TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 697 di Lunedì 24 ottobre 2016

 
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MOZIONE SULLA SALVAGUARDIA DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE E SULLE POLITICHE IN MATERIA DI SALUTE

   La Camera,
   premesso che:
    il Servizio sanitario nazionale, istituito dalla legge n. 833 del 1978, che aveva finora garantito il fondamentale diritto alla salute, dopo ben quattro riforme, fatica sempre più a rappresentare il pilastro fondamentale del sistema di welfare pensato dal legislatore in attuazione dell'articolo 32 della Costituzione;
    i limiti e le iniquità del sistema sono sempre più evidenti e la sanità pubblica, in questi ultimi anni, non sembra più essere in grado di adempiere a questo compito;
    per garantire universalità ed equità, la sanità pubblica ha bisogno di maggiori risorse finanziarie e, allo stesso tempo, di un profondo cambiamento. Il cambiamento non si può affidare alle risposte del mercato e al maggiore ricorso al privato – che finiscono inevitabilmente per generare disuguaglianze –, ma deve invece trovare gli strumenti riformatori avendo come stella polare un servizio pubblico accessibile e universale fondato sulla fiscalità generale, capace di garantire effettivamente a tutti e tutte il diritto alla salute;
    si sta in realtà andando verso un sistema sanitario a due binari: uno pubblico, inefficiente e inadeguato, destinato alle fasce sociali medie e basse, e uno misto pubblico-privato di sanità integrativa, finanziato con assicurazioni sanitarie private o di categoria, con prestazioni spesso migliori destinate ai cittadini con redditi più alti. Un sistema a due binari, peraltro, auspicato da soggetti portatori di interessi economici ed enti di ricerca quale soluzione di una presunta insostenibilità dell'attuale Servizio sanitario nazionale;
    recenti ricerche dell'Istat e del Censis hanno evidenziato le dimensioni del mancato accesso alle cure di milioni di cittadini. Nell'ultimo anno undici milioni di italiani hanno dovuto rinunciare a prestazioni sanitarie per difficoltà economiche. I numeri sono in forte aumento: nel 2012 erano 9 milioni;
    il livello della partecipazione alla spesa per l'assistenza ambulatoriale e diagnostica in continuo aumento, oltre all'allungamento, a volte di mesi, delle liste di attesa e alla mancata programmazione dell'offerta a livello territoriale, determinano la fuga di massa quasi obbligata dal servizio pubblico, tanto da indurre 10 milioni di italiani a ricorrere alle cure a pagamento nelle strutture private e 7 milioni alle prestazioni in libera professione nei servizi pubblici;
    nel 49o rapporto Censis, il confronto fra pubblico e privato su tempi e costi delle prestazioni evidenzia, per esempio, che per una risonanza magnetica le strutture private richiedono in media 142 euro, per un'attesa di 5 giorni, mentre, nel pubblico, si pagano 63 euro di ticket, ma l'attesa sale a 74 giorni. Tradotto: 79 euro di spesa in più e 69 giorni in meno nel confronto fra pubblico e privato;
    nel 2015 la Corte dei conti ha rilevato quasi 2,9 miliardi di euro di ticket sanitari pagati dagli italiani tra partecipazione alla spesa farmaceutica, specialistica ambulatoriale, pronto soccorso e altre prestazioni. A questi, va aggiunto un miliardo di euro per prestazioni private nei servizi pubblici;
    i servizi sanitari regionali non garantiscono più equità di accesso e uniformità dei livelli di assistenza sul territorio nazionale. A quindici anni dalla modifica del titolo V della parte seconda della Costituzione, che ha introdotto disposizioni nella direzione del federalismo si aggravano, in sanità, le disuguaglianze del Paese; si accrescono inoltre l'indebolimento del senso di cittadinanza nazionale, la frammentazione dell'assistenza, anche di quella farmaceutica, la declinazione del diritto costituzionale alla salute in modi diversi a seconda della residenza e del reddito. I diritti di cittadinanza cessano di essere uguali sul territorio nazionale. La Conferenza Stato-regioni è sempre più un luogo di mediazioni tra lo Stato e le regioni più ricche e forti del Centro-Nord a scapito di quelle più povere e deboli del Centro-Sud, spesso in disavanzo e commissariate, come dimostra l'ultimo accordo sulla mobilità sanitaria interregionale;
    per la prima volta dopo molti anni, alcuni indicatori di salute della popolazione italiana mostrano un peggioramento. Gli anni di vita in buona salute si sono ridotti di circa 6 anni dal 2005 al 2013 e nel 2014 si è fermato l'incremento della speranza di vita attesa. Secondo un rapporto dell'Agenzia europea per l'ambiente, l'Italia ha la punta massima europea di morti per inquinamento e ci si interroga sulle possibili cause del picco di mortalità registrato nel 2015;
    riguardo alla qualità dei sistemi sanitari, nel giro di pochi anni, su 37 Paesi analizzati, l'Italia è scesa dal 15o posto al 20o nel 2014 e al 21o nel 2015;
    nel suo rapporto 2016 sul coordinamento della finanza pubblica, la Corte dei conti mette in luce come «negli anni della crisi, il contributo del settore sanitario al risanamento è stato di rilievo»: una flessione della spesa in media di 2 punti all'anno, in termini reali, tra il 2009 e il 2014;
    nel rapporto spesa sanitaria/Pil, si è da tempo al di sotto della media dei Paesi europei più avanzati. Il rapporto sullo stato sociale 2015 del dipartimento di economia e diritto dell'università La Sapienza di Roma ha confermato come i dati della spesa sanitaria italiana, sia in rapporto al Pil che pro capite, collocano il Paese sotto la media dei rispettivi valori dell'Unione europea a 15. Dopo di noi ci sono solo Spagna, Grecia e Portogallo. Dati confermati dal rapporto sanità del Crea sanità-università di Roma Tor Vergata, dell'ottobre 2015, secondo il quale la spesa sanitaria italiana è del 28,7 per cento più bassa rispetto ai Paesi dell'Unione europea, con una forbice, anche in percentuale di prodotto interno lordo, che si allarga anno dopo anno;
    nonostante ciò, la nota di aggiornamento al documento di economia e finanza 2016 conferma ancora una volta che la spesa sanitaria in rapporto al Pil continuerà a diminuire ancora e, quindi, in termini reali la fetta di risorse spettante alla sanità pubblica continuerà a ridursi. Se nel 2010 la spesa sanitaria in rapporto al Pil era del 7 per cento, la nota di aggiornamento riporta che nel 2015 era del 6,8 per cento; nel 2018 sarà del 6,7 per cento e nel 2019 del 6,6 per cento. Per ritornare ai livelli spesa sanitaria/Pil del 2010, il documento di economia e finanza 2016 ricorda che bisognerà attendere il 2030-2035;
