie e suddividendo quindi il fondo tra le regioni esclusivamente in base al numero di idonei ai benefici;
   ad assumere iniziative per incrementare sensibilmente il fondo di finanziamento ordinario delle università per avvicinarlo a quello degli altri Paesi europei;
   a promuovere una radicale revisione dei meccanismi di finanziamento per le attività di ricerca;
   ad assumere iniziative per immettere nuovi docenti e ricercatori a copertura dei previsti pensionamenti;
   ad adottare iniziative per applicare una deroga temporanea di almeno 5 anni per le università del Sud, in relazione alle norme restrittive inerenti al rapporto tra numero di docenti e attivazione dei corsi di studio, consentendo di attivare corsi di studio, indipendentemente dal numero dei docenti, per dare risposte alle esigenze ogni anno manifestate dai diplomati.
(1-01192) (Nuova formulazione) «Pisicchio, Palese».
(9 marzo 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    gli articoli 33 e 34 della Costituzione pongono i princìpi fondamentali relativi all'istruzione con riferimento, rispettivamente, all'organizzazione scolastica e universitaria e ai diritti di accedervi e di usufruire delle prestazioni che essa è chiamata a fornire. Organizzazione e diritti sono aspetti speculari della stessa materia, l'una e gli altri implicandosi e condizionandosi reciprocamente. Non c’è organizzazione che, direttamente o almeno indirettamente, non sia finalizzata a diritti, così come non c’è diritto a prestazione che non condizioni l'organizzazione;
    l'articolo 33, dopo aver stabilito, al primo comma, che «l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento» e, al secondo comma, che la «Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi», prevede, tra gli altri per le università, «il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato». «Secondo la Costituzione, l'ordinamento della pubblica istruzione è dunque unitario ma l'unità è assicurata, per il sistema scolastico in genere, da “norme generali” dettate dalla Repubblica; in specie, per il sistema universitario, in quanto costituito da “ordinamenti autonomi”, da “limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”»;
    gli «ordinamenti autonomi» delle università, cui la legge, secondo l'articolo 33 della Costituzione, deve fare da cornice, non possono considerarsi soltanto sotto l'aspetto organizzativo interno, manifestantesi in amministrazione e in normazione statutaria e regolamentare. Per l'anzidetto rapporto di necessaria reciproca implicazione, l'organizzazione deve considerarsi anche sul suo lato funzionale esterno, coinvolgente i diritti e incidente su di essi. La necessità di leggi dello Stato, quali limiti dell'autonomia ordinamentale universitaria, vale pertanto sia per l'aspetto organizzativo, sia, a maggior ragione, per l'aspetto funzionale che coinvolge i diritti di accesso alle prestazioni;
    in questo modo, all'ultimo comma dell'articolo 33 viene a conferirsi una funzione, per così dire, di cerniera, attribuendosi alla responsabilità del legislatore statale la predisposizione di limiti legislativi all'autonomia universitaria relativi tanto all'organizzazione in senso stretto, quanto al diritto di accedere all'istruzione universitaria, nell'ambito del principio secondo il quale «la scuola è aperta a tutti» (articolo 34, primo comma) e per la garanzia del diritto riconosciuto ai «capaci e meritevoli, anche, se privi di mezzi» «di raggiungere i gradi più alti degli studi» (articolo 34, terzo comma);
    la conclusione cui così si perviene attraverso la specifica interpretazione degli articoli 33 e 34 della Costituzione è, del resto, confermata e avvalorata dai «principi generali informatori dell'ordinamento democratico, secondo i quali ogni specie di limite imposto ai diritti dei cittadini abbisogna del consenso dell'organo che trae da costoro la propria diretta investitura» e dall'esigenza che «la valutazione relativa alla convenienza dell'imposizione di uno o di altro limite sia effettuata avendo presente il quadro complessivo degli interventi statali nell'economia inserendolo armonicamente in esso, e pertanto debba competere al Parlamento, quale organo da cui emana l'indirizzo politico generale dello Stato» (si confronti la sentenza n. 383 del 1998 della Corte costituzionale);
    non può negarsi che il diritto costituzionale allo studio, come ricostruito dalla riportata giurisprudenza costituzionale, imponendo scelte pubbliche d'insieme, inerenti alla determinazione delle risorse necessarie per il funzionamento delle istituzioni universitarie, per la garanzia del diritto alla formazione culturale (sancita dall'articolo 2 della Costituzione) e alle scelte professionali di ciascuno (articolo 4) risulti, soprattutto negli ultimi anni, drammaticamente compromesso;
    il sistema di finanziamento pubblico del diritto allo studio universitario avviene attraverso tre voci ovvero:
     a) il fondo integrativo statale;
     b) il gettito derivante dalla tassa regionale per il diritto allo studio;
     c) le risorse proprie delle regioni, pari almeno al 40 per cento dell'assegnazione del fondo integrativo statale;
    negli ultimi anni il diritto allo studio universitario è stato umiliato a causa del sempre più frequente fenomeno dello studente idoneo a percepire la borsa di studio ma non beneficiario a causa delle insufficienti risorse stanziate dallo Stato;
    nonostante le nuove regole sul diritto allo studio, conseguenti alla «riforma Gelmini» dell'università, abbia causato un numero di studenti idonei a percepire la borsa di studio inferiore rispetto al passato, le regioni non riescono, comunque, ad assegnare le borse a tutti i richiedenti che ne hanno diritto;
    l'Italia si colloca negli ultimi posti in Europa per investimenti sul diritto allo studio, tant’è che in diversi Stati dell'Unione europea l'iscrizione all'università è gratuita e la borsa di studio garantisce tutti gli studenti privi di mezzi;
    in Italia, a beneficiare di borse di studio è circa il 7 per cento degli studenti, per una spesa complessiva pubblica 258 milioni di euro, contro il 25,6 per cento della Francia (1,6 miliardi di euro), il 30 per cento della Germania (2 miliardi di euro) e il 18 per cento della Spagna (943 milioni di euro);
    in particolare, l'importo della tassa per il diritto allo studio è stabilito dalle regioni e dalle province autonome e può essere articolato in 3 fasce. La misura minima della fascia più bassa della tassa è fissata in 120 euro e si applica a coloro che presentano una condizione economica non superiore al livello minimo dell'indicatore di situazione economica equivalente corrispondente ai requisiti di eleggibilità per l'accesso ai livelli essenziali delle prestazioni (lep) del diritto allo studio. I restanti valori della tassa minima sono fissati in 140 euro e 160 euro per coloro che presentano un indicatore di situazione economica equivalente rispettivamente superiore al livello minimo e al doppio del livello minimo previsto dai requisiti di eleggibilità per l'accesso ai livelli essenziali delle prestazioni del diritto allo studio. Il livello massimo della tassa per il diritto allo studio è fissato in 200 euro;
    l'attuale normativa prevede che l'impegno delle regioni in termini economici maggiori rispetto a quanto previsto dall'articolo 18, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68, sia valutato attraverso l'assegnazione di specifici incentivi nel riparto del fondo integrativo statale di cui al comma 1, lettera a), dello stesso decreto legislativo, e del fondo per il finanziamento ordinario alle università statali che hanno sede nel rispettivo contesto territoriale;
    i criteri per il riparto del fondo integrativo per la concessione di prestiti d'onore e di borse di studio sono stabiliti dall'articolo 16 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 9 aprile 2001;
    analogo discorso, circa i limiti che il legislatore statale deve porre all'autonomia degli atenei al fine di garantire la piena attuazione della Costituzione, deve riferirsi alla determinazione delle tasse d'iscrizione all'università. Attualmente anche la contribuzione richiesta agli studenti rappresenta, infatti, un ostacolo alla formazione;
