TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 781 di Mercoledì 19 aprile 2017

 
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MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE ALLA PREVENZIONE DELL'HIV/AIDS E DELLE MALATTIE SESSUALMENTE TRASMISSIBILI

   La Camera,
   premesso che:
    secondo i dati pubblicati dall'Istituto, superiore di sanità (vedasi notiziario dell'Istituto superiore di sanità volume 29 n. 9 suppl. 1 del 2016 «aggiornamento delle nuove diagnosi di infezione da HIV e dei casi di AIDS al 31 dicembre 2015»), nel 2015 sono state segnalate in Italia 3.444 nuove diagnosi si infezione da HIV (fatto salvo il ritardo di notifica in base al quale si stima manchi ancora un 7,9 per cento di segnalazioni), vale a dire che ogni giorno, in Italia, mediamente 10 persone scoprono di esseri sieropositive per HIV;
    con una incidenza pari a 5,7 nuovi casi per 100.000 residenti (nel 1987 si registrò il picco massimo di 26,8 nuovi casi per 100.000 residenti) l'Italia si colloca al 13o posto tra le nazioni dell'Unione europea in termini di incidenza delle nuove diagnosi di infezione da HIV;
    negli anni si è progressivamente osservato un cambiamento delle modalità di trasmissione: è diminuita la proporzione di consumatori di sostanze per via iniettiva (dal 76,2 per cento nel 1985 al 3,2 per cento nel 2015), è aumentata la proporzione di casi attribuibili a trasmissione eterosessuale (dall'1,7 per cento nel 1985 al 44,9 per cento nel 2015) e tra maschi che fanno sesso con maschi (dal 6,3 per cento nel 1985 al 40,7 per cento nel 2015);
    nel 2015 l'incidenza delle nuove diagnosi di infezione da HIV è diminuita lievemente rispetto ai tre anni precedenti per tutte le modalità di trasmissione tranne che per i maschi che fanno sesso con maschi;
    suddividendo le persone con nuova diagnosi di infezione da HIV per classi di età, l'incidenza più alta è stata osservata tra le persone di 25-29 anni (15,4 nuovi casi ogni 100.000 residenti);
    nel 2015 sono state segnalate 12 nuove diagnosi di HIV in adolescenti con età compresa fra 15 e 17 anni (8 per cento delle nuove diagnosi), in prevalenza femmine e straniere, e 369 casi in giovani con età compresa tra i 18 e i 25 anni (10,7 per cento delle nuove diagnosi), in prevalenza maschi che fanno sesso con maschi;
    nell'ultimo decennio è nettamente aumentato – dal 20,5 per cento del 2006 al 74,5 per cento del 2015 – il numero di persone che, inconsapevoli della propria sieropositività, sono giunte alla diagnosi di infezione da HIV già in stadio di AIDS, evidenziando un drammatico ritardo nella diagnosi;
    nel 2015 il 28,8 per cento delle persone diagnosticate HIV positive era di nazionalità straniera (11 per cento nel 1992; 32,9 per cento nel 2006);
    suddividendo le persone con nuova diagnosi di infezione da HIV in base alla nazionalità, nel 2015 l'incidenza è stata di 4,3 nuovi casi ogni 100.000 tra italiani residenti e di 18,9 nuovi casi ogni 100.000 tra stranieri residenti; tra gli stranieri, la quota maggiore di casi era costituita da eterosessuali femmine (36,9 per cento), mentre tra gli italiani da maschi che fanno sesso con maschi, (48,1 per cento);
    in Italia si stima che il numero di persone con Infezione da HIV/AIDS sia pari a circa 130 mila, dei quali almeno 12.000-18.000 siano «inconsapevoli» di avere il virus e quindi non in grado di curarsi ed ignari di rappresentare un rischio per i propri partner sessuali;
    la terapia antiretrovirale – oltre ad arrestare la progressione della malattia fino al punto di consentire alle persone con HIV di poter affrontare una prospettiva di invecchiamento paragonabile alle persone sieronegative – ha dimostrato enorme efficacia anche in termini di riduzione del rischio di trasmissione di HIV («Treatment as prevention» o TasP), dal momento che il trattamento riduce la carica virale di HIV nel sangue, nel liquido seminale, nelle secrezioni vaginali, nel fluido rettale, fino a livelli «non rilevabili» dalle metodiche di indagine;
    una strategia combinata che preveda diagnosi precoce e terapia tempestiva (cosiddetta «test and treat») è ritenuta in grado di ridurre significativamente la circolazione del virus nella popolazione ed il numero di nuove infezioni da HIV;
    il piano nazionale della prevenzione 2014-2018, visti dati nazionali che confermano le malattie infettive fra i problemi sanitari principali nel nostro Paese, prevede fra i macro obiettivi il macro obiettivo 2.9: Ridurre la frequenza di infezioni/malattie infettive prioritarie;
    il piano nazionale della prevenzione 2014-2018 raccomanda di mantenere elevato l'impegno sulla prevenzione delle malattie infettive per diverse ragioni fra cui il potenziale epidemico di alcuni agenti infettivi;
    il piano nazionale della prevenzione 2014-2018 definisce fondamentale l'identificazione precoce dei casi di malattia infettiva, sia per ridurne il rischio di complicanze ed esiti, sia per l'attuazione di opportuni interventi di contenimento;
    il piano nazionale della prevenzione 2014-2018 inserisce l'infezione da HIV/AIDS fra gli ambiti di intervento ritenuti prioritari sui quali concentrare le attività preventive;
    il piano nazionale della prevenzione 2014-2018 riconosce che le malattie sessualmente trasmesse facilitano l'infezione da HIV aumentandone il rischio di tre o più volte e riporta che il sistema di sorveglianza sentinella delle malattie sessualmente trasmesse ne evidenzia un aumento del +25 per cento a partire dal 2005 rispetto al periodo 1991-2004;
    il livello di attenzione nei confronti della prevenzione dell'Infezione da HIV/AIDS si è significativamente abbassato, fino a far dimenticare che l'HIV costituisce comunque una minaccia e continua a diffondersi;
    troppe persone con HIV sono vittime di episodi discriminatori, ragione per la quale non rivelano la propria condizione a familiari e perfino al proprio partner;
    l'informazione più capillare deve essere rivolta in primo luogo, anche se non esclusivamente, ai giovanissimi, per colmare le lacune circa le modalità di contagio, fare acquisire loro consapevolezza, promuovere l'uso del preservativo, evitare forme di esclusione sociale;
    il Ministero della salute, però, ha un budget per la comunicazione di appena 80 mila euro e nelle scuole sono ancora pochi i progetti di educazione sessuale;
    il diritto alla salute non può e non deve creare discriminazione;
    in occasione della giornata mondiale contro l'aids, 1o dicembre di ogni anno, il Ministro della salute ha anticipato l'imminente approvazione da parte del Consiglio superiore di sanità del piano nazionale Aids che ha fra gli obiettivi quello di ridurre il numero delle nuove infezioni e di facilitare l'accesso al test per far emergere sommerso;
    una prevenzione efficace, anche attraverso la diagnosi precoce ed il trattamento tempestivo, riducendo il numero di nuove infezioni, permetterebbe di abbattere la spesa dello Stato per le cure ambulatoriali ed i trattamenti ospedalieri delle complicanze dell'infezione da HIV/AIDS in fase avanzata;
    è necessario promuovere un nuovo modello culturale che tenga conto dei cambiamenti sociali, dell'importanza di una alimentazione equilibrata e di un corretto stile di vita, di una cultura del rispetto e dell'altro, affinché la società possa essere inclusiva e non discriminante, conformemente a quanto sancito nella Costituzione;
    la percezione che l'infezione da HIV/AIDS sia una patologia cronica non diversa da altre consentirebbe alle persone che ne sono colpite ed alle loro famiglie di trovare maggiori stimoli per reagire e per non autoescludersi dal contesto sociale, sfruttando i benefici che una carica emotiva positiva ed una forte determinazione danno per superare i momenti di difficoltà,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative per destinare maggiori risorse a progetti di informazione finalizzata alla prevenzione delle infezione da HIV/AIDS e delle malattie sessualmente trasmesse, mirati principalmente a raggiungere ragazze, ragazzi e le fasce sociali più vulnerabili;

2) ad assumere iniziative per rendere organica e sistematica l'adozione di programmi di educazione alla affettività e di educazione sessuale all'interno delle scuole secondarie di primo e secondo grado;

3) a promuovere, a livello nazionale e regionale, iniziative e campagne finalizzate ad incentivare l'esecuzione del test HIV con riferimento alla popolazione generale;