    è censurabile il ritardo con cui il Governo si appresta a presentare il disegno di legge di bilancio 2017. Ad oggi l'Esecutivo non ha ancora presentato al Parlamento il disegno di legge, sebbene sia tenuto a farlo entro il 20 ottobre. Dalle anticipazioni del Governo e degli organi di stampa non si può comunque non rilevare come, seppure sembrerebbe esserci per il 2017 un lieve incremento in valore assoluto del fondo sanitario nazionale rispetto al 2016, gli investimenti e le risorse complessive per la sanità pubblica italiana continuano ad essere gravemente insufficienti a garantire a tutti il diritto alla tutela della salute. Così come le pochissime risorse che verrebbero destinate all'assunzione/stabilizzazione di medici e infermieri, laddove il problema del blocco del turnover, dei lavoratori precari e dell'elevata età media del personale sanitario imporrebbe ben altri interventi e finanziamenti. A questo si aggiungano i previsti tagli complessivi di spesa per oltre 3 miliardi di euro e che direttamente o indirettamente finiranno per colpire, come sempre avviene, il comparto sanitario;
    dal 2008 in poi la sanità pubblica ha subito tagli molto pesanti, con effetti negativi sulle prestazioni, sulla qualità dei servizi, sull'assistenza territoriale, sui finanziamenti all'edilizia sanitaria. I tagli sono serviti, più che a ridurre inefficienze e sprechi, a trovare risorse immediate per finanziare le manovre economiche che in questi anni si sono succedute;
    è necessaria una totale inversione di rotta non solo per garantire l'assistenza sanitaria, ma anche per cogliere le opportunità legate agli investimenti nel settore. Infatti, oltre a garantire il diritto alla tutela della salute, la spesa per il servizio sanitario nazionale può rappresentare un eccellente investimento economico. Come ricorda la Cgil, il valore aggiunto diretto e indotto derivante dalle attività della filiera della salute supera i 150 miliardi di euro, pari a circa il 12 per cento del Pil;
    negli ultimi dieci anni vi è stata una notevole crescita dell'innovazione farmaceutica, dei servizi informatici, delle telecomunicazioni e dei dispositivi medici, con un intreccio tra il terziario avanzato e settori ad alta tecnologia che ha impatti rilevanti, sia in termini occupazionali che di remunerazione degli investimenti. Per ogni euro speso in sanità si generano 1,7 euro circa;
    piuttosto che con una riduzione dei diritti e dell'universalismo, le necessarie risorse da liberare per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale devono essere trovate attraverso una vera lotta alla corruzione, alle diseconomie e agli sprechi interni alla sanità, da un controllo rigoroso degli accreditamenti, nonché da investimenti e risorse di altri ministeri e settori della pubblica amministrazione (difesa, Tav, opere infrastrutturali inutili e altro), rivedendo a tal fine quelle che dovrebbero essere le vere priorità del nostro Paese;
    è urgente una revisione del sistema degli appalti pubblici in ambito sanitario. Come ricordato di recente dal presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, in sanità vi è il più alto tasso di proroghe e rinnovi spesso a prezzi non concordati e non in linea con il mercato;
    l'associazione Libera ha segnalato che la sola perdita erariale dovuta all'illegalità in sanità per il triennio 2010/2012 era di circa 1,6 miliardi di euro;
    si è di fatto di fronte a un blocco della contrattazione nel pubblico impiego, del turn over e alla volontà del Governo di non rispondere pienamente alla precarietà del personale sanitario, con abuso di contratti atipici (partite iva, collaborazioni coordinate e continuative, contratti a tempo determinato, contratti Sumai per attività non ambulatoriali, borse di studio spesso finanziate da privati) e il ricorso sempre più esteso e improprio alle esternalizzazioni attraverso il terzo settore e cooperative anche in attività sanitarie. Questo comporta meno diritti, peggiori condizioni di lavoro e una riduzione della quantità e della qualità dei servizi. Il Servizio sanitario nazionale progressivamente si svuota favorendone la privatizzazione, come già avviene da tempo per la lungodegenza, la riabilitazione, gli hospice, mentre i processi di accorpamento e centralizzazione delle aziende sanitarie locali ed ospedaliere aumentano la componente giuridico-amministrativa a scapito delle attività sanitarie;
    dal 25 novembre 2015, il Servizio sanitario nazionale si sarebbe dovuto adeguare alla direttiva 2003/88/CE, che ha dettato norme più eque in materia di orari e riposi del personale sanitario. La direttiva, recepita nel nostro Paese col decreto legislativo n. 66 del 2003, prevede che il personale sanitario negli ospedali non possa lavorare più di 48 ore alla settimana e individua precisi turni di lavoro e di riposo. Tuttavia, continue deroghe, con conseguente procedura di infrazione dell'Unione europea, hanno impedito l'applicazione delle norme, resa difficile dalla riduzione delle risorse e dal sostanziale blocco del turn over;
    mancano oltre 47 mila infermieri, quasi tutti al Centro-Sud. Questa carenza impedisce di raggiungere adeguati livelli di assistenza, garantendo sicurezza e servizi efficienti, e di conseguenza comporta l'aumento dell'età media del personale sanitario;
    le carenze di personale rendono difficile spostare gli equilibri dall'ospedale al territorio, dall'acuzie alla cronicità e alla prevenzione, perché le sostituzioni dei pensionamenti devono prioritariamente coprire i turni ospedalieri;
    una criticità ormai intollerabile sta nell'impossibilità per il Servizio sanitario nazionale di garantire la libertà di scelta delle donne alla maternità responsabile, alla contraccezione e all'interruzione volontaria di gravidanza riconosciuta dalla legge n. 194 del 1978, per l'impoverimento dei consultori, l'elevatissima percentuale di obiezione di coscienza tra il personale e la diffusione della cosiddetta obiezione di struttura. Nel 2013 sono risultati obiettori il 70 per cento dei ginecologi, il 49 per cento degli anestesisti e il 47 per cento del personale non medico. Percentuali inaccettabili e comunque sottostimate;
