TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 730 di Mercoledì 25 gennaio 2017

 
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MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN RELAZIONE AI QUESITI REFERENDARI IN MATERIA DI JOBS ACT

   La Camera,
   premesso che:
    in data 11 gennaio 2017 la Corte Costituzionale si è pronunciata sull'ammissibilità delle richieste relative ai tre referendum popolari abrogativi in materia di lavoro e Jobs Act promossi dalla Cgil e sui quali sono state raccolte oltre 3 milioni di firme ove, in particolare, si chiedeva la riviviscenza delle disposizioni contenute nell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori e quindi la reintroduzione normativa dello stesso, l'abrogazione delle disposizioni che hanno istituito i voucher e, infine, la reintroduzione normativa delle disposizioni in materia di responsabilità solidale di appaltatore e appaltante in caso di violazioni nei confronti del lavoratore;
    in particolare, la Corte costituzionale ha dichiarato: ammissibile la richiesta di referendum denominato «abrogazione disposizioni limitative della responsabilità solidale in materia di appalti» (n. 170 Reg. Referendum); ammissibile la richiesta di referendum denominato «abrogazione disposizioni sul lavoro accessorio (voucher)» (n. 171 Reg. Referendum); inammissibile la richiesta di referendum denominato «abrogazione delle disposizioni in materia di licenziamenti illegittimi» (n. 169 Reg. Referendum);
    alla luce della pronuncia di ammissibilità da parte della Consulta delle due richieste di referendum in materia di appalti e voucher, il Governo dovrà fissare una data per il voto, tra il 15 aprile e il 15 giugno, fatto salvo quanto disposto dall'articolo 34, secondo e terzo comma, della legge n. 352 del 1970 ove si prevede che, in caso di anticipato scioglimento di una o di entrambe le Camere «il referendum già indetto si intende automaticamente sospeso all'atto della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto del Presidente della Repubblica di indizione dei comizi elettorali per la elezione delle nuove Camere o di una di esse». Si precisa, poi, che i «termini del procedimento per il referendum riprendono a decorrere a datare dal 365o giorno successivo alla data della elezione»;
    indipendentemente dall'esito della pronuncia di ammissibilità della Corte costituzionale, i quesiti sui quali la Cgil ha raccolto oltre tre milioni di firme affrontano tutti problematiche di cruciale importanza riguardando, come si è detto:
     a) la materia degli appalti e prevedendo che in caso di violazioni nei confronti del lavoratore rispondano in solido sia la stazione appaltante sia l'impresa appaltatrice, al fine di ripristinare le garanzie per i contributi dei lavoratori delle aziende che subappaltano i lavori. Il quesito, in particolare, recita: «Volete voi l'abrogazione dell'articolo 29 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, recante “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30», comma 2, limitatamente alle parole «Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi nazionali sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative del settore che possono individuare metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti,” e alle parole “Il committente imprenditore o datore di lavoro è convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all'appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori. Il committente imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell'appaltatore medesimo e degli eventuali subappaltatori. In tal caso il giudice accerta la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l'azione esecutiva può essere intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo l'infruttuosa escussione del patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali subappaltatori.”»;
     b) la reintroduzione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori attraverso l'abrogazione delle norme che hanno liberalizzato i licenziamenti economici. Il secondo quesito, ritenuto inammissibile dalla Corte, in particolare recitava: «Volete voi l'abrogazione del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, nella sua interezza e dell'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, recante “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, comma 1, limitatamente alle parole “previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'articolo 1345 del codice civile”; comma 4, limitatamente alle parole: “per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili,” e alle parole “, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto”; comma 5 nella sua interezza; comma 6, limitatamente alla parola “quinto”, e alle parole “, ma con attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi”, e alle parole “, quinto o settimo”; comma 7, limitatamente alle parole “che il licenziamento è stato intimato in violazione dell'articolo 2110, secondo comma, del codice civile. Può altresì applicare la predetta disciplina nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”, e alle parole “; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell'indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell'ambito della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo”; comma 8, limitatamente alle parole  “in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento” , alle parole  “quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell'ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all'impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di”, e alle parole “anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti”»;
     c) l'abrogazione delle disposizioni relative ai voucher, ossia il cosiddetto lavoro accessorio, che può essere definito l'evoluzione della stabilizzazione del precariato nel nostro Paese. Il terzo quesito, in particolare, recita: «Volete voi l'abrogazione degli articoli 48, 49 e 50 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell'articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”»;
    secondo quanto si apprende dalla stampa nazionale, proprio in relazione a tali quesiti referendari, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Giuliano Poletti avrebbe recentemente dichiarato anche in riferimento alla coincidenza del referendum con la possibilità di elezioni anticipate che: «se si vota prima del referendum il problema non si pone», esplicitando in maniera chiara e inequivocabile non solo la difesa strenua del Jobs Act e del lavoro accessorio, ma anche il timore del Governo per l'indizione di un referendum che, per la seconda volta e nell'arco di pochissimi mesi, potrebbe sancire l'ennesima dimostrazione del profondo dissenso popolare nei confronti delle politiche economiche e sociali varate dal Governo Renzi, nella considerazione che il cuore dell'impianto strategico delle riforme del lavoro introdotte in questi ultimi anni hanno provocato, di fatto, una profonda destrutturazione degli elementi valoriali che sono alla base dei diritti dei lavoratori, legittimando la diffusione incontenibile di forme di precariato del tutto inaccettabili;
    la questione del diritto del lavoro e delle politiche del lavoro nel nostro Paese è una cosa talmente seria da dover essere affrontata urgentemente insieme, con il coinvolgimento di tutte le forze politiche e sociali in campo, perché fino a questo momento la recrudescenza del populismo ed effetti mediatici vari hanno provocato solo scollamento con il blocco sociale, senza portare ad alcun risultato socialmente apprezzabile come emerso inequivocabilmente dopo l'esito del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016;
    bisogna recuperare al più presto quel progetto di unità ed unitarietà in cui si sostanzia il significato basilare dell'articolo 1 della Carta Costituzionale dove si legge: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro», perché in termini legislativi non si può continuare a ragionare come se quell'unità e certi equilibri siano stati realmente raggiunti;
    si evidenzia, infine, che il 29 settembre 2016 la Cgil ha consegnato al Parlamento di 1 milione e 150.000 firme a sostegno della proposta di legge di iniziativa popolare sulla Carta dei diritti universali del lavoro: una riscrittura del diritto del lavoro in nome di un principio di uguaglianza che travalichi le varie, forme e tipologie nelle quali esso si è diversificato e frammentato negli anni. La Carta dei diritti universali del lavoro è un testo composto da 97 articoli che propone un nuovo statuto delle lavoratrici e dei lavoratori, che estenda diritti a chi non ne ha e li riscriva per tutti alla luce dei grandi cambiamenti di questi anni, rovesciando l'idea che sia l'impresa, il soggetto più forte, a determinare le condizioni di chi lavora, il soggetto più debole,

impegna il Governo:

