TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 760 di Mercoledì 15 marzo 2017

 
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MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MATERIA DI POLITICHE ATTIVE DEL LAVORO, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL POTENZIAMENTO DEI CENTRI PER L'IMPIEGO

   La Camera,
   premesso che:
    la regolazione adottata con il decreto legislativo n. 150 del 2015, in materia di politiche attive del lavoro, è stata adottata previa intesa in Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome, ed è coerente con il vigente quadro costituzionale;
    la mancata approvazione mediante referendum della riforma costituzionale che prevedeva un trasferimento allo Stato delle competenze in materia di politiche attive non fa venir meno la necessità di attuare un forte coordinamento tra le attività svolte dai centri per l'impiego nell'incontro domanda-offerta di lavoro sul territorio e le attività svolta dall'Inps nel sostegno al reddito dei disoccupati e delle persone in cerca di occupazione;
    nell'attuale quadro di competenza legislativa concorrente in materia di politiche attive del lavoro, è essenziale la definizione, in accordo tra Stato, regioni e province autonome, di linee di indirizzo e obiettivi puntuali dell'azione amministrativa, ed è cruciale il ruolo dell'Anpal, come soggetto che predisponga gli strumenti comuni che consentano il coordinamento dell'azione finalizzata al raggiungimento di tali obiettivi;
    la fase attuativa del decreto legislativo n. 150 del 2015 in materia di politiche attive è ancora in svolgimento e richiede ancora una serie di decreti, regolamenti e atti di implementazione operativa;
    le politiche attive del lavoro rappresentano uno strumento fondamentale per ridurre la disoccupazione strutturale e per condizionare gli interventi a sostegno del reddito ad una ricerca attiva del lavoro;
    il nostro Paese dedica risorse alle politiche del lavoro molto inferiori a quelle destinate da altri Paesi europei;
    per i servizi per il lavoro il nostro Paese spende annualmente circa 500 milioni di euro, a fronte dei 9 miliardi di euro spesi dalla Germania e dei 5 miliardi di euro spesi dalla Francia;
    il rapporto tra il numero dei disoccupati e il numero di addetti ai centri per l'impiego è di oltre 300 unità nel nostro Paese (un addetto per 300 disoccupati), mentre è di 21 in Germania, di 57 in Francia e di 32 nel Regno Unito;
    un'efficace politica di contrasto alla povertà significa anche condizionare il sostegno economico all'adesione a un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa, così come recita il disegno di legge delega sul contrasto alla povertà;
    nonostante gli importanti risultati ottenuti con il programma «Garanzia giovani», va assolutamente potenziata l'attività dei centri per l'impiego per la collocazione dei giovani disoccupati in buoni posti di lavoro;
    nella prospettiva indicata dal Governo di introdurre un sussidio di disoccupazione a livello europeo rileva avere anche nel nostro Paese strumenti adeguati a praticare il principio di condizionalità nei confronti dei beneficiari del sussidio, così come già avviene negli altri principali Paesi europei;
    per Anpal (Agenzia nazionale per le politiche attive) si stanno completando gli adempimenti che ne potranno garantire la piena operatività;
    percettori di «naspi» sono già soggetti alle prescrizioni previste dalle nuove regole in tema di politiche attive, a partire dalla necessità di sottoscrizione del patto di servizio personalizzato;
    i centri per l'impiego necessitano di un indispensabile potenziamento al fine di garantire su tutto il territorio nazionale un'adeguata offerta dei servizi previsti dalla riforma introdotta dal decreto legislativo n. 150 del 2015;
    le tendenze in atto nel mercato del lavoro italiano, periodicamente registrate dai dati ministeriali, nonché di Istat e di Inps, richiedono la messa in campo di strumenti maggiormente diffusi e stabili di supporto alla riqualificazione e ricollocazione dei lavoratori disoccupati o a rischio di disoccupazione,

impegna il Governo:

1) ad attuare, in raccordo con le regioni, un forte coordinamento tra le politiche attive svolte sul territorio attraverso i centri per l'impiego e le politiche «passive», di sostegno del reddito dei disoccupati e delle persone in difficoltà economica, svolte, a livello nazionale, dall'Inps, al fine di realizzare il principio di «condizionalità», che è alla base dell'efficacia e dell'efficienza degli interventi nel campo del welfare indirizzato al mondo del lavoro;
2) a varare un piano di rafforzamento operativo e di potenziamento dei centri per l'impiego, al fine di permettere una loro adeguata operatività a fronte dei nuovi significativi adempimenti in tema di politiche attive per i percettori di «naspi» previsti dal decreto legislativo n. 150 del 2015, garantendo soluzioni e risorse già nel corso del 2016 e a crescere nel biennio successivo, da distribuire alle strutture territoriali in relazione ai fabbisogni oggettivi di intervento e alle carenze di organico esistenti;
3) ad adottare tutte le misure che accelerino il pieno funzionamento operativo dell'Anpal quale soggetto centrale definito dalla riforma per il governo del sistema di politiche attive, al fine di garantire il diritto alla riqualificazione e all'avviamento ad un percorso finalizzato alla ricollocazione dei disoccupati, anche attraverso interventi specificamente dedicati alle ristrutturazioni delle imprese ed ai piani di reindustrializzazione;
4) ad assumere iniziative per garantire un incremento delle risorse per il fondo per le politiche attive del lavoro, con l'obiettivo di aumentare e rendere l'offerta di tali politiche coerente alla platea potenziale dei beneficiari;
5) ad adottare i provvedimenti necessari alla rapida operatività dell'assegno di ricollocazione anche attraverso forme di sperimentazione legate alle situazioni di crisi occupazionale oggetto di esame presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e/o il Ministero dello sviluppo economico.
(1-01319)
(Nuova formulazione) «Dell'Aringa, Palladino, Gnecchi, Damiano, Albanella, Arlotti, Baruffi, Boccuzzi, Casellato, Di Salvo, Cinzia Maria Fontana, Giacobbe, Gribaudo, Incerti, Patrizia Maestri, Miccoli, Paris, Giorgio Piccolo, Rostellato, Rotta, Simoni, Tinagli, Zappulla, Roberta Agostini, Albini, Amato, Ascani, Bargero, Bazoli, Benamati, Beni, Bergonzi, Blazina, Paola Boldrini, Bolognesi, Borghi, Bossa, Capone, Carloni, Carnevali, Carra, Casati, Causi, Cenni, Cominelli, Crivellari, Cuperlo, D'Incecco, Marco Di Maio, Fioroni, Fossati, Fragomeli, Galperti, Garavini, Gasparini, Ghizzoni, Ginato, Giorgis, Giuliani, Giulietti, Guerra, Iori, La Marca, Lavagno, Lodolini, Malisani, Marchetti, Marchi, Mariani, Massa, Melilli, Miotto, Mognato, Monaco, Montroni, Narduolo, Oliverio, Patriarca, Petrini, Piazzoni, Pollastrini, Preziosi, Rampi, Ribaudo, Romanini, Paolo Rossi, Schirò, Scuvera, Senaldi, Speranza, Stumpo, Taranto, Terrosi, Tullo, Zampa, Zanin, Cova, Martella, Venittelli».
(13 luglio 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    i centri per l'impiego dovrebbero rappresentare lo strumento attraverso cui il Governo centrale e quelli regionali e territoriali garantiscono i servizi pubblici per l'impiego. Ad essi, a seguito della riforma operata con decreto legislativo n. 267 del 2003, sono state affiancate le agenzie per il lavoro, di natura privata, che progressivamente, negli anni, sembrano aver di fatto assorbito gran parte delle attività relative all'incontro tra domanda e offerta di lavoro senza però apportare significativi miglioramenti nelle dinamiche di ricollocazione lavorativa;
    ciononostante, è indubbio che l'attività di mediazione in senso stretto nel mercato del lavoro debba rappresentare l'attività core dei centri per l'impiego in qualità di terminale, se non esclusivo quanto meno prioritario, del servizio pubblico. Attività che stenta a raggiungere performance accettabili, ma che non di meno, evidentemente, continua ad essere sottovalutata dal Governo sia sul piano organizzativo, che normativo e amministrativo, nonostante gli annunci e i programmi;
    in tal senso, si possono considerare, su tutti, alcuni dati rilevati a livello nazionale ed europeo. Innanzitutto si consideri che, in termini puramente numerici, in Italia sono oggi presenti 550 centri pubblici e circa 4.200 agenzie private per il lavoro. Il rapporto tra disoccupati e operatori in Italia è di un addetto ogni 300, nel resto d'Europa il rapporto oscilla su numeri a due cifre (in Germania circa uno a 24; nel Regno Unito circa uno a 30; in Francia poco meno di 1 a 65);
    nel 2015, il numero di operatori italiani dei centri pubblici si attesta a meno di novemila, circa il 12 per cento dei quali con rapporto di lavoro temporaneo (tempo determinato e collaborazioni). Appena il 27 per cento degli operatori ha una istruzione di tipo universitario, oltre il 57 per cento ha una istruzione secondaria di secondo grado e poco meno del 13 per cento una istruzione secondaria di primo grado;
    in questo contesto, appare coerente, altresì, il ricorso al supporto di enti e istituti terzi strumentali, di livello nazionale o regionale, finalizzati a coadiuvare se non a potenziare, e in taluni casi a sostituire di fatto, l'attività ordinaria che dovrebbe essere svolta dagli operatori dei centri per l'impiego a risorse umane date;
    stando ai dati Eurostat, nel 2015, circa il 28 per cento dei disoccupati in Italia si è rivolto ai servizi pubblici per l'impiego, registrando per il quinto anno consecutivo un trend negativo, a fronte di oltre il 16 per cento di quanti si sono rivolti alle agenzie private per il lavoro. Numeri che si sbilanciano in maniera rilevante a favore del servizio pubblico nella media europea: oltre il 48 per cento per i centri pubblici e poco più del 20 per cento per quelli privati. Su tutto grava un dato: quello di quanti per trovare lavoro si rivolgono principalmente ad amici e parenti, quindi attraverso canali informali, che si attesta poco oltre l'84 per cento;
    in linea con quanto premesso finora, anche sul piano finanziario, i centri per l'impiego e più in generale i servizi per il lavoro hanno subito una politica di governo minimale, con percentuali di spesa sul Pil di gran lunga inferiori rispetto ad altre realtà europee: a titolo esemplificativo, nel 2013, in Italia, appena lo 0,03 per cento del Pil è dedicato a questi servizi mentre nello stesso anno la Germania supera lo 0,35 per cento. In termini di spesa pro capite impegnata per disoccupati, il rapporto è di meno di 100 euro in Italia, di oltre 1.000 euro in Francia e di quasi 3.000 euro in Germania;
    stante il ridotto numero di risorse umane impiegate a vario titolo nei servizi pubblici per l'impiego in Italia (circa novemila), nel resto d'Europa si rilevano cifre ben più importanti: circa centomila in Germania, oltre settantamila nel Regno Unito e cinquantamila in Francia, laddove, rispetto ai circa sessanta milioni di abitanti in Italia, si registra un numero di abitanti rispettivamente pari circa a ottanta milioni, sessantaquattro milioni e sessantasei milioni;
    nel corso degli ultimi anni, paradossalmente, le attività assegnate ai centri per l'impiego, in linea teorica sono progressivamente cresciute in virtù delle modifiche legislative apportate – non solo al quadro generale istituzionale, si guardi alla cosiddetta «Riforma Delrio» con quella che si rivela per i presentatori nel presente atto di indirizzo come la finta abrogazione delle province –. Val la pena richiamare lo sportello per i lavoratori autonomi, previsto dal disegno di legge sul lavoro autonomo approvato in prima lettura dalla Camera appena qualche giorno fa (atto Camera n. 4135 e progetti abbinati) o la legge sul caporalato che individua nei centri per l'impiego i soggetti partecipativi della Rete del lavoro agricolo di qualità (legge n. 199 del 2016);
    maggiori attività e maggiore incertezza normativa e contrattuale si registrano non solo per il personale che, a seguito della richiamata riforma Delrio, sarebbe destinato ai servizi pubblici per il lavoro, ma anche per quello precario, da anni impiegato presso gli enti strumentali impegnati a supporto delle attività di servizi pubblici per il lavoro. A ciò si aggiunge l'ormai costante incertezza finanziaria: ancora nel dicembre 2016 Governo e regioni hanno dovuto siglare, in extremis, l'ennesimo accordo per prorogare all'anno 2017 le risorse necessarie, per quanto inadeguate, allo svolgimento delle attività dei centri per l'impiego su tutto il territorio nazionale;
    si tratta, per i presentatori del presente atto, di una politica sclerotica quella messa in atto, dai Governi nel corso degli anni con riguardo ai servizi pubblici del lavoro che giunge oggi, alla luce delle ultime stratificazioni normative, ad una situazione di collasso ben rappresentata, in maniera emblematica, dalla istituzione delle agenzie per il lavoro delle Autorità portuali di sistema, recentemente previste dal cosiddetto «decreto-legge Mezzogiorno». È evidente che, se lo stesso Governo avesse voluto investire e valorizzare la rete dei centri per l'impiego, non sarebbe stato necessario ricorrere, a giudizio dei presentatori del presente atto, ad una deroga di legge, pericolosa soprattutto per il rischio di creare, con fondi pubblici, gli ennesimi bacini elettorali, per creare ex novo dei servizi per il lavoro ulteriori rispetto a quelli pubblici e privati oggi previsti;
    con la recente bocciatura, mediante referendum, del tentativo di riforma costituzionale prospettato, che avrebbe ricondotto in capo al Governo centrale le politiche del lavoro, si è ulteriormente indebolito il sistema delle politiche attive e del servizio pubblico all'impiego poiché la loro nuova forma non è stata concepita sulla base del quadro normativo e organizzativo vigente, ma sulla base di un sistema istituzionale inesistente, il tutto sulla vana ed erronea presunzione di una conferma referendaria. Il Governo e la maggioranza che lo sostiene hanno in tal modo, secondo i presentatori del presente atto, deliberatamente apposto una pesante ipoteca sul futuro dei servizi pubblici per l'impiego, sul futuro delle politiche attive e su quello dei lavoratori e dei disoccupati;
    i centri per l'impiego, a differenza di quanto si rileva in realtà, dovrebbero essere strutture dotate delle migliori competenze per garantire che il percorso di accoglienza, profilazione, orientamento, formazione, ricollocamento dei disoccupati e di quanti ricercano una occupazione venga svolto nel migliore dei modi, come peraltro previsto dalla raccomandazione del Consiglio europeo dell'8 luglio 2014 con la quale si sottolinea la necessità per l'Italia di progredire rapidamente con i piani di miglioramento dei servizi di collocamento, rafforzando i servizi pubblici per l'impiego;
    come emerso nel corso della indagine conoscitiva «Sulle misure per fronteggiare l'emergenza occupazionale, con particolare riguardo alla disoccupazione giovanile» Doc. XVII, n. 1, «è stata evidenziata l'esigenza di rilanciare il sistema del welfare attivo, attraverso la valorizzazione dei centri per l'impiego, che, integrati in un sistema capace di interagire tra le diverse parti, dovrebbero assumere un ruolo decisivo nella riqualificazione dei lavoratori» e che, a distanza di tre anni e di numerosi provvedimenti legislativi e atti di Governo, non vi è stato alcun miglioramento, né valorizzazione o efficientamento dei servizi pubblici per l'impiego;
    il reddito di cittadinanza rappresenta una misura, economicamente e finanziariamente sostenibile, volta a contrastare concretamente la povertà, la disuguaglianza e l'esclusione sociale, nonché a garantire il diritto al lavoro e alla libera scelta del lavoro, contribuendo alla ridistribuzione della ricchezza;
    in un'ottica di sistema organico di sostegno ai cittadini e di garanzia e promozione dei loro diritti, con il reddito di cittadinanza, i centri per l'impiego assumerebbero finalmente un ruolo fondamentale, insieme a più di altri soggetti istituzionali, a livello nazionale e territoriale, nella gestione del mercato del lavoro che avrebbe, di conseguenza, una caratterizzazione non solo economica e produttiva, ma soprattutto e concretamente sociale. Una gestione non assistenziale né sterile, come avviene in taluni casi ancora oggi;
    il personale dei centri per l'impiego, in tal senso, sarà chiamato a prendere in carico il soggetto, avviando in questo modo il percorso di bilancio delle competenze finalizzato a individuare le attitudini di chi cerca lavoro per poi stabilire i passi successivi, tra cui l'inserimento lavorativo o l'inizio di percorsi formativi o la partecipazione a progetti per la nascita di nuove realtà imprenditoriali, o a progetti partecipati da comuni e regioni per condividere finalità, competenze e risorse. I centri per l'impiego dovranno rappresentare anche il terminale ultimo della mediazione tra domanda e offerta di lavoro ai quali si rivolgeranno le agenzie per il lavoro e quelle per la somministrazione di lavoro;
    secondo quest'ottica, i centri per l'impiego sarebbero adeguati anche per l'attività riguardante settori particolari del mondo del lavoro quali ad esempio quello agricolo, quello marittimo e portuale, quello edile, superando le problematiche insite in questi ambiti, non solo in termini di sfruttamento di lavoro nero, ma soprattutto in termini di lentezza amministrativo-operativa che spesso, con fare strumentale, è stata sollevata a giustificazione della esclusione dei servizi pubblici per il lavoro dalla gestione dei lavoratori e dei disoccupati di tali settori,