    se si considera l'obiezione di struttura, il 35 per cento delle strutture viola l'articolo 9 della legge n. 194 del 1978, che regola il diritto all'obiezione di coscienza e obbliga tutte le strutture ad assicurare, in ogni caso, l'espletamento delle procedure previste;
    una prima risposta legislativa, volta a garantire la piena attuazione della legge n. 194 del 1978, può venire dall'indicazione per tutte le regioni di individuare le strutture pubbliche nelle quali istituire servizi specifici dedicati alla diagnostica prenatale e alle procedure e interventi di interruzione volontaria della gravidanza, anche oltre il novantesimo giorno, con personale composto obbligatoriamente da non obiettori di coscienza;
    a ciò si aggiunga il perdurante basso ricorso all'interruzione volontaria di gravidanza farmacologica, nel rispetto dei precetti normativi previsti dalla stessa legge n. 194 del 1978. Nel 2013 solo il 9,7 per cento delle donne ha potuto utilizzarla;
    questa sottoutilizzazione comporta l'impossibilità delle donne di esercitare il diritto di scelta sulle metodiche ed è legata a difficoltà dovute all'imposizione del ricovero ordinario in quasi tutte le regioni. Nel dicembre 2015 l'associazione Amica ha presentato una lettera aperta alla Ministra della salute, sottolineando come il ricovero ordinario per l'interruzione volontaria di gravidanza farmacologica sia una procedura inappropriata, che comporta uno spreco enorme di risorse (oltre 1.000 euro a paziente, contro circa 600 del ricovero in day hospital e circa 50 della procedura ambulatoriale). Inoltre, permettere la procedura ambulatoriale minimizzerebbe gli effetti dell'obiezione di coscienza sull'applicazione della legge n. 194, in quanto gli obiettori nei consultori sono solo il 22 per cento;
    riguardo ai consultori è da evidenziare come quelli ancora esistenti abbiano subito una drammatica riduzione e depauperamento, con équipe incomplete ed uno svilimento della multidisciplinarietà socio-sanitaria, che è una delle loro più importanti peculiarità;
    malgrado che il progetto obiettivo materno infantile già nel 2000 assegnava un ruolo strategico centrale ai consultori nella tutela e nella promozione della salute riproduttiva, disegnando l'obiettivo di 1 consultorio ogni 20 mila abitanti, si è, oggi, a poco più della metà, un trend che non accenna a cambiare rotta. I consultori sopravvissuti a tale decimazione vengono inoltre snaturati sul modello dell'ambulatorio specialistico di serie B;
    la riduzione del numero dei consultori, la gran parte dei quali lavora sotto organico per blocco del turn over del personale, ha una ricaduta negativa in primo luogo sull'applicazione della legge n. 194 del 1978;
    a sedici anni dalla stesura del progetto obiettivo materno infantile, l'obiettivo di allora è volutamente disatteso;
    è auspicabile che il Parlamento concluda l'esame delle proposte di legge sulla tutela delle scelte procreative delle donne e per la promozione del parto fisiologico, con particolare attenzione ai livelli essenziali di assistenza relativi alla sicurezza, alle tecniche di controllo del dolore del parto, alla remunerazione del «drg» del parto naturale e del cesareo (sono molte le differenze nelle diverse regioni), alle norme relative alla chiusura dei punti nascita con meno di 500 parti (norme in cui al dato quantitativo non si somma nessun dato qualitativo o di particolarità territoriale);
    i nuovi livelli essenziali di assistenza, contenuti in un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, il cui schema è in via di presentazione al Parlamento per i pareri delle Commissioni competenti, contano su un importo del tutto inadeguato di 800 milioni di euro previsti dalla legge di stabilità per il 2016 e vincolati nel fondo sanitario nazionale, che rischia con tutta probabilità di non consentire l'esigibilità e l'uniformità delle prestazioni. L'insufficienza degli 800 milioni di euro è riconosciuta dalle stesse regioni, che hanno infatti chiesto una verifica per valutare il reale impatto economico dei nuovi livelli essenziali di assistenza;
    nei nuovi livelli essenziali di assistenza, seppure si amplia la copertura assistenziale per alcune patologie rare e per l'erogazione delle nuove prestazioni diagnostiche e terapeutiche, nulla si dice degli esclusi dalla titolarità del diritto e dalla sua esigibilità. Così come criticabili sono l'aumento della partecipazione di spesa e i costi indotti da nuove forme di erogazione, nonché la riclassificazione di prestazioni di ricovero in prestazioni ambulatoriali soggette a ticket;
    il citato schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, a proposito della continuità, assistenziale, specifica che il Servizio sanitario nazionale garantisce la continuità assistenziale per l'intero arco della giornata e per tutti i giorni della settimana. Le aziende sanitarie organizzano le attività sanitarie per assicurare l'erogazione, nelle ore serali e notturne e nei giorni prefestivi e festivi, delle prestazioni assistenziali non differibili. Tuttavia, il Governo è fermo alle dichiarazioni di intenti e ha approvato il nuovo atto di indirizzo per il rinnovo della convenzione della medicina generale in cui, tra le altre cose, si taglia l'orario dei medici di continuità assistenziale (ex guardia medica), interrompendolo alla mezzanotte e demandando la presa in carico dei bisogni dei cittadini al servizio di emergenza-urgenza (il 118);
    nella forma si salva la copertura nell'arco delle 24 ore, dal momento che la presa in carico viene effettuata dal personale del 118 (medici e/o infermieri e/o personale del terzo settore); nella sostanza c’è un taglio netto alle prestazioni, perché la guardia medica è più capillare e il 118 è spesso impegnato in urgenze non differibili;
    è necessaria una riformulazione dell'assistenza territoriale che può essere sintetizzata dalle case della salute, che rappresentano un punto di riferimento per i cittadini, dove i servizi di assistenza primaria si integrano nel territorio con quelli specialistici, della sanità pubblica e della salute mentale e coi servizi sociali e le associazioni di volontariato, garantendo la presa in carico dei portatori di handicap e dei malati cronici. In questo senso l'integrazione socio-sanitaria è essenziale e la collaborazione coi comuni è indispensabile per portare avanti programmi multisettoriali;