    il decreto del Presidente della Repubblica n. 306 del 1997 regolamenta la disciplina in materia di tasse di iscrizione all'università a carico degli studenti. Tale regolamento prevede che ogni università abbia piena autonomia nella determinazione dell'entità e delle regole della tassazione studentesca rispettando criteri di equità, solidarietà e progressività, tenendo in considerazione la condizione economica dello studente;
    oltre ai contributi universitari, ogni studente è tenuto a versare all'università anche la tassa di iscrizione, fissata inizialmente in trecentomila lire ed aggiornata annualmente con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. L'importo della tassa di iscrizione è identica per tutti gli atenei italiani;
    la contribuzione totale versata dallo studente universitario è la risultante della somma tra la tassa di iscrizione definita annualmente dal Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca e i contributi universitari decisi autonomamente da ogni singola università;
    come contrappeso all'autonomia delle università, per evitare che queste possano stabilire importi contributivi troppo alti, il regolamento stabilisce che la somma delle contribuzioni versate da ogni singolo studente ogni anno alla propria università non possa eccedere il 20 per cento del finanziamento ordinario dello Stato all'ateneo;
    il citato regolamento stabilisce alcuni principi, seguendo criteri più specifici, che prevedono anche la garanzia dell'accesso ai capaci e ai meritevoli privi di mezzi e la riduzione del tasso di abbandono degli studi;
    tale disciplina in materia di contributi universitari è rimasta inalterata fino alle modifiche apportate dalla normativa sulla spending review (decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135), che ha disposto (con l'articolo 7, comma 42) l'introduzione dei commi 1-bis, 1-ter, 1-quater e 1-quinquies dell'articolo 5 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 306 del 1997;
    le modifiche apportate dal citato decreto-legge n. 95 del 2012 entrano nel merito dei limiti della contribuzione studentesca modificando i criteri per individuare la tassazione massima a carico dello studente. In sostanza, viene modificato il calcolo del limite del 20 per cento dell'ammontare della contribuzione studentesca totale (la somma di tutte le tasse pagate dagli studenti in un singolo ateneo) rispetto al finanziamento ordinario assegnato dallo Stato alla singola università;
    con le novelle introdotte dal decreto-legge n. 95 del 2012, ai fini del calcolo della contribuzione studentesca totale, è stata scorporata la contribuzione degli studenti fuori corso. Come conseguenza non sono più considerate, ai fini del calcolo della contribuzione totale versata dagli studenti alle università, le somme pagate dagli studenti fuori corso che, in media, rappresentano il 40 per cento degli iscritti;
    tale novità comporta, di fatto, un aumento del limite massimo di contribuzione sia per gli studenti in corso che per quelli fuori corso; inoltre, è eliminato qualsiasi limite alla determinazione dell'importo della contribuzione studentesca per gli studenti fuori corso;
    il citato decreto-legge n. 95 del 2012 prevede, inoltre, entro tre anni dalla entrata in vigore, un aumento significativo della tassazione per tutti gli studenti;
    il fondo per il finanziamento ordinario delle università (ffo) è relativo alla quota a carico del bilancio statale delle spese per il funzionamento e le attività istituzionali delle università, comprese le spese per il personale docente, ricercatore e non docente, per l'ordinaria manutenzione delle strutture universitarie e per la ricerca scientifica e della spesa per le attività sportive universitarie;
    negli ultimi anni il fondo per il finanziamento ordinario è sensibilmente diminuito; per questa ragione, le università che si sono trovate a superare il limite del 20 per cento sono numerose, ben due delle università statali su tre nell'anno accademico 2011/2012;
    alcune università (Insubria, Milano statale, Milano Bicocca, Napoli Partenope, Urbino, Venezia Ca’ Foscari, Venezia Iuav) hanno superato anche il 30 per cento e una (Bergamo) addirittura il 40 per cento;
    di fatto le modifiche apportate dal decreto-legge n. 95 del 2012 al decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306, scaricano sugli studenti i tagli apportati al fondo per il finanziamento ordinario nel corso degli anni dai vari Governi alla guida del nostro Paese;
    gli atenei che, fino al 2013, non hanno rispettato il tetto massimo degli introiti derivanti da tasse e contribuzione studentesche previste dal decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306, sono stati avvantaggiati dal reclutamento e dalle quote premiali, nonostante fossero in difetto fino all'entrata in vigore delle disposizioni normative introdotte dal decreto-legge n. 95 del 2012;
    dal 2007 alcune associazioni studentesche universitarie hanno avviato una serie di ricorsi amministrativi contro quegli atenei che superavano il limite del 20 per cento stabilito dall'articolo 5, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306;
    dopo l'accoglimento, nel marzo del 2011, del primo ricorso sulla contribuzione studentesca presentato nel 2007 (registro generale 599) al tribunale amministrativo regionale dell'Abruzzo contro l'Università di Chieti Pescara, si sono moltiplicati i ricorsi in vari atenei italiani;
    di fatto, le disposizioni normative introdotte dal decreto-legge n. 95 del 2012 hanno rappresentato una sanatoria per le università che fino al 2012 non rispettavano quanto stabilito dal decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306;
    si ritiene necessario, in considerazione di quanto esposto, prevedere l'esonero dal pagamento (della contribuzione studentesca per gli studenti meno abbienti introducendo una no tax area per indicatori della situazione economica equivalente al di sotto dei 20 mila euro. Secondo i dati forniti dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca l'ammontare del fondo di finanziamento ordinario 2017 si attesta intorno ai 7.003 milioni di euro, mentre il gettito complessivo della contribuzione studentesca intorno ai 1.497 milioni di euro;
    al fine di non ridurre le già esigue risorse destinate al sistema universitario, risulta doveroso rimborsare alle università il mancato gettito derivante dall'introduzione della no tax area attraverso un incremento dedicato del fondo di finanziamento ordinario,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative volte a modificare la disciplina attualmente vigente sulla contribuzione studentesca alle università statali stabilendo un'area di reddito entro cui lo studente sia esente dal pagamento della contribuzione (fascia no-tax) per tutti gli studenti con Isee al di sotto dei 20.000 euro;
   a dare pronta attuazione a quanto previsto dall'articolo 20 del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68, attivando l'osservatorio nazionale per il diritto allo studio universitario e, in particolare, creando un sistema informativo, correlato a quelli delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano, per l'attuazione del diritto allo studio, anche attraverso una banca dati dei beneficiari delle borse di studio;
   ad assumere iniziative normative, a garanzia dell'effettività del diritto allo studio sancito dalla Costituzione, volte ad incrementare le risorse destinate al diritto allo studio universitario con l'obiettivo di far sì che gli strumenti e i servizi per il conseguimento del pieno successo formativo nei corsi di istruzione superiore siano a disposizione di una platea di studenti che sia almeno corrispondente ad un quarto degli iscritti, in modo da allinearsi agli standard della Germania e della Francia;
   al fine di implementare l'utilizzo delle nuove tecnologie nonché di agevolare lo studio universitario a distanza, ad assumere iniziative per incrementare le risorse destinate alla didattica universitaria digitale;
   al fine di garantire il diritto alla prosecuzione degli studi e alla soddisfazione professionale di ciascuno, ad assumere iniziative per rimodulare l'attuale sistema di accesso per i corsi di laurea a numero programmato.