1) ad adottare le opportune iniziative normative volte a dare seguito alle richieste contenute nei quesiti referendari promossi dalla Cgil, in relazione ai quali sono state raccolte oltre 3 milioni di firme;
2) ad assumere le iniziative di competenza al fine di fissare immediatamente la data per il voto referendario entro i termini previsti dalla legge.
(1-01451)
(Nuova formulazione) «Airaudo, Martelli, Placido, Scotto, Franco Bordo, Costantino, D'Attorre, Duranti, Daniele Farina, Fava, Ferrara, Folino, Fratoianni, Carlo Galli, Giancarlo Giordano, Kronbichler, Marcon, Melilla, Nicchi, Paglia, Palazzotto, Pannarale, Pellegrino, Piras, Quaranta, Ricciatti, Sannicandro, Zaratti».
(19 dicembre 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    l'11 gennaio 2017 la Consulta si è espressa sull'ammissibilità dei tre quesiti referendari in materia di lavoro e jobs act promossi dalla Cgil, dichiarando ammissibili i due relativi all'abolizione dei voucher ed alla abrogazione delle norme che limitano la responsabilità solidale delle imprese in caso di appalti ed inammissibile il quesito che intendeva abrogare il contratto a tutele crescenti introdotto, appunto, con la riforma del jobs act;
    l'inammissibilità del quesito relativo all'abrogazione della «nuova» tipologia contrattuale era più che mai prevedibile, posto che il medesimo intendeva non solo ritornare alla versione «originaria» dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970) – dunque prima delle modifiche intervenute con la «riforma Fornero» del lavoro (legge n. 92 del 2012) e con il Jobs Act (legge n. 183 del 2014; decreto legislativo n. 23 del 2015), che ne hanno limitato l'applicazione sotto il profilo del reintegro del lavoratore licenziato ingiustamente, prediligendo la natura risarcitoria, ma addirittura ampliarne la portata, estendendone l'applicazione anche alle imprese sopra i 5 dipendenti, invece che sopra i 15;
    a parere dei firmatari del presente atto di indirizzo non serve un referendum per sancire il fallimento della riforma del lavoro nota come «jobs act»; sono sufficienti i dati Istat – e dello stesso Ministero del lavoro e delle politiche sociali – sul calo dei contratti a tempo indeterminato tra il 2015 ed il 2016 (nel secondo trimestre del 2016 le nuove attivazioni sono state 392.043, il 29,4 per cento in meno rispetto al 2015, pari a -163.099), per comprendere che diminuito lo sgravio contributivo per le nuove assunzioni a tempo indeterminato, si sarebbe ridotta la propensione ad assumere da parte delle imprese;
    da sempre si ritiene – e si denuncia – che per creare occupazione e rilanciare l'economia ed i consumi bisognava intervenire non già sulle tipologie contrattuali, bensì in maniera strutturale sul cuneo fiscale e sulla elevata tassazione delle imprese, introducendo una flate rate per standardizzare il costo del lavoro alla media europea per render più competitivo il mercato del lavoro, nonché una tax rate omnicomprensiva per una massima semplificazione del costo del lavoro sia in termini burocratici che fiscali, il tutto nell'ottica di accrescere l'occupabilità;
    parimenti non si ritiene risolutivo sostenere i costi di una consultazione referendaria per sanare le falle prodotte sempre dalla riforma del jobs act sui voucher, che ha generato un loro abuso ed ha causato un loro utilizzo per finalità molto differenti da quelle che il legislatore si era proposto;
    lo strumento del voucher – si ricorda – era stato introdotto nel nostro ordinamento con la «riforma Biagi» (decreto legislativo n. 276 del 2003) allo scopo di facilitare dal punto di vista amministrativo il ricorso a manodopera occasionale e, al contempo, regolarizzare le prestazioni temporanee e accessorie, fino ad allora puro fenomeno di lavoro sommerso;
    invero, il decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, uno dei tanti decreti attuativi della riforma «jobs act» per l'appunto, abrogando gli articoli da 70 a 73 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e sostituendone integralmente la disciplina, ha di fatto ampliato il campo di applicazione dei voucher, distorcendone la finalità iniziale e così consentendo il ricorso a prestazioni di lavoro in tutti i settori produttivi; fattore, questo, che ha contribuito ovviamente all'impennata del ricorso all'uso dei voucher registrata nell'ultimo biennio (nel 2015 c’è stato un aumento rispetto al 2014 del 57,7 per cento e del 51,2 per cento nel biennio 2014-2016);
    lo stesso Inps, nell'aggiornamento del 1o semestre 2016 sul lavoro accessorio nell'evidenziare che «dalla sperimentazione per le vendemmie del 2008, il sistema dei buoni lavoro è andato progressivamente ampliandosi sotto diversi profili» rileva che «La tipologia di attività per la quale è stato complessivamente acquistato il maggior numero di voucher è il Commercio (16,8 per cento). La consistenza della voce “altre attività” (36,7 per cento; include “altri settori produttivi”, “attività specifiche d'impresa”, “maneggi e scuderie”, “consegna porta a porta”, altre attività residuali o non codificate) è il riflesso della storia del lavoro accessorio, all'origine destinato ad ambiti oggettivi di impiego circoscritti (quindi codificabili), negli anni progressivamente ampliati, fino alla riforma contenuta nella legge n. 92 del 2012 che permette di fatto l'utilizzo di lavoro accessorio per qualsiasi tipologia di attività»;
    i dati dimostrano che, a fronte di un utilizzo di voucher pari al 19,7 per cento nei settori per i quali lo strumento era stato originariamente pensato (agricoltura: 4,3 per cento; giardinaggio: 5,8 per cento; lavori domestici: 3,3 per cento; manifestazioni sportive: 6,3 per cento), è stato utilizzato per l'80,3 per cento nei settori aggiunti dalla riforma del 2012 e poi da quella del 2015 (commercio: 16,8 per cento; turismo: 13,9 per cento; servizi: 12,9 per cento; altri settori: 36,7 per cento);
    è quindi doveroso intervenire subito in Parlamento con gli opportuni correttivi alla disciplina dei voucher per riportarli al loro spirito iniziale, al fine di limitare l'ambito soggettivo e oggettivo di applicazione dell'istituto del lavoro accessorio, ripristinando così l'impianto normativo originario del decreto legislativo n. 276 del 2003, il tutto ovviamente prima della data referendaria per evitare, oltre al costo delle operazioni elettorali, anche l'eventualità che un esito positivo dello stesso riporterebbe al sommerso tutto il lavoro accessorio ed occasionale,

impegna il Governo:

1) ad adottare le opportune iniziative normative correttive della legislazione vigente in materia di politiche del lavoro, anche di natura fiscale, al fine di fronteggiare le criticità che sono alla base dei quesiti referendari di cui in premessa e di creare nuova occupazione stabile e di qualità;
2) a valutare, anche al fine di evitare di scaricare sulle generazioni future i costi di un rilancio dell'occupazione basato esclusivamente sulla contribuzione figurativa, di assumere iniziative per l'applicazione di uno sgravio fiscale – in luogo della decontribuzione – sulle neo assunzioni a tempo indeterminato, solo relativamente alla tassazione del reddito di lavoro dipendente, ma in maniera proporzionale e crescente nei primi dieci anni di lavoro;
3) a favorire, per quanto di competenza, un rapido iter della proposta di legge n. 4206, recante modifiche alla disciplina del lavoro accessorio, il cui esame è già stato avviato in Commissione Lavoro.
(1-01481)
«Simonetti, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caparini, Castiello, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Molteni, Pagano, Picchi, Gianluca Pini, Rondini, Saltamartini».
(23 gennaio 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    in data 11 gennaio 2017 la Corte Costituzionale, pronunciandosi sull'ammissibilità di tre quesiti referendari promossi dalla Cgil, ha dichiarato l'inammissibilità del quesito relativo alla reintroduzione della cosiddetta «reintegra» in caso licenziamento senza giusta causa e alla sua estensione a tutte le imprese sopra i cinque addetti;
    tale referendum, secondo le intenzioni dei promotori, avrebbe dovuto, non solo ripristinare l'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 («statuto dei lavoratori») nella sua disciplina vincolistica anteriore alle modifiche introdotte dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 («legge Fornero»), grazie anche all'abrogazione totale della legge 10 dicembre 2014 n. 183 del (« jobs act»), ma addirittura, tramite l'uso della tecnica abrogativa referendaria, estendere la sua applicabilità alle imprese con oltre 5 lavoratori;
    la Corte Costituzionale in questi decenni ha potuto dare vita ad una consolidata giurisprudenza per valutare l'ammissibilità dei quesiti referendari, in particolare, la Corte ha posto tre requisiti come indispensabili per l'ammissibilità dei quesiti: la loro chiarezza, univocità e omogeneità. In attesa della lettura delle motivazioni addotte dalla Consulta, si può ritenere che i supremi giudici abbiano potuto eccepire che il quesito ponendo tre distinte domande all'elettore, non soddisfacesse la consolidata giurisprudenza (sentenze 16/1978, quesiti sul codice penale e sul codice penale militare di pace; 27/1981 e 28/1987, caccia; 12/2014, revisione circoscrizioni giudiziarie e n. 6/2015 trattamenti pensionistici). Inoltre la Corte potrebbe aver censurato l'uso della cosiddetta «tecnica di ritaglio», attraverso la quale si mira a creare nuove disposizioni, trasformando quindi il referendum, che per legge è solo abrogativo, in un surrettizio referendum propositivo (sentenze 36/1997, quesito su tetti pubblicitari della Rai; 50/2000, durata massima della custodia cautelare; 43/2003, procedure semplificate e incentivi per l'incenerimento dei rifiuti e 45/2003, sicurezza alimentare);
    un'eventuale vittoria del «Si» sul quesito dichiarato inammissibile avrebbe prodotto una pericolosa ingessatura per l'operatività delle piccole imprese, vera spina dorsale della economia italiana, e un pericoloso disallineamento del diritto del lavoro italiano rispetto ai migliori standard dei Paesi dell'OECD, rendendo il nostro Paese sempre meno attrattivo per imprenditori e investitori indebolendo, di riflesso, i lavoratori italiani;
    la Corte costituzionale, invece, ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum denominato «Abrogazione disposizioni sul lavoro accessorio», cioè l'abrogazione delle disposizioni relative ai cosiddetti voucher che, in questi anni, hanno consentito al datore di lavoro, per prestazioni occasionali di breve o brevissima durata (agricoltura, lavoro domestico, lezioni private, turismo, commercio), di evitare di compiere tutti i complicati adempimenti burocratici previsti per la costituzione di un rapporto di lavoro determinando, allo stesso tempo, una emersione del lavoro nero e assicurando maggiore trasparenza e una migliore tutela del lavoratore stesso;
    i voucher, diffusi da molti anni nel Nord Europa, sono stati introdotti formalmente in Italia nel 2003 dalla legge del 14 febbraio 2003, n. 30 («legge Biagi»), anche se sono stati realmente utilizzabili solo dal 2008 per lavori occasionali per i quali mai si sarebbe stipulato un contratto (assistenza malati e portatori di handicap, lezioni private, giardinaggio e pulizia, manutenzione edifici, lavori stagionali agricoli); uno strumento che consente di mettere in regola, senza complessi adempimenti burocratici, molte attività di carattere occasionale che in passato non avevano alcuna regolamentazione ed esponevano pertanto sia l'utilizzatore che il prestatore a notevoli rischi anche di ordine penale, in caso di incidenti o contenziosi;
    la loro efficacia e validità, nel corso degli anni, ha comportato una diffusione esponenziale del loro impiego, essendosi passati dai circa 24 mila lavoratori «accessori» del 2014, al milione e trecentomila di percettori di voucher del 2015;
    la stessa Cgil, nonostante sia tra i promotori del referendum per la loro abolizione, ne ha ampiamente usufruito. Infatti, nel 2016, come segnalato dal presidente dell'Inps, il sindacato ha fatto uso di voucher per un valore complessivo di 750 mila euro e non solo per i pensionati. Analogamente, anche un altro sindacato, la Cisl, ne ha utilizzati per un valore pari ad 1 milione e mezzo di euro;
    l'utilizzo di voucher è altrettanto diffuso nella pubblica amministrazione, dove, dovrebbe prevalere il contratto a tempo indeterminato e, a norma di Costituzione, previo superamento di pubblico concorso:
     a) il comune di Napoli, attualmente amministrato dal centro sinistra, pur aderendo ufficialmente, con specifica delibera di giunta, alla raccolta di firme della Cgil per il referendum abrogativo, ha «coerentemente», attraverso specifico avviso pubblico, avviata una selezione di lavoratori disoccupati disposti ad effettuare presso l'ente prestazione di lavoro di accessorio retribuiti mediante voucher. Come ha affermato l'assessore al lavoro partenopeo: «non condividiamo lo strumento, tuttavia, abbiamo deciso di non privare i nostri cittadini dall'opportunità di godere di un contributo economico»;
     b) il comune di Torino, amministrato pro tempore da esponenti del Movimento 5 Stelle, a livello nazionale contrarissimi da sempre all'utilizzo dello strumento, utilizzerà i voucher per pagare alcuni giovani mediatori culturali;
    nonostante la validità dello strumento « voucher», nel corso degli anni il suo utilizzo è stato esteso a sempre più settori e lavoratori, compresi non saltuari, determinando, in alcuni casi un abuso nell'utilizzo dello stesso per finalità molto differenti da quelle originariamente previste. Ovviamente, pensare di cancellarli del tutto come chiesto dai promotori del quesito referendario, oltre a non risolvere il problema del lavoro nero, farebbe rimanere il nostro Paese con la più alta quota di sommerso in Europa e determinerebbe un ulteriore irrigidimento del mercato del lavoro, visto anche l'aumentare, nel corso degli ultimi anni, delle restrizioni legislative nell'ambito delle forme di lavoro coordinate e continuative;
    uno studio dell'Inps del 2015 evidenzia i precettori di voucher siano circa il 10 per cento pensionati, mentre il 55 per cento si divide tra chi ha un altro lavoro e i percettori di ammortizzatori sociali. Da questi dati emerge che circa i due terzi dei percettori utilizzano i voucher effettivamente per attività accessorie e per tipologie di mansioni in cui prima il nero era considerato imperante;
    resta fuori discussione la necessità di intervenire una serie di controlli incisivi per impedire abusi e per evitare che lo strumento sia utilizzato per coprire lavoro nero e va riconosciuto come l'entrata in vigore della tracciabilità costituisca una misura che opera in questa direzione;
    tuttavia, nonostante l'importanza rivestita dalla discussione sulla flessibilità dei contratti di lavoro, tema prioritario in una concreta discussione sul mondo del lavoro, resta il problema dell'elevato peso del cuneo fiscale che incide negativamente sul rilancio occupazionale nel nostro Paese. La mano del fisco sui salari è sempre più pesante visto che secondo lo studio « Taxing Wages» dell'Ocse, il cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti – cioè il prelievo complessivo sulla retribuzione lorda – nel 2015 è aumentato di 0,76 punti percentuali al 49 per cento. L'Italia si colloca così al quarto posto tra i 34 Paesi dell'Ocse per peso del fisco sul salario del lavoratore medio «single» senza figli, affiancando l'Ungheria, superando la Francia (48,5 per cento) e allontanandosi sempre di più dalla media dell'Ocse (35,9 per cento);
    la realtà, visti questi numeri, è che ad impoverire realmente i lavoratori, anzi a determinarne i licenziamenti e a impedire la creazione di nuovi posti di lavoro, sia lo Stato a causa di un livello intollerabile di tassazione che rende insostenibile, se non addirittura fuori mercato, qualsiasi produzione industriale in Italia (a meno di non ricevere aiuti diretti o indiretti dallo Stato stesso). Unica strada per tornare ad essere competitivi determinando un sensibile aumento dei livelli occupazionali, è intervenire subito per ridurre significativamente il cuneo fiscale,