    per svolgere questo ruolo le case della salute devono essere il punto di raccordo di una rete diffusa di servizi, dalla sperimentazione dell'ospedale di prossimità e di comunità a gestione integrata medico di base e infermiere per i casi meno complessi, all'assistenza domiciliare specialistica, riabilitativa e infermieristica, agli hospice, evitando che diventino una mera riconversione poliambulatoriale di strutture ospedaliere dismesse o un sostituto surrogato di distretti estesi e burocratizzati;
    una diffusa ed estesa rete territoriale rivolta alla cronicità, alla lungoassistenza e alla riabilitazione post acuzie deve intercettare bisogni e dare risposte capillari diverse dalle residenze sanitarie assistenziali (RSA), spesso gestite da privati, con alte rette di degenza insostenibili per molti degli anziani e i loro congiunti o per i comuni;
    perché la riformulazione dell'assistenza territoriale sia efficace bisogna rivedere completamente il gigantismo organizzativo messo in atto in varie regioni attraverso accorpamenti che hanno portato alla nascita di aziende sanitarie locali e distretti di enormi dimensioni;
    lo stretto legame tra la salute pubblica e l'inquinamento ambientali rende necessario il rafforzamento della collaborazione tra aziende sanitarie locali e agenzie ambientali;
    la prevenzione in ambiente di vita e di lavoro richiede un ruolo diverso e una maggiore sinergia del Ministero della salute e del Servizio sanitario nazionale con le regioni e altri Ministeri: trasporti, ambiente e tutela del territorio e del mare, sviluppo economico, politiche agricole, alimentari e forestali. Va quindi ripensato un modello organizzativo della prevenzione, che non può essere relegato al solo problema degli stili di vita, anch'essi influenzati da aspetti sociali, di reddito e culturali come dimostrano le indagini epidemiologiche sulla mortalità;
    la riorganizzazione della prevenzione, dell'assistenza domiciliare e territoriale e delle reti ospedaliere rende necessario investire oggi, per ottenere risparmi complessivi per il Servizio sanitario nazionale domani;
    l'inadeguatezza delle risorse destinate al finanziamento del fondo sanitario nazionale è resa evidente dalla tendenza alla crescita della spesa farmaceutica, esemplificata dall'alto costo di prodotti sostenuti da prove di efficacia, come i farmaci contro l'epatite C e i nuovi vaccini. In mancanza di specifici provvedimenti la crescita è destinata a incrementare nel prossimo futuro, con l'immissione sul mercato di nuovi farmaci biologici in campo oncologico e di alcuni farmaci per le malattie infettive o neurologiche, per cui le aziende tendono a fissare un prezzo molto elevato;
    i 500 milioni di euro stanziati dalla legge di stabilità per il 2015 per i farmaci innovativi e per quelli destinati alla cura dell'epatite C si sono dimostrati inadeguati: ogni regione deve avere le risorse finanziarie per acquistare il farmaco a prezzo intero e diverse di queste non hanno fondi sufficienti. A causa dell'alto costo il Servizio sanitario nazionale ha deciso di limitarne l'erogazione partendo dai pazienti più gravi: finora sono stati trattati circa 52 mila pazienti (il 5 per cento dei potenziali beneficiari). Un razionamento economico di cure efficaci inaccettabile;
    l'attuale e iniqua situazione è che solo i pazienti nello stadio più avanzato della malattia hanno diritto al trattamento, quando un trattamento precoce eviterebbe non solo le sofferenze ai pazienti, ma anche i costi assistenziali connessi;
    al riguardo, giova ricordare che, in caso di emergenze sanitarie, in base all'accordo in capo all'Organizzazione mondiale per il commercio, denominato TRIPs, esiste la possibilità, in caso di «emergenza sanitaria», di derogare alla protezione brevettuale attraverso la licenza obbligatoria a cui gli Stati aderenti all'Organizzazione mondiale della sanità possono ricorrere per proteggere la salute pubblica;
    con oltre un milione di soggetti portatori cronici di virus dell'epatite C, l'Italia ha il primato europeo per numero di soggetti positivi al virus e mortalità per tumore primitivo del fegato e l'epatite C può essere considerata a tutti gli effetti un'emergenza nazionale di sanità pubblica. Per tale motivo, è ipotizzabile per l'Italia percorrere la strada della «emergenza sanitaria» prevista dal TRIPs, al fine di giungere a una licenza obbligatoria per i farmaci antivirali ad azione diretta contro il virus dell'epatite C (hcv). Attraverso la licenza obbligatoria è possibile infatti produrre i farmaci anti-epatite C a costo contenuto e garantirne l'accessibilità a tutti coloro che ne hanno bisogno. Con una tale licenza infatti, un Governo forza i possessori di un brevetto, o di altri diritti di esclusiva, a concederne l'uso per lo Stato o per altri soggetti;
    riguardo ai vaccini, la spesa annuale sostenuta dal Servizio sanitario nazionale ammonta a 318 milioni di euro. La disponibilità di vaccini in associazione, pur rendendone più agevole la somministrazione, ha comportato un regime di monopolio con aumento dei costi non sempre giustificato e scarsità sul mercato dei vaccini. Per affrontare questo problema è ragionevole proporre che l'Aifa, quando vi siano almeno due vaccini disponibili, utilizzi bandi competitivi per ridurre i prezzi ottenendo un accettabile rapporto costo-efficacia;
    il rafforzamento dell'universalità ed equità del Servizio sanitario nazionale deve passare anche attraverso un ampliamento del diritto alla salute per le persone senza fissa dimora, modificando la legge n. 833 del 1978. Le persone senza fissa dimora patiscono il degrado delle condizioni di vita e il loro essere «invisibili» e, quindi, fuori da una rete di sostegno che non sia quella caritativa. Infatti, queste persone, non avendo il requisito della residenza anagrafica, non possono accedere al servizio sanitario pubblico: non possono iscriversi al Servizio sanitario nazionale, non possono scegliere il medico di base, l'assistenza ospedaliera è limitata alla gestione delle emergenze e per loro le cure primarie sono erogate solo da ambulatori gestiti dal volontariato;