impegna il Governo:

1) a predisporre una pianificazione di potenziamento dei centri per l'impiego, corredata di un puntuale cronoprogramma, finalizzata a:
   a) incrementare il numero di centri per l'impiego sul territorio nazionale, identificando gli stessi come strumenti centrali dei servizi per il lavoro e prioritari rispetto alle agenzie private, e al fine di meglio intercettare e soddisfare le esigenze di potenziamento delle politiche attive del lavoro, individuando a tal fine nuovi e più idonei parametri, non solo meramente demografici, ma coerenti con il grado di sviluppo sociale ed economico dei singoli territori, per l'istituzione di nuovi centri;
   b) identificare e definire, per quanto di competenza, idonei standard minimi di prestazione dei servizi da erogare, nonché dare una chiara definizione delle competenze che il personale dei centri per l'impiego deve possedere per erogare servizi orientati alla persona, affinché tali specifici servizi siano svolti esclusivamente da personale in possesso di idonee competenze;
   c) adeguare i livelli formativi – e prevedere, per quanto di competenza, specifici percorsi di formazione continua – del personale operante presso i centri per l'impiego al fine di garantire il possesso delle competenze e delle esperienze necessarie per l'efficacia dell'azione di ricollocamento nel mercato del lavoro;
2) ad assumere iniziative finalizzate a incrementare le risorse umane dedicate ai servizi pubblici per il lavoro – al di là della già annunciata e prevista stabilizzazione di circa 1.600 precari della pubblica amministrazione – ad assumere iniziative, per quanto di competenza, per salvaguardare i lavoratori impiegati con contratti non a tempo indeterminato presso i servizi pubblici per il lavoro, nonché i lavoratori degli enti strumentali, con comprovata esperienza, fermo restando il ricorso a idonee procedure concorsuali o di selezione a evidenza pubblica, al fine ultimo di assicurare alle politiche attive un bacino di risorse umane adeguato e compatibile con i livelli di personale impiegato nelle altre realtà europee richiamate in premessa;
3) ad assumere iniziative volte al superamento dell'Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal) quale cabina di regia centralistica e nazionale, stante la vigente struttura istituzionale di decentramento regionale, affinché si definisca un sistema governabile tra centro e periferie, ma soprattutto sostenibile economicamente e finanziariamente, con lo stanziamento di risorse certe e stabilite in una programmazione pluriennale e coerente con le attività programmate al fine di evitare il ricorso meramente a rinnovi di accordi e convenzioni tra Governo e regioni come, da ultimo, quello del dicembre 2016 richiamato in premessa.
(1-01533)
«Cominardi, Chimienti, Ciprini, Dall'Osso, Lombardi, Tripiedi, Cecconi».
(13 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    il decreto legislativo n. 150 del 2015 ha riorganizzato il sistema delle politiche attive del lavoro, pensato come una rete orizzontale composta da soggetti pubblici (Ministero del lavoro e delle politiche sociali e regioni) e privati (agenzie per il lavoro, terzo settore) e coordinata dall'Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal) alla quale spetterà di fissare i programmi delle politiche attive finanziati sia dai fondi nazionali che dai fondi europei, tenere l'albo delle agenzie per il lavoro e gestire i programmi di reimpiego e ricollocazione in relazione a crisi di aziende;
    il suddetto decreto, inoltre, elenca puntualmente anche le funzioni assegnate ai nuovi centri per l'impiego, funzioni rivolte ai disoccupati, ai disoccupati parziali e a rischio disoccupazione che vanno dall'orientamento di base, all'analisi delle competenze e degli eventuali fabbisogni in termini di formazione o esperienze di lavoro, alla ricerca di un'occupazione, all'orientamento individualizzato, all'accompagnamento al lavoro, alla promozione del tirocinio;
    nell'ambito delle politiche attive del lavoro, è bene ricordare anche il programma «Garanzia Giovani», proposto dal Consiglio europeo e promosso dall'Unione europea per l'inserimento dei Neet (Not in Education, Employment or Training, ovvero i giovani che non lavorano e non studiano), che, nonostante le ingenti risorse stanziate tra Commissione europea e Governo italiano, pari a circa 1,5 miliardi di euro, ha prodotto scarsi risultati (poco meno di 1 milione di iscritti, poco più di 32 mila i ragazzi accompagnati al lavoro, il 3,7 per cento) per problematiche di varia natura: eccessiva burocrazia, poca chiarezza nelle informazioni, mancata assistenza tecnica, inadeguatezza del personale dei centri per l'impiego;
    in alcune aree territoriali, i centri per l'impiego hanno ottenuto risultati eccellenti ma, nella maggioranza dei casi, hanno dato prova di un servizio di collocamento pubblico di fatto inesistente, ampliando, invece di risolvere, il gap territoriale;
    secondo i dati Istat, nel primo trimestre del 2015, solo l'1,4 per cento degli occupati che non lo erano un anno prima, hanno trovato lavoro attraverso i centri pubblici per l'impiego, certificando, di fatto, una posizione dei centri per l'impiego nel processo di inserimento lavorativo, del tutto marginale; così come, dal lato delle imprese, il ricorso ai Centri pubblici per l'impiego si conferma la modalità meno frequente di selezione del personale soprattutto nelle piccole e medie imprese, spina dorsale della nostra catena produttiva (tra l'8 per cento relativo alle piccole imprese del commercio al 29 per cento delle grandi imprese della manifattura);
    nel nostro Paese si spendono oltre 20 miliardi di euro l'anno in politiche passive di sostegno al reddito di persone che hanno perso il lavoro; risulta facile dedurre come la capacità di coordinare politiche passive e attive potrebbe determinare un notevole risparmio sulla spesa per i sussidi erogati e come sia indispensabile mettere in piedi un progetto operativo nazionale per una seria riorganizzazione e riqualificazione dei centri per l'impiego,

impegna il Governo:

1) a valutare, per quanto di competenza, l'opportunità di effettuare una ricognizione dello stato attuale dei centri per l'impiego, promuovendo una riduzione rigorosa degli sprechi e, allo stesso tempo, l'individuazione di carenze di personale e di risorse;
2) a valutare, per quanto di competenza, l'opportunità di fissare obiettivi precisi, specifici e misurabili di efficienza ed efficacia dell'attività dei centri per l'impiego;
3) ad assumere iniziative, per quanto di competenza, per riqualificare le competenze professionali degli addetti dei centri per l'impiego, per far sì che gli stessi raggiungano la capacità di gestire in maniera efficace – con tempistiche e livelli di prestazione predefiniti – l'intero ciclo di reinserimento lavorativo dei disoccupati offrendo, allo stesso tempo, standard qualitativi di elevata qualità, calcolabili anche attraverso meccanismi di valutazione delle performance dei dipendenti;
4) ad assumere iniziative, per quanto di competenza, volte ad ottimizzare e implementare il rapporto tra centri per l'impiego, agenzie private per il lavoro e servizi di orientamento e placement delle Università;
5) a sviluppare in maniera efficiente il «Fascicolo elettronico del lavoratore» in modo da dar vita ad un vero portale unico del lavoro con lo scopo di rafforzare la capacità di incontro tra domanda ed offerta.
(1-01534)
«Palese, Altieri, Bianconi, Capezzone, Chiarelli, Corsaro, Distaso, Fucci, Latronico, Marti».
(13 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    nell'ultimo anno, l'efficienza del mercato del lavoro è migliorata a livello mondiale;
    purtroppo l'Italia pare fare eccezione in questo trend positivo. Infatti, tra i 28 Paesi dell'Unione europea, come risulta dai dati contenuti nel «The Global Competitiveness Report 2016-2017», pubblicato dal World Economic Forum, il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 119o su 138 censiti nel mondo;
    le difficoltà che il nostro mercato del lavoro attraversa sono drammaticamente evidenziate dal preoccupante dato relativo alla disoccupazione giovanile. I giovani sono la fascia di età che paga a maggior prezzo la situazione di stallo in ambito lavorativo: si registrano sempre più ragazzi tra i 15 e i 24 anni disoccupati;
    secondo i dati Istat (Istituto nazionale di statistica), alla fine del 2016, in Italia si registra un tasso di disoccupazione pari al 39,4 per cento tra i giovani. Mentre, fortunatamente, si registra un aumento dell'occupazione nella fascia di età intorno a 50 anni, oltre che tra le donne;
    è certamente vero che la situazione sta registrando lievi miglioramenti di carattere generale. Infatti, rispetto al 2013, il tasso di occupazione passa a fine 2016 dal 55,9 al 57,3 per cento, mentre i senza lavoro scendono dal 12,3 all'11,9 per cento;
    si tratta, però, di dati ancora da confermare nel corso del tempo, e che, anzi, hanno mostrato una inversione di tendenza nell'ultimo anno, quando sono diminuiti i vantaggi fiscali concessi alle imprese per l'assunzione, con contratto a tempo indeterminato, o anche per la «riconversione» di contratti una volta a termine;
    infatti, è sempre l'Istat che osserva come, nel periodo gennaio-dicembre 2016, nel settore privato, si sia registrato un calo di oltre il 7 per cento rispetto al 2015 nelle assunzioni, in particolare di quelle a tempo indeterminato (-37,6 per cento rispetto al 2015);
    la situazione, quindi, rimane critica, nonostante le varie iniziative a favore dell'assunzione dei giovani come il programma «Garanzia Giovani» o il programma di «Alternanza scuola-lavoro»;
    molti studi dimostrano che esiste una convergenza tra crescita occupazionale, quantità e qualità degli investimenti per le politiche del lavoro, non a caso, infatti, quei Paesi che, prima della crisi del 2008, hanno investito di più in termini di Pil sulle politiche del lavoro sono quelli che hanno avuto una minore caduta dell'occupazione;
    molto importanti sono le cosiddette «politiche attive del lavoro» che intervengono direttamente sul mercato del lavoro, contribuendo a creare nuova occupazione o, comunque, limitando le cause della disoccupazione;
    l'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), al riguardo, propone cinque gruppi di intervento:
     1. sussidi all'occupazione;
     2. creazione diretta e temporanea di posti di lavoro;
     3. formazione professionale;
     4. sostegno finanziario e servizi per la nuova imprenditorialità;
     5. servizi per l'orientamento e collocamento lavorativo;
    obiettivo specifico delle politiche attive del lavoro è quello di evitare che una persona rimanga troppo a lungo «intrappolata» nel suo stato;
    per questo, lo sforzo deve essere quello di promuovere il passaggio ad una tutela attiva dell'individuo nel mercato del lavoro rispetto ad una passiva, fatta di sussidi o strumenti simili;
    si parla pertanto di passaggio dal welfare al workfare, ossia uno stato sociale che tende ad aiutare il soggetto a rimanere attivo e competitivo nel mondo del lavoro, traendo i benefici dalle assicurazioni legate alla propria condizione professionale, piuttosto che dipendere dall'assistenza, basandosi sul principio di finanziare l'occupazione e non la disoccupazione, che, laddove ha orientato scelte operative, si è rivelato molto fruttuoso;
    si deve osservare che la spesa per politiche del lavoro in Italia è significativamente inferiore rispetto al resto d'Europa. Nell'ultimo decennio si stima essere stata intorno all'1,5 per cento del Pil;
    sostanziale è anche la differenza nella qualità della citata spesa: nei Paesi europei con un mercato del lavoro efficiente, infatti, essa è ben distribuita tra politiche passive, politiche attive e servizi per la ricerca di impiego, in Italia, invece, si spende molto poco in servizi per il lavoro;
    eppure nel nostro Paese oltre il 40 per cento di coloro che cercano impiego si rivolgono anche ai servizi per il lavoro, alle strutture specializzate pubbliche e private che si occupano di orientamento ed incontro tra domanda ed offerta. Tuttavia, meno del 10 per cento degli italiani trova lavoro in questo modo e il più delle volte si tratta di lavori a termine;
    in Europa funziona in modo diverso. Sono di più i lavoratori e le imprese che si rivolgono ai servizi specializzati, e quasi la metà delle opportunità di impiego si trovano tramite i ricordati servizi;
    ciò dipende, non solo da abitudini diverse. Si tratta, invece, di una scelta condizionata anche dalla presenza e dalla qualità dei nostri servizi. In Europa, si ha un orientatore ogni quaranta disoccupati, in Italia, uno ogni quattrocento. I servizi all'estero collocano sul mercato del lavoro un numero di disoccupati tre volte maggiore rispetto ai servizi italiani, avendo però a disposizione personale e risorse tre volte superiori;
    una riforma del mercato del lavoro è stata avviata con il cosiddetto Jobs act, ma deve ancora completare il suo cammino con l'approvazione di decreti e circolari;
    in particolare, un'attenzione maggiore richiedono, come già detto, le politiche attive per il lavoro, riconosciute da gran parte degli economisti come fattore risolutivo della situazione critica del mercato del lavoro;
    per affrontare in modo efficace la questione del lavoro, è importante la definitiva approvazione del disegno di legge delega recante norme relative al contrasto della povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali;
    anche l'Italia, come tutti gli altri Paesi europei, si doterà finalmente di una misura nazionale – il Reddito di inclusione – per aiutare le persone in condizione di povertà assoluta;
    si tratta di un fatto molto significativo questo puntare all'inclusione sociale e lavorativa dei beneficiari che potranno avere un sussidio economico, vincolato all'adesione ad un percorso di accompagnamento da parte dei servizi sociali e dai comuni;
    oggi, le persone in condizioni di povertà assoluta sono oltre 4 milioni e 500 mila. Con le risorse stanziate, pari a più di 1,6 miliardi di euro, già da quest'anno si potranno raggiungere oltre 400 mila famiglie, 1 milione e 700 mila persone, tra cui 800 mila minori;
    si tratta proprio di quelle famiglie, in particolare quelle numerose, che sono state maggiormente colpite dalla crisi, come conferma ancora una volta l'Istat: «il rischio di povertà o esclusione sociale è più alto per le famiglie numerose (43 per cento) o monoreddito (48,3 per cento)» ed è ad esse che devono guardare anche le politiche attive del lavoro, perché la povertà si contrasta efficacemente anche promuovendo l'inclusione lavorativa;
    certo le esigenze sono moltissime: 1,5 milioni di Neet (Not in education, employment or training), ossia giovani che non sono inseriti in un percorso scolastico e formativo e, contemporaneamente sono disoccupati, 1,7 milioni di lavoratori che fruiscono della Naspi e circa 2 milioni di disoccupati di lunga durata e ci si può domandare cosa sia concretamente possibile fare. Appare interessante l'esempio della Germania, dove l'Agenzia nazionale che si occupa delle politiche del lavoro ha 80 mila esperti alle sue dipendenze, mentre l'omologa italiana ne ha solo 8.000, con una differenza che si riflette anche nell'efficacia dell'azione della stessa agenzia,

impegna il Governo:

1) ad individuare modalità di potenziamento dei centri per l'impiego perché il servizio personalizzato di assistenza ai disoccupati percettori della Nuova prestazione di assicurazione sociale per l'impiego (Naspi) possa essere adeguatamente realizzato;
2) a implementare, assumendo iniziative per l'assegnazione di adeguate risorse economiche e di personale, il collegamento dei centri per l'impiego e le aziende operanti nel loro territorio di competenza per rendere maggiormente efficace l'attività di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro;
3) a individuare, nell'ambito della sperimentazione dell'assegno di ricollocazione, come misura nazionale di politica attiva, criteri che permettano di tenere nella giusta considerazione anche la composizione del nucleo familiare;
4) ad adottare quelle iniziative che consentano all'Anpal di assumere quel ruolo di coordinatore delle politiche attive del lavoro necessario per uniformare e migliorare gli standard dei livelli essenziali di servizio dei diversi centri dell'impiego perché sia realmente garantito il diritto all'accompagnamento al lavoro, anche attraverso interventi dedicati a garantire ai componenti di famiglie numerose l'accesso ai percorsi di riqualificazione e di avviamento alla ricollocazione.
(1-01535)
«Sberna, Baradello, Fitzgerald Nissoli, Gigli, Marazziti, Piepoli, Santerini, Dellai».
(13 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    le politiche attive per il lavoro, in particolare nel contesto di una crisi economica strutturale, devono esercitare un ruolo determinante di sostegno per i lavoratori e i giovani, occupati e non, ma è necessario investire su di esse significative risorse aggiuntive certe e non continuando in una insufficiente azione fondata sulla previsione di risorse a legislazione vigente;
    si registra, ancora oggi, un mercato del lavoro nazionale basato su precarietà e riduzione dei diritti e delle tutele per i lavoratori e privo di un adeguato sistema di politiche attive, di una cultura ed una strutturazione dei servizi all'impiego che solo con un effettivo cambio di indirizzo potrebbe produrre i risultati efficaci;
    in tale ambito, deve essere rilanciata la centralità del ruolo e della funzione dei centri per l'impiego nella realizzazione di compiute e articolate politiche pubbliche attive del lavoro; questo si sostanzia anche nella stabilizzazione dei precari dei centri per l'impiego e dell'ex Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori (Isfol);
    in Italia, i precari dei centri impiego che vivono in condizione di lavoratori precari sono circa 2000, ed è giunto il momento di sanare questa situazione a giudizio dei presentatori del presente atto di indirizzo vergognosa che si protrae da anni, che si deve affrontare e definire attraverso un percorso definitivo di stabilizzazione;
    può essere condivisibile che il coordinamento delle politiche attive per il lavoro risieda nell'Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal), quindi in un unico ente pubblico e nazionale, ma non si può non segnalare il rischio che la gestione di tali politiche, di cui all'articolo 11 decreto legislativo n. 150 del 2015, che dispone l'organizzazione dei servizi per il lavoro e delle politiche attive del lavoro a livello regionale e delle province autonome, da realizzarsi attraverso l'attuazione di singole convenzioni tra Ministero del lavoro e delle politiche sociali e le regioni, possa determinare una pericolosa diversificazione di risorse e strumenti a disposizione;
    la Rete nazionale dei servizi per le politiche del lavoro, prevista dall'articolo 1 del decreto legislativo n. 150 del 2015, vede come soggetto centrale di coordinamento di tutte le attività della Rete, l'Anpal. Nell'ambito della rete figurano, diverse istituzioni pubbliche, l'Istituto per lo sviluppo della formazione professionale (ex Isfol), oggi Inapp, e l'ex Italia lavoro, oggi Anpal servizi;
    l'esito del referendum sulla riforma costituzionale oggettivamente ha chiarito che la governance delle politiche attive del lavoro definite dal decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150, resta materia di competenza legislativa concorrente tra Stato e regioni; la riforma costituzionale aveva previsto che allo Stato sarebbe stata attribuita la legislazione esclusiva sul lavoro e alle regioni sarebbero residuate le sole funzioni operative relative alla gestione delle politiche attive;
    sulla governance delle politiche attive del lavoro un accordo quadro tra Governo, regioni e le province autonome di Trento e Bolzano del 22 dicembre 2016 ribadiva le funzioni del Governo, delle regioni e province autonome, già convenute nell'Accordo quadro in materia di politiche attive per il lavoro del 30 luglio 2015, successivamente recepite nel decreto legislativo n. 150 del 2015;
    sulla governance delle politiche attive un accordo quadro tra Governo, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano del 22 dicembre 2016 ribadiva le funzioni del Governo, delle regioni e province autonome, già convenute nell'Accordo quadro in materia di politiche attive per il lavoro del 30 luglio 2015 e successivamente recepite nel decreto legislativo n. 150 del 2015, una governance che oggi non ha motivo di restare in vigore, tenuto conto che la materia è rimasta ora come concorrente e quindi la potestà legislativa è delle regioni,

impegna il Governo:

1) a prevedere il sostegno e il rafforzamento delle politiche attive del lavoro, finalizzate in particolare alla riduzione della disoccupazione e al sostegno al reddito, assumendo iniziative per stanziare risorse aggiuntive, già dal prossimo Documento di economia e finanza, risorse da quantificare adeguatamente nella prossima legge di bilancio, considerato che non è infatti ipotizzabile un intervento a costo zero o a legislazione vigente, sulle politiche attive del lavoro, come di fatto previsto dal decreto legislativo n. 150 del 2015;
2) ad assumere iniziative per destinare quota parte delle suddette risorse aggiuntive al rafforzamento dei centri dell'impiego e alla ricerca sulla qualità del lavoro, anche procedendo al completo superamento dello stato di precarietà dei lavoratori precari dell'ex Isfol, oggi Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche, e dei centri per l'impiego, che da anni vivono in una situazione di precariato non più accettabile, attraverso la stabilizzazione del rapporto di lavoro;
3) a sostenere, nell'ambito delle politiche attive del lavoro, iniziative e programmi che siano uniformi sull'intero territorio nazionale, evitando una disomogeneità nell'applicazione della normativa in materia nelle diverse realtà territoriali a causa di differenti risorse, strumenti e risultati, superando un modello fallimentare praticato fino ad oggi;
4) ad assumere iniziative per superare la fase di transitorietà indicata nell'accordo quadro raggiunto in sede di Conferenza Stato-regioni sulla governance delle politiche attive per il lavoro, tenuto conto che la materia, a seguito dell'esito del referendum del 4 dicembre 2016, è rimasta tra quelle di competenza legislativa concorrente tra Stato e regioni, dando piena uniformità e coerenza alle politiche attive del lavoro svolte a livello locale e nazionale.
(1-01538)
«Placido, Airaudo, Marcon, Costantino, Daniele Farina, Fassina, Fratoianni, Giancarlo Giordano, Gregori, Paglia, Palazzotto, Pannarale, Pellegrino».
(13 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    il decreto legislativo n. 150 del 2015, uno dei tanti attuativi della riforma cosiddetta jobs act, ha previsto il riordino dei servizi per l'impiego e di politiche attive, con l'istituzione di una Agenzia nazionale per le politiche del lavoro (Anpal) partecipata da Stato, regioni e province autonome, e vigilata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali;
    l'Anpal rappresenta una centralizzazione dei servizi per l'impiego, poco rispondente e ancor meno funzionale alle specifiche esigenze dei territori regionali e provinciali, con il reale rischio di vanificare talune esperienze positive costruite negli ultimi anni sul territorio e cancellare alcuni modelli di successo di alcune regioni del Nord in materia di politiche attive e passive del lavoro, servizi all'impiego, formazione, riqualificazione, orientamento;
    la centralizzazione in una sola struttura dell'erogazione dei servizi di politica attiva a livello statale, infatti, presuppone l'adozione di politiche del lavoro programmate e regolate su modelli standardizzati ed ingessati, che non tengono conto delle peculiari esigenze territoriali, finendo con l'ostacolare, invece che incentivare, l'effettivo eventuale beneficio per il cittadino ed a discapito della flessibilità e della solerzia richiesta dal mondo datoriale del lavoro;
    il decreto legislativo n. 150 del 2015 contempla l'istituzione di una banca dati nazionale della domanda e dell'offerta di lavoro che, senza un incisivo coordinamento – anche attraverso corsi di formazione professionale – con le associazioni di categoria territoriali per individuare i profili più idonei, rischia di rimanere asettica e avulsa dalle richieste del tessuto economico-produttivo locale;
    la riforma di cui al citato decreto legislativo n. 150 del 2015, peraltro, nel prevedere l'Istituzione dell'Anpal, non ha contemplato una riorganizzazione dei centri per l'impiego (gli ex uffici di collocamento), i quali – come ben si sa – funzionano solo in alcune realtà territoriali, mentre in altre sono l'emblema dei «carrozzoni pubblici», inefficienti e costosi;
    secondo i dati Istat, nel primo trimestre 2015, solo l'1,4 per cento di coloro che nell'anno precedente erano privi di lavoro hanno trovato occupazione attraverso i centri per l'impiego, a conferma del ridotto ruolo che gli stessi svolgono nell'attività di intermediazione;
    i centri per l'impiego, peraltro, prima della cosiddetta «riforma Delrio» e del tentativo di riforma costituzionale poi fallito col voto referendario del 4 dicembre 2016, si ricorda, erano, di fatto, interni alle competenze delegate dalle regioni alle province, essendo la materia della tutela del lavoro di competenza concorrente; presso le regioni esiste quindi un assessorato ad hoc;
    lo smantellamento delle province e altre riforme messe in atto dalla maggioranza parlamentare e dal Governo per accentrare a livello statale competenze prima delegate, hanno portato inevitabilmente ad un depauperamento politico-istituzionale ed anche economico delle politiche attive del lavoro sul territorio;
    la difficoltà di collocare sul mercato del lavoro un giovane è anche frutto di un mancato adeguamento delle materie scolastiche al mondo del lavoro (ancora oggi manca la formazione nelle materie professionali del web, come il digitalmarketing, instagrammer, social marketing, web reputation manager) e di una carenza nei servizi di orientamento scolastico e di placement delle università, parzialmente compensata da misure di alternanza scuola-lavoro;
    il decreto legislativo n. 150 del 2015 non è ancora pienamente operativo e, pertanto, può essere oggetto degli opportuni correttivi all'indomani dell'esito del referendum che ha rivelato la volontà popolare di mantenere l'assetto decentrato dell'ordinamento, invece che centralizzare talune competenze costituzionali e, nella fattispecie, quelle inerenti le politiche del lavoro,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative normative per attribuire all'Anpal una connotazione di struttura sussidiaria, invece che centralizzata, lasciando cioè alle regioni virtuose che hanno saputo sfruttare a pieno le competenze in materia la gestione in autonomia dei servizi al lavoro e delle politiche attive e passive del lavoro, ed intervenendo solo a sostegno puramente organizzativo delle regioni, che non hanno brillato in questi anni per efficienza e capacità, stanziando fondi a carico delle regioni medesime, ciò al fine di non eliminare i differenziali di efficienza su scala regionale, appiattendo e livellando verso il basso i modelli di funzionamento validi;
2) ad adottare iniziative, per quanto di competenza, per una razionalizzazione delle strutture di intermediazione tra domanda ed offerta di lavoro, per migliorarne l'efficienza e la funzionalità ed, al contempo, per evitare ulteriore spreco di risorse pubbliche, prevedendo la soppressione – con relativo accorpamento della struttura e del relativo personale a quella territorialmente più vicina – di quei centri che, nell'arco solare di un anno, non abbiano collocato/ricollocato almeno una percentuale di lavoratori pari alla media nazionale ridotta dell'1 per cento e la perdita dell'accreditamento per le agenzie di lavoro che, nell'arco dell'anno solare, non abbiano collocato/ricollocato una percentuale di lavoratori almeno uguale alla media nazionale ridotta dell'1 per cento;
3) ad adottare le opportune iniziative di competenza che, nell'ottica di migliorare e rendere più efficienti le politiche attive del lavoro, prevedano l'erogazione di fondi statali per i corsi delle agenzie di formazione non soltanto in percentuale alle presenze dei partecipanti, ma anche rispetto alla collocazione lavorativa degli iscritti al termine dei corsi medesimi;
4) a promuovere una maggiore sinergia tra strutture di intermediazione per la domanda-offerta di lavoro e le associazioni di categoria territoriale, anche intervenendo, per quanto di competenza, mediante iniziative volte ad implementare l'alternanza scuola-lavoro, rendendola maggiormente vicina alle reali esigenze degli studenti e delle imprese, anche tramite il coinvolgimento degli studenti nello studio di materie professionali del web e in laboratori di simulazione di impresa;
5) ad assumere iniziative per prevedere, nell'ambito di revisione del patto di servizio personalizzato, di cui all'articolo 20 del decreto legislativo n. 150 del 2015, anche la disponibilità alla partecipazione in attività di volontariato per il comune di residenza, in casi di eventi calamitosi, dei percettori di strumenti di sostegno al reddito in attesa di ricollocazione lavorativa.
(1-01539)
«Simonetti, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caparini, Castiello, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Molteni, Pagano, Picchi, Gianluca Pini, Rondini, Saltamartini».
(14 marzo 2017)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE ALL'IDENTIFICAZIONE DEI MIGRANTI DECEDUTI NELLA TRAVERSATA DEL MEDITERRANEO

   La Camera,
   premesso che:
    secondo i dati dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel 2015 – l'anno con più mortalità – sono state registrate 3.771 vittime nella traversata del Mediterraneo verso i Paesi europei e nel 2016 il numero è equivalente se non superiore; nel 2016 ha perso la vita 1 persona ogni 88 che hanno tentato la traversata, mentre nel 2015 era 1 ogni 269;
    si calcola che in totale negli ultimi quindici anni sono morte circa 30.000 persone nella traversata del Mediterraneo. Il 60 per cento di chi muore in mare resta senza nome;
    l'identificazione e il riconoscimento sono un diritto fondamentale soggettivo che tutela la dignità della persona, come previsto dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo;
    riconoscere e dare un nome a chi muore nell'attraversare il Mediterraneo è un atto di umanità che permette alle famiglie di riavere i corpi, dar loro degna sepoltura e piangerli degnamente uscendo dal limbo angoscioso di chi non sa la sorte di un proprio congiunto, che può portare anche a problemi di salute mentale;
    dare un'identità certa alle persone morte annegate nel Mediterraneo è fondamentale per fornire le necessarie tutele giuridiche ai congiunti ed ai parenti dei deceduti, ad esempio in materia di ricongiungimento familiare ed eredità;
    dare un'identità ed un nome a chi è morto in mare aiuta altresì a ricostruire i percorsi migratori, le rotte ed anche i meccanismi di sfruttamento e degli scafisti; quindi, dare un'identità certa alle persone morte nel Mediterraneo è fondamentale anche per ragioni di sicurezza, in quanto impedirebbe l'uso dell'identità e dei documenti di persone annegate da parte di altre persone, magari con finalità criminali o terroristiche;
    il diritto internazionale dei diritti umani, specie nella Convenzione di Ginevra e nei suoi protocolli aggiuntivi, sancisce norme volte a considerare principi fondamentali per il rispetto della dignità umana anche quelli che devono essere garantiti agli scomparsi nel Mediterraneo e ai loro familiari; negare indagini adeguate può essere considerato un trattamento degradante nei confronti dei loro familiari nei Paesi d'origine, che spesso li cercano per lungo tempo, nonché una violazione dei diritti di residenti o cittadini europei. Alla pari delle vittime di altri disastri di massa, le vittime delle migrazioni non devono essere ignorate;
    il Consiglio d'Europa a più riprese ha messo in luce la necessità di risposte adeguate, come nel rapporto del Commissario dei diritti umani del 2014 dedicato alle persone scomparse, Missing persons ad victims of enforced disappearance in Europe, e attraverso la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ha elaborato il diritto dei familiari a conoscere il destino dei propri cari;
    tuttavia, tale diritto non sempre è riconosciuto, dato che alcune procure delle città titolari delle inchieste sui naufragi affermano la necessità del recupero delle salme come atto dovuto per i familiari delle vittime, mentre altre procure, non essendovi obbligo legale, ritengono che l'identificazione non sia utile alle indagini;
    rimane, quindi, una sorta di vuoto giuridico sui doveri di identificazione dei morti in mare, per cui non è chiaro a chi spettino le operazioni di identificazione, cosicché esse sono lasciate sostanzialmente all'iniziativa di istituzioni e operatori;
    il problema della scomparsa dei migranti del Mediterraneo è affrontato e denunciato da anni da istituzioni, quali l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni, la Croce rossa internazionale;
    nel 2007 è stato istituito presso il Ministero dell'interno l'ufficio del commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, primo del suo genere in Europa, che ha creato un registro e una banca dati di ricerca scomparsi, con competenza sui cadaveri sconosciuti dei migranti;
    l'Italia ha messo in campo attività e metodologie scientifiche di avanguardia nel campo del riconoscimento dei morti in mare senza disporre peraltro di risorse specifiche, attraverso un modello di intervento coordinato dal commissario straordinario, cui collaborano, oltre all'Università di Milano anche numerose università italiane, il Ministero della difesa con la Marina militare, la Guardia costiera, la Croce rossa militare e varie altre istituzioni;
    nel settembre 2014 il commissario straordinario per le persone scomparse, il capo del dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno e il rettore dell'Università degli studi di Milano sottoscrivevano uno specifico protocollo d'intesa per sviluppare azioni congiunte «in materia di riconoscimento/identificazione dei corpi senza identità appartenenti a cittadini stranieri recuperati in mare a seguito dei naufragi del 3 e 11 ottobre 2013». Tale intesa ha dato avvio a una collaborazione stabile tra l'ufficio del commissario straordinario e il laboratorio di antropologia e odontologia forense dell'Università di Milano (Labanof);
    un esempio di tale modello d'eccellenza sono i progetti messi in atto per riconoscere i morti dei naufragi del 3 ottobre 2013 (data riconosciuta come giornata nazionale in memoria delle vittime dell'immigrazione) e del naufragio del 18 aprile 2015, dopo il ritrovamento e il recupero del relitto del barcone su cui si trovavano circa 800 persone;
    tale progetto, cui hanno partecipato 10 atenei italiani su base volontaria, ha creato un modello per il trattamento dei morti e di raccolta dei dati esportabile in tutta Europa;
    si rende quindi necessario promuovere e sostenere tale attività di identificazione delle vittime al fine di facilitare e ampliare le attività di riconoscimento, raccolta dati e diffusione informazioni tra i familiari;
    il consolidamento di tale modello costituisce anche un'importante azione a livello culturale, specie tra le giovani generazioni, per creare una cultura dei diritti fondamentali che comprenda il diritto dei morti ad avere un nome,