4) a promuovere, a livello nazionale, iniziative e campagne finalizzate alla lotta alla discriminazione in ambito sociale, negli ambienti scolastici e nei luoghi di lavoro, così da contrastarne le conseguenze psicologiche personali e familiari, nonché le conseguenze sociali ed economiche.
(1-01511)
«Vezzali, Francesco Saverio Romano, Parisi, Abrignani, Mottola, Rabino, D'Agostino, Marcolin».
(16 febbraio 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    il 1o dicembre di ogni anno si celebra la giornata mondiale per la lotta contro l'AIDS;
    l'infezione da HIV continua a propagarsi e l'Aids rimane la pandemia che miete più vittime al mondo; tutti i Paesi ONU si sono impegnati formalmente, attraverso la rete Unaids e in particolare il progetto «Getting to Zero 2011-2015», a ridurre a zero le nuove infezioni da HIV, entro il 2015;
    il rapporto Unaids «Global Report 2013 – Getting to Zero» sottolinea come la percentuale globale delle infezioni e dei decessi per HIV siano diminuiti per la maggiore disponibilità di accesso alle cure: le morti relative all'AIDS sono passate da 2,3 milioni nel 2005 a 1,6 milioni del 2012. Nel 2011 le persone con AIDS erano 5 milioni, nel 2012 sono divenuti 2.3 milioni;
    con la strategia Unaids 2016-2021, si è definito il quadro della politica di sviluppo globale nel corso dei prossimi 15 anni, che prevede, tra l'altro, l'obiettivo di porre fine all'epidemia di AIDS entro il 2030;
    i dati relativi all'Italia, raccolti ed elaborati dal 1984 dall'Istituto superiore di sanità, vengono pubblicati sul sito del centro operativo AIDS (COA);
    la relazione sull'AIDS 2015, ai sensi dell'articolo 8, comma 3, della legge 5 giugno 1990, n. 135, è stata inviata al Parlamento il 16 novembre 2016 e illustra le attività svolte dal Ministero della salute nell'ambito dell'informazione, prevenzione, assistenza e attuazione di progetti relativi all'Hiv/Aids;
    nella relazione si legge che, secondo i dati dell'ultimo report UNAIDS (Joint United Nations Programme on HIV and AIDS), nel 2015 ci sono state, in tutto il mondo, oltre 2 milioni di nuove diagnosi di infezione da HIV e sono 36,7 milioni le persone che vivono con l'infezione da HIV. Gli ultimi dati forniti dall'Ecdc (Centro europeo per il controllo delle malattie), riferiti al 2014, riportano circa 30.000 nuove diagnosi di infezione da HIV nei 31 Paesi dell'Unione europea ed European economic area (EU/EEA);
    in quanto Stato membro dell'Onu, l'Italia aderisce agli obiettivi Unaids per la sconfitta del virus entro il 2030, che prevedono, tra l'altro, di rendere consapevoli del proprio stato sierologico il 90 per cento delle persone con Hiv. Oggi invece, nel nostro Paese, almeno una persona con Hiv su 4 non conosce il proprio stato sierologico e circa la metà delle persone che hanno contratto il virus scopre molto tardi il proprio stato, fattore che pregiudica l'efficacia delle terapie e che può favorire la diffusione del virus;
    nel 2014 sono stati diagnosticati 858 nuovi casi di AIDS segnalati entro giugno 2015, pari a un'incidenza di 1,4 per 100.000 residenti. Dopo il Portogallo, l'Italia presenta la più alta incidenza di nuovi casi di AIDS tra i Paesi dell'Europa occidentale. In totale, 43.028 persone risultano decedute al 31 dicembre 2014. Il numero annuale di nuovi casi di AIDS al 31 dicembre 2014 è di 67.369 casi;
    il nostro Paese, con un'incidenza del 6,1 per 100.000 abitanti, si posizionava nel 2014 al 12o posto rispetto ad altri Paesi dell'Europa occidentale. I dati sono stati aggiornati dall'Istituto superiore di sanità nell'ultimo «Notiziario dell'ISS (Volume 29 – Numero 9, Supplemento 1 – 2016), Aggiornamento delle nuove diagnosi di infezione da HIV e dei casi di Aids in Italia al 31 dicembre 2015», che riporta i dati sulle nuove diagnosi di infezione da HIV e sui casi di Aids segnalati in Italia aggiornati a dicembre 2015. Tali dati portano invece l'Italia al 13o posto in termini di incidenza HIV tra le nazioni europee, registrando un lieve calo delle diagnosi di HIV e di casi di Aids;
    nel notiziario dell'ISS citato si legge che, dall'inizio dell'epidemia, nel 1982, a oggi sono stati segnalati oltre 68.000 casi di AIDS, di cui oltre 43.000 deceduti. Nel 2015 sono stati diagnosticati 789 nuovi casi di AIDS pari a un'incidenza di 1,4 nuovi casi per 100.000 residenti;
    le persone che hanno scoperto di essere HIV positive nel 2015 sono maschi nel 77,4 per cento dei casi. L'età mediana era di 39 anni per i maschi e 36 anni per le femmine. L'incidenza più alta è stata osservata nella fascia d'età 25-29 anni (15,4 nuovi casi ogni 100.000 residenti). Nel 2015 la maggioranza delle nuove diagnosi di infezione da HIV è attribuibile a rapporti sessuali non protetti, che costituiscono l'85,5 per cento di tutte le segnalazioni: eterosessuali 44,9 per cento, maschi che fanno sesso con maschi 40,6 per cento;
    nel 2015, il 28,8 per cento delle persone diagnosticate come HIV positive era di nazionalità straniera. Nello stesso anno l'incidenza è stata di 4,3 nuovi casi ogni 100.000 tra italiani residenti e di 18,9 nuovi casi ogni 100.000 tra stranieri residenti. Le incidenze più elevate tra stranieri sono state osservate in Abruzzo, Molise, Puglia, Sicilia e Sardegna;
    nel 2015, il 36,6 per cento delle persone con una nuova diagnosi di infezione da HIV è stato diagnosticato con un numero di linfociti CD4 inferiore a 200 cell/μL e il 54,5 per cento con un numero inferiore a 350 cell/μL. In Piemonte e nella Provincia autonoma di Trento l'esecuzione del test di avidità anticorpale, che permette con una buona approssimazione di identificare le infezioni recenti, ha evidenziato che nel 2015 il 17,3 per cento delle persone con una nuova diagnosi di infezione da HIV aveva verosimilmente acquisito l'infezione nei 6 mesi precedenti la prima diagnosi di HIV positività;
    nel 2015, il 32,4 per cento delle persone con una nuova diagnosi di infezione da HIV aveva eseguito il test HIV per la presenza di sintomi HIV-correlati, il 27,6 per cento in seguito a un comportamento a rischio non specificato;
    la recente indagine condotta da Doxa per il Cesvi, ha rilevato che in Italia sono soprattutto i giovani a sottovalutare i rischi della malattia: 1 su 3 pensa che esiste, ma è tenuta sotto controllo e non fa quasi più vittime, 1 giovane su 5 è a rischio, perché non ne ha sentito parlare a scuola e solo raramente sui media. Solo il 35 per cento dei ragazzi e ragazze in Italia, nonostante sappiano perfettamente che la via di trasmissione principale è quella sessuale, usa abitualmente il preservativo nelle proprie relazioni e solo il 29 per cento dichiara di aver fatto il test dell'HIV. Le giovani donne si espongono maggiormente al rischio, sentendosi protette da una relazione stabile;
    i dati suddetti sono soprattutto la diretta conseguenza della mancanza di qualsiasi forma di educazione alla sessualità nelle scuole, ed in particolare del tabù che continua a limitare l'uso del preservativo. La scuola è invece il luogo privilegiato per attuare un metodo partecipativo, che consenta di raggiungere obiettivi comportamentali che siano determinanti nel prevenire e conservare la salute. Nelle scuole e nelle università si registra, di contro, la totale mancanza di distributori di preservativi; acquistarli risulta poi ancora troppo caro per un'ampia fascia di cittadini;
    il preservativo maschile e femminile, unico metodo per prevenire tutte le malattie a trasmissione sessuale ed insieme le gravidanze non desiderate, è un presidio sanitario; per tale ragione deve esserne garantita l'accessibilità a tutti; elencare i preservativi tra i farmaci prescrivibili, effettuare campagne nelle scuole e per il pubblico generalista, inserire l'educazione alla sessualità (utile anche contro la discriminazione di genere e per l'orientamento sessuale), sono la base minima per una politica seria per la salute della popolazione relativa alle malattie sessualmente trasmissibili;
    quanto al mondo lavorativo, poi, l'infezione da HIV non è tuttora considerata una normale patologia cronica appartenente alla categoria delle malattie sessualmente trasmissibili. Anche in questo campo, a causa della disinformazione, questa malattia provoca un processo di stigmatizzazione e discriminazione: licenziamenti, trasferimenti e cambi di mansioni del tutto illegittimi e immotivati;
    la riduzione degli ostacoli per l'accesso al test per l'HIV e la conseguente diagnosi precoce rappresentano l'unica possibilità per offrire adeguate cure al sieropositivo, tant’è che in data 22 novembre 2012, in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, è stato stipulato «l'Accordo tra il Governo, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano sulla proposta del Ministro della salute di linee guida per l'utilizzo da parte delle regioni e province autonome delle risorse vincolate, ai sensi dell'articolo 1, commi 34 e 34-bis, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, per la realizzazione degli obiettivi di carattere prioritario e di rilievo nazionale per l'anno 2012», che prevede l'erogazione alle regioni di fondi funzionalizzati alla realizzazione di progetti finalizzati alla prevenzione e al contrasto della diffusione dell'HIV (linea progettuale 3: diagnosi di infezione da HIV) con una dotazione di 15 milioni di euro;
    un'analisi condotta di recente da cittadini («Cittadinanza attiva» e «LILA») ha evidenziato molte incongruenze tra i progetti presentati dalle regioni sulla «linea progettuale 3: diagnosi di infezione da HIV» e gli obiettivi definiti dall'accordo citato, tant’è che gli stessi hanno sollecitato gli organi preposti, affinché vigilino sul corretto utilizzo dei fondi dedicati;
    numerosi nuovi casi di sieropositività potrebbero essere facilmente scongiurati, attraverso l'informazione e i comportamenti corretti: attività di prevenzione fondamentale, con programmi di educazione sanitaria della popolazione, rivolti ai giovani in particolare, garantiti nel tempo e costanti nella loro applicazione;
    l'Italia si è recentemente dotata di un Piano nazionale di interventi contro l'Hiv e l'Aids, valido per il triennio 2017-2019, da poco inviato dal Ministero della salute alle regioni per essere esaminato in sede di Conferenza Stato-regioni. Tra i temi principali oggetto del piano vi è quello dell'informazione, della prevenzione innovativa, dell'accesso al test Hiv e ai trattamenti, del mantenimento in cura, della TasP, della lotta allo stigma e alle discriminazioni;
    tra i principali obiettivi del Piano nazionale di interventi contro l'Hiv e l'Aids c’è quello di ampliare e facilitare l'accesso al test per incrementare i casi di Hiv diagnosticati, fino a rendere consapevoli del proprio stato il 90 per cento delle persone con Hiv. Il risultato atteso è, dichiaratamente, quello di proteggere la salute dei singoli, consentendo loro un accesso tempestivo alle cure, dimezzando il fenomeno delle diagnosi tardive e raggiungendo per oltre il 90 per cento dei pazienti in trattamento la soppressione della carica virale;
    la criticità principale resta comunque quella delle risorse finanziarie necessarie a rendere le azioni proposte immediatamente attuabili. Al momento non è stato, infatti, annunciato nessuno stanziamento specifico a supporto di un piano che, nel medio termine, potrebbe portare a risultati molto positivi sia per la salute dei cittadini sia per i costi sociali e sanitari,

impegna il Governo:

1) ad ottemperare puntualmente all'impegno di cui all'articolo 8, comma 3, della legge 5 giugno 1990, n. 135, quindi a riferire annualmente al Parlamento sullo stato di attuazione delle strategie attivate per fronteggiare l'infezione da HIV, tenuto conto che l'ultima relazione è stata quella per l'anno 2015, inviata al Parlamento il 16 novembre 2016;

2) ad assumere iniziative volte a garantire il corretto svolgimento dei compiti del Comitato tecnico-sanitario operante presso il Ministero della salute, al quale sono state trasferite le funzioni della Commissione nazionale per la lotta contro l'AIDS e della Consulta delle associazioni di volontariato per la lotta contro l'AIDS;