impegna il Governo:

1) a mettere in atto, per quanto di competenza, iniziative adeguate volte ad accertare e sanzionare eventuali abusi nell'utilizzo dei cosiddetti voucher, anche attraverso una più adeguata attività ispettiva e di controllo, soprattutto in quei casi in cui il loro utilizzo sembra volto a trasformare illegittimamente lavoro regolare in lavoro accessorio, ma preservando comunque uno strumento che in questi anni ha comunque dato buone prove;
2) a centrare sforzi e risorse per ridurre il peso del cuneo fiscale attraverso politiche volte ad allineare il peso del fisco sul lavoro alle medie dell'Ocse.
(1-01482)
«Capezzone, Palese, Altieri, Bianconi, Chiarelli, Ciracì, Corsaro, Distaso, Fucci, Latronico, Marti».
(23 gennaio 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    recentemente la Corte costituzionale si è espressa sull'ammissibilità di tre quesiti referendari in materia di lavoro e jobs act dichiarando ammissibili i quesiti concernenti rispettivamente l'abolizione dei voucher, e l'abrogazione delle disposizioni che limitano la responsabilità solidale delle imprese in caso di appalti;
    relativamente al terzo quesito referendario sull'articolo 18, la Consulta si è espressa negativamente sulla sua ammissibilità. In specie, il predetto quesito si proponeva di abrogare le modifiche apportate dal jobs act allo statuto dei lavoratori reintrodurre i limiti per i licenziamenti senza giusta causa;
    in particolare, il quesito referendario chiedeva il ripristino e l'ampliamento della «tutela reintegratoria nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo», estendendola però a tutte le aziende con oltre cinque dipendenti, a fronte del tetto massimo di 15 dipendenti, previsti dalla versione originaria dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori;
    il jobs act ha superato l'articolo 18, sostituendo il diritto al reintegro con un indennizzo economico in caso di licenziamento senza giusta causa;
   il quesito è stato elaborato dai proponenti in maniera un po’ complessa, investendo due diversi provvedimenti: il decreto legislativo n. 23 del 2015 («Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti») e numerose parti dell'articolo 18, nella versione modificata dalla «legge Fornero» del 2012;
    nel caso del decreto legislativo n. 23 del 2015 si proponeva l'abrogazione integrale del provvedimento, e dunque della disciplina sanzionatoria dei licenziamenti applicabile ai lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 (cioè dall'entrata in vigore dello stesso decreto);
    nel caso dell'articolo 18, invece, le relative abrogazioni erano finalizzate a modificare la norma, con due principali conseguenze: a) da un lato la semplificazione dei regimi sanzionatori del licenziamento invalido, che sarebbero divenuti soltanto due (e non più quattro, come nella «legge Fornero»), entrambi basati sulla reintegrazione nel posto di lavoro; b) dall'altro, la semplificazione e l'estensione del campo di applicazione della reintegrazione: questa, come già avviene oggi, si sarebbe applicata a tutti i datori di lavoro e a tutti i rapporti di lavoro (compresi i dirigenti) in caso di licenziamento discriminatorio o nullo, mentre in caso di licenziamento illegittimo, perché non giustificato, si sarebbe applicata, in caso di approvazione del referendum, ai lavoratori (non dirigenti) dipendenti da datori di lavoro che occupano più di cinque dipendenti;
    tale carattere ha inciso, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo; sulla decisione della Corte Costituzionale; l'Avvocatura dello Stato si è così espressa: «proponendosi di abrogare parzialmente la normativa in materia di licenziamento illegittimo, di fatto la sostituisce con un'altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo di riferimento, “disciplina che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo, né direttamente costruire”. Il quesito punta a estendere i vincoli al licenziamento “previsti dall'articolo 18 a tutte le aziende con più di 5 dipendenti”. Nell'articolo 18 l'ambito di applicazione della tutela reale viene stabilito differenziando a seconda che il datore di lavoro occupi più di 15 o più di 5 dipendenti: la disposizione contiene due regole speciali, la prima vale per le organizzazioni diverse dalle imprese agricole, la seconda per le imprese agricole»;
    secondo l'Avvocatura dello Stato, «l'intento dei promotori del referendum era quello di produrre una norma (la tutela reale per tutti i datori di lavoro con più di 5 dipendenti) che chiaramente estrae il limite dei 5 dipendenti, previsto per le sole imprese agricole, per applicarlo a tutti i datori di lavoro, a prescindere dal tipo di attività svolta»; tuttavia, considerando che, secondo costante giurisprudenza costituzionale in tema di referendum abrogativo, non sono ammesse tecniche di ritaglio dei quesiti che utilizzino il testo di una legge come serbatoio di parole cui attingere per costruire nuove disposizioni, l'Avvocatura dello Stato sostiene che l'eventuale esito positivo della consultazione avrebbe condotto ad una condizione di incertezza normativa, col rischio di incidere sulla regolamentazione delle vicende negoziali in essere al momento della modifica normativa;
    già nel 2003 la Corte costituzionale era stata chiamata a pronunciarsi su un quesito referendario non molto dissimile da quello in parola, che allora era stato ritenuto ammissibile. In quell'occasione, la proposta di abrogazione riguardava alcuni commi o patti di commi dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970 nel testo allora vigente); l'articolo 2, comma primo, e l'articolo 4, comma primo, della legge n. 108 del 1990; l'articolo 8 della legge n. 604 del 1996, con la finalità complessiva di estendere a tutti i rapporti di lavoro il regime della reintegrazione nel posto di lavoro. Il referendum non raggiunse il quorum di validità, e nell'ambito dei voti espressi la grande maggioranza degli elettori si pronunciò a favore dell'abrogazione;
    in assenza del referendum, in primis i lavoratori assunti a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015, e dunque assoggettati alla disciplina del contratto a tutele crescenti, restano in una condizione di grave sotto protezione nei confronti di un licenziamento illegittimo;
    da un punto di vista formale la legge delega n. 183 del 2014 (cosiddetto jobs act) non sostituisce o corregge l'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ma lo lascia sopravvivere ad esaurimento per i lavoratori già assunti, ponendo un regime autonomo per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato all'indomani della sua entrata in vigore. Non è stato ripresentato il testo del precitato articolo 18, debitamente emendato, ma ne è stato proposto uno nuovo, che solo con riguardo al licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale, riprende quello precedente. La riscrittura dell'articolo 18 dello statuto prefigurata dalla legge delega, sostituisce le limitazioni precedenti «per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra fra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi» (legge n. 92 del 2012, articolo 1, comma 42), che assegnava alla disciplina collettiva una parte essenziale nell'individuazione delle ipotesi di tutela reale;
    il doppio regime («tutele crescenti» per i neo assunti e tradizionali tutele per i lavoratori già dipendenti) ha indotto molti interpreti ad evidenziare la disparità di trattamento tra lavoratori all'interno della stessa azienda, i quali, di fronte a un medesimo provvedimento datoriale potranno ottenere differenti rimedi Una disparità di trattamento non già tra diverse categorie di lavoratori, indotta da ragioni oggettive, bensì tra colleghi di lavoro della stessa azienda, indotta da ragioni puramente soggettive (la data di assunzione). Con l'evidente possibilità che i giudici investiti di tali situazioni possano, a richiesta della parte ricorrente o meno, sollevare questione di incostituzionalità per violazione dell'articolo 3 della Costituzione;
    la mancata individuazione delle «specifiche fattispecie» di licenziamenti disciplinari ancora meritevoli di tutela reintegratoria non rappresenta soltanto violazione della delega ricevuta, anche ai sensi dell'articolo 76 della Costituzione, ma dà luogo anche ad un profilo aggiuntivo e autonomo di incostituzionalità; secondo molti interpreti, se per dimostrare l'insussistenza del «fatto materiale» il lavoratore licenziato dovesse essere costretto a fornire davvero una prova diretta, allora si tramuterebbe nel dovere di fornire una prova negativa, vietata in generale perché impossibile, con conseguente violazione dell'articolo 24 della Costituzione;
    il divieto per il giudice, sempre in tema di licenziamento disciplinare, di valutare la proporzionalità tra condotta effettivamente tenuta dal lavoratore incolpato e pena espulsiva inflittagli dal datore di lavoro, contrasta – secondo gli stessi interpreti – con l'esistenza stessa di una funzione giurisdizionale autonoma e indipendente dal potere legislativo/esecutivo, garante del principio di legalità: «Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso»; principio contenuto nell'articolo 25 della Costituzione, che a sua volta è contenuto nella Parte prima, «Diritti e doveri dei cittadini», e più esattamente nel relativo Titolo I, «Rapporti civili»; tale divieto si pone, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo anche in violazione dell'articolo 39 della Costituzione laddove smentisce tutto il lavoro svolto dalla contrattazione collettiva in tema di individuazione delle singole mancanze e delle singole sanzioni corrispondentemente applicabili;
    il Governo Renzi, con la riforma del lavoro, di americana memoria ha modificato la disciplina giuridica del rapporto e del mercato del lavoro, sotto l'occhio vigile di Bruxelles, resosi disponibile ad allentare la pressione finanziaria, purché, sull'onda della celeberrima «riforma Fornero», si continuasse ad effettuare ulteriori riforme strutturali, a cominciare proprio da una traduzione della formula comunitaria di gran moda della flexsecurity,