    indicativa di quella che ai firmatari del presente atto di indirizzo appare la totale inadeguatezza dell'attuale dicastero della salute a invertire il perdurante declino del Servizio sanitario nazionale è stata l'ideologica campagna informativa sul «fertility day» voluta dalla Ministra della salute in due differenti momenti. Una prima campagna, secondo i firmatari del presente atto di indirizzo aggressiva e psicologicamente ricattatoria nei confronti della libertà delle donne e una seconda intollerabilmente razzista. Entrambe ritirate con tante scuse della Ministra,

impegna il Governo:

   1) ad assumere iniziative per incrementare le risorse del fondo sanitario nazionale e rivedere la previsione del documento di economia e finanza 2016 di una riduzione della spesa sanitaria in rapporto al prodotto interno lordo per i prossimi anni, prevedendone invece un significativo incremento sia in valori assoluti che in rapporto al prodotto interno lordo in relazione ai fabbisogni reali individuati dalle regioni;
   2) ad invertire la politica di riduzione delle risorse del sistema di protezione sociale, a partire dai servizi sociosanitari, e a interrompere la pericolosa spinta verso il secondo pilastro delle assicurazioni complementari o integrative per le prestazioni sanitarie e sociali;
   3) ad assumere iniziative per stanziare le opportune risorse finanziarie – prevedendo le eventuali deroghe alla normativa vigente in materia – volte a consentire lo sblocco del turn over nel Servizio sanitario nazionale, in particolare per il personale medico, infermieristico, tecnico e socio sanitario di supporto, e la stabilizzazione dei precari su base regionale, attraverso lo sblocco del turn over al 100 per cento e l'indizione di concorsi regionali per disciplina e profilo con graduatorie regionali al fine di consentire la riorganizzazione e la riqualificazione dei servizi sanitari con particolare attenzione al territorio;
   4) ad assumere iniziative per riconoscere e valorizzare quei profili professionali, quali gli operatori sociosanitari, indispensabili per rafforzare il sistema assistenziale e contribuire al miglior funzionamento dei servizi;
   5) a garantire l'uniformità nazionale delle politiche sanitarie tramite processi di decentramento amministrativo, partecipazione democratica e corretta sussidiarietà tra Stato, regioni, comuni e ASL/ASO per evitare la burocratizzazione e ministerializzazione che nega lo spirito della riforma sanitaria del 1978;
   6) ad assumere iniziative per procedere nell'immediato all'abrogazione del cosiddetto superticket e successivamente abolire gradualmente le compartecipazioni alla spesa sanitaria, soprattutto in presenza di disabilità, al fine di garantire l'universalità delle cure e l'accesso ai servizi da parte dei cittadini, con l'obiettivo di evitare la sempre più frequente rinuncia forzata di molti cittadini all'acquisto di farmaci o all'accesso alle prestazioni sanitarie pubbliche, col conseguente ricorso ai privati;
   7) ad attuare un piano di edilizia sanitaria, supportato da adeguate risorse finanziarie, finalizzato alla messa in sicurezza alla manutenzione e al recupero delle strutture, con abbattimento delle barriere architettoniche, ottenimento dell'efficienza energetica e umanizzazione dei luoghi di lavoro per gli operatori sanitari e gli utenti;
   8) ad attivare efficaci iniziative, anche normative, volte a intensificare il contrasto alle frodi e alla corruzione, nonché alle diseconomie e agli sprechi interni alla sanità, prevedendo che tutte le risorse certificate liberatesi vengano reinvestite unicamente nel Servizio sanitario nazionale;
   9) ad assumere iniziative per introdurre specifiche previsioni in materia di appalti pubblici nel settore della sanità pubblica, al fine di eliminare le distorsioni legate al troppo frequente ricorso a proroghe automatiche e taciti rinnovi di appalti, nonché per incrementare la trasparenza e il controllo nelle procedure che riguardano i meccanismi di spesa;
   10) a promuovere, per quanto di competenza, un sistema di accreditamento rigoroso e di qualità all'interno della programmazione pubblica con valutazione dei risultati, che non penalizzi l'occupazione, ma tenga conto, nei casi di responsabilità o inefficienza del privato, della possibilità di reinternalizzare e regionalizzazione gli operatori, i servizi e le attività esternalizzati, appaltati o accreditati;
   11) ad assumere iniziative per rinnovare con adeguate risorse il sistema delle cure primarie, investendo sulla prevenzione e sull'assistenza domiciliare e territoriale, soprattutto ad alta integrazione sociale (anziani, salute mentale, disabilità), salvaguardando, nell'ambito della razionalizzazione delle reti ospedaliere, i piccoli presidi in zone disagiate, rivedendo peraltro, sotto questo aspetto, le stesse norme relative alla chiusura dei punti nascita con meno di 500 parti, norme nell'ambito delle quali al dato quantitativo non si somma nessun dato qualitativo o di particolarità territoriale;
   12) ad assumere iniziative per incrementare le risorse destinate alle non autosufficienze e a interventi di assistenza domiciliare per le persone affette da disabilità gravi e gravissime;
   13) a implementare l'assistenza territoriale, le reti di poliambulatori collegati telematicamente con gli ospedali e nuove forme organizzative in grado di erogare prestazioni assistenziali sulle 24 ore, assumendo le iniziative di competenza per sospendere e rivedere quindi il nuovo atto di indirizzo per il rinnovo della convenzione di medicina generale approvato nell'aprile 2016 alla luce delle forti criticità esposte in premessa;
   14) a realizzare le case della salute, come luogo di partecipazione dei cittadini e programmazione della sanità territoriale nell'ambito di politiche complessive che assicurino continuità assistenziale e una rete di servizi extraospedalieri, senza limitarsi alla mera riconversione in poliambulatori di strutture sanitarie dismesse, con la necessaria innovazione della sanità di iniziativa;
   15) a promuovere politiche di genere finalizzate ad eliminare la disuguaglianza secondo il principio di equità e appropriatezza delle cure, incentivando la presenza di tavoli di coordinamento regionali;
   16) a sviluppare un'efficace programmazione delle politiche sanitarie e sociosanitarie secondo indicatori «genere correlati» e a implementare la medicina di genere in ambito di ricerca e universitario e con percorsi di educazione medica continua;