impegna il Governo:

1) a sostenere e promuovere le task force inter-istituzionali per la raccolta dei dati al fine di promuovere l'identificazione dei corpi ancora senza nome dei migranti nel Mediterraneo;
2) a facilitare a livello nazionale la raccolta di dati post mortem sui cadaveri delle vittime al fine di raccogliere tutte le informazioni utili a portare a un'identificazione;
3) a promuovere a livello nazionale la raccolta di dati ante mortem degli scomparsi dai familiari, aiutando a costruire un'infrastruttura e punti di raccolta in Europa e nei Paesi di origine;
4) a valutare il potenziamento dell'ufficio del commissario straordinario per le persone scomparse dotandolo di un centro costi e di risorse, sia umane che finanziarie;
5) ad assumere iniziative per sviluppare la cooperazione internazionale coinvolgendo le istituzioni internazionali, l'Unione europea e il Consiglio d'Europa per condividere l'opera di identificazione tra i Paesi membri.
(1-01435)
«Santerini, Cimbro, Dellai, Marazziti, Baradello, Capelli, Fitzgerald Nissoli, Fauttilli, Sberna, Piras».
(23 novembre 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo i dati diffusi dall'Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), nei primi due mesi del 2017 sono morte 485 persone nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, con un aumento di 60 unità rispetto allo stesso periodo del 2016. Di queste, 444 sono le vittime registrate nella rotta tra la Libia e l'Italia;
    nel 2016, furono quasi cinquemila i morti e i dispersi nel Mediterraneo, a fronte di più di 181 mila sbarchi; nei primi due mesi del 2017 gli immigrati arrivati sulle coste italiane sono oltre tredicimila, quasi il 75 per cento di tutti quelli approdati in Europa nello stesso periodo;
    è stato stimato che, tra il 2011 e il 2016, i morti in mare siano stati oltre 18.300; nel 2016, circa il 2,5 per cento dei migranti non ha concluso il viaggio dalla Libia all'Italia. Quasi il 60 per cento di chi muore in mare non viene identificato;
    l'identificazione e il riconoscimento dei corpi sono sia un atto di umanità volto a consentire alle famiglie di poter dare degna sepoltura ai propri cari, sia un atto fondamentale per fornire le necessarie tutele giuridiche ai congiunti ed ai parenti dei deceduti;
    il problema della scomparsa dei migranti del Mediterraneo è costantemente denunciato da istituzioni, quali l'Unhcr, l'Oim, la Croce rossa internazionale, il Consiglio d'Europa e la Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedu), che ha sancito il diritto dei familiari a conoscere il destino dei propri congiunti;
    nel 2007 l'Italia si è dotata di un Commissario straordinario del Governo per la gestione del fenomeno delle persone scomparse, il cui ufficio è composto da dipendenti civili del Ministero dell'interno e della polizia di Stato, che coadiuvano il commissario nelle attività di monitoraggio, raccordo con gli organismi internazionali, studio comparato e analisi dei dati/informazioni sulle persone scomparse e i cadaveri non identificati acquisiti da soggetti pubblici e privati;
    la legge 14 novembre 2012, n. 203, recante disposizioni per la ricerca delle persone scomparse e, in particolare, l'articolo 1, comma 4, stabilisce l'obbligo per l'ufficio di polizia all'atto del recepimento della denuncia di scomparsa, di dare immediato avvio alle ricerche e contestuale comunicazione al prefetto «per il tempestivo e diretto coinvolgimento del commissario straordinario per le persone scomparse, nominato ai sensi dell'articolo 11, della legge 23 agosto 1988, n. 400»;
    con decreto del Presidente della Repubblica, 5 gennaio 2017 è stato confermato nell'incarico di Commissario straordinario del Governo per la gestione del fenomeno delle persone scomparse fino al 14 febbraio 2018 il prefetto Piscitelli;
    il decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 2009 attribuisce al commissario, tra l'altro, il compito di assicurare il necessario coordinamento operativo tra le amministrazioni dello Stato interessate a vario titolo al fenomeno delle persone scomparse, curando il raccordo con le pertinenti strutture tecniche, nonché il compito di monitorare le attività istituzionali dei soggetti impegnati nell'attività di ricerca delle persone scomparse e quello, conseguente, di analizzare le informazioni acquisite al fine di proporre alle autorità competenti eventuali soluzioni per migliorare l'azione amministrativa e l'informazione di settore;
    l'identificazione delle vittime di quella che ormai è, a tutti gli effetti, una vera tratta di esseri umani, aiuta a ricostruire i percorsi e le rotte migratorie, nonché i meccanismi utilizzati dagli scafisti, impedendo il cosiddetto «furto d'identità», pratica utilizzata dai trafficanti di esseri umani che riutilizzano identità e documenti di persone annegate;
    nel settembre 2014 il commissario straordinario per le persone scomparse, il capo del dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno e il rettore dell'università degli studi di Milano hanno sottoscritto uno specifico protocollo d'intesa con la finalità di promuovere e sviluppare azioni in materia di riconoscimento/identificazione dei corpi senza identità appartenenti a cittadini stranieri recuperati in mare a seguito ai tragici naufragi del 3 e 11 ottobre 2013;
    i positivi esiti riscontrati hanno portato, nel luglio 2015, alla stipula di un ulteriore protocollo volto alla gestione della fase di identificazione con metodologia scientifico-forense anche delle circa 750 vittime del naufragio del 18 aprile 2015;
    le operazioni di riconoscimento sono costose e non ci sono fondi adeguati, né a livello italiano, né a livello europeo, dove sarebbe auspicabile la realizzazione di una banca dati europea dei migranti deceduti e scomparsi, che consenta di accedere ai dati del Dna e ad altre informazioni utili per un'indagine post mortem;
    oltre alle vittime in mare, occorre tuttavia ricordare che i trafficanti non si fanno scrupoli nemmeno al momento dell'imbarco sulle coste del Nord Africa: è di questi giorni la notizia del ritrovamento presso la città di Sabrata, ad ovest della Libia, di una fossa comune contenente i corpi di 22 migranti, tutti provenienti dall'Africa sub-sahariana, uccisi dagli scafisti perché non volevano imbarcarsi per il mare agitato a causa delle cattive condizioni del tempo. La conferma di questa ennesima strage è arrivata dalla Mezzaluna rossa;
    per fermare i flussi migratori e, conseguentemente, ridurre i decessi in mare, occorre proseguire celermente nella stipula di patti bilaterali con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e fermare i migranti sulle coste extra europee. La stipula di accordi non solo deve essere ampliata coinvolgendo i Paesi della fascia Subsahariana, ma deve vedere coinvolta l'intera Unione europea;
    contestualmente, l'Italia deve operare per il passaggio alla fase 3 dell'operazione Sofia, che prevede l'ingresso di mezzi navali nelle acque territoriali libiche per fermare i trafficanti e le imbarcazioni alla partenza, ricercando l'accordo diplomatico e il consenso delle istituzioni libiche e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite,

impegna il Governo:

1) a sostenere e facilitare le operazioni di identificazione delle vittime delle tragedie dei naufragi e a promuovere la raccolta di dati ante mortem degli scomparsi, anche potenziando l'ufficio del commissario straordinario per le persone scomparse;
2) ad assumere iniziative in sede europea per condividere l'opera e i costi delle identificazioni tra i Paesi membri, proponendo la realizzazione di una banca dati europea dei migranti deceduti e scomparsi che consenta, anche ai fini della sicurezza del continente, di accedere ai dati del Dna e ad altre informazioni utili per un'indagine post mortem;
3) ad assumere iniziative per proseguire nella stipula di patti bilaterali con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo al fine di introdurre specifici accordi volti a promuovere task force miste e favorire lo scambio di informazioni e dati per l'identificazione dei migranti deceduti e scomparsi;
4) a implementare gli sforzi diplomatici per ottenere il consenso delle istituzioni libiche e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite per il passaggio alla fase 3 dell'operazione Sofia, affinché possano essere meglio controllate le partenze dei migranti dai Paesi d'origine, anche al fine di prevenire i possibili decessi nella traversata del Mediterraneo.
(1-01536)
«Altieri, Palese, Bianconi, Capezzone, Chiarelli, Corsaro, Distaso, Fucci, Latronico, Marti».
(13 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    nonostante non esistano dati certi circa il numero di morti e dispersi nel Mar Mediterraneo nella traversata per raggiungere i Paesi europei, principalmente l'Italia, secondo l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), dal 3 ottobre 2013, all'indomani del naufragio a Lampedusa a cui seguirono azioni del Governo e delle istituzioni europee per intensificare le attività di ricerca nel Mediterraneo con pattuglie di soccorso e intervento, al 24 gennaio 2017, sarebbero ben 13.288 i morti e i dispersi in mare, cifra tuttavia solo stimata perché, in realtà, il numero sarebbe molto più alto;
    solo nel 2016 sarebbero quasi 5.000 le vittime dei naufragi, una cifra che non solo rappresenta un record rispetto agli anni precedenti ma è in continua crescita, proprio dal 2013 e dopo l'avvio dell'operazione Mare Nostrum: dai 3.500 morti e dispersi del 2014 ai 3.800 del 2015 fino ai 5.000 del 2016;
    parimenti, sempre nell'anno 2016, è stato registrato anche un altro record, quello di arrivi via mare, oltre 181.436 dai 42.925 del 2013, mentre, sempre secondo gli ultimi dati del Ministero dell'interno, il riconoscimento dello status di rifugiato, ai sensi dell'articolo 1 della Convenzione di Ginevra, è passato dal 13 per cento nel 2013 al 5 per cento nel 2016 e, in generale, il numero delle domande accolte, ossia alle quali è stata riconosciuta una delle tre forme di protezione è drasticamente diminuito, passando dal 60,9 per cento nel 2013 al 38 per cento registrato nel 2016;
    dal 1o gennaio al 21 febbraio 2017 sarebbero già circa 10.070 gli immigrati arrivati illegalmente dai confini marittimi in Italia, ben il 44,83 per cento in più rispetto a quelli dello stesso periodo del 2016;
    invece, nel 2010 gli sbarchi calarono del 90 per cento rispetto al 2008, passando da 36.951 a 4.406 arrivi, per effetto degli accordi bilaterali stipulati con i maggiori Paesi di arrivo e transito, dell'istituzione del fondo di cui all'articolo 14-bis del decreto legislativo n. 286 del 1998, promossa dall'allora Ministro Maroni per eseguire effettivamente il rimpatrio dei clandestini, e l'introduzione del reato di cui all'articolo 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, cosiddetto di immigrazione clandestina;
    nel 2013 tale fondo è stato di fatto svuotato con il decreto-legge n. 120, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 137 del 2013, al fine di destinarne le risorse al sistema di accoglienza;
    nel 2014 con la legge n. 67 del 2014, recante «Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio», è stata disposta l'abolizione del reato di immigrazione clandestina;
    nel 2015 degli 11 centri di identificazione ed espulsione presenti in Italia ne risultavano funzionanti solo 5, con una presenza al loro interno di soli 510 stranieri irregolari, scesi a 288 al 31 dicembre 2016;
    nel 2016 tra i Paesi di origine degli immigrati al momento del fotosegnalamento in Italia vi sono Nigeria, Guinea, Gambia, Costa d'Avorio e Senegal;
    i dati riportati in premessa confermano che, per la stretta correlazione tra le partenze e i decessi durante la traversata del Mediterraneo, le politiche che incentivano tali partenze sono estremamente pericolose e che, invece, occorre adottare misure ed iniziative immediate che blocchino tali flussi, salvando così numerose vite umane;
    recentemente la stessa agenzia Frontex ha sottolineato che «occorre impedire che gli affari dei network criminali e degli scafisti in Libia siano favoriti dal fatto che i migranti vengono soccorsi da navi europee sempre più vicino alle coste libiche: ciò fa si che i trafficanti costringano più migranti che in passato a salire sulle carrette del mare, senza abbastanza acqua né carburante», esponendoli, dunque, a maggiori rischi nella traversata;
    in particolare, secondo l'Agenzia Frontex, a produrre di fatto un effetto moltiplicatore delle partenze sarebbero proprio le sempre più numerose navi gestite da organizzazioni umanitarie (Moas, Jugend Rettet, Stichting Bootvluchting, Médecins sans frontières, Save the children, Proactiva Open Arms, Sea-Watch.org, Sea-Eye, Life boat), che navigano nelle acque tra la Libia e la Sicilia e che annoverano tra i propri finanziatori la Open Society e altri gruppi legati al milionario George Soros, il quale avrebbe promesso il 20 settembre 2016 investimenti da 500 milioni di dollari per favorire «l'arrivo dei migranti»;
    come emerso da numerose inchieste giornalistiche dei mesi scorsi, nell'ultimo anno, nonostante l'aumento delle partenze le chiamate alle forze dell'ordine sarebbero, invece, diminuite e questo perché i trafficanti, contattando direttamente le sempre più numerose navi delle ONG e sapendo di poter contare sul loro intervento, hanno incrementato i viaggi e con imbarcazioni sempre più malmesse, tanto che i decessi in mare sarebbero passati da 3.100 a 5.000 circa nel 2016;
    l'operazione Sophia, la missione navale EuNavFor Med lanciata nel 2015 con il criptico fine di «smantellare il modello di business dei trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo centro meridionale» e il cui mandato è stato esteso nel giugno 2016 dal Consiglio dei Ministri degli Esteri europei per un ulteriore anno, di fatto si limita a raccogliere in mare immigrati clandestini per portarli in Italia, come fanno anche le flotte delle operazioni Triton (Ue-Frontex) e Mare Sicuro e in precedenza l'operazione Mare Nostrum, favorendo, invece, e incoraggiando i flussi migratori illegali, a dispetto della propria missione;
    le misure previste dal memorandum siglato il 2 febbraio 2017 tra il Governo italiano e il Governo libico guidato da Fayez al-Sarraj si palesano, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo del tutto inefficaci rispetto alla finalità di contrasto all'immigrazione illegale sia perché l'autorità di Fayez al-Sarraj è limitata alla sola Tripoli sia perché non consentirà di intervenire nelle acque libiche per contrastare i trafficanti;
    indubbiamente la tratta clandestina di esseri umani, qualunque sia la rotta, è un business immorale e pericoloso per la sicurezza nazionale, nella misura in cui arricchisce soggetti criminali e va quindi scoraggiata e repressa in ogni modo;
    è innegabile che l'Italia, avendo dei confini in maggior parte permeabili come quello marittimo, necessita di particolari misure di controllo e respingimento,

impegna il Governo

1) al fine di prevenire il fenomeno dei decessi di immigrati nella traversata del Mediterraneo e le conseguenti attività di identificazione, ad assumere ogni utile iniziativa di competenza volta a disincentivare le partenze degli immigrati dai Paesi di origine e di transito, mediante una politica rigorosa finalizzata al controllo delle frontiere marittime e terrestri.
(1-01537)
«Molteni, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caparini, Castiello, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Pagano, Picchi, Gianluca Pini, Rondini, Saltamartini, Simonetti».
(13 marzo 2017)

INTERROGAZIONI A RISPOSTA IMMEDIATA

   LAFORGIA, MARTELLI, GIORGIO PICCOLO, ZAPPULLA, ROBERTA AGOSTINI, ALBINI, BERSANI, FRANCO BORDO, BOSSA, CAPODICASA, CIMBRO, D'ATTORRE, DURANTI, EPIFANI, FAVA, FERRARA, FOLINO, FONTANELLI, FORMISANO, FOSSATI, CARLO GALLI, KRONBICHLER, LEVA, MURER, NICCHI, PIRAS, QUARANTA, RAGOSTA, RICCIATTI, SANNICANDRO, SCOTTO, SPERANZA, STUMPO, ZACCAGNINI, ZARATTI e ZOGGIA. – Al Ministro dell'interno. – Per sapere – premesso che:
   la Corte costituzionale si è pronunciata l'11 gennaio 2017 sui tre quesiti referendari proposti dalla Cgil in materia di lavoro sui quali sono state raccolte oltre 3 milioni di firme, concernenti il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e la tutela reale (reintegra nel posto di lavoro) in caso di licenziamento illegittimo (articolo 18 dello Statuto dei lavoratori), la disciplina del lavoro accessorio (cosiddetto voucher) e, infine, le norme limitative della responsabilità solidale di committente e appaltatore negli appalti;
   in particolare, la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibile sia la richiesta di referendum per l'abrogazione della normativa vigente in materia di lavoro accessorio (cosiddetto voucher), sia la richiesta di referendum per l'abrogazione delle disposizioni limitative della responsabilità solidale tra committente e appaltatore in materia di appalti;
   obiettivo di tali richieste è, da un lato, quello di escludere dall'ordinamento la possibilità di retribuzione di qualsiasi attività lavorativa mediante voucher, il cui utilizzo ha, di fatto, provocato una progressiva stabilizzazione del precariato nel mercato del lavoro, dall'altro, quello di prevedere una piena responsabilità solidale tra committente e appaltatore, non limitabile da parte della contrattazione collettiva ed estesa, in sede giudiziale, anche alla fase esecutiva;
   dopo numerosi appelli rivolti al Governo, in data odierna il Consiglio dei ministri ha deliberato in merito alla fissazione della data per lo svolgimento del referendum che è stata individuata nel 28 maggio 2017; peraltro, sarebbe assai opportuno, a parere degli interroganti, che si svolgessero congiuntamente le prossime consultazioni amministrative; coincidenza che, per quanto risulta, comporterebbe un risparmio di circa 300 milioni di euro –:
   se il Governo non intenda adottare ogni iniziativa di competenza per assicurare lo svolgimento delle prossime consultazioni amministrative in coincidenza con la data del referendum promosso dalla Cgil. (3-02868)
(14 marzo 2017)

   SANTERINI. – Al Ministro dell'interno. – Per sapere – premesso che:
   come è noto il Governo, ha approvato il 10 febbraio 2017 un decreto-legge relativo ai fenomeni migratori, che prevede, tra l'altro, i nuovi centri permanenti per il rimpatrio, l'istituzione presso vari tribunali di 14 sezioni specializzate in materia d'immigrazione ed altro;
   lo spirito del decreto-legge va nella direzioni di contemperare sicurezza e accoglienza, come ha ricordato il Presidente del Consiglio dei ministri Gentiloni, citando anche il positivo lavoro svolto in questi anni sul tema della gestione dell'immigrazioni;
   va detto, però, che vi sono parti del decreto-legge che destano timori sostanzialmente già espressi in una mozione del gruppo Democrazia solidale-Centro democratico (n. 1-01468);
   si può, ad esempio, condividere l'intento di ridurre i tempi di attesa dei richiedenti asilo, anche nel caso di ricorsi dopo un eventuale diniego della concessione dello status di rifugiato politico, a condizione che non si rischi di ridurre le tutele dei richiedenti;
   nel 2016 le richieste d'asilo in Italia sono aumentate del 47,2 per cento rispetto al 2015. Le richieste esaminate dalle venti commissioni attive in Italia sono diminuite del 10 per cento rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Sono aumentate, invece, le risposte negative da parte delle commissioni territoriali;
   sempre nel 2016 è stato respinto il 53 per cento delle richieste d'asilo, una richiesta su due, in netto aumento rispetto al passato. La maggior parte delle persone che ricevono una risposta negativa da parte delle commissioni territoriali presenta un ricorso in tribunale. Dal 2014 al 2016 sono stati presentati 53.438 ricorsi e nel 70 per cento dei casi sono stati accolti;
   a fronte di questi flussi, gli ingressi legali in Italia per ragioni economiche sono invece possibili per numeri irrisori. Il decreto flussi 2017, similmente a quanto previsto nel 2016, autorizza poco più di 30 mila ingressi di stranieri per lavoro, comprese, però, circa 10 mila conversioni di permessi di soggiorno; in particolare, sono previsti circa 17 mila lavoratori stagionali e poche migliaia appartenenti ad altre categorie –:
   quali iniziative di competenza intenda intraprendere il Ministro interrogato per identificare le modalità per riattivare i canali dell'immigrazione regolare, nella forma di quote d'ingresso per motivi economici o corridoi umanitari per i rifugiati. (3-02869)
(14 marzo 2017)

   GUIDESI, FEDRIGA, ALLASIA, ATTAGUILE, BORGHESI, BOSSI, BUSIN, CAPARINI, CASTIELLO, GIANCARLO GIORGETTI, GRIMOLDI, INVERNIZZI, MOLTENI, PAGANO, PICCHI, GIANLUCA PINI, RONDINI, SALTAMARTINI e SIMONETTI. – Al Ministro dell'interno. – Per sapere – premesso che:
   nelle prime ore del 10 marzo 2017, intorno alle 3.30 del mattino, un gruppo di ladri ha tentato di introdursi nel ristorante l'Osteria dei Amis, situato nel territorio del comune di Casaletto Lodigiano;
   il proprietario del locale, Mario Cattaneo, residente in un appartamento al di sopra del locale, sentendo il trambusto, è rapidamente intervenuto, ingaggiando una colluttazione con almeno quattro persone, durante la quale da un fucile da caccia, appartenente all'esercente e regolarmente tenuto, partiva accidentalmente un colpo, che raggiungeva uno dei malviventi, risultato successivamente essere di nazionalità rumena;
   stando alle ricostruzioni disponibili, il malvivente ferito veniva quindi portato via dai suoi tre complici, che infine lo abbandonavano nei campi alla propria sorte, prima che ne sopraggiungesse la morte, per poter meglio sfuggire all'identificazione;
   a carico di Mario Cattaneo è stato aperto un procedimento giudiziario, che verterà verosimilmente sulla sussistenza degli estremi per l'esercizio della legittima difesa e sull'eventuale superamento della proporzionalità dei mezzi utilizzati rispetto alla minaccia affrontata;
   mentre si attende invano da tempo una legge che introduca nell'ordinamento la presunzione assoluta di legittima difesa in caso di intrusione, mediante effrazione o contro la volontà del proprietario, nella propria abitazione ovvero in ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale, i reati contro il patrimonio si stanno moltiplicando in molte zone del nostro Paese;
   potrebbe forse contribuire a rassicurare i cittadini un'azione di presidio più intensa del territorio anche nelle ore notturne e fuori dai grandi centri urbani –:
   quali misure il Governo intenda assumere per garantire la sicurezza dei cittadini rispetto alle aggressioni sempre più frequentemente portate contro i loro patrimoni, soprattutto nelle ore notturne e al di fuori delle grandi città. (3-02870)
(14 marzo 2017)