(1-01268)
«Vacca, D'Uva, Brescia, Simone Valente, Luigi Gallo, Marzana, Di Benedetto, D'Incà».
(13 maggio 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    le norme in materia di diritto allo studio universitario trovano il loro fondamento nella Costituzione che all'articolo 3, comma 2, affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese e, all'articolo 34, prevede, tra l'altro, che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi e stabilisce che la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso;
    la Costituzione stabilisce, all'articolo 117, comma 2, lettera m), che è competenza dello Stato stabilire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale;
    alle regioni spetta in via esclusiva la potestà legislativa in materia di diritto allo studio;
    la legge delega n. 240 del 2010, cosiddetta riforma Gelmini, in attuazione delle norme costituzionali è intervenuta in materia prevedendo la revisione della normativa in materia di diritto allo studio e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere erogate dalle università italiane;
    tra gli obiettivi principali perseguiti dalla legge n. 240 del 2010 ci sono stati quelli di rafforzare le opportunità di accesso all'istruzione superiore per gli studenti provenienti da situazioni socioeconomiche sfavorite e di promuovere il merito tra gli studenti;
    in attuazione della delega è stato approvato il decreto legislativo n. 68 del 2012, che prevede la partecipazione di soggetti diversi, ciascuno nell'ambito delle proprie competenza, ad un sistema integrato di strumenti e servizi al fine di garantire il diritto allo studio;
    il finanziamento per il diritto allo studio universitario riesce a coprire appena il 73 per cento circa delle richieste e questa percentuale registra una tendenza a diminuire: dal 74,25 per cento del 2013/14 si è passati al 73,89 per cento del 2014/15;
    questi dati rappresentano la situazione a livello nazionale, ma la percentuale di copertura delle richieste non risulta omogenea tra le varie regioni e la distribuzione del fondo per il diritto allo studio evidenzia forti sperequazioni al livello regionale;
    il meccanismo di ripartizione dei fondi statali alle regioni è basata sulla loro ricchezza per cui quelle che riescono ad assegnare un maggior numero di borse di studio perché più ricche ottengono paradossalmente maggiori fondi dallo Stato; tale distribuzione attiva un circolo vizioso per cui alle regioni del Sud vanno meno risorse rispetto a quelle del Nord;
    un alto grado di istruzione rappresenta un aspetto fondamentale per il progresso sia economico sia sociale di un Paese, tanto più in un'economia globalizzata e basata sulla conoscenza, nella quale è necessario disporre di una forza lavoro qualificata per poter competere in termini di produttività, qualità e innovazione; livelli bassi di istruzione terziaria, infatti, agiscono da ostacolo per la competitività e possono compromettere la capacità del nostro Paese di generare «crescita intelligente»;
    ampliare l'accesso all'istruzione superiore aumentando la partecipazione ai corsi di istruzione terziaria in particolare del membri dei gruppi svantaggiati, appare una scelta necessaria anche in considerazione degli obiettivi che l'Unione europea ha indicato ai propri stati membri. La strategia Europa 2020 è stata adottata per innovare Lisbona 2001, per rispondere alle nuove priorità che la crisi economica ha posto e che hanno portato l'Unione europea a riconoscere l'urgenza di promuovere una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva caratterizzata da alti livelli di occupazione, produttività e coesione sociale. La Strategia Europa 2020 si è posta cinque obiettivi, tra questi investire in istruzione, innovazione e ricerca, per sviluppare una economia basata sulla conoscenza e sulla innovazione, indicando tra i traguardi prioritari da raggiungere entro il 2020 quello di portare almeno al 40 per cento la percentuale di popolazione in possesso di un diploma universitario o di una qualifica simile in età 30-34 anni;
    conoscenza, ricerca, sviluppo appaiono quindi quali tasselli fondamentali di un quadro strutturale generale volto a rispondere alle carenze strutturali che l'economia europea ha mostrato ma per poter raggiungere questi risultati l'Europa richiede ai Paesi membri di adottare a livello nazionale provvedimenti che si adattino alla specifica situazione locale; attraverso la crescita del livello generale di istruzione;
    la quota di popolazione con un'istruzione terziaria nella Unione europea dei 28 è in costante aumento ma tra i territori in cui si registra un andamento di segno inverso ci sono quattro regioni che si trovano nell'Italia meridionale: Basilicata, Campania, Sardegna e Sicilia;
    secondo il rapporto Education at a glance 2015 in Italia solo il 34 per cento dei giovani, a fronte di una media Ocse del 50 per cento, consegue un diploma d'istruzione terziaria,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative volte a garantire pari opportunità di accesso all'alta formazione universitaria, all'alta formazione artistica e musicale, agli istituti tecnici superiori, attraverso una effettiva implementazione del diritto allo studio, che valorizzi i talenti delle studentesse e degli studenti in linea con gli obiettivi della Strategia UE 2020 e i livelli europei ed internazionali;
   ad assumere le iniziative necessarie a portare l'investimento della quota di prodotto interno lordo nel comparto universitario al livello degli altri Paesi dell'Ocse, dell'Unione europea e del Consiglio d'Europa, potenziando le sinergie tra atenei, istituti per l'alta formazione ed istituti tecnici superiori, e tessuto produttivo, anche attraverso l'attuazione di un sistema duale sul modello europeo.
(1-01283) «Centemero, Occhiuto».