   17) a valorizzare e ridare piena centralità ai consultori, quale servizio per il sostegno alla sessualità libera e alla procreazione responsabile, attraverso un adeguamento delle risorse, della rete di servizi, degli organici e della loro formazione, delle sedi, nonché secondo la piena attuazione della legge n. 405 del 1975 e del progetto obiettivo materno infantile;
   18) a garantire la piena applicazione della legge n. 194 del 1978 in tutte le strutture e su tutto il territorio nazionale, nel rispetto del principio della libera scelta e del diritto alla salute delle donne e della maternità e paternità responsabili, assumendo tutte le iniziative, nell'ambito delle proprie competenze, finalizzate anche all'assunzione di personale non obiettore per garantire il servizio di interruzione volontaria di gravidanza;
   19) ad assumere le opportune iniziative normative affinché in ogni regione siano individuate le strutture sanitarie pubbliche nelle quali istituire servizi dedicati a compiti relativi alla diagnostica prenatale e allo svolgimento delle procedure e interventi di interruzione volontaria della gravidanza, anche oltre il novantesimo giorno, con personale composto obbligatoriamente da non obiettori di coscienza;
   20) ad assumere iniziative perché ogni struttura pubblica o del privato accreditato (sia essa un ospedale o un consultorio) applichi pienamente la legge, in modo tale che solo a fronte di questo impegno possa essere concesso l'accreditamento;
   21) ad assumere tutte le iniziative utili affinché sia implementato e facilitato su tutto il territorio nazionale l'accesso all'interruzione volontaria di gravidanza col metodo farmacologico in regime di day hospital e nei consultori familiari e nei poliambulatori, come previsto dall'articolo 8 della legge n. 194 del 1978, reinvestendo i conseguenti risparmi nel potenziamento delle reti dei consultori e in un accesso più facile alla contraccezione;
   22) a prendere nettamente le distanze dalle scelte e dalle decisioni assunte dalla Ministra Lorenzin con atti concreti e immediati, riconsiderando nel merito e nel metodo le proposte, le decisioni e le iniziative prese in occasione del fertility day di cui in premessa, che ne hanno ancora una volta messo in luce, secondo i firmatari del presente atto di indirizzo, l'inadeguatezza a gestire un Ministero così importante;
   23) ad assumere iniziative per rifinanziare il fondo per il rimborso alle regioni per l'acquisto di medicinali innovativi, istituito con la legge di stabilità per il 2015, incrementandone sensibilmente la dotazione finanziaria e rivedendo contestualmente i criteri di priorità, in modo che tutti i pazienti possano usufruire dei trattamenti innovativi;
   24) riguardo ai farmaci per l'epatite C, ad avviare quanto prima le opportune iniziative volte a modificare l'attuale normativa nazionale al fine di ricomprendere anche l’«emergenza sanitaria» (di cui all'accordo TRIPs) tra le condizioni per la concessione dell'uso del brevetto senza il consenso del titolare, e ad adottare conseguentemente tutte le iniziative in sede internazionale per chiedere quindi, sulla base del citato TRIPs, la prevista deroga alla protezione brevettuale attraverso la «licenza obbligatoria» per i nuovi farmaci antivirali ad azione diretta contro il virus dell'epatite C, al fine di produrli a costo contenuto garantendo l'accesso al trattamento a tutti coloro che ne hanno bisogno;
   25) ad assumere le opportune iniziative in sede europea e internazionale affinché venga posto in discussione il superamento del brevetto per i farmaci, individuando modalità che permettano un'equa remunerazione dei costi di ricerca e di produzione dei farmaci senza ricorrere alla protezione brevettuale;
   26) ad assumere le opportune iniziative normative affinché l'Aifa ricorra a bandi competitivi per la determinazione del prezzo di acquisto dei vaccini individuati come strategici nel piano nazionale vaccinazioni;
   27) ad avviare una politica di maggiori investimenti e incentivi finalizzati ad estendere la ricerca biomedica indipendente, con particolare riferimento alle biotecnologie e alla valutazione di efficacia degli interventi terapeutici e riabilitativi, per far crescere modelli innovativi dei servizi pubblici e nuove attività economiche, con ricadute importanti per la qualità dei servizi, l'occupazione e la ripresa economica;
   28) ad avviare le opportune iniziative normative affinché la prevista quota premiale di riparto delle risorse previste per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale a favore delle regioni che abbiano adottato misure idonee per una corretta gestione dei bilanci sanitari venga attribuita anche per quelle regioni sottoposte ai piani di rientro che, nell'ambito di processi efficaci di riorganizzazione dei servizi, rispondano in modo appropriato ai bisogni di cura e di salute dei cittadini;
   29) ad assumere le opportune iniziative, anche in ambito europeo, volte a prevedere l'esclusione dal rispetto del patto di stabilità delle spese relative ai servizi socio-sanitari e al welfare;
   30) a promuovere, nell'ambito delle proprie competenze e d'intesa con le regioni, un'efficace politica di prevenzione volta al rafforzamento della collaborazione e delle sinergie tra le aziende sanitarie, con particolare riferimento ai dipartimenti di prevenzione, e le agenzie ambientali, anche tramite la costituzione di nuove entità organizzative integrate ambientali-sanitarie, inserite nei servizi sanitari regionali, intervenendo attivamente su altri settori affinché la prevenzione attraversi tutte le politiche a livello nazionale;
   31) ad assumere un'opportuna iniziativa di modifica della legge n. 833 del 1978, per consentire alle persone senza fissa dimora, prive della residenza anagrafica, di essere iscritte negli elenchi degli utenti del Servizio sanitario nazionale relativi al comune in cui si trovano.
(1-01395)
«Nicchi, Gregori, Scotto, Airaudo, Franco Bordo, Costantino, D'Attorre, Duranti, Daniele Farina, Fassina, Fava, Ferrara, Folino, Fratoianni, Carlo Galli, Giancarlo Giordano, Kronbichler, Marcon, Martelli, Melilla, Paglia, Palazzotto, Pannarale, Pellegrino, Piras, Placido, Quaranta, Ricciatti, Sannicandro, Zaratti».