3) ad assumere iniziative per ridurre l'Iva sui profilattici;

4) ad attivare iniziative di informazione e prevenzione continuative utili alla diffusione dell'uso del profilattico nei rapporti sessuali e a rendere noto il suo costo nonché la sua effettiva disponibilità nei luoghi maggiormente frequentati soprattutto dai giovani;

5) ad adottare iniziative, anche alla luce del Protocollo di intesa 2 aprile 2015 con il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, per prevedere la distribuzione possibilmente gratuita, in particolare nelle scuole e nelle università, del profilattico in quanto presidio sanitario, anche tramite appositi distributori automatici;

6) ad adottare, anche alla luce del suddetto Protocollo, iniziative permanenti di informazione e prevenzione relative all'igiene sessuale nelle scuole e nei luoghi di maggior aggregazione, così come avviene da anni in tutti gli altri Paesi europei;

7) a promuovere, in qualsiasi ambito lavorativo e scolastico, programmi di educazione e informazione finalizzati al superamento di ogni pregiudizio nei confronti delle persone sieropositive, compreso quello sull'orientamento sessuale, capace di motivare violenza e discriminazione e così disinnescare un processo di stigmatizzazione, che spesso conduce a discriminazione, licenziamenti, trasferimenti e cambi di mansioni del tutto illegittimi e immotivati;

8) a garantire la pubblicazione da parte dell'Unar di resoconti annuali sulle azioni di contrasto alla discriminazione e sulle attività di informazione e sensibilizzazione specie dei più giovani sulle tematiche di Hiv e Aids, anche in collaborazione col Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca;

9) a promuovere, per quanto di competenza del Ministero della salute, una revisione dei criteri cui riconnettere il trattamento pensionistico assistenziale in favore dei soggetti affetti da immunodeficienza, considerando, oltre all'attuale criterio tabellare basato sul numero di linfociti CD4 presenti nel sangue, ulteriori parametri obiettivi da stabilire congiuntamente alle associazioni e agli esperti del settore;

10) ad adottare iniziative per sostenere e sviluppare la presenza di cliniche metaboliche ospedaliere, al fine di curare malattie cronico degenerative quali; cancro, leucemie, AIDS, diabete mellito di secondo tipo, Alzheimer, Parkinson, sclerosi multipla, sclerosi laterale amiotrofica, malattie auto-immuni, malattie allergiche, intolleranze alimentari, osteoporosi;

11) a ottemperare all'impegno verso le istituzioni internazionali Unaids e Ecdc per la stesura del rapporto sullo stato dell'epidemia e sulle azioni per contrastarla (country progress reports);

12) a vigilare sul corretto utilizzo dei fondi erogati alle regioni per la realizzazione degli obiettivi di carattere prioritario e di rilievo nazionale, così come da accordo del 22 novembre 2012 in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano;

13) a garantire sull'intero territorio nazionale quanto previsto dalla legge n. 135 del 1990 in merito all'anonimato del test HIV, al fine di tutelare integralmente la riservatezza delle persone sieropositive;

14) ad intervenire per assicurare il dovuto supporto a chi ricorre al self-test anche sulla base dell'approccio «community based» indicato proprio dal Piano nazionale di interventi contro l'Hiv e l'Aids, nonché ad attivarsi affinché sia ampliata e migliorata l'offerta del test per l'Hiv nelle strutture pubbliche, eliminando le barriere che ne limitano l'accesso, a partire dal mancato rispetto dell'anonimato;

15) a prevedere, ai fini dell'attuazione del Piano nazionale di interventi contro l'Hiv e l'Aids, forme di collaborazione e coinvolgimento del mondo dell'associazionismo con maggiore esperienza nel settore;

16) a dare in tempi brevi piena attuazione al Piano nazionale di interventi contro l'Hiv e l'Aids, valido per il triennio 2017-2019, prevedendo a tal fine, già dal prossima disegno di legge di bilancio, l'apposito stanziamento di risorse finanziarie necessarie a programmare, per i prossimi tre anni, le azioni ivi proposte immediatamente attuabili, con particolare riferimento a quelle volte ad ampliare e facilitare l'accesso al test dell'Hiv, dando loro priorità, nonché a pubblicare, sul sito internet del Ministero della salute, con cadenza annuale, lo stato di avanzamento del piano e le modalità di utilizzo dei relativi fondi;

17) a favorire, nel più breve tempo possibile, il raggiungimento dell'accordo in sede di Conferenza Stato-regioni sul nuovo piano nazionale contro l'Hiv e l'Aids.
(1-00293)
(Ulteriore nuova formulazione) «Di Vita, Silvia Giordano, Mantero, Grillo, Cecconi, Colonnese, Brugnerotto, Lorefice, Sorial, Nuti, Nesci, Fico, Marzana, Luigi Gallo, Vacca, Battelli, Simone Valente, Baroni, Cozzolino, Vignaroli, Dieni, Dadone, Di Benedetto, D'Uva, Brescia, Chimienti».
(21 dicembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    a settembre 2016 è stato sottoscritto dagli Stati della regione europea dell'Oms, l’«Action plan for the health sector response to HIV in the WHO European Region», sulla base delle evidenze che indicano una ripresa dell'infezione nell'area di pertinenza e che impegna i paesi a dotarsi di strumenti e risorse per contrastare l'infezione;
    sulla base di tale documento, è stato presentato il «Piano nazionale di interventi contro HIV e AIDS» valido per il triennio 2017-2019, da pochi giorni inviato dal Ministero della salute alle regioni per essere esaminato in sede di Conferenza Stato-regioni;
    dall'inizio dell'epidemia, circa 35 anni fa, l'aids ha fatto nel mondo 35 milioni di morti e 70 milioni di contagiati;
    le terapie antiretrovirali hanno permesso di controllare la malattia, ma non tutti nel mondo hanno uguale possibilità di accedervi: solo 17 milioni di persone, che è comunque il doppio di quanti erano in cura nel 2010 (dati rapporto Unaids Conferenza di Durban 2016);
    oggi in Italia le persone con Hiv, secondo dati forniti in occasione del 15o Congresso internazionale della Simit (Società italiana di malattie infettive e tropicali), sono oltre 90.000, attualmente o in terapia o in contatto con i centri specializzati. Si stima che ce ne siano altre 20.000/30.000 che non sono consapevoli dell'infezione o non sono in contatto con i centri. Delle circa 4.000 nuove diagnosi di infezione registrate ogni anno, oltre la metà è diagnosticata quando l'infezione è già in uno stadio avanzato. Un dato, quest'ultimo, che non accenna a diminuire nonostante ormai si sappia, ma evidentemente non abbastanza, quali comportamenti preventivi sia necessario tenere;
    secondo l'ultimo rapporto dell'Istituto superiore di sanità nel 2015, sono state segnalate 3.444 nuove diagnosi di infezione da HIV pari a un'incidenza di 5,7 nuovi casi di infezione da HIV ogni 100.000 residenti. Un dato che segna un calo del 10 per cento rispetto alle 3.850 nuove diagnosi del 2014, le regioni con l'incidenza più alta sono state il Lazio, la Lombardia, la Liguria e l'Emilia-Romagna;
    sempre secondo questo rapporto l'Italia si colloca al 13o posto in termini di incidenza delle nuove diagnosi HIV tra le nazioni dell'Unione europea, ma le stime dell'Istituto superiore di sanità indicano che in Italia potrebbero vivere 135.000 persone con Hiv;
    secondo i dati del bollettino del sistema di sorveglianza Hiv/Aids dell'Istituto superiore di sanità i casi di Hiv pediatrico a causa della trasmissione materno infantile sono in ripresa: 9 casi registrati nel 2013-14 rispetto ai 4 del 2007-2008;
    il sistema di sorveglianza delle nuove diagnosi di infezione da Hiv e il sistema di sorveglianza dei casi di AIDS costituiscono due basi di dati che vengono permanentemente aggiornate dall'afflusso continuo delle segnalazioni inviate al centro operativo AIDS (COA) dell'Istituto superiore di sanità (ISS) con l'obiettivo di avere un quadro aggiornato della frequenza e della distribuzione dei casi ossia quanta gente viva con l'Hiv e quante persone raggiungano lo stadio dell'Aids in Italia;
    secondo un'inchiesta condotta dalla associazione Lila pare però che i circa 4.000 casi di Hiv che si registrano ogni anno non sia totalmente veritieri ma siano invece sottostimati. Non esistono dati oggettivi su quanti test per l'Hiv vengano somministrati nel nostro Paese, né se sono in diminuzione, poiché l'osservatorio riceve le segnalazioni dei casi positivi ma non di quelli negativi;
    gli stessi responsabili del sistema di sorveglianza parlano di dati certamente sottodimensionati. La dottoressa Barbara Suligoi, direttrice del centro operativo Aids dell'Istituto superiore di sanità, afferma in un'intervista che la sovrapposizione di due analoghi sistemi di sorveglianza istituiti da due leggi diverse possono portare a una perdita stimabile anche superiore al 10 per cento delle nuove diagnosi. Sembra infatti assodato che gli operatori sanitari tendano a registrare i nuovi casi solo in un registro piuttosto che in entrambi;
    sia nel resto del mondo, che nel nostro Paese, questa malattia non è stata sconfitta, semmai essa non è più all'attenzione dell'opinione pubblica con gravi conseguenze sul piano della prevenzione ed importanti ricadute in termini di salute pubblica;
    infatti, nel nostro Paese, il rapporto sessuale non protetto è la prima causa di infezione e l'Italia è all'ultimo posto in Europa nell'uso del profilattico. L'inadeguata percezione del rischio di Aids tra la popolazione è quindi ancora molto alta, come è diffusa l'errata convinzione che la malattia riguardi solo particolari gruppi di persone maggiormente esposti al rischio Hiv, ad esempio i tossicodipendenti e gli omosessuali;
    pesante rimane invece lo stigma contro chi ha contratto la malattia. Si pensi che il 37 per cento degli italiani non si è mai sottoposto al test HIV e il 5 per cento delle persone che vivono con HIV non lo avrebbe mai detto al proprio partner. Il 40 per cento non rivela ai familiari di aver contratto il virus e il 74 per cento non lo dichiara nel contesto lavorativo;
    drammatica anche la situazione dei figli contagiati durante la gravidanza. Secondo i dati 2012/2013 raccolti nel registro pediatrico tenuto dall'ospedale Anna Meyer di Firenze, oggi ci sono 656 tra giovani e adolescenti che hanno acquisito l'Hiv dalla madre negli anni ’80-’90, che continuano ad essere discriminati ed emarginati dalla comunità e dalle istituzioni, proprio perché manca informazione e consapevolezza sulla trasmissione del virus che non impedisce le normali relazioni con gli altri;
    è grave che, nel 2016, in Italia una donna in gravidanza non venga sottoposta al test Hiv e che questo abbia comportato la trasmissione del virus al figlio. Le linee guida sulla gravidanza prevedono che a tutte le donne in gravidanza sia eseguito il test Hiv, uno nel primo trimestre e uno nell'ultimo trimestre della gestazione, poiché permettono di escludere l'infezione da Hiv nella madre oppure di assicurarle le terapie che impediscono la trasmissione materno-infantile del virus;
    anche recenti episodi di cronaca hanno portato all'attenzione casi nei quali ciò non è avvenuto. Emblematico è il caso del trentenne romano in carcere per aver trasmesso il virus a molte donne, una delle quali purtroppo lo avrebbe trasmesso a suo figlio durante la nascita. A questa donna è evidente che nessuno dei due test è stato somministrato ed oggi il bambino ne paga le conseguenze;
    la terapia farmacologica oggi ha elevato di molto le prospettive di vita ma non la qualità, si tratta di una vita comunque sempre sotto controllo, perché questo è un virus che accelera il processo di invecchiamento;
    la riduzione di nuovi casi di malattia conclamata non è infatti tanto attribuibile ad una riduzione delle infezioni da Hiv, quanto piuttosto alle nuove terapie di farmaci antiretrovirali che hanno allungato in modo significativo il periodo di tempo che trascorre tra l'infezione e la malattia;
    la giornata per la lotta all'Aids (1o dicembre), oltre a mantenere viva la memoria delle tante persone scomparse nei 35 anni di epidemia, ha l'obiettivo di mantenere e rinforzare l'informazione sulla necessità di prevenire il contagio, incrementare il sostegno alle persone con infezione da Hiv (riduzione dello stigma), sensibilizzare le persone ad eseguire il test per l'Hiv (prevenire nuovi casi) e, non ultimo, supportare le persone che tutti i giorni lavorano e studiano in questo ambito della medicina,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative per introdurre nel percorso scolastico, a partire dalle scuole inferiori, programmi di educazione alla sentimentalità e sessualità propedeutici a qualsiasi intervento preventivo su Hiv e tutte le altre infezioni sessualmente trasmissibili che sono in aumento tra i giovani;