impegna il Governo:

1) ad assumere le iniziative di competenza al fine di fissare la data per il voto referendario entro i primi giorni utili previsti per legge in particolare il 23 aprile 2017;
2) ad adottare tutte le iniziative utili a tutelare i diritti della persona del lavoratore della sua libertà e dignità, della sua capacità e forza contrattuale, partendo da quelle volte all'abrogazione della legge n. 183 del 2014, cosiddetta «riforma del jobs act», anche alla luce delle criticità segnalate in premessa con riferimento al rispetto delle norme costituzionali, e specificamente dell'articolo 76 della Costituzione.
(1-01488)
«Ciprini, Cominardi, Lombardi, Chimienti, Dall'osso, Tripiedi, Cecconi».
(24 gennaio 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    la Corte costituzionale in data 11 gennaio 2017, con due ordinanze ha dichiarato ammissibili i referendum costituzionali promossi dalla Cgil per l'abrogazione delle norme del Jobs Act in materia di voucher e di responsabilità solidale del committente e dell'appaltatore negli appalti pubblici. La Consulta ha ritenuto invece inammissibile il quesito volto ad abrogare la normativa in materia di licenziamenti illegittimi contenuta nell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Il referendum, ai sensi degli articoli 33 e 34 della legge n. 352 del 1970, dovrà tenersi in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno 2017;
    il lavoro occasionale accessorio include tutte le prestazioni lavorative che non sono riconducibili a contratti di lavoro di alcun tipo, in quanto svolte in modo saltuario e regolate attraverso i buoni lavoro o voucher che garantiscono la copertura Inps e Inail. I committenti che possono utilizzarli sono famiglie, enti o imprese di vario tipo;
    scopo dei voucher è quello di favorire l'occupazione di soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mondo del lavoro oppure in procinto di uscirne, oltre che di favorire l'emersione del lavoro nero;
    con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto legislativo n. 185 del 24 settembre 2016, dall'8 ottobre 2016 è in vigore la comunicazione preventiva obbligatoria che permette la tracciabilità dei voucher per evitarne l'uso fraudolento. Pertanto, gli imprenditori che utilizzano i voucher dovranno inviare la comunicazione preventiva prima dell'inizio di ciascuna prestazione all'Ispettorato nazionale del lavoro;
    è necessario, pertanto, se si vuole garantire una restrizione sui voucher che, come riportato precedentemente sono stati fondamentali nell'emersione del lavoro nero, che ha costituito e costituisce una vera e propria «piaga sociale», attivare la liberalizzazione dei contratti intermittenti che possono essere stipulati anche a tempo indeterminato. Tra l'altro la cosiddetta legge Biagi ha avviato la sperimentazione limitata dei buoni prepagati ma ha consentito contemporaneamente la possibilità di fare emergere i lavori occasionali periodici o ripetuti (ad esempio i camerieri nei periodi in cui è più intensa l'attività della ristorazione attraverso il contratto a chiamata);
    un'eventuale riforma legislativa potrebbe poi escludere i voucher in un settore particolarmente esposto come l'edilizia o limitarne l'uso sulla base di tetti aziendali. In ogni caso è fondamentale consentire che ogni attività lavorativa, anche occasionale e di breve periodo, possa essere agevolmente regolata in modo da assicurarne l'emersione;
    per quanto riguarda l'altro quesito referendario ammesso, denominato «abrogazione disposizioni limitative della responsabilità solidale in materia di appalti in capo al datore di lavoro», si propone di abrogare una modifica introdotta dalla «riforma Fornero» del mercato del lavoro in tema di appalti. Infatti, in caso di appalti, il committente (cioè l'impresa che affida un'attività in appalto ad un altro soggetto definito appaltatore) può essere chiamato a rispondere nei casi in cui l'appaltatore non adempia ai suoi obblighi nei confronti dei dipendenti (per esempio non riconosca le retribuzioni o i contributi previdenziali). Questo criterio definito di responsabilità solidale è attualmente subordinato al fatto che siano già state esercitate tutte le possibili azioni di recupero nei confronti dell'appaltatore. Solo dopo che tali azioni siano state compiute e si siano rivelate infruttuose sarà possibile rivalersi sul committente. Il quesito propone abrogazione di quest'ultimo vincolo;
    questa tematica è molto delicata. Infatti, fino al 2012, il meccanismo era particolarmente complesso e confuso. Poteva accadere (quasi sempre) che il lavoratore per fare valere eventuali ragioni creditorie chiamava in giudizio il solo committente e non il suo datore di lavoro, cioè l'appaltatore. All'impresa committente veniva preclusa qualsiasi integrazione del contraddittorio, non potendo citare l'appaltatore, né difendersi, vista l'impossibilità per il committente di ingerirsi nel rapporto tra lavoratore ed appaltatore. E così si verificava che l'impresa madre era tenuta a pagare direttamente il lavoratore, salvo poi agire in rivalsa nei confronti dell'appaltatore (peraltro già retribuito per la commessa svolta e magari non più attivo);
    l'idea di attenuare questa responsabilità oggettiva in capo al committente è stata ripresa dalla cosiddetta «legge Fornero» e sono stati introdotti due fondamentali correttivi. Infatti, viene concesso alla contrattazione collettiva nazionale di derogare alla responsabilità solidale, prevedendo metodi e procedure di controllo della regolarità degli appalti, sostitutivi appunto della responsabilità solidale. In secondo luogo, in sede processuale, è previsto l'obbligo per il lavoratore di chiamare in giudizio congiuntamente il suo datore di lavoro ed il committente, consentendo a quest'ultimo di chiedere il beneficio della preventiva escussione in base al quale se il giudizio di merito si conclude con una condanna in solido, il lavoratore deve agire in via esecutiva prima nei confronti dell'appaltatore e, solo successivamente, se risulta inadempiente nei confronti del committente;
    questa normativa, che aveva reso ragionevole ed equilibrato il rapporto tra la tutela dei diritti dei lavoratori e delle imprese, è oggi operativa ed applicabile. La disciplina, pertanto, se abrogata darebbe luogo ad incertezze applicative,

impegna il Governo:

1) a completare l'opera di monitoraggio, così come previsto dall'ultima normativa in materia di voucher, ed, a seguito della stessa azione di controllo già avviata e alla luce dei provvedimenti che sono all'attenzione del Parlamento, ad assumere una propria iniziativa tesa a contrastare forme distorsive dell'utilizzo di questi strumenti, senza però giungere alla loro messa in discussione, considerata la loro utilità;
2) a valutare l'opportunità di assumere iniziative per la revisione della disciplina in materia di responsabilità solidale negli appalti richiamata in premessa, tenuto conto dell'esigenza di evitare incertezze applicative.
(1-01489)
«Pizzolante, Bosco».
(24 gennaio 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    la Corte costituzionale, con sentenze pronunciate l'11 gennaio 2017, ha ammesso due richieste di referendum abrogativi, relativi rispettivamente all'abrogazione di disposizioni limitative della responsabilità solidale in materia di appalti e all'abrogazione disposizioni sul lavoro accessorio (voucher);
    si tratta di due quesiti di fondamentale importanza, la cui richiesta è supportata, per ciascuno, da oltre un milione di firme, come risulta comprensibile, considerate le conseguenze negative che le ultime riforme del mercato del lavoro hanno determinato in relazione alla tutela dei diritti dei lavoratori e da quanto, a questo proposito, emerge sempre più evidentemente circa i «voucher» il loro utilizzo è stato oggetto di successivi ampliamenti, fino a renderli acquistabili in tabaccheria, nelle banche popolari o presso gli uffici postali, tanto che dalla nota trimestrale sulle tendenze dell'occupazione – in cui vengono documentati i primi risultati di un complesso programma di attività finalizzato a produrre informazioni armonizzate, complementari e coerenti, dati disponibili fino al terzo trimestre 2016; già rilasciati nei comunicati delle singole istituzioni – e sulla base di alcuni nuovi indicatori realizzati ad hoc per arricchire e rendere più coerente il quadro delle principali dinamiche del mercato del lavoro, risulta che, nei primi nove mesi del 2016, i voucher venduti sono stati 109,5 milioni, il 34,6 per cento in più rispetto all'analogo periodo dell'anno precedente; i voucher riscossi per attività svolte nel 2015 (quasi 88 milioni) corrispondono a circa 47 mila lavoratori annui full-time e rappresentano solo lo 0,23 per cento del totale del costo lavoro in Italia;
    intervenire sul punto è da tempo urgente e tuttavia, questo non è stato fatto, né, d'altronde, sarebbero stati in passato, né tantomeno sarebbero adesso, ad opera di questo Governo, accettabili interventi volti a realizzare modifiche marginali, incapaci di incidere sulle distorsioni provocate nell'ambito del mercato del lavoro e volte magari soltanto a creare confusione nel dibattito pubblico in vista del referendum;
    ai sensi dell'articolo 34, comma 1, della legge n. 352 del 1970, recante «Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo», il Presidente della Repubblica, ricevuta comunicazione della sentenza con cui la Corte costituzionale ammette il referendum, ne indice, su proposta del Consiglio dei ministri, la votazione in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno;
    la legge n. 352 del 1970 esclude la sovrapposizione tra il referendum abrogativo e le elezioni politiche, prevedendo, che nell'anno antecede alla scadenza di una delle Camere, non possano essere presentate richieste di referendum e, all'articolo 34, comma 2, che, se dopo l'indizione del referendum le Camere sono sciolte, il referendum si intende sospeso e i termini riprendono a decorrere dal 365o giorno successivo allo svolgimento delle elezioni;
    nessuna norma è invece volta a escludere il contemporaneo svolgimento del referendum abrogativo e di consultazioni popolari differenti da quelle per il rinnovo delle Camere;
    nel secondo semestre del 2016 e nel primo semestre del 2017 sono andate in scadenza o stanno per andare a scadenza diverse amministrazioni comunali;
    ai sensi dell'articolo 1 della legge n. 182 del 1991, recante «Norme per lo svolgimento delle elezioni dei consigli comunali e circoscrizionali» e successive modifiche ed integrazioni le elezioni amministrative si svolgono in un unico turno elettorale ordinario da tenersi in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno;
    il costo di un turno elettorale è stimato intorno a non meno di trecento milioni di euro;
    negli ultimi anni sono stati adottati alcuni provvedimenti per ridurre il costo delle elezioni (come il decreto-legge sulla spending review del Governo Letta che ha stabilito il voto nella sola giornata di domenica);
    è comunque necessario chiarire che nessuna politica di riduzione dei costi può incidere negativamente sulla possibilità per gli elettori di esprimersi in occasione delle votazioni, che stabiliscono attuazione del principio democratico di cui all'articolo 1 della Costituzione, ai sensi del quale il popolo esercita la sovranità (di cui è titolare) «nelle forme e nei limiti della Costituzione» stesse;
    la fissazione della data di svolgimento del referendum e delle elezioni per il rinnovo delle amministrazioni comunali in un'unica data non ha nessun impedimento giuridico e anzi, in base a quanto previsto rispettivamente dall'articolo 34 della legge n. 352 del 1970 e dall'articolo 1 della legge n. 182 del 1991 e successive modifiche ad integrazioni, in entrambi i casi la data di indizione deve essere fissata nel medesimo arco temporale dell'anno piuttosto stretto (15 aprile-15 giugno);
    l'individuazione della stessa data per lo svolgimento di entrambe le consultazioni popolari ottimizzerebbe l'organizzazione dei comizi, agevolerebbe i cittadini nella partecipazione (soprattutto da parte di chi ha maggiore difficoltà a esercitare materialmente il diritto di voto), determinerebbe un significativo risparmio per le casse dell'erario (coerentemente con le già adottate misure per lo svolgimento del referendum in un'unica giornata) e, naturalmente, assicurerebbe comunque anche a chi votasse in un comune in cui si svolgono entrambe le votazioni di partecipare all'una ma non all'altra (semplicemente non ritirando le schede delle consultazioni alle quali non intende partecipare),

impegna il Governo:

1) ad assumere le iniziative di competenza per fissare nella medesima domenica compresa tra il 15 aprile 2017 e il 15 giugno 2017 la data per lo svolgimento delle votazioni popolari relative ai referendum abrogativi ammessi dalla Corte costituzionale con le sentenze pronunciate l'11 gennaio 2017 e quella per lo svolgimento delle elezioni delle amministrazioni comunali e circoscrizionali che devono essere rinnovate nel 2017 ai sensi dell'articolo 1 della legge n. 182 del 1991.
(1-01490)
«Civati, Baldassarre, Artini, Bechis, Brignone, Andrea Maestri, Matarrelli, Pastorino, Segoni, Turco».
(24 gennaio 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    la riforma del mercato del lavoro sostenuta e approvata dal Governo Renzi (contenuta nella legge delega n. 183 del 2014, il cosiddetto Jobs Act, e nei diversi decreti legislativi approvati) si è rivelata, per i presentatori del presente atto di indirizzo, fallimentare;
    gli stessi dati diffusi dall'Inps, negli ultimi mesi, certificano che la politica della «droga» delle decontribuzioni non ha funzionato: esaurito il « doping» al mercato del lavoro, con la fine degli incentivi per le assunzioni a tempo indeterminato, è immediatamente sceso il numero degli impieghi stabili. In sostanza, il Jobs Act ha solo aumentato le assunzioni con contratti a tutele crescenti, senza creare nuovi posti di lavoro e soprattutto senza creare sviluppo e crescita. Sono stati, dunque, bruciati quasi 20 miliardi di euro, spesi per finanziare l'inutile decontribuzione;
    nei primi dieci mesi del 2016 sono stati stipulati più di 1,3 milioni (1.370.320) di contratti a tempo indeterminato (comprese le trasformazioni), mentre le cessazioni, sempre di contratti a tempo indeterminato, sono state 1.308.680, con un saldo positivo di 61.640 unità. Il dato – si rileva dall'osservatorio Inps – è peggiore dell'89 per cento rispetto al saldo positivo di 588.039 contratti stabili dei primi dieci mesi 2015, risentendo della riduzione degli incentivi per le assunzioni stabili, e anche di gennaio-ottobre 2014 (+101.255 stabili);
    sempre da dati Inps si rileva che, nello stesso periodo gennaio-ottobre 2016, sono stati venduti 121,5 milioni di voucher destinati al pagamento delle prestazioni di lavoro accessorio, del valore nominale di 10 euro, con un incremento, rispetto ai primi dieci mesi del 2015, pari al 32,3 per cento. Il dato è particolarmente grave se si considera che, nei primi dieci mesi del 2015, la crescita dell'utilizzo dei voucher, rispetto al 2014, era stata pari al 67,6 per cento;
    il pagamento attraverso i voucher per alcuni tipi di lavori era stato introdotto con il decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (approvato in attuazione della legge 14 febbraio 2003, n. 30, cosiddette «legge Biagi») per far emergere dall'irregolarità, alcune forme di lavoro occasionale (come dare ripetizioni o tipi di lavoro domestico), ma, negli anni, ne è stato legittimato l'uso per quasi tutti i tipi di lavoro. La disciplina del lavoro accessorio è stata infatti modificata dal decreto legislativo n. 81 del 2015, uno dei decreti attuativi del Jobs Act. Tra i cambiamenti di maggior rilievo viene in considerazione l'innalzamento da 5.000 euro a 7.000 euro (annualmente rivalutati) nel corso di un anno civile e con riferimento alla totalità dei committenti, del limite massimo entro cui deve rientrare la retribuzione perché la prestazione possa configurarsi come lavoro accessorio. Questo fattore, insieme ad altre misure del Jobs Act che hanno ridotto altre tipologie di lavoro più flessibile, ha determinato un aumento dell'uso dei voucher da parte dei datori di lavoro;
    il legislatore è poi tornato nuovamente sulla disciplina del lavoro accessorio: ma le modifiche apportate da ultimo con il decreto legislativo 24 settembre 2016, n. 185, non sono apparse per nulla risolutive; l'intervento si è infatti limitato a introdurre un obbligo di comunicazione preventiva sul modello di quanto già previsto per il cosiddetto lavoro intermittente;
    per tali ragioni e per evitare che il lavoro accessorio alimenti una generazione di lavoratori poveri si rende necessario un ulteriore intervento legislativo. A tal proposito, e, più in generale, per modificare una parte della disciplina introdotta dal Jobs Act, la Cgil, nel luglio 2015, aveva depositato più di tre milioni di firme per la richiesta di tre referendum abrogativi;
    una delle richieste riguardava proprio l'abrogazione della disciplina dei voucher. Una seconda richiesta chiedeva l'abrogazione di norme che limitano la responsabilità in solido fra appaltante e appaltatore, L'ultima, la più complessa, mirava alla reintroduzione della reintegra in caso di licenziamento senza giusta causa, estendendola anche alle imprese sopra i 5 addetti;
    l'11 gennaio 2017, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il quesito sui licenziamenti illegittimi, mentre ha dichiarato ammissibili le richieste di abrogazione della disciplina dei voucher, e delle limitazioni introdotte sulla responsabilità solidale in materia di appalti;
    la decisione della Consulta risulta equilibrata: il quesito dichiarato inammissibile si prestava in effetti ad ambiguità non proprie delle richieste di referendum abrogativo. La formulazione del quesito scritto andava infatti oltre il ripristino dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, perché estendeva di fatto il diritto alla reintegra nel posto di lavoro (in caso di scioglimento illegittimo del contratto da parte del datore) ai dipendenti delle aziende con un numero di dipendenti tra i 5 e i 15 (prefigurando tra l'altro un sistema ancora più rigido rispetto a quello vigente prima dell'entrata in vigore del Jobs Act), configurandosi quindi come quesito «propositivo» – in quanto di fatto avrebbe sostituito le norme in vigore con una disciplina diversa rispetto alle norme previgenti – e pertanto inammissibile;
    la «bocciatura» della Consulta è dunque arrivata puntuale e prevedibile, a seguito di un'evidente forzatura operata da parte dei proponenti in merito all'applicazione della soglia dei 5 dipendenti;
    ad oggi, se non interverranno modifiche legislative sulle norme oggetto dei quesiti resi ammissibili dalla Corte, tra il 15 aprile e il 15 giugno 2017, gli elettori saranno chiamati al voto referendario;
    è quindi necessario che il legislatore svolga un'accurata riflessione, e che la politica si concentri sui temi oggetto delle richieste dei cittadini relative al mondo del lavoro, a partire dalla disciplina sul lavoro accessorio;
    l'obiettivo dovrebbe essere innanzitutto quello di regolamentare l'utilizzo dei voucher, che comunque rimangono uno strumento utile a coloro che non godono di contratto stabile. Su tale fronte non è quindi necessario attendere il referendum, anche perché si tratta di una emergenza da risolvere nell'immediato. Anche il Governo si è già reso disponibile a modifiche, e la Commissione lavoro della Camera ha di recente avviato l'esame delle proposte di legge che disciplinano il lavoro accessorio;
    è necessario innanzitutto abbassare il tetto del compenso annuo e restringere l'ambito di applicazione dei ticket lavoro, sostanzialmente tornando alla disciplina già prefigurata dalla «legge Biagi»; con diverse e flessibili forme contrattuali, per rilanciare l'occupazione e offrire maggiori opportunità di lavoro,

impegna il Governo:

1) ad adottare ogni opportuna iniziativa volta a ripristinare sostanzialmente l'originario impianto normativo del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, per quanto attiene alla definizione dei voucher e al loro campo di applicazione, nonché alla puntuale individuazione delle tipologie di lavoratori ammessi allo svolgimento delle prestazioni di lavoro accessorio;
2) ad adottare opportune iniziative per offrire, a tutti i lavoratori che dichiarano la loro disponibilità ad effettuare prestazioni di lavoro accessorio, l'erogazione di una formazione di base in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro da parte dei servizi per l'impiego e degli enti accreditati;
3) nell'ambito di future iniziative normative in materia di lavoro, a rivedere gli strumenti di flessibilità, per evitare distorsioni nell'ambito applicativo della disciplina del lavoro accessorio, prevedendo forme di flessibilità anche alternative ai voucher, di maggiore tutela per i lavoratori.
(1-01491) «Polverini, Occhiuto».
(24 gennaio 2017)

INTERROGAZIONI A RISPOSTA IMMEDIATA

   TANCREDI. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   oltre alla gravissima situazione determinata dal terremoto e dalle intense nevicate, l'Abruzzo è costretto ad affrontare una condizione di estrema emergenza dovuta alla mancanza di energia elettrica;
   nella giornata di lunedì 16 gennaio 2017 questo problema ha riguardato ben trecentomila persone e 160 mila utenze e si deve rilevare come, ad oggi, ancora oltre quindicimila risultino disattivate;
   le conseguenze di questa drammatica calamità hanno ulteriormente aggravato, in termini facilmente comprensibili, le condizioni di vita di migliaia di cittadini, colpendo particolarmente le fasce più disagiate per età, salute, condizioni economiche;
   l'Enel, nel corso del 2016, ha investito in Abruzzo cinquanta milioni di euro che avrebbero dovuto, dunque, determinare il rinnovo e la manutenzione di una rilevante quantità di chilometri di rete;
   è inaccettabile constatare come da oltre dieci giorni l'Abruzzo e le stesse Marche abbiano dovuto confrontarsi con una simile, impensabile emergenza;
   Abruzzo e Marche sono state colpite da un simile flagello proprio in un momento di grande sforzo che, nel campo dell'imprenditoria e del turismo in particolare, hanno posto in essere per rilanciare le condizioni socioeconomiche di due regioni già pesantemente colpite dal terremoto;
   il problema delle responsabilità è e sarà sicuramente oggetto, in tempi comprensibilmente lunghi, delle indagini degli organi preposti, mentre attuale ed indifferibile risulta la soluzione dei problemi denunciati –:
   quali siano le misure che il Governo ha posto o porrà in essere per risolvere nei modi più rapidi e definitivi la gravissima emergenza denunciata, ponendo sicure premesse perché la stessa non abbia più a verificarsi. (3-02724)
(24 gennaio 2017)

   CAPELLI. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 19 luglio 1995, n. 502, stabilisce nella misura massima di 154.937 euro la retribuzione del direttore generale di un'azienda sanitaria, sommando, eventualmente, fino a 5.165 euro per iniziative alle quali debba partecipare per esigenze connesse al proprio ufficio ed un bonus, nella misura massima del 20 per cento, in relazione al conseguimento degli obiettivi assegnati;
   la legge regionale della Sardegna n. 17 del 2016, all'articolo 17, stabilisce che «il trattamento economico dei direttori generali (...) è determinato dalla giunta regionale, (...)», in base a vari parametri e con una possibile integrazione sino al 20 per cento per obiettivi raggiunti «nel rispetto del limite massimo al trattamento economico del personale pubblico e delle società partecipate, di cui all'articolo 13, comma 1, del decreto-legge n. 66 del 2014 (...)»;
   il parere della Ragioneria generale dello Stato relativo al citato articolo segnala che «l'assenza di riferimento al rispetto di quanto previsto in materia dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 502 del 1995 (...), le cui disposizioni costituiscono principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, è suscettibile di determinare oneri non quantificati e non coperti, quindi in contrasto con gli articoli 81 e 117, comma 3, della Costituzione»;
   l'ufficio legislativo del Ministero della salute, inoltre, ha osservato che la norma citata «appare foriera di un'ampia discrezionalità in capo alla regione poiché svincolata dai parametri stabiliti a livello nazionale nella determinazione dei compensi attraverso il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 19 luglio 1995, n. 502 (...)»;
   appaiono all'interrogante insoddisfacenti le controdeduzioni fornite in merito dalla regione Sardegna, in quanto i pronunciamenti della Corte costituzionale a cui si fa riferimento (in particolar modo, la sentenza n. 341 del 30 dicembre 2009) mai parlano espressamente del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 502 n. 1995;
   il presidente della regione Sardegna impegnava la giunta regionale a proporre al consiglio regionale le modifiche normative richieste dal Ministero della salute, ma in realtà a tutt'oggi questo non è mai avvenuto;
   al contrario di quanto previsto dal decreto-legge n. 66 del 2014, la retribuzione del direttore generale dell'azienda per la tutela della salute è stato fissato nella misura di 200.000 euro, prevedendo un massimale di 240.000 euro, ben al di sopra dei limiti imposti dalla normativa vigente –:
   quali iniziative di competenza intenda assumere, anche nelle competenti sedi di concertazione con le regioni, in relazione alla problematica sopra esposta.
(3-02725)
(24 gennaio 2017)

   PAGANO. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   tra i numerosi esempi di sprechi di denaro pubblico in ambito sanitario sul territorio nazionale, uno è rappresentato dalla polemica sulla collocazione del centro di cardiochirurgia pediatrica a Palermo, sancita dal decreto assessoriale n. 1364 del 2016, che sulla carta rappresenta una tappa molto importante al fine di realizzare in Sicilia un centro di riferimento di alta specializzazione di cardiologia e cardiochirurgia pediatrica di III livello aperto anche all'assistenza dei cardiopatici congeniti adulti «guch» (grown up congenital heart), superando i problemi territoriali, gestionali ed economici del centro realizzato a Taormina presso il presidio ospedaliero «San Vincenzo»;
   la destinazione ha animato un dibattito: l'assessore competente con decreto ha indicato l'Arnas civico, ma l'Assemblea regionale siciliana, con ordine del giorno n. 364 del 21 settembre 2016, ha dato mandato all'assessore regionale per la salute ad allocare il centro presso l'Irccs/Ismett di Palermo;
   secondo previsioni dettagliate, la scelta dell'Arnas civico come sede del centro comporterebbe un dispendio enorme di risorse per la ristrutturazione integrale dei locali con una spesa di oltre 1.300.000 euro, la dotazione di attrezzature di alta tecnologia, che, da fonti ufficiali, si aggirerà tra i 6,5 e gli 8,5 milioni di euro, e la ricostituzione di un’equipe di personale specializzato;
   l'Irccs/Ismett ha recentemente acquisito nuovi locali e sta ultimando una ristrutturazione, comprendente un'area infantile (in tale istituto si effettuano trapianti di organi solidi in età pediatrica), che potrebbe accogliere anche il nuovo reparto cardiochirurgico; pertanto i costi per realizzare il centro di III livello di assistenza cardiologica e cardiochirurgica pediatrica presso il già esistente ed accreditato «centro cuore» della cardiochirurgia adulti di Ismett sarebbero praticamente nulli;
   l'elevato standard di competenze presso l'Irccs/Ismett sarebbe garantito dalla ventennale e attuale joint venture con l'Università di Pittsburgh, in cui ha sede un dipartimento di cardiologia e cardiochirurgia pediatrica che è considerato uno dei centri leader mondiali per questa specializzazione –:
   se il Ministro interrogato non intenda intervenire, per quanto di competenza, per garantire ai cittadini il rispetto dei livelli essenziali di assistenza e il diritto alla salute, vigilando altresì affinché non vi siano sprechi di denaro pubblico e danni all'erario in generale, nello specifico con riguardo all'avvio del centro di III livello di cardiologia e cardiochirurgia pediatrica a Palermo, anche nel quadro del piano di rientro dai disavanzi sanitari, agevolando la soluzione più funzionale dal punto di vista strutturale, immediata dal punto di vista temporale ed economico e con garanzie di specializzazione assoluta.
(3-02726)
(24 gennaio 2017)