(23 maggio 2016)

INTERROGAZIONI A RISPOSTA IMMEDIATA

   COSCIA, BONACCORSI, MANZI, RAMPI, MALISANI, PES, CAROCCI, NARDUOLO, GHIZZONI, D'OTTAVIO, ASCANI, ROCCHI, MALPEZZI, CRIMÌ, IORI, SGAMBATO, DALLAI, VENTRICELLI, BLAZINA, COCCIA, MARTELLA, CINZIA MARIA FONTANA e BINI. — Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
   la riforma del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo avviata con il decreto-legge n. 83 del 2014 e proseguita con la legge di stabilità per il 2016, finalizzata alla razionalizzazione del dicastero e a rendere più efficiente l'amministrazione periferica di tutela del patrimonio culturale, si completa con i decreti di gennaio e febbraio 2016;
   in particolare, lo schema di decreto ministeriale «Riorganizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo ai sensi dell'articolo 1, comma 327, della legge 28 dicembre 2015, n. 2018» introduce le soprintendenze archeologia, belle arti e paesaggio nate dall'accorpamento delle soprintendenze archeologiche con le soprintendenze belle arti e paesaggio;
   la creazione delle cosiddette soprintendenze uniche ha reso possibile un aumento del numero dei presidi sul territorio e la creazione di una sola direzione generale archeologia, belle arti e paesaggio, per la quale è stata incaricata come direttore la dottoressa Caterina Bon Valsassina, già direttore della direzione generale educazione e ricerca;
   tuttavia, nonostante, le premesse sovra indicate la creazione della soprintendenza unica ha incontrato alcune critiche –:
   quali siano stati i presupposti che hanno suggerito la creazione delle soprintendenze uniche e quali siano gli strumenti messi in campo per migliorare la tutela, la valorizzazione e la fruizione del patrimonio culturale italiano. (3-02274)
(24 maggio 2016)

   RAMPELLI, CIRIELLI, MAIETTA, PETRENGA, TAGLIALATELA, GIORGIA MELONI, LA RUSSA, NASTRI, RIZZETTO e TOTARO. — Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
   pochi giorni fa al Colosseo il personale della società «Coopculture», concessionaria dei servizi di biglietteria, ha tentato di impedire l'ingresso a una guida abilitata di Roma e al gruppo di turisti che accompagnava;
   la guida e il suo gruppo erano «colpevoli» solo di aver acquistato i propri biglietti singolarmente, e pagandoli esattamente la stessa cifra, per sottrarsi al fatto che nei periodi di alta stagione gli ingressi per i gruppi sono quasi sempre esauriti, ma questo ha suscitato la reazione dei dipendenti della società concessionaria, la quale, per garantirsi maggiori incassi, accorda un canale preferenziale d'ingresso a quei gruppi che siano accompagnati da una guida interna del gestore;
   la concessione in favore della società «Coopculture», che opera in associazione temporanea d'impresa con la società «Mondadori musei», è in essere da ben diciotto anni sulla base di reiterate proroghe e senza che sia mai più stata svolta alcuna gara per l'affidamento del servizio;
   il Colosseo è un monumento pubblico e le guide abilitate sono le guide ufficiali che hanno il diritto di svolgere il proprio lavoro in tutti i siti della città;
   l'area archeologica e il centro storico di Roma sono ormai un mercato affollato da centinaia di guide turistiche abusive, da venditori clandestini e abusivi e da tante altre figure che operano nell'illegalità;
   il Colosseo, come altri siti monumentali, storici e archeologici che si trovano sul territorio comunale di Roma, è di proprietà dello Stato, che decide a chi affidarne la gestione e la conseguente ripartizione degli incassi, senza alcun intervento da parte dell'amministrazione comunale;
   rispondendo ad una precedente atto di sindacato ispettivo presentato dagli interroganti, nel settembre 2015, il Ministro interrogato, con riferimento all'espletamento di nuove gare, aveva garantito che «le gare Consip verranno fatte. Abbiamo dovuto aspettare e stiamo aspettando l'insediamento dei venti direttori per i musei autonomi e i direttori dei poli museali stanno già lavorando. La gara Consip, infatti, verrà fatta su un progetto scientifico predisposto dal museo e, quindi, sarà semplicemente una gara per affidarci ai concessionari esterni»;
   il Ministro interrogato aveva anche affermato che «l'anomalia vera, dalla “legge Ronchey” in poi, è che non è stata creata nessuna struttura pubblica in grado di gestire i servizi aggiuntivi. Se domani mattina il mio Ministero decidesse di gestire direttamente il bookshop di un museo o dell'altro, non avrebbe la struttura in grado di farlo ed è esattamente quello che stiamo cercando di fare attraverso una delle società in house del Ministero, per poter avere la scelta tra fare la gara o gestirlo direttamente e, quindi, anche comunque con un effetto di calmierare il mercato»;
   dal settembre 2015 ad oggi né sono state bandite le nuove gare per l'affidamento dei servizi, né tantomeno all'interno del Ministero si è riusciti a creare una valida alternativa all'esternalizzazione dei servizi, mentre i siti turistici italiani più importanti sprofondano nel degrado –:
   quali urgenti iniziative intenda assumere rispetto ai fatti di cui in premessa, affinché la gestione del patrimonio turistico italiano avvenga nel rispetto dei parametri di efficienza, legalità e decoro dei luoghi, anche attraverso il coinvolgimento delle amministrazioni comunali. (3-02275)
(24 maggio 2016)

   BALDELLI. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 208 del codice della strada prevede che il 50 per cento delle somme che i comuni incassano con le multe da infrazioni al codice stesso, comminate dalla polizia municipale, debba essere obbligatoriamente utilizzato per finalità connesse alla sicurezza stradale, alla manutenzione delle strade, al potenziamento dei servizi di controllo finalizzati alla sicurezza urbana e alla sicurezza stradale attraverso l'acquisto di automezzi, mezzi e attrezzature, mentre il restante 50 per cento possa essere liberamente destinato ad altre finalità;
   l'articolo 142 del codice della strada dispone che i comuni debbano destinare integralmente le somme di loro competenza, derivanti dalle multe comminate attraverso l'utilizzo degli autovelox, alla realizzazione di interventi di manutenzione e messa in sicurezza delle infrastrutture stradali, ivi comprese la segnaletica e le barriere, e dei relativi impianti, nonché al potenziamento delle attività di controllo e di accertamento delle violazioni in materia di circolazione stradale, ivi comprese le spese relative al personale, nel rispetto della normativa vigente relativa al contenimento delle spese in materia di pubblico impiego e al patto di stabilità interno;
   la situazione della manutenzione stradale in molti comuni è drammatica e la grande presenza di crepe, buche, avvallamenti e altre forme di dissesto del manto stradale è spesso causa di una notevole quantità di sinistri e, di conseguenza, di un contenzioso giudiziario ed assicurativo importante;
   le sanzioni amministrative comminate per la violazione del codice della strada sono diventate per alcuni enti locali, di fatto, uno strumento per garantirsi entrate supplementari in favore dei propri bilanci con destinazioni non conformi alle previsioni di legge;