2) ad avviare campagne informative e preventive, rivolte soprattutto alle popolazioni maggiormente vulnerabili all'Hiv e alle infezioni sessualmente trasmissibili per diffondere la cultura e la conoscenza delle patologie parenterali o sessualmente trasmesse, ma anche per educare alle buone pratiche e alla prevenzione;

3) ad attivarsi con iniziative di informazione e comunicazione sia verso i cittadini che nei confronti della classe medica affinché sia garantito il rispetto delle linee guida sulla gravidanza per quanto riguarda il test dell'Hiv;

4) ad avviare, con il coinvolgimento dei Ministeri interessati, programmi nazionali per la prevenzione della trasmissione e il contrasto dello stigma sociale, veicolando messaggi tra i cittadini, soprattutto rivolti alle donne, nel mondo della scuola e nel mondo socio-sanitario;

5) ad adoperarsi affinché sia definitivamente operativa l'unificazione dei due registri Hiv e Aids, al fine di poter rilevare con maggiore esattezza la diffusione dell'infezione;

6) ad adoperarsi per il superamento di tutti gli ostacoli normativi al fine di rendere immediatamente attuabili le indicazioni contenute nel «Piano nazionale di interventi contro l'Hiv e l'Aids» e relative ad una implementazione dell'offerta del test Hiv e della sua demedicalizzazione come previsto dalle Agenzie internazionali e all'accesso al test per i «grandi minori»;

7) ad assumere iniziative volte a reperire adeguate risorse per l'avvio del piano e per l'attuazione delle innovazioni contenute nel «Piano nazionale di interventi contro l'Hiv e l'Aids», che devono essere portate a compimento nel più breve tempo possibile.
(1-01437)
(Nuova formulazione) «Lenzi, Amato, Paola Boldrini, Paola Bragantini, Capone, Casati, D'Incecco, Fossati, Patriarca, Piazzoni, Miotto, Carnevali».
(28 novembre 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    l'HIV è una malattia che riguarda potenzialmente gran parte della popolazione atteso che, negli anni, si è osservato un cambiamento delle modalità di trasmissione dell'infezione, con un aumento esponenziale dei casi attribuibili a trasmissione sessuale, che rappresentano oggi l'85 per cento del totale; in particolare, tali casi sono aumentati dall'1,7 per cento del 1985 al 43,2 per cento nel 2014 e quelli attribuibili a trasmissione tra omosessuali nello stesso periodo sono aumentati dal 6,3 per cento, al 40,9 per cento;
    sono stati segnalati, nel 2014, al Centro operativo AIDS dell'Istituto superiore di sanità (COA), 858 diagnosi di AIDS, pari a un'incidenza di 1,4 nuovi casi per 100.000 residenti;
    la percentuale di stranieri tra le nuove diagnosi di infezione da HIV è stata del 27,1 per cento nel 2014, con un numero assoluto di casi pari a 1.002. In particolare, l'incidenza delle nuove diagnosi di infezione da HIV è stata di 19,2 nuovi casi per 100.000 stranieri residenti rispetto a un'incidenza tra italiani residenti dai 4,7 nuovi casi per 100.000;
    nel 2014, l'emersione dello stato di sieropositività al virus dell'HIV è avvenuto principalmente per cause diverse dall'accesso volontario al test dell'HIV; nello specifico, nel 26,4 per cento dei casi, il test HIV è stato eseguito per la presenza di sintomi HIV-correlati e nel 12,9 per cento dei casi in seguito ad accertamenti per altra patologia o alla diagnosi di un'infezione sessualmente trasmessa;
    il livello di consapevolezza dei rischi di contagio e la conoscenza dei comportamenti per evitare l'infezione sono drammaticamente bassi in tutta la popolazione ed in particolare nelle persone più giovani;
    una recente ricerca condotta a livello nazionale ha evidenziato che adulti e adolescenti sono disinformati o male informati rispetto all'HIV; a titolo di esempio, solo il 5,2 per cento dei ragazzi tra 15 e 19 anni sa che cosa sia l’«intervallo finestra», informazione chiave per poter accedere correttamente al test per l'HIV e, ancora oggi, il 20 per cento delle persone crede che l'AIDS sia la malattia di gay e tossicomani;
    negli ultimi anni, infatti, è aumentato il numero delle persone che arrivano allo stadio di AIDS conclamato ignorando la propria sieropositività per cui diminuiscono sensibilmente le probabilità di risposta positiva alle cure: l'ultimo dato disponibile indica una proporzione del 67,9 per cento;
    anche nel 2015, sono attese in Italia circa 3.800 nuove diagnosi di infezione da HIV, pari a 6,1 nuovi casi per 100.000 residenti; un dato che si è mantenuto costante negli ultimi anni e che pone il nostro Paese al dodicesimo posto tra le nazioni dell'Unione europea;
    questi dati mettono in evidenza che l'HIV non è affatto un problema risolto, come qualche organo di comunicazione ha semplicisticamente riportato e come una lettura superficiale dei dati potrebbe far credere; la malattia, infatti, è ancora presente e fortemente in crescita in alcune specifiche popolazioni;
    sarebbe un grave errore continuare a pensare all'HIV/AIDS come ad una malattia che riguarda solo una parte ristretta della popolazione, come in effetti, in gran parte, è stato in Italia negli anni ’80;
    il nostro Paese eccelle nella cura dell'HIV, ma risulta estremamente carente nella prevenzione, sia per l'assenza di azioni informative rivolte alla popolazione, sia per la mancanza di un serio progetto di formazione in materia sanitaria delle giovani generazioni e, in particolare, in materia di prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili;
    appare ormai improcrastinabile l'esigenza di intervenire affinché siano programmate e sviluppate serie e concrete iniziative per la prevenzione e la cura efficace dell'HIV nel nostro Paese;
    è necessario, in particolare, sviluppare progetti finalizzati ad approfondire il livello di conoscenza della popolazione per evitare che persone non consapevoli di essere positive all'HIV ritardino involontariamente l'accesso alle cure con gravi rischi per la propria salute,

impegna il Governo:

1) a provvedere alla concreta attuazione del nuovo piano nazionale d'intervento contro l'Aids, in via di approvazione da parte del Consiglio superiore di sanità, allo scopo di facilitare l'accesso al test, garantire le cure contro la malattia, anche attraverso i farmaci innovativi, e favorire il mantenimento in terapia dei pazienti;

2) ad assumere iniziative per finanziare specifici interventi pluriennali relativi a prevenzione, informazione e ricerca sull'AIDS;