   MAZZIOTTI DI CELSO. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   alcune famiglie segnalano la difficoltà e la rigidità nei passaggi ad altri indirizzi di studio nella scuola secondaria superiore;
   in una lettera del febbraio 2016 inviata dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca alla direzione generale dell'ufficio scolastico regionale per la Lombardia, si precisa come la disposizione citata all'articolo 1, comma 7, del decreto legislativo n. 226 del 2005 concernente i passaggi ad altri indirizzi di studio, esami integrativi e d'idoneità non abbia trovato applicazione, rimanendo solo «enunciazione di un principio generale» priva della «relativa regolamentazione di dettaglio»;
   in virtù di questo vuoto normativo, fa notare il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, si deve fare riferimento all'articolo 24 dell'ordinanza ministeriale 21 maggio 2001, n. 90, secondo cui il passaggio ad altri indirizzi di studio è consentito solo previo svolgimento di esami integrativi da effettuarsi prima dell'inizio delle lezioni dell'anno scolastico successivo;
   a fronte di questo quadro fornito dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, si riscontrano nelle scuole incertezze e difficoltà nell'assicurare l'effettiva possibilità dei passaggi ad altri indirizzi di studio. In particolare, si nota una flessibilità discrezionale nei passaggi che avvengono dopo il secondo anno, anche in virtù di quanto enunciato dal decreto ministeriale n. 323 del 1999 (articolo 5, comma 1);
   l'articolo 8 dello schema di decreto legislativo sull'istruzione e formazione professionale – articolo 1, comma 181, lettera d), della legge n. 107 del 2015 – regolamenta in maniera puntuale il passaggio tra sistemi formativi;
   l'interrogante ritiene necessario un intervento di aggiornamento, chiarimento e semplificazione anche nei passaggi ad altri indirizzi di studio nella scuola secondaria superiore;
   tali modifiche permetterebbero una piena inclusione scolastica, consentendo a ogni studente di poter esprimere il proprio talento e contribuendo a lottare contro la dispersione, fenomeno in calo, ma ancora lontano dall'obiettivo europeo del 10 per cento entro il 2020;
   in questo senso, di concerto con famiglie e uffici scolastici regionali, vanno governate e sistematizzate, anche con processi di rilevazione e consultazione, le diverse attività sviluppate e sperimentate con successo a livello territoriale, con una valutazione sia degli aspetti legati all'adeguamento delle competenze, sia delle motivazioni, delle aspettative e delle attitudini –:
   se intenda intervenire per sanare questo vuoto lungo più di quindici anni.
(3-02727)
(24 gennaio 2017)

   CHIMIENTI, VACCA, LUIGI GALLO, BRESCIA, SIMONE VALENTE, D'UVA, MARZANA e DI BENEDETTO. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
   l'anno scolastico 2016/2017, il primo in cui le disposizioni contenute nella legge 13 luglio 2015, n. 107, sono entrate a regime, viene definito dal dossier di «Tutto Scuola», pubblicato in data 12 gennaio 2017, come il più caotico di sempre, con un tasso di mobilità di docenti triplicato rispetto agli anni precedenti;
   nel 2016/2017 sono infatti 207 mila i docenti trasferiti, pari al 30 per cento dell'organico di ruolo complessivo degli insegnanti statali; di questi, in 60 mila hanno lasciato la cattedra vacante al Centro-Nord per rientrare al Centro-Sud, usufruendo dell'istituto dell'assegnazione provvisoria introdotto dal decreto legge 29 marzo 2016, n. 42, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 89 del 2016, con lo scopo di prorogare anche al 2016/2017 le disposizioni di cui all'articolo 1, comma 108, della legge 13 luglio 2015, n. 107;
   ad oggi, secondo le stime del dossier, sommando i 207 mila docenti trasferiti ai circa 50 mila docenti precari che annualmente prendono servizio in istituti scolastici diversi, risultano circa 257 mila gli insegnanti che hanno cambiato cattedra (il 200 per cento in più rispetto agli anni precedenti) e due milioni e mezzo gli studenti che hanno avuto uno o più insegnanti diversi rispetto all'anno precedente;
   la problematica si ripresenterà nell'anno scolastico 2017/2018, visti i contenuti dell'accordo sulla mobilità firmato dal Ministro interrogato con i sindacati in cui si prevedono deroghe da ogni vincolo di permanenza per tutti i docenti di ruolo, compresi quelli chiamati con incarico triennale dai dirigenti scolastici;
   l'avvicendamento annuale di docenti nelle istituzioni scolastiche inficia la continuità didattica e il successo formativo degli studenti, come dimostra uno studio del 2008 della Banca d'Italia intitolato «Educational choices and the selection process before and after compulsory schooling», che ha utilizzato fonti dell'Istat e del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, evidenziando come, a parità di condizioni, alla maggiore stabilità del personale docente corrisponda un minore numero di fallimenti scolastici –:
   quale strategia a lungo termine e pluriennale intenda attuare il Ministro interrogato per arginare il caos verificatosi nell'ultimo anno scolastico, contemperando l'esigenza di garantire la continuità didattica degli studenti e il rispetto dei diritti dei lavoratori. (3-02728)
(24 gennaio 2017)

   PALESE. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   nell'ultimo anno l'immigrazione in Italia è aumentata di oltre il 20 per cento; la maggior parte degli arrivi avviene via mare sulle coste adriatiche e, in particolare, in Puglia;
   i recenti fatti di cronaca e le indagini antimafia e antiterrorismo hanno rivelato che cellule criminali si infiltrano tra i disperati in fuga da Paesi disastrati e per i quali il nostro Paese, in linea con gli accordi europei e con la cultura italiana dell'accoglienza e della carità umana, ha il dovere di garantire ospitalità;
   in particolare, è emerso dalle indagini della magistratura che i centri di accoglienza divengono veri e propri rifugi per queste cellule criminali che, a spese dello Stato italiano e dell'Europa, si organizzano per compiere atti criminosi o attentati terroristici;
   molti dei componenti di cellule terroristiche, che hanno agito recentemente in Europa, sono passati dalla Puglia, dagli aeroporti e dai porti di Bari e Brindisi ed hanno avuto contatti con loro connazionali nei centri di assistenza per i richiedenti asilo di Bari e di Rignano, riuscendo a spostarsi nel nostro Paese in auto o in treno;
   molto spesso in questi centri vi sono stati disordini e rivolte degli immigrati, che si lamentano dei lunghi tempi di permanenza e dei trattamenti che vengono loro riservati;
   la lentezza delle pratiche causa notevoli spese al Governo italiano e comporta che gli immigrati si trovino costretti a cercare una fonte di sostentamento, divenendo prede di sfruttatori o della criminalità organizzata;
   le città italiane sono invase da clandestini che chiedono l'elemosina e creano racket dell'accattonaggio; ogni giorno nei centri italiani si verificano risse, scippi e omicidi;
   la gestione del fenomeno va ripensata, ipotizzando di ospitare donne e bambini e di eseguire controlli accurati prima di accogliere incondizionatamente;
   si ritengono urgenti le stipule degli accordi internazionali con i principali Paesi di provenienza degli immigrati (Libia, Nigeria, Eritrea) per limitare la partenza da questi Paesi verso il nostro –:
   cosa intenda fare il Governo per garantire la sicurezza nelle città italiane, con quali misure il Ministro interrogato intenda rafforzare i controlli negli aeroporti e nei porti di Bari e Brindisi, che, ancora oggi, sono ben al di sotto di quelli adottati nelle altre città e negli altri Paesi europei, e se non ritenga di dover porre fine ad un fenomeno isolato in Europa, in base al quale è possibile viaggiare sui treni italiani con biglietti privi di intestazione, cosa che rende impossibile un reale controllo sulla circolazione. (3-02729)
(24 gennaio 2017)

   FIANO, MARANTELLI, CIMBRO, ROBERTA AGOSTINI, BERSANI, CARBONE, CUPERLO, DE MENECH, MARCO DI MAIO, FABBRI, FAMIGLIETTI, FERRARI, GASPARINI, GIACHETTI, GIORGIS, LATTUCA, LAURICELLA, MARCO MELONI, NACCARATO, NARDI, PICCIONE, POLLASTRINI, RICHETTI, FRANCESCO SANNA, MARTELLA, CINZIA MARIA FONTANA e BINI. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   da notizie a mezzo stampa si apprende che a Caidate, piccola frazione di Sumirago, in provincia di Varese, si è installata da più di quattro anni la più grande e organizzata comunità nazionalsocialista italiana, denominata Do.ra, acronimo che indicherebbe la comunità militante dei dodici raggi, in omaggio ai raggi del Sole nero, simbolo del castello tedesco di Wewelsburg, sede operativa delle SS;
   sotto le spoglie di un'associazione culturale, con sede in un ex magazzino con regolare contratto d'affitto, si celebrerebbe – secondo quanto riportato da organi di stampa – una vera e propria struttura di stampo militare, inserita nel network antisemita europeo Skin4Skin e dedita, secondo quanto dichiarato dai suoi stessi membri, ad una sorta di contro-informazione che, partendo dalla negazione o, addirittura, dall'esaltazione dell'Olocausto, ispirerebbe iniziative sul territorio o la propaganda di idee contro i «nemici» immigrati, ebrei, gay, centri sociali, polizia, banche e così via;
   tali iniziative andrebbero dalla celebrazione della festa di compleanno di Hitler, all'organizzazione di veri e propri cineforum tematici, anche tramite l'ausilio di una biblioteca con un'ampia gamma di testi revisionisti sul tema dell'Olocausto, il tutto non solo alla luce del sole, ma diffuso e amplificato tramite una pagina Facebook di riferimento molto attiva –:
   quale sia l'orientamento del Ministro interrogato in ordine a quanto riportato in premessa e quali iniziative urgenti intenda adottare, per quanto di competenza, al fine di contrastare movimenti e organizzazioni che si richiamano al fascismo e ai principi della discriminazione e dell'odio razziale. (3-02730)
(24 gennaio 2017)