   i comuni devono trasmettere in via informatica al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti ed al Ministero dell'interno, entro il 31 maggio di ogni anno, una relazione in cui sono indicati, con riferimento all'anno precedente, l'ammontare complessivo dei proventi di propria spettanza, derivanti sia dall'accertamento delle violazioni ex articolo 208 (infrazioni al codice della strada), che da quelle ex articolo 142 (infrazioni rilevate dai cosiddetti autovelox), come risultante da rendiconto approvato nel medesimo anno, e gli interventi realizzati a valere su tali risorse, con la specificazione degli oneri sostenuti per ciascun intervento –:
   se il Governo non ritenga di dare seguito al più presto, attraverso interventi normativi, al dispositivo della mozione n. 1-01085, approvata il 28 gennaio 2016 dalla Camera dei deputati e relativa ai proventi delle multe derivanti dai cosiddetti autovelox, e, analogamente, se non intenda introdurre sanzioni altrettanto efficaci in ordine all'obbligo di legge di destinare al miglioramento della sicurezza stradale il 50 per cento delle multe provenienti dalle sanzioni amministrative pecuniarie per violazioni previste dal codice della strada. (3-02276)
(24 maggio 2016)

   GALGANO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   il trasporto merci su gomma è ancora oggi la modalità più diffusa in Italia, nonostante sia lento, pericoloso e inquinante;
   attualmente il nostro Paese vanta il triste primato di trasportare il 94 per cento delle merci su gomma, con conseguenti danni per l'ambiente circostante ed aumento del traffico su strade ed autostrade;
   tale sistema di trasporto potrebbe essere affiancato e gradualmente sostituito da una rete alternativa altamente innovativa, denominata Pipenet, che permette alle merci di viaggiare alla velocità di 1.500 chilometri all'ora;
   questo progetto ad altissima velocità è allo studio da circa quindici anni all'Università di Perugia-campus di ingegneria, presso il Centro di ricerca interuniversitario sull'inquinamento e l'ambiente Ciriaf, a cui afferiscono docenti di oltre venti atenei;
   nello specifico, il sistema Pipenet, composto essenzialmente da tubi sotto vuoto all'interno dei quali si fa viaggiare la merce in apposite capsule, per funzionare sfrutta un motore elettrico lineare che, al contrario della propulsione utilizzata nei vecchi sistemi di posta pneumatica, crea un'onda magnetica in grado di sollevare e spingere il carico da portare a destinazione;
   l'innovativa rete di trasporto riesce a sviluppare una velocità di ben 1.500 chilometri orari e permette di spostare una tonnellata di merce al secondo circa impiegando pochissima energia. Al contrario della posta pneumatica, infatti, all'interno dei tubi viene eliminata l'aria e quindi l'attrito, causa dell'elevato consumo energetico. Inoltre, l'energia della frenata viene recuperata abbassando ulteriormente i consumi e aumentando l'efficienza del sistema;
   il diametro dell'infrastruttura di poco più di un metro, l'elevata efficienza energetica, la possibilità di alimentare il sistema con pannelli fotovoltaici posti sopra l'infrastruttura, l'altissima velocità e la possibilità di coprire l'ultimo miglio con i droni rendono tale sistema adatto a realizzare una vera e propria rete di trasporto fino al balcone delle abitazioni, la cosiddetta physical internet, caratterizzata da bassissimo impatto ambientale, che, grazie ai pannelli fotovoltaici di cui è dotata, produce mediamente in un anno più energia di quanta ne consuma;
   la rete Pipenet e i droni, opportunamente dotata di sistemi di sicurezza, permetterebbe di ricevere e spedire la merce sul balcone, non solo dai supermercati o grandi magazzini, ma addirittura direttamente dal produttore stesso, con applicazioni straordinarie e inimmaginabili anche per il nostro settore agroalimentare di eccellenza, per la raccolta differenziata porta a porta dei rifiuti, per l’e-commerce, il just in time e altro;
   inoltre, i tubi che compongono la rete Pipenet possono essere interrati, affiancati ad infrastrutture già esistenti e posizionati anche sott'acqua, così come avviene per le condotte del gas naturale;
   la realizzazione di una simile infrastruttura sarebbe in grado di trasportare «via tubo» circa il 70 per cento della merce che oggi viaggia su gomma, decongestionando la rete stradale e riducendo drasticamente gli incidenti;
   nel periodo 2000-2005 sono stati depositati dal gruppo di ricerca Ciriaf, coordinato dal professor Franco Cotana, due domande di brevetto e due domande di registrazione marchio relative a questo sistema di trasporto:
    il 5 dicembre 2005 è stato stipulato un accordo programmatico tra Ciriaf e Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare relativo allo «studio teorico sperimentale volto a verificare la fattibilità tecnologica ed industriale del sistema di trasporto Pipenet e dei suoi componenti e a definire le linee guida generali per la progettazione esecutiva». Nell'ambito del suddetto accordo, il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha cofinanziato al Ciriaf-Università di Perugia un progetto per lo sviluppo, la realizzazione e la sperimentazione di un prototipo di circa 80 metri presso la sede della facoltà di ingegneria di Terni. In particolare, è stato sviluppato un apposito motore elettrico lineare, sono state testate le tecnologie del vuoto e della levitazione magnetica, è stata realizzata un'infrastruttura tubolare di prova;
   nel 2006 è stato siglato un accordo quinquennale tra Ciriaf-Università di Perugia e Ansaldo Breda trasporti di Finmeccanica per lo sviluppo del sistema Pipenet;
   il 9 marzo 2009 un prototipo di Pipenet funzionante è stato esposto a Bruxelles nell'ambito della conferenza «Il futuro dei trasporti nell'Unione europea» alla presenza dell'allora Commissario europeo ai trasporti onorevole Tajani, che definì Pipenet il quinto sistema di trasporto dopo la strada, la nave, il treno e l'aereo;
   il 29 aprile 2016 si è svolta ad Assisi, nell'ambito del tema Smart Cities, un convegno per fare il punto sull'evoluzione del sistema Pipenet e la sua integrazione con i droni, nonché il loro interfacciamento con gli edifici, in un'ottica di circular economy;
   in questi giorni sta suscitando clamore sui mezzi di informazione la notizia della realizzazione in California di un sistema simile a Pipenet, denominato Hyperloop, proposto dalla società americana Hyperloop transportation technologies, che con le stesse caratteristiche dovrebbe essere destinato al trasporto di persone e merci. È, inoltre, notizia di queste ultime settimane che il Ministro dell'economia della Repubblica slovacca Vazil Hudak ha firmato un accordo con Hyperloop transportation technologies per esplorare la possibilità di collegare Bratislava con Vienna e Budapest in soli otto minuti –:
   se non ritenga che la rete Pipenet possa rappresentare un'alternativa valida ed altamente innovativa per il trasporto merci rispetto all'utilizzo del sistema su gomma e, in caso positivo, quali iniziative intenda adottare per accelerare la realizzazione di questa infrastruttura capace di velocizzare il trasporto delle merci, nonché di ridurre fortemente l'impatto ambientale e la congestione della rete stradale. (3-02277)
(24 maggio 2016)

   PALESE. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   nel 2004 la regione Puglia (governo di centrodestra) approva il progetto per il raddoppio della strada statale n. 275 Maglie-Santa Maria di Leuca, finanziato con 152 milioni di euro;
   tra il 2005 ed il 2009 il progetto diviene oggetto di molteplici contrarietà da parte di chi sostiene che abbia un impatto ambientale troppo elevato, tanto che la stessa regione Puglia (governo di centrosinistra) con una delibera della giunta arriva a definanziare l'opera, salvo poi fare retromarcia;