3) ad assumere iniziative per inserire la lotta all'HIV/AIDS e alle malattie sessualmente trasmissibili nei programmi di studio per le nuove generazioni e sostenere l'informazione e il coinvolgimento attivo delle popolazioni più a rischio.
(1-01494)
«Cimbro, Carrozza, Fitzgerald Nissoli, Romanini, Capozzolo, Russo, Campana, Realacci, Venittelli, Garavini, Rostellato, Pinna, Melilla, Mognato».
(25 gennaio 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    l'Aids rimane una delle cause principali di morte fra gli adolescenti: nel 2015 ha causato 41.000 vittime fra i ragazzi tra i 10 e i 19 anni, secondo il settimo rapporto sui bambini e l'Aids «For Every Child: End AIDS». Il mondo «ha fatto enormi progressi per porre fine all'AIDS, ma la battaglia è ancora lontana dall'essere conclusa, soprattutto per quanto riguarda i bambini e gli adolescenti», ha dichiarato il direttore generale Unicef Anthony Lake;
    nel rapporto viene sottolineato che sono stati fatti considerevoli progressi nella prevenzione della trasmissione materno infantile dell'Hiv. Nel mondo, fra il 2000 e il 2015, sono stati evitati 1,6 milioni di nuovi contagi fra i bambini. Nel 2015 sono state colpite 1,1 milioni di persone fra bambini, adolescenti e donne;
    secondo l'Unicef i bambini fra 0 e 4 anni che convivono con l'Hiv rispetto a tutti gli altri gruppi di età, vanno incontro ai maggiori rischi di morte causata dall'Aids, e questi casi sono spesso diagnosticati e curati troppo tardi. Solo alla metà dei bambini nati da madri sieropositive viene effettuato un test per l'Hiv, nei primi due mesi di vita, e in Africa Subsahariana l'età media dei bambini, che cominciano a ricevere cure e ai quali le madri hanno trasmesso il virus dell'Hiv, è di circa 4 anni;
    nel 2015 nel mondo erano circa 2 milioni gli adolescenti fra i 10 e i 19 anni che convivevano con l'Hiv. Nell'Africa Subsahariana, la regione maggiormente colpita, 3 nuovi casi su 4 registrati fra gli adolescenti dai 15 ai 19 anni hanno colpito le ragazze;
    il 2015 è stato un anno record per la diffusione del virus nel continente europeo: 153.407 casi rispetto ai 142.000 dell'anno precedente. Circa l'80 per cento delle persone con Hiv si trova nei Paesi dell'Europa dell'Est, il 3 per cento nel Centro Europa e il 18 per cento negli Stati dell'Ovest. In Italia le nuove diagnosi di infezione Hiv nel 2015 sono state più di 3.000;
    si osserva un aumento dell'età mediana al momento della diagnosi di infezione da 26 anni per i maschi e 24 anni per le femmine nel 1985 a, rispettivamente, 39 e 36 anni nel 2015 (sono escluse le persone di età inferiore ai 15 anni);
    i casi di Aids, secondo gli ultimi dati disponibili, registrati in Italia nel 2015 sono stati circa 789, pari a un'incidenza di 1,4 per 100.000 residenti, e i casi di prevalenza ammontano a 23.385 nel 2013. Inoltre, il 28,8 per cento delle persone diagnosticate come Hiv positive è di nazionalità straniera;
    la popolazione immigrata straniera è andata fortemente crescendo negli ultimi anni in Italia e spesso è di provenienza da Paesi ad alta endemia (cioè dove è alta la diffusione del virus). La proporzione di stranieri tra le nuove diagnosi di infezione da Hiv è aumentata dall'11 per cento nel 1992 a un massimo di 32,9 per cento nel 2006, nel 2015 è stata del 28,8 per cento, con un numero assoluto di casi pari a 99. Negli stranieri non vi sono forti differenze di genere (nel 2015 il 58,6 per cento erano uomini e 41,4 per cento donne), l'età mediana è più bassa rispetto a quella degli italiani e la modalità di trasmissione più importante è quella per via eterosessuale. Tra gli stranieri, l'incidenza dell'Hiv è più elevata in Abruzzo, Campania, Molise, Puglia, Sicilia e Sardegna. Tra gli stranieri, la quota maggiore di casi era costituita da eterosessuali femmine (36,9 per cento), mentre tra gli italiani da Msm (48,1 per cento);
    analizzando l'andamento temporale delle notifiche di Aids si è passati da un caso del 1982 (il primo noto in Italia) ai 5.653 del 1995, con una crescita che è stata costante fino alla metà degli anni novanta. Dal 1996 si è assistito ad una riduzione dei nuovi casi, dapprima molto rapida e dal 2001 meno marcata. Rapportando i nuovi casi sulla popolazione residente (tassi di incidenza), le regioni più colpite nel 2010 sono state nell'ordine: Toscana, Lazio, Liguria, Lombardia ed Emilia-Romagna, con un gradiente Nord-Sud nella diffusione della malattia essendo meno colpite le regioni meridionali e insulari;
    nel biennio 2012-2013 si stima che, in Italia, i decessi annuali con Aids sono circa 645 (ultimi dati disponibili); complessivamente, nel periodo 1983-2013, i decessi sono stati oltre 43 mila, con un andamento temporale simile a quello dei nuovi casi, ma il decremento dalla seconda metà degli anni novanta è stato molto più marcato per merito dell'introduzione della terapia antiretrovirale. Si è così passati dai primissimi decessi del 1983 ai 4.582 del 1995 con una crescita costante, dopo di che si è avuta una forte diminuzione fino ai valori attuali;
    il calo dei nuovi casi e dei decessi non è l'unico fenomeno che si è registrato nell'ultimo decennio. Vi sono stati numerosi altri cambiamenti che si sono potuti osservare grazie all'esistenza di sistemi di sorveglianza nazionali, regionali e provinciali dell'infezione da Hiv (cioè dello stato di sieropositività) che si affiancano a quelli della malattia conclamata (Aids). Tramite questi sistemi di monitoraggio epidemiologico, che operano con procedure rispettose della priyacy, è stato possibile riconoscere con tempestività i cambiamenti che si sono verificati negli ultimi anni nelle caratteristiche di diffusione dell'Hiv e la maggior durata dello stato di infezione pre-Aids in seguito all'introduzione di nuove terapie, farmacologiche. A questo proposito il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con decreto del 31 marzo 2008, ha promosso l'attivazione del sistema di sorveglianza delle nuove diagnosi di infezione da Hiv, provvedendo ad aggiungere l'infezione da Hiv all'elenco della classe III delle malattie infettive sottoposte a notifica obbligatoria. Sulla scorta di tale decreto, varie regioni stanno organizzando l'attivazione del sistema regionale di sorveglianza;
    l'Aids è attualmente una malattia prevalentemente a trasmissione sessuale (MST). In passato, sia in Italia che in Europa, l'Hiv si trasmetteva prevalentemente mediante lo scambio di siringhe infette tra chi faceva uso di droghe iniettabili (come ancora sta avvenendo in molte parti del mondo, ad esempio in Europa Orientale od in Asia). Attualmente però la modalità principale di trasmissione è quella sessuale, in particolare quella eterosessuale. Le notifiche di infezione di Hiv associate a trasmissione sessuale sono aumentati dall'8,0 per cento del 1985 all'85,5 per cento del 2015. Questi cambiamenti impongono il superamento del concetto di categoria a rischio (omosessuali, tossicodipendenti, e altro); è necessario pertanto ragionare in termini di comportamenti a rischio, cioè rapporti sessuali non protetti, elevato numero di partner, non conoscenza dello stato di eventuale sieropositività del partner, scambio di siringhe. Si assiste, inoltre, ad un cambiamento delle modalità di trasmissione. Lo stesso fenomeno si registra anche dall'analisi dei casi conclamati di Aids: prima del 2000 il 61,4 per cento era dovuto a scambio di siringhe, mentre la trasmissione sessuale (etero, omo e bisessuale) interessava il 35,8 per cento, nel biennio 2014-2015 questi valori sono rispettivamente dell'11,3 per cento e del 79,8 per cento;
    ciò si verifica sia in seguito ai cambiamenti nei comportamenti individuali, sia per effetto della terapia farmacologia che ritarda, anche di molto, la progressione dell'Hiv. Si è così passati da un'età di mediana della diagnosi di Aids di 34 anni negli uomini e di 32 anni nelle donne nel 1995 a, rispettivamente, 45 e 43 anni nel 2015. Si preferisce utilizzare l'età mediana a quella media quando vi sono intervalli di valori piuttosto ampi;
    ciò è l'effetto della terapia antiretrovirale ad alta efficacia che ritarda sensibilmente la comparsa di sintomi, allunga anche di molto la sopravvivenza e soprattutto migliora la qualità di vita dei pazienti con Aids conclamato. Un altro dato interessante è che oltre il 79,9 per cento dei casi di Aids diagnosticati nel 2015 non ha fatto terapia antiretrovirale prima della diagnosi;
    ancora troppe persone in Italia scoprono di aver contratto l'Hiv quando compaiono i primi sintomi dell'Aids: nel 2015 il 74,5 per cento delle persone a cui è stata fatta diagnosi di Aids ha fatto il primo test di Hiv prima di 6 mesi. È quello che i tecnici chiamano ritardo di diagnosi. Questo fenomeno è segnale di una bassa percezione del rischio, soprattutto fra chi si infetta per via sessuale e fra gli stranieri. Si stima, infatti, che un quarto delle persone Hiv positive, in Italia, non conosca il proprio stato di sieropositività. È importante, invece, riconoscere precocemente l'avvenuta infezione da Hiv, da un lato per intraprendere la terapia farmacologica antiretrovirale che rallenterà fortemente la progressione del virus e dall'altro per assumere comportamenti consapevoli verso il prossimo. Questi vanno sempre attuati indipendentemente dal conoscere o meno il proprio stato di sieropositività. Il ritardo di diagnosi è più frequente in chi ha contratto l'infezione per via sessuale (in particolare quella eterossessuale). La diagnosi precoce permette, inoltre, non solo di avviare prima la terapia farmacologica, ma anche e soprattutto di modularla sulla singola persona riducendone gli effetti collaterali;
    dal 1994 non si registrano nuovi casi sia tra gli emofilici, che tra i trasfusi e sono in netto calo i nuovi casi di Hiv pediatrico (negli ultimi anni poche unità all'anno). Ciò è il frutto, da un lato, del controllo costante della provenienza del sangue: selezione ed educazione dei donatori ad una maggior consapevolezza e controllo di laboratorio di ogni singola sacca; dall'altro, è l'effetto dell'applicazione delle linee guida che prevedono l'effettuazione del test Hiv in gravidanza ed il trattamento antiretrovirale nelle donne gravide risultate positive. Sebbene questa pratica dovrebbe essere assicurata a tutte le donne gravide, a livello mondiale, purtroppo, solo una bassa percentuale delle donne incinta può effettuare questo test. Senza varcare i confini del nostro Paese, molti obiettivi rimangono ancora da perseguire, soprattutto in ambito educativo: non è ancora soddisfacente la conoscenza dell'Hiv di come si trasmette e di come si prevenga il contagio. Troppe persone, soprattutto giovani, non conoscono l'uso corretto dei sistemi di protezione durante i rapporti sessuali (ad esempio preservativo) o non ne accettano a priori l'uso pur avendo comportamenti fortemente a rischio;
    gli ultimi dati disponibili riportano che 200.507 sono le pillole dei cinque giorni dopo vendute in farmacia da gennaio a ottobre 2016, nel 2014 erano 13.401. Nel giro di due anni, sempre nello stesso periodo, l'aumento è di 15 volte. Tra il 2014 e il 2015 la crescita è del 664,2 per cento tra il 2015 e il 2016 del 95,8 per cento. La loro funzione è mettere al riparo da una possibile gravidanza dopo un rapporto non protetto (o in cui il metodo contraccettivo ha fallito). Tale incremento di vendite è da considerarsi un ulteriore campanello di allarme riguardo comportamenti sessuali a rischio, che non coinvolge solo la possibilità di gravidanze, ma di un serio rischio di contrarre malattie a trasmissione sessuale tra cui l'Hiv,

impegna il Governo:

1) a dare piena attuazione al nuovo piano nazionale contro l'Aids, permettendo di adeguare la lotta alla malattia al nuovo contesto storico e sociale in cui si inserisce, prevedendo la messa a punto e la realizzazione di modelli di intervento per ridurre il numero delle nuove infezioni; per facilitare l'accesso al test facendo emergere il «sommerso», garantire a tutti l'accesso alle cure, favorire il mantenimento cura dei pazienti diagnosticati e in trattamento, migliorare lo stato di salute e di benessere delle persone che vivono con Hiv e Aids, coordinare i piani di intervento sul territorio nazionale, tutelare i diritti sociali e lavorativi delle persone che vivono con Hiv e Aids, promuovere la lotta allo stigma e promuovere l'informazione e il coinvolgimento attivo delle popolazioni a rischio;

2)  a promuovere, all'interno delle scuole, a partire dall'ultimo anno delle medie, la cultura e la conoscenza delle patologie parenterali, portando all'interno delle strutture figure professionali quali infermieri e medici infettivologi per educare alle buone pratiche e alla prevenzione;

3)  a promuovere la pubblicità progresso a scopo divulgativo e informativo, prevedere la distribuzione di opuscoli e cartoline esplicative sull'Aids in ambienti frequentati da giovani e non solo, come in locali da ballo e di divertimento in genere, nonché negli ambulatori dei medici di base e specialisti;

4)  ad assumere iniziative di competenza affinché i medici di base, nel prendere contatti con i propri pazienti di giovane età, si adoperino per dare loro tutte le informazioni necessarie sul tema.
(1-01567)
«Rondini, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caparini, Castiello, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Molteni, Pagano, Picchi, Gianluca Pini, Saltamartini, Simonetti».
(31 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    nel 2008 è stato istituito il sistema di sorveglianza delle nuove diagnosi di infezione di Hiv con decreto ministeriale del 31 marzo 2008 (Gazzetta Ufficiale n. 175 del 28 luglio 2008). In seguito alla pubblicazione del decreto ministeriale, in modo progressivo, tutte le regioni si sono uniformate raggiungendo, nel 2012, la copertura completa del territorio italiano. Allo stato attuale il registro delle nuove diagnosi di infezioni da Hiv e il registro nazionale dell'Aids non sono unificabili, né compatibili in quanto il flusso informativo, la scheda di raccolta dati e l'identificativo individuale sono diversi;
    il centro operativo Aids (Coa) dell'Istituto superiore di sanità, fin dal 1984, raccoglie i dati relativi alle notifiche di Aids e, dal 2008, i dati delle nuove diagnosi di infezione da Hiv;
    il «Notiziario dell'Istituto superiore di sanità», volume 29, numero 9, supplemento 1, del dicembre 2016, ha pubblicato l'aggiornamento delle nuove diagnosi di infezione da Hiv e dei casi di Aids in Italia alla data del 31 dicembre 2015;
    nel 2015 sono state riscontrate oltre 3.400 nuove diagnosi di infezione da Hiv, pari a 5,7 nuovi casi per 100.000 residenti; le regioni più interessate dalle nuove diagnosi sono state il Lazio, la Lombardia, la Liguria e l'Emilia-Romagna;
    le nuove diagnosi nell'anno 2015 hanno riguardato, in oltre il 70 per cento dei casi, uomini con una età media di 39 anni, mentre per le donne l'età media è risultata essere di 36 anni; il fatto maggiormente allarmante è che l'incidenza più alta è stata riscontrata nella fascia di età tra i 25 e i 29 anni, ovvero oltre il 15 per cento dei nuovi casi ogni 100.000 abitanti;
    nel 2015 ben l'85 per cento delle nuove diagnosi di infezione da Hiv riscontrate sono derivanti da rapporti sessuali non protetti, nel 2015, nel 54,5 per cento dei casi, segnalati con una nuova diagnosi di Hiv, era già in fase avanzata di malattia, un segnale preoccupante per quanto riguarda la prevenzione;
    nel 2015, il 32,4 per cento delle persone con una nuova diagnosi di infezione da Hiv ha eseguito il test per la presenza di sintomi che facevano sospettare un'infezione da Hiv o l'Aids; solo il 27,6 per cento in seguito a un comportamento a rischio non specificato e il 13,2 per cento casualmente nel corso di accertamenti per un'altra patologia;
    per quanto riguarda l'Aids, in Italia, dal 1982, ad oggi sono stati registrati oltre 68.000 casi di questi oltre 43 mila sono deceduti;
    nel 2015, sono stati diagnosticati 789 nuovi casi di Aids con una incidenza di 1,4 nuovi casi per 100.000 residenti, secondo l'aggiornamento pubblicato dal Notiziario dell'Istituto superiore di sanità, l'incidenza di Aids è in lieve diminuzione negli ultimi tre anni;
    nel 2015, solo meno di un quarto delle persone diagnosticate con Aids ha eseguito una terapia antiretrovirale prima della diagnosi, questo segnala il fatto che si tratta di poche persone che hanno eseguito una terapia antiretrovirale prima della diagnosi nella consapevolezza della propria sieropositività; nell'ultimo decennio, è aumentata la proporzione delle persone con nuova diagnosi di Aids che ignorava la propria sieropositività e ha scoperto di essere Hiv-positiva nei pochi mesi precedenti la diagnosi di Aids, passando dal 53,8 per cento del 2006 al 74,5 per cento del 2015;
    è del tutto evidente che la sottovalutazione del rischio e la, ancora, insufficiente prevenzione non consentono un efficace contrasto del virus dell'Hiv, tenuto conto che negli ultimi anni si è fatta strada una idea che il problema era superato, restando relegato al sud del mondo;
    l'Hiv continua a diffondersi anche a causa di una evidente minore tensione e scarsa presenza di campagne di comunicazione e di prevenzione che, al contrario, sono un elemento essenziale con particolare riguardo alla popolazione più giovane;
    la prevenzione in passato è risultata essere efficace, lo dimostrano i dati relativi agli emofiliaci, ai trasfusi e il calo evidenziatosi tra i casi di Hiv pediatrico, grazie alla effettuazione del test Hiv in gravidanza ed il trattamento antiretrovirale nelle donne in gravidanza riscontrate come positive;
    i dati sopra riportati affermano con chiarezza che la trasmissione del virus Hiv preponderante è quella sessuale; da qui la necessità di riprendere con maggiore forza e continuità una informazione e sensibilizzazione capillare, rivolta in particolare verso giovani e stranieri, una informazione che può contribuire concretamente a ridurre il numero dei nuovi contagi;
    l'Italia aderisce agli obiettivi dell'Unaids per la sconfitta del virus entro il 2030, che prevedono, tra l'altro, di rendere consapevoli del proprio stato sierologico il 90 per cento delle persone con Hiv. Oggi, invece, nel nostro Paese, almeno una persona con Hiv su 4 non conosce il proprio stato sierologico e circa la metà delle persone che hanno contratto il virus scopre molto tardi il proprio stato, fattore che pregiudica l'efficacia delle terapie e che può favorire la diffusione del virus;
    la Lila, in occasione della Giornata mondiale di lotta all'Aids, tra il novembre 2016 e il 1o dicembre 2016, ha offerto un servizio di self test in 9 città presso le sedi della Lila, effettuando oltre 700 test rapidi per l'Hiv che sono stati eseguiti in meno di 15 giorni; il 41 per cento dei quali «first test», ovvero riferibili a persone che effettuavano per la prima volta questo accertamento;
    l'esperienza dell'iniziativa della Lila, gratuita e con spese a carico dell'associazione, conferma l'efficacia dei test e la necessità di facilitare l'accesso al test, promuovendo la consapevolezza del proprio stato sierologico. La gratuità, l'anonimato, la raggiungibilità in orari non coperti dai servizi tradizionali, l'offerta di counselling, la natura non-istituzionale della struttura, una relazione non-giudicante e alla pari, sono stati gli elementi di forza di questo approccio al test denominato «community-based»; questo modello è raccomandato da tutte le più importanti agenzie internazionali, Unaids e Oms in primis, che lo giudicano fondamentale per arrivare a target altrimenti difficilmente raggiungibili;
    l'iniziativa della Lila ha messo in risalto il carattere commerciale del self-test disponibile dal dicembre 2016 nelle farmacie italiane; un test sul quale è lecito esprimere dubbi e perplessità, infatti si tratta di un prodotto, potenzialmente efficace, ma che deve essere accompagnato da reti di sostegno e di servizi, mentre oggi questi tipi di test per l'Hiv avvengono senza alcun tipo di supporto relazionale ed informativo;
    il Ministero della salute ha inviato alla Conferenza Stato-regioni il nuovo Piano nazionale di interventi contro Hiv e Aids. Un piano molto articolato che parte dalla constatazione del rischio del «sommerso» e della necessità di ritornare a parlare della malattia e di come evitarla attraverso comportamenti consapevoli, in particolare rivolto ai giovani, e alla continuità delle terapie, dato che si stima infatti che il 15 per cento dei 120 mila affetti dal virus non sia stato inserito o mantenuto in cura,

impegna il Governo:

1) a procedere nell'unificazione dei due sistemi di sorveglianza delle nuove diagnosi di infezioni da Hiv e dei malati di Aids, con l'implementazione di una scheda di segnalazione, uniforme per tutte le regioni, utilizzata sia per la prima diagnosi di infezione da Hiv che per la prima diagnosi di Aids;

2) ad approntare programmi di prevenzione combinati, che comprendano azioni efficaci e continuative su comportamenti a rischio tra i quali: a) esercizio consapevole della sessualità, corretto uso del profilattico maschile e femminile, b) interventi di riduzione del rischio e del danno nelle popolazioni chiave, attraverso l'implementazione di programmi di offerta gratuita e sostituzione di siringhe sterili e di distribuzione di profilattici maschili e femminili; c) programmi di offerta gratuita del test Hiv, terapia sostitutiva, interventi sulle persone con infezioni sessualmente trasmesse; d) interventi farmacologici, attuando strategie di prevenzione basate sull'utilizzo dei farmaci antiretrovirali; e) interventi strutturali per ridurre la vulnerabilità all'infezione da Hiv legata a condizioni quali la povertà, la disuguaglianza di genere, la discriminazione e l'emarginazione sociale, con particolare riferimento alla discriminazione omo-transfobica;

3) a potenziare la presenza, a livello territoriale, di centri sanitari pubblici che possano offrire test gratuiti di Hiv e del counselling, anche in assenza di prescrizione medica; centri sanitari che, a loro volta, siano chiamati a promuovere l'esecuzione dei test ai soggetti interessati anche da operatori sanitari o non sanitari adeguatamente formati con il coinvolgimento delle associazioni;

4) ad avviare programmi di sperimentazione di counselling e testing, anche in contesti extra ospedalieri, quali ad esempio i gruppi di comunità;