   CARFAGNA, RUSSO, SARRO e LUIGI CESARO. – Al Ministro dell'interno. – Per sapere – premesso che:
   l'11 marzo 2017, a Napoli, violenti scontri hanno caratterizzato il corteo organizzato contro la visita del segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, atteso per un comizio alla Mostra d'Oltremare. Con un rapido blitz, un gruppo di manifestanti incappucciati si è staccato dal corteo giunto a Fuorigrotta e ha accerchiato le forze dell'ordine. Antagonisti, centri sociali, black bloc hanno quindi messo a ferro e fuoco un pezzo di città: si sono vissuti momenti di vera e propria guerriglia, con lanci di molotov, petardi, sassi e fumogeni;
   i commercianti hanno abbassato le saracinesche e la gente, terrorizzata, ha cercato rifugio ovunque. Nell'area della protesta, a Fuorigrotta, tra lanci di lacrimogeni e sassi, sono state distrutte autovetture, incendiati e ribaltati in strada i cassonetti dei rifiuti, divelti segnali stradali. Il bilancio è di tre persone arrestate e tre denunciate in stato di libertà; 16 poliziotti e 5 carabinieri feriti. I reati contestati, a vario titolo, sono adunata sediziosa, danneggiamento, lancio di oggetti contundenti, lesioni e violenza a pubblico ufficiale. Manca, invece, ancora un bilancio ufficiale degli ingenti danni;
   va rilevato che sul caso era intervenuto il Ministro interrogato, che aveva chiesto alla prefettura di garantire che l'iniziativa si svolgesse, a seguito di un primo stop alla manifestazione giunto dal comune di Napoli; d'altra parte, poi, il sindaco Luigi De Magistris a giudizio degli interroganti non solo ha contribuito in maniera determinante ad alzare la tensione e alimentare gli scontri, attraverso puntuali dichiarazioni che hanno preceduto l'iniziativa, ma, all'ultimo, ha deciso di non partecipare al corteo, dichiarando, subito dopo: «non hanno voluto ascoltare il messaggio di buon senso del sindaco», riferendosi a prefetto, questore e Ministro interrogato, quasi a voler giustificare gli scontri –:
   quale sia il bilancio dei danni provocati l'11 marzo 2017 a Napoli, quali i costi sostenuti dall'amministrazione dello Stato per garantire lo svolgimento della manifestazione e quali iniziative, anche di tipo normativo, intenda mettere in campo per prevenire tale tipo di scontri, a garanzia della tutela dell'ordine pubblico. (3-02871)
(14 marzo 2017)

   PARISI, FRANCESCO SAVERIO ROMANO e VEZZALI. – Al Ministro dell'interno. – Per sapere – premesso che:
   le norme per l'elezione del Senato della Repubblica sono disciplinate dal decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533, e successive modificazioni;
   la Corte costituzionale, con la sentenza n. 1 del 2014, ha sancito l'illegittimità parziale della citata normativa elettorale;
   la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali l'articolo 17, commi 2 e 4, relativo ai premi di maggioranza regionali, e l'articolo 14, comma 1, nella parte in cui non consente all'elettore di esprimere una preferenza per i candidati;
   la risultante disciplina elettorale connota un sistema elettorale proporzionale con assegnazione dei seggi a livello regionale e soglie di accesso fissate al 20 per cento dei voti validi per le coalizioni, al 3 per cento per le liste unite in coalizione ed all'8 per cento per le singole liste non coalizzate;
   secondo l'articolo 8 del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533, e successive modificazioni, i partiti o i gruppi politici organizzati che intendono presentare candidature per l'elezione del Senato della Repubblica devono farlo con l'osservanza delle norme di cui agli articoli 14, 14-bis, 15, 16 e 17 del testo unico delle leggi recanti norme per l'elezione della Camera dei deputati (decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361, e successive modificazioni);
   l'articolo 14-bis del decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361, fino all'entrata in vigore della legge 6 maggio 2015, n. 52, sanciva la possibilità per i partiti o i gruppi politici organizzati di poter effettuare il collegamento in una coalizione delle liste;
   tale ultima possibilità è venuta meno a decorrere dal 1o luglio 2016, data di entrata in vigore del cosiddetto Italicum;
   l'abrogazione di ogni norma tesa a consentire la possibilità per le liste di unirsi in coalizione fa presupporre che, ad oggi, tale possibilità sia preclusa anche per i partiti o soggetti politici che intendono presentare liste di candidati per l'elezione del Senato della Repubblica –:
   se ad oggi sia possibile per i partiti o gruppi politici organizzati poter effettuare il collegamento in una coalizione di liste per l'elezione del Senato della Repubblica o se possano essere presentate per tale consultazione solo liste non coalizzate e, quindi, l'unica soglia di accesso alla ripartizione dei seggi in vigore sia quella fissata all'8 per cento dei voti validi a livello regionale. (3-02872)
(14 marzo 2017)

   RAMPELLI, CIRIELLI, LA RUSSA, GIORGIA MELONI, MURGIA, NASTRI, PETRENGA, RIZZETTO, TAGLIALATELA e TOTARO. – Al Ministro dell'interno. – Per sapere – premesso che:
   i fatti di Casaletto Lodigiano, dove nella notte tra giovedì e venerdì scorsi un ristoratore ha esploso dei colpi di fucile contro alcuni rapinatori entrati nel suo locale per rubare delle sigarette ferendone uno mortalmente, hanno riportato al centro del dibattito la questione della mancanza di sicurezza nelle città italiane che spinge i cittadini vieppiù a difendersi da soli;
   il caso del ristoratore, infatti, è solo l'ennesimo di una lunga serie in particolare di commercianti, che esasperati dai continui furti e dalla generale sensazione di pericolo nella quale si trovano costretti a lavorare hanno reagito ricorrendo all'uso di un'arma;
   ormai nelle città italiane si vive una vera e propria emergenza sicurezza, anche a causa dei continui ed inspiegabili tagli sopportati dalle forze di polizia, sia in termini di organico che di mezzi, che rendono impossibile un'efficace politica di controllo del territorio e di prevenzione e contrasto dei fatti criminali;
   negli ultimi anni sono in costante aumento i reati contro la proprietà, come borseggi e rapine, mentre i furti in appartamento sono addirittura raddoppiati, e un rapporto dell'Istat ha documentato la scarsa percezione di sicurezza che affligge gli italiani, con un netto calo del numero di intervistati che ha risposto di sentirsi al sicuro uscendo da solo al buio;
   all'emergenza sicurezza è strettamente correlato il problema del degrado dei quartieri periferici delle grandi città, che abbandonati alla più completa incuria attendono invano da anni gli interventi di riqualificazione e la garanzia dell'erogazione di servizi promessi, come l'area intorno a Largo San Giuseppe Artigiano a Pietralata a Roma;
   la percezione di una sicurezza oggettiva nella propria vita quotidiana dei cittadini è un elemento cardine della costruzione del benessere individuale e sociale –:
   quali urgenti iniziative intenda assumere al fine di combattere la diffusione dell'illegalità e del crimine nelle città italiane anche potenziando le attività per il controllo del territorio svolto dalle forze di polizia, al fine di permettere ai cittadini di vivere in una condizione di sicurezza. (3-02873)
(14 marzo 2017)

   TERZONI, AGOSTINELLI, CECCONI, BUSTO, DAGA, DE ROSA, MANNINO, MICILLO e ZOLEZZI. – Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. – Per sapere – premesso che:
   alle 13.30 di giovedì 9 marzo 2017 è crollato il cavalcavia n. 167 che si trova al chilometro 235+800 della A14 nel tratto tra le uscite Ancona Sud e Loreto;
   il crollo ha coinvolto due automobili, provocando la morte di due persone e il ferimento di due operai che in quel momento stavano lavorando al cavalcavia;
   secondo le prime ricostruzioni gli operai stavano sollevando la campata del ponte con dei martinetti, quando la struttura ha ceduto. Anche da un comunicato trasmesso dal concessionario Autostrade per l'Italia si apprende che «le attività di sollevamento del cavalcavia interessato dall'incidente erano state completate alle ore 11.30. Al momento dell'incidente, alle 13 circa, il personale stava realizzando attività accessorie. Sul cantiere, peraltro, era presente l'ingegnere responsabile tecnico dei lavori per la De.L.A.Be.Ch. Risulta che la società De.L.A.Be.Ch sarebbe specializzata con qualifiche di legge per i lavori in oggetto ed in possesso di certificazione delle società Bureau Vertitas. La stessa società aveva eseguito analoghi lavori su altri cavalcavia della stessa tratta»;
   in un altro comunicato la società Autostrade per l'Italia specifica che il crollo è stato «determinato dal cedimento di pile provvisorie su lavori di innalzamento del cavalcavia necessari per ripristinare l'altezza dell'opera rispetto al nuovo livello del piano autostradale, dopo l'allargamento dell'autostrada a 3 corsie», definendo l'accaduto «un tragico incidente non prevedibile». Il disastro verificatosi è l'ultimo di una tragica serie che ha visto il 28 ottobre 2016 il crollo del cavalcavia di Annone (Lecco) sulla corsia Nord della superstrada 36 al passaggio di un tir da oltre 108 tonnellate. Come noto, la struttura piombò sulla strada sottostante provocando la morte del guidatore di un'auto che rimase ucciso sul colpo –:
   per quali ragioni non sia stata disposta la chiusura del tratto autostradale interessato dai lavori per poter garantire le massime condizioni di sicurezza per gli utenti della strada, anche in relazione alla ritenuta inadeguatezza dei martinetti utilizzati per l'intervento, contestualmente rendendo noto se in ordine ai precedenti lavori della stessa tipologia tale misura di sicurezza della chiusura al traffico sia stata adottata e chiarendo le condizioni strutturali e lo stato di manutenzione di tutti i cavalcavia presenti su autostrade e superstrade. (3-02874)
(14 marzo 2017)