   nel 2009, d'intesa con il territorio, vengono approvate alcune varianti al progetto originario che, modificando in parte il tracciato della strada, garantiscono un minor impatto ambientale, tanto che la giunta regionale nel riconfermare il finanziamento denominò questa strada «strada parco»;
   tali modifiche fanno lievitare i costi dell'opera, ma il Governo Berlusconi, sempre nel 2009, reperisce gli ulteriori 136 milioni di euro necessari, per un costo totale dell'opera di 288 milioni di euro;
   nel marzo del 2009 viene approvata la delibera Cipe che stanzia i fondi aggiuntivi e, poi, a marzo del 2011 il Cipe approva in via definitiva anche il progetto, confermando lo stanziamento anche con un'ulteriore delibera a gennaio 2012;
   purtroppo, nonostante ciò, si susseguono decine di ricorsi alla giustizia amministrativa, prima per gli espropri necessari alla realizzazione dell'opera, poi anche per l'affidamento dei lavori;
   nonostante alcuni contenziosi tra imprese ancora in atto, ad ottobre del 2013 l'Anas avvia le procedure per l'approvazione del progetto esecutivo per il raddoppio della strada statale e per la dichiarazione di pubblica utilità preliminare agli espropri;
   a giugno 2015, rispondendo ad un precedente atto di sindacato ispettivo dell'interrogante e negli ultimi giorni sulla stampa locale, il Governo ha confermato la strategicità dell'opera, la volontà di realizzarla e il proposito di sollecitare Anas a procedere all'affidamento dei lavori dopo l'ultimo pronunciamento del Consiglio di Stato;
   sempre negli ultimi giorni anche l'Anac ha riscontrato svariate irregolarità nell’iter del procedimento e pare che da questo siano nati nuovi accertamenti della magistratura penale;
   ad oggi quell'opera non è neanche mai partita, con conseguenze drammatiche sia dal punto di vista della sicurezza (la strada oggi ancora a due corsie è talmente pericolosa e teatro di talmente tanti incidenti mortali da essere soprannominata «statale della morte»), sia dal punto di vista dello sviluppo socioeconomico del basso Salento (il trasporto di persone e merci avviene a passo d'uomo), che rischia l'isolamento;
   appare inammissibile che un'opera pubblica, ritenuta infrastruttura strategica, approvata ed interamente finanziata ormai da 10 anni, sia ancora allo stato embrionale e senza neanche un cantiere aperto, con il rischio costante di perdere i finanziamenti –:
   se il Ministro interrogato non ritenga di dover attivare gli strumenti idonei ad accertare le cause di questi ritardi, adoperandosi con ogni iniziativa di competenza, in particolare presso l'Anas, affinché si proceda all'affidamento dei lavori e siano svolti, anche in collaborazione con l'Anac, tutti i controlli necessari sulle procedure, in tal modo garantendo sia legalità e trasparenza nell’iter, sia che l'opera venga realizzata immediatamente e che i cittadini e le imprese del basso Salento possano finalmente avere una strada sicura e veloce. (3-02278)
(24 maggio 2016)

   BOSCO e GAROFALO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   da notizie riportate dalla stampa si apprende che il Governo intenderebbe dar corso alla fusione di Ferrovie dello Stato ed Anas;
   la rilevanza di tale iniziativa richiederebbe indicazioni chiare e puntuali da parte dell'Esecutivo circa i numerosi e complessi aspetti dell'operazione;
   numerose sono le questioni e le problematiche che una tale decisione solleva sia in relazione alla gestione dell'intera operazione che ai risvolti economici e sociali della medesima;
   in tale contesto la prevista privatizzazione delle Ferrovie dello Stato propone una serie di problematiche che, se confermata la veridicità dell'operazione, richiedono chiarimenti accurati e precisi proprio per la complessità intrinseca in tale provvedimento;
   sarebbe opportuno definire, ad esempio, se, nel quadro della prevista privatizzazione delle Ferrovie dello Stato, si intenda procedere allo scorporo tra gestione e rete: operazione che appare indispensabile per conferire un quadro di certezza e di corretta esecutività;
   la complessità ed i molteplici aspetti di tale iniziativa richiedono valutazioni approfondite e puntuali circa la fattibilità, la declinazione delle varie fasi gestionali, i riflessi sul mercato e sulla concorrenza, proprio al fine di assicurarne i vantaggi ed i benefici effetti per il Paese –:
   se il Ministro interrogato, confermando la volontà del Governo di procedere all'accorpamento di Anas e Ferrovie dello Stato, sia in condizione di fornire indicazioni precise e dettagliate sull'intera operazione e sugli effetti anche in ordine alla politica degli investimenti ed alla qualità dei servizi resi. (3-02279)
(24 maggio 2016)

   CIPRINI, TRIPIEDI, CHIMIENTI, COMINARDI, DALL'OSSO, LOMBARDI e DI BATTISTA. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   il 7 marzo 2016 è trascorso un anno anche dall'entrata in vigore del decreto legislativo n. 23 del 2015 che ha introdotto il contratto a tutele crescenti;
   è noto che il contratto a tutele crescenti, lungi dall'innalzare le tutele del dipendente, ha abrogato l'articolo 18 della legge n. 300 del 1970, eliminando il diritto del lavoratore alla reintegra sul posto di lavoro e ancorando la tutela contro il licenziamento ad un mero indennizzo economico;
   ad una maggiore flessibilità in uscita dal posto di lavoro (ovvero licenziamenti più facili) avrebbe dovuto, nelle intenzioni della riforma, corrispondere – da una parte – l'effetto di accrescere l'occupazione e – dall'altra – la creazione di strumenti efficienti e rapidi a tutela del dipendente espulso dal mondo del lavoro affinché gli fosse consentito il reperimento di una nuova occupazione;
   la legge di stabilità per il 2015 ha previsto, infatti, per le nuove assunzioni effettuate fino al 31 dicembre 2015 con contratto di lavoro a tempo indeterminato, l'esonero per tre anni e nel limite di 8.060 euro su base annua dal versamento dei contributi a carico dei datori di lavoro; tale misura è stata riproposta nella legge di stabilità per il 2016 anche per le assunzioni effettuate nel 2016, seppur con uno sgravio contributivo minore e limitatamente ad un periodo più breve;
   a distanza di oltre un anno dall'entrata in vigore del contratto a tutele crescenti e degli incentivi per la decontribuzione, oggi l'Inps certifica che, nei primi tre mesi dell'anno, sono stati stipulati 428 mila contratti a tempo indeterminato (comprese le trasformazioni), mentre le cessazioni sono state 377 mila, con un saldo positivo di 51 mila unità. Il dato è peggiore del 77 per cento rispetto al saldo positivo di quasi 225 mila contratti stabili dei primi tre mesi 2015. «Si conferma così la tendenza negativa partita con l'anno nuovo: a gennaio la flessione delle assunzioni certificata dall'Inps era stata del 39,5 per cento, a febbraio del 33 per cento. Il saldo del solo mese di marzo, confrontato con quello di marzo 2015, restituisce un preoccupante -150 per cento» (fattoquotidiano.it del 18 maggio 2016);