5) a procedere ad una valutazione dell'impatto e della diffusione dell'auto-test Hiv, reperibile in farmacia, al fine di escluderlo da finalità essenzialmente commerciali, prevedendo che alla consegna all'acquirente dell'auto-test, al momento della vendita, anche in caso di acquisto on-line, sia comunicata un'informativa del Ministero della salute, recante il numero verde 800.861.061 del Servizio sanitario nazionale di counselling multilingue dell'Istituto superiore di sanità da contattare per avere supporto, assistenza e ogni altra informazione relativa all'utilizzo del test e all'interpretazione del risultato, tenuto conto dei limiti temporali per l'affidabilità del test, coinvolgendo in tale contesto anche le associazioni che intervengono in materia;

6) ad assumere iniziative atte ad ottemperare agli obiettivi e agli impegni che l'Italia ha assunto in sede di Unaids per la sconfitta del virus entro il 2030 e che prevede di rendere consapevoli del proprio stato sierologico il 90 per cento delle persone con infezioni da Hiv;

7) ad assumere iniziative per prevedere la distribuzione gratuita, con particolare riferimento alle scuole e università, del profilattico nell'ambito di un'efficace prevenzione dell'infezione da Hiv;

8) ad avviare, d'intesa con le regioni, i comuni e le associazioni per la prevenzione e la lotta contro l'Hiv, iniziative permanenti di informazione e prevenzione attraverso opuscoli o spot televisivi, radiofonici o on line, relative all'igiene sessuale e alla possibilità di test gratuiti e di appositi numeri verdi nei luoghi di lavoro e nelle scuole;

9) a garantire e attuare quanto previsto dalla legge n. 135 del 1990, in materia di anonimato del test Hiv, prevedendo altresì iniziative di efficace contrasto alle discriminazini nei confronti delle persone con Hiv.
(1-01568)
«Gregori, Brignone, Marcon, Airaudo, Civati, Costantino, Daniele Farina, Fassina, Fratoianni, Giancarlo Giordano, Andrea Maestri, Paglia, Palazzotto, Pannarale, Pastorino, Pellegrino, Placido».
(31 marzo 2017)

  La Camera,
   premesso che:
    nonostante i progressi registrati in questi anni a livello globale, l'Hiv continua a rappresentare un serio problema di sanità pubblica. Nel 2015, secondo quanto riferito dall'Organizzazione mondiale della sanità in occasione dell'edizione 2016 della Giornata mondiale contro l'Aids – World Aids Day 2016 –, che ogni anno si svolge il 1o dicembre, l'epidemia globale di infezioni da Hiv e Aids ha registrato una battuta d'arresto rispetto agli ultimi 20 anni. In particolare, emerge come i programmi di prevenzione abbiano portato a una riduzione del numero annuale di nuove infezioni da Hiv (2,1 milioni nel 2015), con una riduzione nell'incidenza del 35 per cento rispetto al 2000;
    è stata registrata una diminuzione del numero di decessi per cause correlate all'Hiv, circa 1,1 milioni nel 2015, con una flessione del 45 per cento rispetto al 2005, grazie alla diffusione delle terapie antiretrovirali;
    per far fronte alla diffusione dell'Hiv, le Nazioni Unite, attraverso la rete Unaids, promuovono fin dal 2014 la strategia «Fast Track» che mira a raggiungere l'obiettivo globale – espresso nei Sustainable Development Goals – di eliminare l'Aids entro il 2030 (End Aids 2030);
    nell'ambito del semestre di Presidenza maltese del consiglio dell'Unione europea, nel gennaio 2017, è stata organizzata, in collaborazione con l’European Centre for Disease Prevention and Control, Ecdc, una conferenza sull'Hiv, in cui esperti provenienti da tutti gli Stati dell'Unione hanno discusso le strategie comuni necessarie per raggiungere l'obiettivo di End Aids 2030;
    in tale contesto, l'Ecdc ha reso pubblico un documento contenente risultati e gap della strategia europea, nonché le modalità con cui i singoli Paesi dell'Unione europea e dello Spazio economico europeo (Ue/See) hanno dato attuazione agli impegni previsti dalla carta di Dublino sull'alleanza per combattere l'Aids in Europa e nell'Asia Centrale. Va ricordato che, nel 2004, gli Stati europei e dell'Asia centrale tennero la conferenza «Breaking the Barriers – Partnership to fight HIV/AIDS in Europe and Central Asia» che si concluse con la Dichiarazione di Dublino, nella quale i partecipanti si impegnarono a predisporre ed attuare azioni politiche volte a contrastare l'epidemia nell'intera regione;
    l'Hiv rimane un problema significativo di sanità pubblica nei 31 Paesi dell'Unione europea e dello Spazio economico europeo: nel 2015 sono stati diagnosticati 29.747 nuovi casi di infezione da Hiv negli Stati Ue/See e il tasso di nuove infezioni non risulta in significativo declino nell'ultimo decennio (da 6.6 su 100.000 abitanti nel 2006 a 6.3 su 100.000 abitanti nel 2015). Si stima che siano circa 810.000 le persone che vivono con l'Hiv negli Stati Ue/See (lo 0,2 per cento della popolazione adulta), con forti differenze fra paesi e fra tipologie di categorie a rischio. Nel 2015 il tasso di nuove infezioni è stato maggiore nella popolazione maschile (9.1 su 100.000) che in quello femminile (2.6 su 100.000). La trasmissione per via sessuale rimane ancora la maggior causa delle nuove infezioni registrate nei Paese Ue/See. In particolare, continua a registrarsi un incremento dei casi di infezione dovuti a rapporti omosessuali maschili: nel 2015, il 42 per cento di tutti i casi riportati nei Paesi Ue/See riguardano rapporti omosessuali fra uomini e in 15 Stati tale percentuale supera il 50 per cento delle nuove diagnosi. Tale categoria a rischio risulta la sola a non registrare un declino nel numero di nuove infezioni nel corso dell'ultima decade. Il 32 per cento delle nuove diagnosi sono invece attribuite a rapporti eterosessuali, con significative variazioni percentuali fra i diversi Stati membri, in calo rispetto alle precedenti rilevazioni;
    i nuovi casi di Hiv diagnosticati fra migranti non provenienti da Paesi Ue/See ammontano, complessivamente, al 22 percento, con significative variazioni fra gli Stati membri. Mentre si registra una diminuzione di casi diagnosticati in migranti provenienti da Paesi con alti tassi di infezione da Hiv, risultano evidenze di un aumento del rischio di acquisizione dell'infezione in sotto gruppi di popolazioni migranti dopo il loro arrivo nei Paesi Ue/See;
    tra il 2006 e il 2015 il numero di casi di Hiv registrati negli Stati Ue/See legati ad iniezioni di sostanze stupefacenti ha registrato un costante declino, attestandosi attualmente al 4 per cento del totale delle nuove diagnosi nel 2015. Tale dato riflette gli sforzi e gli investimenti messi in campo da molti Paesi in politiche di riduzione del danno. Tuttavia, lo scambio di siringhe infette rimane ancora un'importante via di trasmissione dell'Hiv in diversi Stati e un potenziale fattore di rischio: in quattro Paesi, un quarto e più dei nuovi casi registrati sono, infatti, correlati a tale pratica;
    virtualmente, eliminate nell'area Ue/See, invece, sono le nuove infezioni dovute alla trasmissione madre-figlio durante la gravidanza (inferiori all'1 per cento/anno) e alle trasfusioni;
    complessivamente, i dati indicano che, nei Paesi Ue/See, i casi di infezione vengono trattati precocemente ed efficacemente (circa 9 pazienti Hiv positivi su 10 sono virologicamente soppressi), tuttavia 1 persona su 6 dell'Ue/See non ha ancora scoperto di essere sieropositivo, con evidenti conseguenze sul rischio di trasmettere l'infezione. Ancora eccessivamente alto risulta il numero dei casi rilevati tardi: nel 2015, basandosi sulle informazioni disponibili relative alla conta dei CD4, è stato calcolato che il 47 per cento dei soggetti presentava, al momento della diagnosi, una conta di CD4 inferiore a 350/mm3;
    il numero di Paesi che iniziano terapie antiretrovirali (Art), indipendentemente dal conteggio delle cellule CD4 è cresciuto da quattro nel 2014 a 24 nel 2016, tuttavia, sulla base dei dati provenienti da 25 Paesi, risulta che il 17 per cento di persone con Hiv non ricevono terapie antiretrovirali (a causa dell'applicazione di protocolli terapeutici obsoleti, ostacoli normativi, carenza di risorse, fattori culturali). In particolare, va segnalata la situazione dei migrati illegali, per i quali più della metà degli Stati Ue/See non prevede l'accesso ai trattamenti;
    per quanto attiene ai casi di Aids conclamati e alle morti da Aids, i dati della relazione segnalano una continua diminuzione nell'area: nel 2015 i casi di Aids registrati sono stati 3.754, rispetto agli 8.465 del 2006, mentre il numero dei decessi è sceso dai 2.608 del 2006 agli 885 del 2015;
    quello che emerge dal rapporto è, tuttavia, la necessità di aumentare le risorse per le azioni di prevenzione e cura dell'infezione: due su tre Stati dell'area Ue/See riportano, infatti, che i fondi a disposizione non sono sufficienti a ridurre il numero delle nuove infezioni da Hiv. Interventi mirati su gruppi a rischio, comprese campagne di promozione all'uso e di distribuzioni di profilattici, iniziative informative per promuovere corretti stili comportamentali, profilassi pre-esposizione (PrEP) e politiche di riduzione del danno per soggetti tossicodipendenti, rimangono ancora troppo esigui in molti Paesi per poter produrre risultati apprezzabili. L'elevata percentuale di soggetti con Hiv che non conoscono il proprio stato o che ottengono tardi una diagnosi, riflette una carenza nella diffusione dei test, falle nella strutturazione dei servizi e difficoltà nel raggiungere le categorie maggiormente a rischio;
    in Italia, in base ai dati pubblicati dall'Istituto, superiore di sanità, nel 2015 si sono registrate 3.444 nuove diagnosi di infezione da Hiv, con una incidenza di 5,7 nuovi casi per 100.000 residenti, con un lieve calo di nuove infezioni rispetto ai tre anni precedenti per tutte le modalità di trasmissione, tranne che per i maschi che fanno sesso con maschi (MSM);
    per quanto attiene le modalità di trasmissione, i dati 2015 indicano come sia prevalente la via dei rapporti eterosessuali (44,9 per cento), seguita dai rapporti tra maschi che fanno sesso con maschi (40,7 per cento) e dai consumatori di sostanze stupefacenti per via iniettiva (3,2 per cento);
    anche nel nostro Paese si registra la tendenza dell'ultimo decennio all'aumento – dal 20,5 per cento del 2006 al 74,5 per cento del 2015 – del numero di persone che giungono alla diagnosi già in stadio di Aids). Complessivamente si stima che il numero di persone con infezione da Hiv/Aids sia pari a circa 130 mila, dei quali almeno 12.000-18.000 siano «inconsapevoli» di avere il virus, con grave pericolo per la propria salute e rischio per i propri partner sessuali; il 20 marzo 2017 il Ministero della salute ha inviato alle regioni, ai fini della firma dell'intesa in materia di interventi contro l'Hiv e l'Aids in sede di Conferenza Stato-regioni, il Piano nazionale Hiv-Aids per il triennio 2017-2019 che ha l'obiettivo di ottenere, nell'ambito di un più generale allineamento delle politiche italiane, con l’«action plan» dell'Organizzazione mondiale della sanità e dell'Unione europea, l'incremento dei casi diagnosticati e mantenuti in cura fino al raggiungimento del 90 per cento delle persone che vivono con Hiv/Aids (Plwha); l'attivazione di un percorso diagnostico terapeutico definito in almeno l'80 per cento dei Centri clinici deputati all'assistenza alle persone con Hiv/Aids; il mantenimento di livelli di viremia tali da restare al di sotto del 5 per cento i fallimenti virologici/anno; la riduzione a meno del 5 per cento della perdita di contatto, da parte dei centri clinici, con i pazienti seguiti;
    il dimezzamento delle diagnosi tardive: un piano che miri ad essere effettivamente efficace necessita, innanzitutto, di azioni di prevenzione che, basate sulle evidenze scientifiche, oltre a comprendere le campagne di informazione, l'impiego degli strumenti di prevenzione e gli interventi finalizzati alla modifica dei comportamenti, estendano l'uso delle terapie antiretrovirali (Arv) come prevenzione;
    l’«aggancio» di soggetti e categorie a rischio, a cominciare dal mondo giovanile, deve rivestire un aspetto centrale della strategia d'intervento e una particolare attenzione deve riguardare i migranti e, complessivamente, le comunità straniere risiedenti in Italia; contestualmente, sarà necessario intervenire contro quei fenomeni di stigmatizzazione ed emarginazione che ancora colpiscono le persone con questa malattia;
    il 5 per cento della popolazione carceraria italiana risulta affetta da Hiv, il 6,5 per cento ha l'epatite B ed il 25 per cento l'epatite C. Controlli specifici, prevenzione e cura assumono quindi un significato di assoluto rilievo, anche in considerazione del rischio di ulteriore diffusione nella popolazione, una volta che i detenuti affetti dalle patologie riassumono la libertà al termine del periodo di carcerazione;
    seppure il numero annuale conosciuto di nuovi casi di Hiv risulti in calo rispetto ad un recente passato, non si può sottostimare la circostanza che, oggi, l'attesa di vita per i sieropositivi è sensibilmente allungata, determinando una forte crescita nella domanda di cure continue, che accompagnano tutta la vita del paziente;
    è radicalmente cambiata la morfologia di formazione della malattia: se a metà degli anni ’80 la principale modalità di trasmissione era rappresentata dalla tossicodipendenza per via venosa (76,2 per cento nel 1985, ora calata al 4,5 per cento) oggi, sono sensibilmente aumentati i casi attribuibili a trasmissione sessuale;
    dati recenti indicano che, al momento della diagnosi di infezione da Hiv, la gran parte dei casi risulta già in fase avanzata di malattia, a dispetto della necessità iniziare il trattamento di cura il più precocemente possibile;
    se attivato tempestivamente, infatti, è dimostrato che il trattamento è stato in grado di ridurre del 53 per cento lo sviluppo di Aids o patologie correlate, abbattendo la mortalità del 70 per cento;
    il costo medio a carico dello Stato, per la cura, è di circa 8.000 euro annui per paziente,