(21 ottobre 2016)

MOZIONE CONCERNENTE INIZIATIVE A SOSTEGNO DEI CITTADINI COLPITI DALLA CRISI ECONOMICA, ANCHE IN RELAZIONE ALLE RISORSE ATTUALMENTE DESTINATE ALL'ACCOGLIENZA DEI MIGRANTI EXTRACOMUNITARI

   La Camera,
   premesso che:
    dal 2008 è presente una gravissima crisi economica internazionale che ha colpito in modo particolare anche alcuni Paesi dell'area dell'Unione europea. L'attuale congiuntura economica, superiore, per intensità, durata e diffusione nei mercati globali a quella del 1929, ha investito anche il nostro Paese;
    dal dicembre 2011 i Governi che si sono succeduti hanno inasprito le azioni fiscali contro le imprese e di conseguenza contro i lavoratori, con la scusa dell'imminente default e la necessità e l'urgenza di intervenire al fine di trovare la giusta stabilità nei conti;
    una crisi provocata dalle banche e dalla finanza sta distruggendo l'economia reale e sta mettendo in ginocchio la gente comune, colpita da manovre economiche che aumentano la pressione fiscale diretta ed indiretta e causano l'aumento indiscriminato dei prezzi, anche dei prodotti di prima necessità, con una significativa perdita di potere di acquisto da parte delle famiglie;
    la crisi economica ha avuto origine dal crollo dei mutui sub-prime dell'estate 2007 e il conseguente fallimento a catena di alcune banche di affari (la più importante la Lehman Brothers, quarta banca americana) che senza alcuna regolamentazione e per giunta con la copertura ufficiale delle agenzie private di certificazione attuavano una leva finanziaria di 1 a 30;
    gli esperti hanno individuato da subito tra le cause principali della crisi economica il fallimento di un modello di mercato senza regole nel quale le istituzioni hanno abdicato al loro ruolo di garanti rispetto al potere esercitato dalla finanza e dalla grande industria. Un cancro diffuso in tutti i settori ma che vede il concentrarsi delle sue metastasi proprio in quelle operazioni speculative messe in atto dalle agenzie di intermediazione finanziaria;
    la tanto decantata autoregolamentazione del mercato si è dimostrata totalmente incapace di mantenere il sistema su binari funzionanti;
    il sistema finanziario e monetario, sempre più deregolamentato e sottratto ai controlli, ha minato ogni forma di governance dando così origine ad una serie di bolle finanziarie e fagocitando i settori industriali, commerciali e agricoli produttivi;
    il tessuto imprenditoriale, costituito in Italia per più del 95 per cento da piccole e medie imprese, ha risentito e continua a risentire del fenomeno del credit crunch, un fenomeno che ha portato alla chiusura di molte imprese che non hanno ricevuto dagli istituti di credito il necessario e, in questo periodo, vitale supporto finanziario per il proprio ciclo produttivo;
    i dati forniti dal Governo sulla ripresa economica del nostro Paese sono notoriamente ottimistici e si scontrano con un'evidente realtà di diffuso disagio sociale;
    il nostro è il Paese con l'imposizione fiscale più alta nell'area dell'Unione europea, condizione che spinge molte imprese a delocalizzare verso Paesi vicini come la Svizzera, l'Austria, la Slovenia, la Slovacchia, la Francia e, nell'area extra-Unione europea, la Serbia;
    nella fase di congiuntura economica che ha investito il nostro Paese i Governi che si sono succeduti hanno adottato una politica di contenimento dei costi che ha generato tagli ingenti ai finanziamenti diretti agli enti locali, con conseguente difficoltà da parte delle amministrazioni comunali nella gestione degli interventi diretti ai servizi ai cittadini secondo standard di qualità, efficienza ed efficacia;
    i continui flussi migratori verso il nostro Paese di cittadini stranieri provenienti dai Paesi extracomunitari determinano una serie di problemi in campo assistenziale, nell'area socio-sanitaria e in quella più ampia e complessa dell'integrazione;
    le risorse impiegate dai comuni e dalle loro associazioni per i servizi erogati ai cittadini stranieri rappresentano circa il 3 per cento della spesa sociale complessiva, per un valore di circa 190 milioni di euro. Tra i vari tipi di azioni a sostegno degli immigrati, al primo posto in termini di spesa vi sono gli interventi e i servizi, dove confluisce circa il 40 per cento delle risorse. Gli interventi specifici offerti dai comuni per l'integrazione sociale dei soggetti a rischio coinvolgono ogni anno circa 160 mila utenti. Inoltre, circa il 35 per cento della spesa destinata all'area immigrazione è impiegato dai comuni per la gestione di strutture residenziali, che accolgono circa 12 mila ospiti con una spesa media di circa 3.200 euro l'anno per utente;
    in un anno circa 4 mila soggetti beneficiano del pagamento di rette per il soggiorno in strutture di tipo privato, con una spesa media di circa 3.600 euro l'anno per assistito. A questo tipo di supporto si deve aggiungere la gestione delle aree attrezzate per i nomadi. Le risorse rimanenti sono erogate sotto forma di contributi in denaro (29,2 per cento della spesa per immigrati), principalmente finalizzati alla copertura dei costi per l'alloggio (oltre 24 mila beneficiari) e all'integrazione del reddito (quasi 20 mila beneficiari). Considerata l'esigenza dei comuni di far fronte alle necessità per la messa a punto di servizi specifici diretti a far fronte all'impatto sociale dovuto al crescente fenomeno della presenza di cittadini extracomunitari, basti pensare a titolo d'esempio alla tutela dei minori stranieri non accompagnati, è necessario che si sviluppi un intervento strutturale per la condivisione di responsabilità ed oneri tra amministrazione centrale e autonomie locali. In questa particolare fase di congiuntura economica e di tagli alle risorse degli enti locali, si ha il dovere di strutturare delle forme di sostegno per i comuni nella messa a punto di servizi specifici in una logica di standardizzazione nazionale degli interventi, secondo modelli di collaborazione già sperimentati con successo in alcuni settori delle politiche sociali;
    nell'affrontare il tema legato alle immigrazioni sarebbe corretto operare nel rispetto del tradizionale valore dell'ospitalità che da sempre contraddistingue il popolo italiano e l'Europa. Questo significa che il buon padrone di casa deve essere aperto in modo solidale ad aiutare chi in difficoltà richiede ospitalità, facendo in modo che l'ospite venga trattato al pari dei propri familiari. Questo aspetto della tradizione europea trova i suoi limiti propri nel numero delle persone che si riescono e si possono ospitare. È inutile, improduttivo, disumano ospitare più persone di quelle che si riesce ad accogliere destinandole a vivere nelle difficoltà e nel disagio, minando allo stesso tempo il bene dei componenti della propria famiglia. Questo elementare principio che appartiene alla cultura classica dovrebbe far ben comprendere come sia impossibile non determinare un numero massimo di presenze di extracomunitari nel territorio italiano;
    l'irresponsabile condotta delle politiche messe in atto per gestire l'enorme flusso migratorio verso il nostro Paese rischia di creare un impatto sociale ingestibile, alimentando l'ingiustizia che vivono i cittadini italiani in condizioni estreme di disagio e di emergenza abitativa nel trovarsi a constatare come il Governo abbia soluzioni immediate per far fronte ai problemi di vitto e alloggio degli extracomunitari che sbarcano sulle coste italiane;