   in questo contesto, gli unici contratti ad aumentare sono quelli precari. Il saldo dei rapporti a tempo determinato, nel primo trimestre 2016, è positivo di 272 mila unità, con un balzo in avanti rispetto all'anno scorso del 22,2 per cento. «E in tema di precariato, prosegue anche l'avanzata dei voucher, i buoni per pagare il lavoro accessorio. Nel primo trimestre dell'anno sono stati venduti 31,5 milioni di tagliandi, con un incremento del +45,6 per cento rispetto al primo trimestre 2015. Pochi giorni fa, la stessa Inps aveva rivelato come il 37 per cento dei percettori di voucher non ha altri redditi da lavoro, mentre l'85 per cento guadagna meno di mille euro l'anno» (fattoquotidiano.it del 18 maggio 2016);
   secondo i dati contenuti in un report della Cgil nazionale, a fronte di 6,1 miliardi di euro spesi nel solo 2015 per la decontribuzione, si registrano poco più di 100 mila occupati aggiuntivi: un rapporto costi-benefici decisamente sproporzionato;
   anche il programma «Garanzia giovani» non presenta risultati apprezzabili, visto che il professor Michele Tiraboschi, coordinatore scientifico di Adapt in un articolo su @bollettinoADAPT del 21 aprile 2016 e pubblicato anche in Panorama del 27 aprile 2016 con il titolo «Giovani, disoccupati e beffati», scrive «da festeggiare c’è davvero ben poco», poiché «Garanzia giovani» avrebbe generato «un vero e proprio esercito di giovani di belle speranze che hanno preso sul serio la promessa di una “garanzia” iscrivendosi al programma e mettendosi pazientemente in coda a una porta che, però, per la maggioranza di loro, è rimasta chiusa alimentando rabbia e delusione. Perché i numeri parlano chiaro ed è davvero difficile trovarne un'interpretazione positiva»;
   ancor più problematica è la partita relativa al riassetto e alla valorizzazione dei centri per l'impiego e alle numerose misure indicate nel decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150, entrato in vigore il 24 settembre 2015, ma che tardano ancora ad entrare in vigore: l'Anpal è ancora ferma, i centri per l'impiego sono ancora alle prese con la «riforma Delrio» delle province, il personale occupato è insufficiente, mal pagato e inadeguato sotto il profilo della preparazione e dei nuovi compiti ad essi assegnati;
   il ritardo nella creazione di idonee misure di politica attiva del lavoro e del tanto conclamato ricollocamento assistito sta creando un vuoto che porta ad un sostanziale abbandono del disoccupato o del dipendente espulso dal mondo del lavoro che non trova nessuna delle misure previste;
   eppure il Presidente del Consiglio dei ministri durante la conferenza stampa del 20 febbraio 2015, annunciando l'avvento della rivoluzione copernicana dei contratti e la fine della precarietà, affermava: «Nessuno sarà più lasciato solo»;
   secondo Alessandro Rosina, professore di demografia e statistica sociale all'Università Cattolica di Milano, coordinatore dell'indagine rapporto giovani, «L'asse portante delle politiche attive sono i servizi per l'impiego. Ma il problema è che in Italia sono caratterizzati da bassa copertura del territorio, bassa qualità e scarsi investimenti» (Il Fatto quotidiano del 30 novembre 2015);
   è evidente, a parere degli interroganti, l'insufficienza e l'inefficacia delle politiche del lavoro finora adottate rispetto agli obiettivi prefissi –:
   se il Ministro interrogato conosca a quanto ammonti la spesa degli incentivi per la decontribuzione per le nuove assunzioni relative agli anni 2015 e 2016, il numero dei nuovi contratti stabili attivati nel 2016 e la qualità del lavoro di tale nuova occupazione e quali iniziative intenda assumere il Governo per porre rimedio alle criticità esposte, frutto delle politiche del lavoro fino ad ora adottate che, ad avviso degli interroganti, si sono rivelate inefficaci e costose. (3-02280)
(24 maggio 2016)

   AIRAUDO, FASSINA, SCOTTO, FRANCO BORDO, COSTANTINO, D'ATTORRE, DURANTI, DANIELE FARINA, FAVA, FERRARA, FOLINO, FRATOIANNI, CARLO GALLI, GIANCARLO GIORDANO, GREGORI, KRONBICHLER, MARCON, MARTELLI, MELILLA, NICCHI, PAGLIA, PALAZZOTTO, PANNARALE, PELLEGRINO, PIRAS, PLACIDO, QUARANTA, RICCIATTI, SANNICANDRO, ZARATTI e ZACCAGNINI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   nel 2015 sono stati venduti 115 milioni di voucher, pari a oltre un milione e mezzo di lavoratori, che hanno svolto il proprio lavoro in settori più disparati, non necessariamente stagionali. Il numero di lavoratori coinvolti è, addirittura, più che raddoppiato rispetto a soli tre anni fa. Come è triplicato in soli due anni il numero di incidenti sul lavoro che hanno visto persone coinvolte retribuite con i voucher. Il voucher è ormai diventato, nei fatti, una forma di contratto di lavoro;
   nel 2015 la quota di lavoratori che hanno effettuato prestazioni di lavoro accessorio risulta, sempre secondo i dati dell'Inps, cresciuta in modo esponenziale rispetto agli anni precedenti, tanto da risultare pari a 1.380.030 (rispetto ai 1.017.220 nel 2014 e ai 617.615 nel 2013), con una media annua di 303.210 (218.726 nel 2014 e 120.275 nel 2013);
   i voucher, nati come strumento per retribuire lavori occasionali, si stanno estendendo in modo spropositato, diventando nella realtà uno strumento di destrutturazione e dispersione del lavoro, copertura del sommerso e generale peggioramento delle condizioni di lavoro delle persone;
   dai dati forniti si evidenzia un evidente abuso nell'utilizzo dello strumento dei voucher, nel quale sembra, peraltro, celarsi un evidente passaggio da contratti parasubordinati ai cosiddetti voucher;
   illustri esponenti che sostengono l'attuale maggioranza di Governo hanno messo in discussione l'attuale utilizzo dei voucher e la Cgil ha avviato la raccolta delle firme per addivenire all'indizione dei referendum sui temi del lavoro, tra i quali si annovera, tra gli altri, quello sui voucher;
   il comma 6 dell'articolo 48 del decreto legislativo n. 81 del 2015 prevede il divieto del «ricorso a prestazioni di lavoro accessorio nell'ambito dell'esecuzione di appalti di opere o servizi, fatte salve le specifiche ipotesi individuate con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sentite le parti sociali, da adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto.»;
   il gruppo di Sinistra italiana ha già chiesto direttamente al Presidente del Consiglio dei ministri, con l'interrogazione a risposta immediata in Assemblea n. 3/02231 del 4 maggio 2016, di cancellare definitivamente quello che appare con tutta evidenza un sistema inaccettabile di gestione o organizzazione del lavoro, soprattutto dei più giovani, basato sull'utilizzo dell'istituto del voucher. In tale occasione il Presidente del Consiglio dei ministri ha risposto affermando di essere contrario all'abolizione dei voucher, ma si è detto disponibile «a discutere (...) di eventuali forme migliorative, ove vi fosse la possibilità e la necessità di farlo»;
   oggi è possibile e necessario procedere verso un segnale forte nei confronti dell'abuso di utilizzo di voucher relativi al lavoro accessorio, che si può sintetizzare nella definizione di «comuni free voucher», come rifiuto della precarizzazione del lavoro e di marginalizzazione dei diritti dei lavoratori;
   si rende necessario a parere degli interroganti dare un primo possibile e necessario segnale sul tema del lavoro accessorio che porti al divieto dell'utilizzo di prestazioni di lavoro accessorio da parte delle pubbliche amministrazioni degli enti e delle società inserite nel conto economico consolidato, individuati ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 –:
   quali siano le valutazioni del Ministro interrogato in merito alla proposta di divieto dell'utilizzo di prestazioni di lavoro accessorio da parte delle pubbliche amministrazioni degli enti e delle società inserite nel conto economico consolidato, individuati ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196. (3-02281)