   SCOPELLITI e GAROFALO. – Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. – Per sapere – premesso che:
   già nel novembre 2016 gli interroganti avevano presentato un'interrogazione a risposta scritta al Ministro interrogato e al Ministro del lavoro e delle politiche sociali (n. 4/14686) in merito alle dichiarazioni della compagnia Alitalia circa le intenzioni della compagnia stessa di non volare più da e per l'aeroporto Minniti di Reggio Calabria;
   la chiusura comporterebbe il licenziamento dei dipendenti impiegati all'aeroporto di Reggio Calabria (circa 50);
   l'intervento del Governo è richiesto per il ruolo insostituibile della mobilità aerea per una vasta area urbana che non gode di infrastrutture di trasporto adeguate e soprattutto di un collegamento ferroviario veloce con gli altri nodi metropolitani del Paese;
   la continuità territoriale è condizione essenziale per la sopravvivenza di una economia vitale;
   si ricordano le pesanti conseguenze su tutto il ceto professionista locale che si ebbero a seguito della decisione assunta in passato dalla compagnia di bandiera di eliminare il volo mattutino da Reggio Calabria per Milano ed il relativo rientro a fin giornata;
   a seguito dell'iniziativa parlamentare, a gennaio 2017 il Ministro interrogato aveva convocato un tavolo per affrontare la complessiva criticità dello scalo calabrese;
   tuttavia, non sono arrivate soluzioni efficaci se ai primi di marzo 2017 Alitalia ha ufficializzato la cancellazione di tutti i voli da e per Reggio Calabria a far data dal 27 marzo 2017;
   l'operatore che si appresta a rendere esecutiva questa grave decisione gode a Reggio Calabria di un monopolio di fatto, dal momento che – nel frattempo – non è stata messa in atto alcuna iniziativa per incentivare altre compagnie aeree ad occupare gli slot eventualmente lasciati liberi da Alitalia;
   la grave minaccia che incombe sull'aeroporto di Reggio Calabria esigerebbe una politica organica sulla continuità territoriale, che non è in contraddizione con la razionalizzazione perseguita con il piano nazionale degli aeroporti –:
   quali iniziative stia assumendo nell'immediato il Governo – insieme agli altri soggetti nazionali competenti e ai rappresentanti dei livelli locali di governo – per rispondere alla decisione della compagnia Alitalia relativa ai collegamenti da e per Reggio Calabria, indicando gli indirizzi seguiti e che intenda perseguire per assicurare che la razionalizzazione degli scali si accompagni ad un'efficace politica di continuità territoriale, come elemento strutturale alla salvaguardia di quel pluralismo territoriale che rappresenta un carattere imprescindibile della società e dell'economia italiane. (3-02875)
(14 marzo 2017)

   VARGIU. – Al Ministro della salute. – Per sapere – premesso che:
   secondo prescrizione dell'Organizzazione mondiale della sanità, in Italia vengono chiusi i punti nascita che non raggiungono i volumi di attività previsti dai parametri di sicurezza per la tutela delle puerpere e dei neonati;
   la sicurezza delle cure per la gestante è garantita dal buon funzionamento della struttura che la ospita e dalla disponibilità dei servizi (rianimazione, laboratorio, neonatologia) qualificanti la prestazione sanitaria;
   l'accordo Stato-regioni del 16 dicembre 2010 e il decreto ministeriale dell'11 novembre 2015, articolo 1, disciplinano anche il percorso per eventuali deroghe alla norma;
   complessa è la situazione della comunità sarda dell'isola di La Maddalena, 12.000 abitanti, 50-60.000 nella stagione estiva, normalmente collegata alla Sardegna con mezzi navali diurni e, in emergenza, attraverso un elicottero non h24;
   le condizioni meteorologiche (specie il vento) rendono difficilissimi o impossibili i trasporti tra Sardegna e La Maddalena, dotata di presidio ospedaliero (il Paolo Merlo), deputato alla gestione della emergenza-urgenza, ma lontano dai volumi di attività/anno, prescritti per il punto nascita;
   la cancellazione dell'attività ospedaliera di supporto alle nascite renderebbe critica la situazione dei parti «non programmati» e peggiorerebbe le condizioni di sicurezza delle donne che scegliessero comunque di partorire nell'isola;
   la protesta delle maddalenine assume in questi giorni toni drammatici, ripresi dai media nazionali, configurando una situazione di emergenza sociale e sanitaria;
   nonostante la situazione maddalenina appaia lontana dalle condizioni di derogabilità, la regione Sardegna annuncia la volontà di presentare la richiesta per una deroga al Comitato percorso nascita nazionale (l'esito negativo sembra scontato);
   sembrerebbe, invece, più adeguato un intervento della regione orientato al potenziamento dell'organico dell'Ospedale di Olbia, che funga da hub per il Paolo Merlo, mantenendo così a La Maddalena un servizio attivo specialistico, garantendo la massima sicurezza possibile ai parti non programmati;
   la cancellazione di ogni attività di garanzia della qualità dell'assistenza alla nascita al Paolo Merlo espone le residenti a rischi di salute in contrasto con i livelli essenziali di assistenza garantiti dalla normativa –:
   se il Ministro interrogato non ritenga di adottare ogni iniziativa di competenza affinché sia assicurata presso La Maddalena un'attività di assistenza al parto che sia comunque in grado di assicurare la maggior tutela della salute delle gestanti e del nascituro, come previsto dai livelli essenziali di assistenza. (3-02876)
(14 marzo 2017)

   BINETTI, BUTTIGLIONE, CERA e DE MITA. – Al Ministro della salute. – Per sapere – premesso che:
   il bollino farmaceutico, introdotto con l'articolo 40 della legge n. 39 del 2002, ha lo scopo di tracciare i farmaci evitando furti e contraffazioni. È una carta valori e deve rispondere a rigorosi standard qualitativi e di stampa;
   dal 2015 l'Istituto poligrafico dello Stato ha deciso di internalizzare la produzione di bollini, precedentemente affidato a ditte esterne;
   nell'aprile 2015 si verifica il blocco di 70 milioni di farmaci causato dai bollini difettosi;
   un rapporto Eurispes del 2015 chiede di sapere per quale motivo, se le imprese esterne hanno fatto offerte tra i 13,6 e i 9 euro per mille pezzi, questi poi vengano venduti dall'Istituto poligrafico dello Stato alle imprese farmaceutiche a 26 euro;
   dalla catena della distribuzione del farmaco arrivano notizie che i bollini immessi in commercio hanno il codice in chiaro sul secondo strato cancellabile senza lasciare traccia dell'asportazione;
   se il codice si cancella è vanificato il processo di tracciabilità. I farmaci rubati con il numero cancellato possono essere associati ai bollini inutilizzati su ricette di comodo per il rimborso da parte del servizio sanitario nazionale. Non è un caso che si registra un nuovo boom di furti di farmaci con il coinvolgimento della criminalità organizzata;
   dalla stampa si apprende che le ultime offerte delle aziende private sono scese da 9 a 4,5 euro per 1.000 pezzi. Dunque, se esternalizzati, i 2,3 miliardi di bollini avrebbero un costo di 10,5 milioni di euro l'anno, contro i 60 che incassa l'Istituto poligrafico dello Stato; se si aggiungono i 140 milioni di euro per la gestione dei bollini, si arriva a 200 milioni di euro che si scaricano sul prezzo dei medicinali;
   ridurre gli sprechi in sanità diventa un'istanza etica alla quale non ci si può sottrarre, quando si sa che 11 milioni di italiani non si possono curare perché in gravi difficoltà economiche;
   il regolamento (UE) n. 2016/161, attuativo della direttiva 2011/62/UE, prevede l'introduzione del sistema «datamatrix» con un costo complessivo 10 volte inferiore a quello attuale; l'obbligo scatta dal 2019, ma l'Italia dispone di una deroga fino al 2025 –:
   se il Ministro interrogato per quanto di competenza non ritenga di dover indagare i motivi per i quali il costo dei bollini sia così elevato, come mai il bollino sia un prodotto alterabile e non corrispondente alle specifiche delle carte valori e, pertanto, se non ritenga opportuno adottare il sistema «datamatrix» al fine di realizzare un significativo risparmio sul costo dei medicinali. (3-02877)
(14 marzo 2017)

   LENZI, AMATO, ARGENTIN, BENI, PAOLA BOLDRINI, PAOLA BRAGANTINI, BURTONE, CAPONE, CARNEVALI, CASATI, D'INCECCO, GELLI, GRASSI, MARIANO, MIOTTO, PATRIARCA, PIAZZONI, PICCIONE, GIUDITTA PINI, SBROLLINI, MARTELLA, CINZIA MARIA FONTANA e BINI. – Al Ministro della salute. – Per sapere – premesso che:
   il «piano di eradicazione dell'epatite c», annunciato qualche giorno fa dal direttore dell'Agenzia italiana del farmaco Mario Melazzini, prevede di trattare circa 240 mila persone in tre anni, grazie allo stanziamento totale di un miliardo e mezzo di euro deciso alla fine del 2016 dal Governo;
   in base al vecchio accordo siglato con Gilead dall'allora direttore dell'Agenzia italiana del farmaco Luca Pani, erano in tutto circa 65 mila i pazienti affetti da epatite c da curare. La cura toccava solo chi aveva un'infezione in fase avanzata e a un costo per il sistema sanitario di circa 14 mila euro a paziente, costo che aveva impedito l'allargamento della platea;
   con i nuovi criteri indicati dall'Agenzia quasi tutti i malati, anche i tanti asintomatici, potrebbero rientrare nella casistica. Tra loro, ad esempio, tutti gli operatori sanitari infetti ma anche coloro che hanno altre infezioni, come ad esempio l'hiv, malattie croniche del fegato, diabete, obesità: ciò ha portato ad approvare i nuovi criteri per la somministrazione del trattamento;
   a tutt'oggi i negoziati con le aziende farmaceutiche per la determinazione del prezzo di acquisto a carico del servizio sanitario nazionale, secondo il direttore dell'Agenzia italiana del farmaco, proseguono e si è in attesa dell'arrivo delle nuove molecole pangenotipiche che potrebbero portare alla fine del monopolio di cui ha in qualche modo goduto Gilead in questi ultimi anni con Sovaldi –:
   quale sia allo stato attuale la trattativa tra l'Agenzia italiana del farmaco e le case farmaceutiche per l'impiego dei nuovi farmaci contro l'epatite c e quali siano i tempi di applicazione del nuovo piano contro tale malattia. (3-02878)
(14 marzo 2017)

   PALAZZOTTO, MARCON, FRATOIANNI e PAGLIA. – Al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale. – Per sapere – premesso che:
   da quasi settant'anni il popolo palestinese attende che venga riconosciuto dalla comunità internazionale lo Stato di Palestina;
   il Consiglio di sicurezza dell'Onu con la risoluzione n. 2334 del 23 dicembre 2016, conformandosi a quanto già deliberato negli ultimi quarant'anni rispetto alla propria visione di una regione in cui due Stati democratici, Israele e Palestina, vivano uno di fianco all'altro in pace all'interno di frontiere sicure e riconosciute, ha espresso grave preoccupazione per le reiterate attività di colonizzazione israeliane che potrebbero, in maniera irreversibile, compromettere il processo di pace del Medio Oriente e di risoluzione della questione dei due Stati in base ai confini tracciati nel 1967, imponendo ad Israele di interrompere qualsiasi insediamento illegale nei territori occupati, Cisgiordania e Gerusalemme est, dove vivono complessivamente circa 630 mila persone e condannando ogni misura intesa ad alterare la composizione demografica, le caratteristiche e lo status dei territori palestinesi occupati;
   dal canto suo il Primo ministro Benjamin Netanyahu, anche forte del voto di astensione espresso dagli Stati Uniti all'atto della votazione della risoluzione, ha affidato ad un comunicato laconico le sue reazioni dichiarando che: «Israele respinge questa vergognosa risoluzione anti-israeliana presso l'Onu e non si adeguerà ai suoi dettami»;
   nonostante le suddette preoccupazioni della comunità internazionale per le ripercussioni della politica coloniale di Israele sul processo di pace, anche il Parlamento israeliano ha mostrato di voler totalmente disattendere il monito lanciatogli dal Consiglio di sicurezza dell'Onu, approvando, a febbraio 2017, la contestata legge con cui vengono legalizzati retroattivamente insediamenti per circa 4 mila alloggi su terre di proprietà privata nell'occupata Cisgiordania;
   il 27 febbraio 2015, l'aula di Montecitorio aveva approvato la mozione n. 1-00745 che impegnava il Governo a continuare a sostenere in ogni sede l'obiettivo del riconoscimento della Palestina quale Stato democratico e sovrano entro i confini del 1967, con Gerusalemme quale capitale condivisa, e ricercare un'azione coordinata a livello internazionale, in particolare in seno all'Unione europea ed alle Nazioni Unite, in vista di una soluzione globale e durevole del processo di pace in Medio Oriente fondata sulla esistenza di due Stati, palestinese ed israeliano;
   ad oggi non si registrano significativi passi avanti da parte del Governo italiano in quella direzione –:
   quali iniziative intenda immediatamente assumere, quale contributo alla composizione della crisi israelo-palestinese, per il pieno riconoscimento politico dello Stato di Palestina. (3-02879)
(14 marzo 2017)

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