    i risultati delle politiche in tema di accoglienza, adottate da questo Governo, denotano, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, un vero e proprio fallimento;
    i dati degli arrivi di immigrati nel nostro Paese clandestinamente con le navi (solo via mare 153.842 ingressi nel 2015 e per i primi tre mesi del 2016 già 19.932, con un aumento del 50 per cento rispetto allo stesso periodo del 2015) e della mancata attivazione degli strumenti di respingimento ed espulsione previsti dall'ordinamento nazionale e da quello comunitario (articoli 10 e 13 del decreto legislativo n. 286 del 1998 e della direttiva 2008/115/CE) evidenziano come il fenomeno immigratorio abbia assunto ormai la dimensione di una vera e propria invasione programmata del territorio italiano;
    il sistema di accoglienza, a seguito anche delle ultime modifiche apportate con il decreto legislativo n. 142 del 2015, si articola in un sistema complesso che, oltre alla primissima accoglienza nei cosiddetti hotspot, si distingue in «prima accoglienza» assicurata nelle strutture governative di cui all'articolo 9, in «seconda accoglienza» nelle strutture di cui all'articolo 14 e, nei casi di emergenza e di indisponibilità nelle precedenti strutture, in quelle di cui all'articolo 11 (CAS), che dovrebbero essere temporanee ma che di fatto sono diventate le più numerose ed utilizzate, registrando all'11 aprile 2016 139.215 presenze su un totale di 168.750 immigrati accolti nel sistema di accoglienza;
    chiunque arriva nel nostro Paese, indipendentemente dalla nazionalità e dalle modalità di ingresso, può presentare, in qualsiasi momento e senza limiti di tempo o preventivo controllo di ammissibilità, una domanda di protezione internazionale che di fatto blocca qualsiasi procedura di espulsione e il mantenimento gratuito del richiedente fino alla conclusione della procedura d'esame della domanda, che dura in media circa nove mesi;
    alla presentazione della domanda di protezione internazionale il richiedente asilo nelle strutture di accoglienza ha diritto, secondo quanto previsto già dalla circolare del Ministero dell'interno dell'8 gennaio 2014, ad una serie di servizi comprensivi di pulizia dei locali e lavanderia, erogazione dei pasti, prodotti per l'igiene personale, vestiario adeguato alla stagione, una ricarica telefonica di 15 euro all'ingresso, assistenza linguistica e culturale, sostegno socio-psicologico, assistenza sanitaria, «orientamento al territorio» e un pocket money di euro 2,5 al giorno per le spese personali;
    lo Stato corrisponde agli enti gestori delle strutture di accoglienza in media 35 euro al giorno per ogni richiedente ospitato e spesso si registrano situazioni di mancanza di meccanismi di controllo e monopoli da parte di associazioni e cooperative che gestiscono, anche in diverse province e regioni, numerosi centri di accoglienza e in alcuni casi senza partecipare ad alcun bando, ma per assegnazione diretta da parte delle prefetture;
    tale giro di denaro ha creato un vero e proprio business intorno al fenomeno migratorio;
    secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2016, fino ad aprile, di tutte le domande di asilo solo al 3 per cento dei richiedenti è stato riconosciuto lo status di rifugiato;
    pare che il fallimento della procedura di ricollocazione (decisioni n. 2015/1523 del Consiglio del 14 settembre 2015 e n. 2015/1601 del Consiglio del 22 luglio 2015) - che avrebbe dovuto comportare il trasferimento presso altri Paesi europei in totale di 160.000 richiedenti asilo di nazionalità siriana, irachena ed eritrea, di cui 39.600 dall'Italia - sarebbe da ricondurre anche al fatto che nel nostro Paese giungono, sempre in maggior numero, «richiedenti asilo» ivoriani, senegalesi e gambiani, nazionalità non indicate nel programma di ricollocazione e con i cui Stati l'Italia non ha attivato accordi di identificazione e riammissione;
    dall'avvio del piano di ricollocamento cosiddetto Junker gli Stati membri dell'Unione europea hanno rinviato in Italia, a fronte dei 580 ricollocati in Germania, Romania, Francia, Portogallo, Finlandia e Olanda, ben 1.101 immigrati irregolari, ossia circa il doppio. Nei primi sette mesi del piano pare siano 23.468 gli immigrati clandestini rintracciati nello spazio europeo che, secondo quanto dispone «Dublino III» (regolamento n. 604/2013), devono essere riammessi in Italia e di conseguenza le richieste in tal senso avanzate sono 4.219 dalla Germania, 4.704 dalla Svizzera, 1.921 dalla Francia e 1.669 dall'Austria;
    dunque, sebbene lungo la rotta ovest dei Balcani la situazione sembra risolta grazie alla volontà e alle iniziative dei Paesi posti su tale confine a difesa del proprio territorio a fronte dell'inerzia dell'Unione europea, perdurando però il massiccio arrivo di immigrati, agevolato dal permeabile confine marittimo italiano, sei Paesi dell'Unione europea, ossia Germania, Francia, Austria, Belgio, Svezia e Danimarca, chiederanno alla Commissione europea di prolungare di sei mesi, a partire dalla metà di maggio 2016, i controlli alle loro frontiere;
    secondo i dati forniti da Frontex, dopo la chiusura della rotta cosiddetta balcanica gli arrivi via mare nel nostro Paese a marzo 2016 sono stati 9.600, oltre il doppio rispetto a febbraio, con un incremento anche dall'Egitto;
    secondo i dati dell'ufficio statistico europeo, l'Italia è tra i Paesi maggiormente coinvolti nel problema immigrazione, quello che rimpatria meno immigrati clandestini: nel 2015 in Italia le espulsioni sono state 26.058, ma gli effettivi rimpatri 11.944, a fronte, ad esempio, degli 86.000 della Francia e dei 65.000 della Gran Bretagna;
    i sindaci nel loro ruolo di primi cittadini sentono il peso delle diffuse problematiche sociali che colpiscono direttamente il territorio amministrato, quali la disoccupazione giovanile, le difficoltà economiche dei residenti anziani, l'emergenza abitativa delle famiglie e l'aumento esponenziale di situazioni e condizioni di povertà, e si sentono abbandonati dall'amministrazione centrale nella risoluzione diretta a tali problematiche;
    è doveroso porre la giusta attenzione all'inarrestabile continua richiesta di aiuto da parte degli amministratori locali che cercano di trovare soluzioni all'ingiustizia, che vede, da un lato, il Governo destinare ingenti risorse economiche per la presa in carico dei cittadini extracomunitari e, dall'altro, una diffusa disattenzione per il disagio sociale dei cittadini italiani;
    molti sindaci hanno avviato ufficialmente un processo di democrazia partecipata per farsi supportare con un mandato ufficiale dai cittadini per proporre, con forza, al Governo di stornare almeno in parte le risorse economiche destinate all'accoglienza dei cittadini extracomunitari per destinarle ad aiuti concreti alla comunità cittadina che soffre,

impegna il Governo

1) a sostenere l'iniziativa dei sindaci finalizzata ad un riconoscimento ufficiale delle vittime della crisi economica, mettendo in atto le dovute iniziative per la presa in carico di questa particolare categoria, stornando parte delle risorse necessarie da quelle destinate all'assistenza degli extracomunitari richiedenti protezione umanitaria.
(1-01287)
«Fedriga, Grimoldi, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caparini, Castiello, Giancarlo Giorgetti, Guidesi, Invernizzi, Molteni, Picchi, Gianluca Pini, Rondini, Saltamartini, Simonetti».
(24 maggio 2016)

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