(24 maggio 2016)

   SBERNA e GIGLI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   il cosiddetto inverno demografico è reso drammaticamente evidente dai dati Istat: nel 2015 sono nati 488 mila bambini, 8 per mille residenti, quindicimila in meno rispetto al 2014, toccando il minimo storico dalla nascita dello Stato Italiano. Gli anziani con più di 65 anni, invece, sono tredici milioni, più di un quinto della popolazione;
   inoltre, tra il 2007 e il 2014 la povertà tra la popolazione italiana è raddoppiata, passando dal 3 per cento al 7 per cento, con oltre un milione di minori in povertà assoluta (il 10 per cento del totale) e nel 2015 centomila cittadini italiani si sono cancellati dall'anagrafe per trasferirsi all'estero. Un dato, quest'ultimo, in aumento;
   non è difficile prevedere, quindi, conseguenze nefaste sull'invecchiamento della popolazione e sull'economia. Un Paese con poche nascite, con pochi giovani e con una domanda debole e un'economia stagnante rischia di precipitare nella spirale senza uscita della «stagnazione secolare»;
   in questo quadro è comprensibile che le esigenze degli anziani siano al centro del dibattito politico e che le pensioni e la sanità assorbano la parte preponderante della spesa sociale. Ma è altrettanto vero che per alimentare il «welfare per la sicurezza» è indispensabile avere alti tassi di crescita e di occupazione ed è quindi necessario investire sul futuro e su chi è capace di generarlo, cioè le famiglie che mettono al mondo dei figli;
   crescere un figlio, oltre ai molteplici investimenti di tipo affettivo, psicologico, educativo, richiede anche un forte investimento economico. Da una ricerca dell'osservatorio di Federconsumatori risulta che crescere un figlio fino alla maggiore età costa mediamente 170 mila euro, circa 11 mila euro l'anno, con un picco di 13 mila euro nel primo anno di vita;
   le misure a sostegno del reddito familiare assumono un ruolo fondamentale ed è di indiscutibile importanza l'assegno al nucleo familiare, che costituisce, infatti, un importante sostegno per le famiglie dei lavoratori dipendenti e dei pensionati da lavoro dipendente, i cui nuclei familiari sono composti da più persone e che hanno redditi inferiori a quelli determinati ogni anno dalla normativa vigente in materia;
   è da rilevare, tuttavia, che il meccanismo di assegnazione ed erogazione dell'assegno al nucleo familiare non corrisponde più alle esigenze attuali, basandosi su un impianto obsoleto. Per fare alcuni esempi: è prevista la cessazione della corresponsione dell'assegno familiare al compimento della maggiore età del figlio e tale limite temporale di corresponsione dell'assegno familiare, su autorizzazione rilasciata dall'Inps, può essere elevato a 21 anni per motivi di studio, senza che ciò sia comunque sufficiente a consentire il sostegno fino al completamento degli studi. Tutto ciò senza fare altre considerazioni circa la consistenza dell'assegno e dei suoi meccanismi di calcolo. Altra anomalia sta nel fatto che i figli dei lavoratori autonomi sono esclusi da queste misure sostegno del reddito, come se fossero «figli di un dio minore» o forse presupponendo pregiudizialmente che un lavoratore autonomo sia considerato un evasore fiscale e contributivo al quale non possono essere riconosciuti benefici statali;
   dai dati di bilancio pubblicati dall'Inps e relativi all'anno 2014 risulta che la spesa sostenuta per gli assegni al nucleo familiare è stata di 5.380 milioni di euro. I contributi incassati nello stesso anno risultano essere 6.401 milioni di euro. Nell'anno 2013, invece, i contributi incassati erano pari a 6.435 milioni di euro, mentre per le prestazioni relative agli assegni al nucleo familiare sono stati spesi 5.467 milioni di euro. Dai dati di bilancio risulta quindi chiaramente evidente che i contributi versati dai lavoratori dipendenti e destinati alle spese per l'erogazione dell'assegno al nucleo familiare sono in parte destinati ad altro;
   agli interroganti sembra, invece, per le ragioni sociali su esposte – e senza peraltro voler conoscere, né tanto meno disconoscere i diversi bisogni finanziati dalle somme prelevate per l'assegno al nucleo familiare – opportuno che tutti i contributi prelevati per l'assegno al nucleo familiare siano a questo destinati, anche per rispondere all'esigenza di un ricalcolo dell'assegno al nucleo familiare e al suo eventuale prolungamento fino al termine degli studi, cosa che renderebbe l'istituto di cui si tratta maggiormente rispondente ai bisogni delle famiglie e quindi realmente di sostegno –:
   quali iniziative di competenza il Ministro interrogato intenda tempestivamente porre in essere affinché i contributi versati all'Inps per la corresponsione dell'assegno al nucleo familiare siano interamente utilizzati a tale scopo. (3-02282)
(24 maggio 2016)

   INVERNIZZI, ALLASIA, ATTAGUILE, BORGHESI, BOSSI, BUSIN, CAPARINI, CASTIELLO, GRIMOLDI, GIANCARLO GIORGETTI, GUIDESI, FEDRIGA, MOLTENI, PICCHI, GIANLUCA PINI, RONDINI, SALTAMARTINI e SIMONETTI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   l'operazione della Guardia di finanza del 23 maggio 2016 denominata «Italians out» ha portato alla scoperta di una maxitruffa ai danni dello Stato di quasi 17 milioni di euro;
   sono state denunciate 517 persone, percettori dell'assegno sociale in maniera indebita in quanto fittiziamente residenti in Italia;
   ai fini dell'ottenimento dell'assegno sociale, infatti, uno dei requisiti è la residenza effettiva, stabile e continuativa per almeno 10 anni nel territorio nazionale;
   l'operazione investigativa, da quanto si apprende a mezzo stampa, ha riguardato 19 regioni e 81 province; i maggiori picchi di irregolarità sono nell'ordine la Sicilia (3,7 milioni incassati e 123 denunciati), la Campania (3,4 milioni e 98 soggetti denunciati), la Calabria (2,3 milioni e 75 denunciati), il Lazio (1,6 milioni e 48 denunciati), la Puglia (904 mila euro e 29 denunciati);
   non meno di un mese fa, sempre con due distinte operazioni della Guardia di finanza, una nel Lazio, ad Ostia, ed una in Calabria, nella Locride, erano state smascherate altre truffe milionarie per circa 3,3 milioni di euro sull'erogazione dell'indennità di disoccupazione, che ha portato alla denuncia di 123 persone a Roma, tra cui due impiegati Inps, e 259 a Reggio Calabria;
   del marzo 2016, invece, la maxitruffa all'Inps da 200 mila euro, messa a punto da quattro figli che, dopo la morte delle rispettive mamme nel 2012 e nel 2013, non avevano denunciato il decesso all'istituto previdenziale, continuando a vedersi accreditare sui conti correnti le pensioni spettanti ai propri cari;
   quanto riportato evidenzia delle falle nel sistema dei controlli Inps, in qualche misura compensate dall'operato della Guardia di finanza, il cui intervento tuttavia non comporta automaticamente il recupero pieno di quanto indebitamente percepito nel frattempo, a danno dell'erario ma soprattutto dei reali aventi diritto a prestazioni socio-assistenziali –:
   se e quali provvedimenti, nell'ambito delle proprie competenze, il Ministro interrogato intenda porre in essere per contrastare in via preventiva la riscossione indebita di prestazioni a carico dell'Inps. (3-02283)
(24 maggio 2016)

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