   SANDRA SAVINO. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   in Friuli Venezia Giulia, regione autonoma a statuto speciale che ha competenza primaria sulle autonomie locali, la giunta regionale, sotto la presidenza di Debora Serracchiani, ha proceduto ad un riordino delle autonomie locali attraverso lo strumento delle unioni territoriali intercomunali, prevedendo l'abolizione delle quattro province e la creazione di 18 unioni territoriali intercomunali;
   la legge costituzionale 28 luglio 2016, n. 1, ha poi modificato lo statuto speciale della regione Friuli Venezia Giulia, prevedendo la soppressione delle province e conseguenti modifiche dell'assetto istituzionale. L'articolo 1 della legge costituzionale n. 1 del 2016 sostituisce, infatti, il primo comma dell'articolo 2 dello statuto, al fine di registrare le modifiche amministrative intervenute. Il provvedimento, con il sopprimere il livello di governo delle province, delinea quindi un assetto istituzionale che contempla solo due livelli di governo: la regione ed i comuni, anche nella forma di città metropolitane;
   nel corso dell'esame in Parlamento, l'interrogante aveva denunciato le problematiche connesse al nuovo assetto: in particolare, attraverso la presentazione di una questione sospensiva, poi respinta dall'Assemblea, aveva chiesto di riprendere l'esame del provvedimento alla luce del risultato del referendum confermativo della riforma costituzionale approvata a maggioranza assoluta dalle Camere, che prevedeva l'abolizione delle province;
   ad oggi, il risultato della consultazione referendaria del mese di dicembre 2016 determina, nei fatti, l'incostituzionalità della riforma degli enti locali in Friuli Venezia Giulia;
   a seguito della bocciatura della riforma, infatti, la provincia risulta ancora un ente fondamentale della Repubblica ai sensi di quanto previsto dall'articolo 114 della Costituzione vigente; pertanto, la neonata riforma dello statuto regionale e il nuovo assetto delle unioni territoriali intercomunali, pregiudicando la possibilità di disporre di un quadro ordinamentale valido per tutti, presenta chiari profili di incostituzionalità;
   la gestione Serracchiani ha imposto scelte senza alcun confronto, lontane dalla definizione di un apparato snello, efficace e duraturo; imposizioni che creano solo strascichi nei tribunali o che rilevano questioni di dubbia costituzionalità –:
   quale sia la posizione del Governo su quanto esposto in premessa e se e quali iniziative di competenza intenda adottare per pervenire ad un contemperamento dell'assetto amministrativo del Friuli Venezia Giulia con il quadro ordinamentale generale. (3-02731)
(24 gennaio 2017)

   RAMPELLI, CIRIELLI, LA RUSSA, GIORGIA MELONI, MURGIA, NASTRI, PETRENGA, RIZZETTO, TAGLIALATELA e TOTARO. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
   notizie di stampa riportano che nel mese di dicembre 2016 sarebbe stata diramata una circolare a tutte le questure e prefetture e ai comandi di Arma dei Carabinieri, Polizia, Guardia di finanza e Polizia penitenziaria, che dovrebbe segnare l'inizio del nuovo corso – almeno nelle intenzioni – del Governo nel contrasto all'immigrazione clandestina;
   la circolare sembra prevedere il coinvolgimento di tutte le forze dell'ordine in piani straordinari di controllo del territorio per conferire nuovo slancio all'attività di individuazione dei cittadini di Paesi terzi che soggiornino in Italia in posizione irregolare, anche attraverso maggiori controlli sugli ambiti lavorativi nei quali viene maggiormente sfruttata la manodopera degli immigrati clandestini;
   il potenziamento dell'attività ispettiva e di accertamento sul territorio dovrebbe essere accompagnato da un considerevole aumento del numero dei centri di identificazione ed espulsione, che dagli attuali quattro dovrebbero passare a uno in ciascuna regione;
   negli ultimi due anni l'Unione europea ha esortato i propri Stati membri a realizzare un maggior numero di rimpatri dei migranti irregolari dall'Europa e l'Italia – con quindicimila espulsioni in tre anni a fronte di cinquecentomila arrivi – appare gravemente inadempiente;
   in questo quadro si inserisce anche l'incapienza del fondo rimpatri, sinora progressivamente depauperato proprio per sopportare gli oneri di quella che appare agli interroganti un'accoglienza indiscriminata –:
   quali siano esattamente i termini delle iniziative esposte in premessa e quali i previsti tempi di attuazione e le risorse finanziarie a tal fine stanziate. (3-02732)
(24 gennaio 2017)

   SOTTANELLI, VEZZALI, FRANCESCO SAVERIO ROMANO, ABRIGNANI, BORGHESE, D'ALESSANDRO, D'AGOSTINO, FAENZI, GALATI, LAINATI, MARCOLIN, MERLO, MOTTOLA, PARISI, RABINO e ZANETTI. — Al Ministro per i rapporti con il Parlamento. — Per sapere – premesso che:
   il 20 gennaio 2017 la Commissione grandi rischi, d'intesa con il capo dipartimento della protezione civile, si è riunita a seguito della ripresa della sismicità che ha colpito l'Appennino centrale a partire dall'agosto del 2016;
   lo scopo dell'incontro era la valutazione dei possibili scenari evolutivi della sismicità in corso, alla luce delle informazioni attualmente disponibili;
   gli interroganti al riguardo evidenziano che, secondo quanto pubblicato sul sito della protezione civile, la regione Abruzzo, la cui area geografica era già stata colpita da sequenze sismiche e da grandi terremoti in passato, da ultimo quello dell'Aquila nel 2009, può essere interessata dalla ripresa di ulteriori scosse sismiche che possono propagarsi alle aree limitrofe, come già avvenuto nel passato, anche più recente nella zona di Amatrice, con eventi di magnitudo 5.9-6.5 negli ultimi cinque mesi;
   il comunicato della protezione civile rileva, altresì, che la commissione in oggetto, confermando l'impianto interpretativo già formulato a seguito degli eventi del 24 agosto e del 26 e 30 ottobre 2016, riporta che ad oggi non ci sono evidenze che la sequenza sismica sia in esaurimento, aggiungendo, inoltre, che le aree contigue alla faglia principale responsabile della sismicità in corso hanno il potenziale di produrre terremoti di elevata intensità addirittura pari a magnitudo 6-7;
   a giudizio degli interroganti, il contenuto che emerge dal documento pubblicato dalla protezione civile desta sconcerto e preoccupazione, se si considera che quanto rilevato non può che accrescere i livelli di allarme e sgomento tra le popolazioni delle regioni colpite dai gravissimi eventi sismici in corso da mesi, a cui si sono aggiunti quelli metereologici delle scorse settimane, causati dalle abbondanti nevicate –:
   di quali elementi disponga con riferimento a quanto esposto in premessa e se al riguardo abbia già predisposto un piano di prevenzione, monitoraggio ed emergenza, al fine di tutelare le popolazioni dell'area interessata, coinvolgendo la filiera delle istituzioni locali, regioni, province e comuni, in relazione alle misure da adottare per garantire la massima sicurezza dei cittadini, la sicurezza dei luoghi pubblici e le infrastrutture critiche, quali le grandi dighe, in particolare quella di Campotosto in provincia dell'Aquila dove è situato il secondo bacino più grande d'Europa con tre dighe. (3-02733)
(24 gennaio 2017)

   MELILLA, RICCIATTI, ZARATTI, FRATOIANNI, SCOTTO, PELLEGRINO, FASSINA, AIRAUDO, FRANCO BORDO, COSTANTINO, D'ATTORRE, DURANTI, DANIELE FARINA, FAVA, FERRARA, FOLINO, CARLO GALLI, GIANCARLO GIORDANO, GREGORI, KRONBICHLER, MARCON, MARTELLI, NICCHI, PAGLIA, PALAZZOTTO, PANNARALE, PIRAS, PLACIDO, QUARANTA e SANNICANDRO. — Al Ministro per i rapporti con il Parlamento. — Per sapere – premesso che:
   dopo le scosse del 18 gennaio 2017 e le bufere di neve che hanno travolto l'Appennino centrale, la situazione di queste aree si fa sempre più grave e la tragedia di Rigopiano ne è l'emblema più drammatico. Si sono evidenziati ritardi nella pulizia della strada provinciale da Farindola a Rigopiano per mancanza di mezzi e uomini da parte della provincia di Pescara, nel quadro della «legge Delrio» che ha chiuso e tolto risorse alle province senza pensare a chi poi deve pulire le strade e gestire i piani neve;
   l'attività della protezione civile vede attualmente impegnati oltre 8 mila persone e 3 mila mezzi nelle attività di ricerca e soccorso e nell'assistenza alle popolazioni, anche se molti cittadini continuano ad essere isolati;
   troppe sono le utenze elettriche che devono essere riattivate. Se le utenze nelle Marche sono in gran parte ripristinate, in Abruzzo ancora oggi sono 10 mila quelle disalimentate. Sotto questo aspetto emergerebbe una gravissima responsabilità di Terna per il livello obsoleto delle infrastrutture e di Enel che ha lasciato centinaia di migliaia di persone, non solo dei comuni montani ma anche di città capoluogo come Teramo, senza energia elettrica. Vari morti intossicati in casa e dal freddo, migliaia di cittadini senza luce, riscaldamento, acqua calda;
   di fronte a questa tragedia, va comunque confermata piena gratitudine alle forze civili, militari e ai volontari per l'impegno nel prestare soccorso alle popolazioni, colpite dal terremoto e da una quantità di precipitazioni nevose come non se ne vedevano da decenni;
   ai danni alla zootecnia e all'agricoltura locale, si aggiunge la crescita esponenziale delle spese straordinarie che si trovano a dover affrontare i comuni, molti dei quali piccoli;
   peraltro le ultime scosse sismiche hanno aggravato ulteriormente il bilancio dei danni provocati dai terremoti iniziati ad agosto 2016: il 40 per cento degli edifici sottoposti a verifiche risulterebbe inagibile e i danni complessivi ammonterebbero a 10 miliardi di euro. Di questi oltre 3 miliardi sarebbero imputabili alle nuove scosse di ottobre 2016 e all'ondata di maltempo eccezionale che sta colpendo questi territori –:
   se il Governo non ritenga indispensabile stanziare ben più cospicue risorse quale ristoro ai comuni colpiti, per affrontare al meglio questa emergenza, e aprire una trattativa con l'Unione europea, che in questi giorni ha chiesto all'Italia una manovra di correzione dei conti pubblici, e se non ritenga di verificare eventuali responsabilità di Terna ed Enel per i disservizi di cui in premessa. (3-02734)
(24 gennaio 2017)

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