impegna il Governo:

1) ad assumere tutte le iniziative volte a sviluppare efficaci progetti di informazione e prevenzione delle infezioni da Hiv/Aids e delle patologie sessualmente trasmissibili, rivolte ai giovani, con il coinvolgimento attivo delle istituzioni scolastiche, alle fasce sociali più vulnerabili e alle categorie a rischio;

2) a predisporre, coinvolgendo le comunità straniere residenti in Italia, specifiche campagne informative e di prevenzione rivolte agli stranieri presenti nel nostro Paese;

3) a promuovere, a cominciare dalle scuole, campagne contro la discriminazione sociale dei soggetti che hanno contratto l'infezione;

4) a rilanciare, attualizzandole, le campagne informative e di prevenzione delle infezioni da Hiv e Aids rivolte ai soggetti tossicodipendenti, anche in relazione ai preoccupanti dati che indicano un considerevole aumento dell'uso di eroina soprattutto fra gli adolescenti;

5) ad assumere iniziative volte ad allocare adeguate risorse finanziarie nei programmi volti ad incentivare l'esecuzione dei test Hiv, ad estendere la profilassi pre-esposizione (PrEP) e l'uso delle terapie antiretrovirali (Arv) come prevenzione; ad assumere iniziative per implementare l'assistenza domiciliare alle persone con Hiv/Aids, compresi interventi volti a lenire le conseguenze sociali ed economiche dell'infezione;

6) a valutare l'ipotesi di richiedere la rinegoziazione del prezzo dei farmaci anti Hiv per la sola popolazione carceraria, che rappresenta però una vera «bomba virologica» sia per i tassi di promiscuità, che per i tassi di prevalenza doppi rispetto ai numeri del Paese e coinfezioni da Hiv, Hcv;

7) a valutare l'opportunità, nel caso in cui le aziende produttrici dei farmaci anti Hiv non addivenissero ad un accordo negoziale, di poter ricorrere all'acquisto all'estero di farmaci così come previsto dalla recente circolare del Ministro della salute n. 3251 del 23 marzo 2017, che fornisce le istruzioni operative in merito all'applicazione del decreto ministeriale 11 febbraio 1997 per le modalità di importazione di specialità medicinali registrate all'estero;

8) a valutare l'opportunità di prevedere, con riferimento alla profilassi pre-esposizione (PrEP), modalità specifiche di intervento da utilizzare ai fini di una più completa attività preventiva.
(1-01570)
«Palese, Altieri, Bianconi, Capezzone, Chiarelli, Ciracì, Corsaro, Distaso, Fucci, Latronico, Marti».
(3 aprile 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    l'Aids, o sindrome da immunodeficienza acquisita, ha rappresentato un vero flagello negli anni ottanta e novanta del secolo scorso, causando decine di milioni di morti, oltre che in Europa e in USA, nei continenti africano e asiatico dove la penetrazione del virus ha trovato minor contrasto per effetto della debolezza dei sistemi sanitari;
    l'epidemiologia dell'Aids continua peraltro a far paura anche in questo nuovo secolo: nel 2005, si sono registrati nel mondo 2,3 milioni di morti, che sono scesi a 1,7 nel 2011 e a 1,6 milioni nel 2013;
    ancora oggi si calcola che il numero totale degli ammalati nel mondo oscilla intorno ai 35 milioni di individui, di cui soltanto 15 milioni avrebbero accesso alle terapie garantite dai farmaci antivirali;
    ancora molto lontano appare dunque l'obiettivo enunciato dall'Organizzazione mondiale della sanità che mira all'eradicazione del contagio entro il 2030;
    altrettanto lontano purtroppo appare anche il traguardo «90, 90, 90», proposto da Ban Ki Moon alla conferenza sull'Aids svoltasi nella città sudafricana di Durban nel luglio 2016, che prevede di raggiungere percentuali del 90 per cento di pazienti consapevoli dell'avvenuto contagio, mira a consentire al 90 per cento dei malati l'accesso alle terapie e punta alla riduzione della carica virale nel 90 per cento dei pazienti;
    la patologia, sostanzialmente a trasmissione ematica e attraverso il liquido spermatico (oltre che verticalmente, nel corso della gravidanza), è stata nei primi due decenni di diffusione tragicamente associata all'utilizzo «sporco» di droghe per via iniettiva e ai rapporti sessuali non protetti, in particolare nella sfera della omosessualità;
    nei primi decenni di diffusione della malattia, anche le trasfusioni di sangue non testato hanno comportato il contagio di particolari categorie di pazienti (talassemici, politrasfusi);
    la particolare via di trasmissione della malattia le ha conferito uno specifico stigma sociale che ha determinato forti difficoltà nella diagnosi precoce che pure, sin dall'inizio, si è dimostrata fondamentale per garantire il contenimento della diffusione del contagio insieme ad una migliore prognosi per il paziente;
    la drammatica prognosi dell'Aids al suo esordio e il rischio della diffusione epidemica in tutti gli strati della popolazione ha comportato che i Paesi occidentali abbiano stanziato importanti risorse per la prevenzione, per l'educazione dei comportamenti e per il trattamento dei malati e che, contestualmente, si sia fatto un grande sforzo di ricerca scientifica che ha introdotto nel mercato farmaci antiretrovirali sempre più raffinati ed efficaci, in grado di «cronicizzare» la patologia, allungando notevolmente il lasso di tempo intercorrente tra la conversione ematica e la comparsa dei sintomi della malattia e modificandone radicalmente, in senso positivo, la prognosi;
    il sostanziale cambiamento del decorso della malattia ha purtroppo avuto come effetto secondario non desiderato l'abbassamento del livello di allarme sociale nei confronti della patologia e, conseguentemente, la riduzione delle attività di educazione a corretti comportamenti sociali e sessuali e la minor attenzione alla diagnosi precoce, ancora oggi fondamentale per il miglior controllo terapeutico della malattia;
    in tal senso, la Kaiser Family Foundation ha lanciato l'allarme sul complessivo stanziamento Mondiale di risorse economiche per la lotta contro l'Aids che si sarebbe ridotto dagli 8,6 miliardi di euro del 2014 ai 7,5 miliardi di euro del 2015;
    l’European centre for disease prevention and control ha recentemente pubblicato un report sulle attività di prevenzione e di trattamento dell'Aids in 55 Paesi europei e dell'Asia centrale, dimostrando i sostanziali progressi nella diagnosi e nel trattamento della patologia, ma anche sottolineando come un paziente su sette sia oggi sieropositivo senza sapere di esserlo e, conseguentemente, senza poter iniziare il trattamento terapeutico in grado di differire notevolmente la comparsa dei sintomi della malattia;
    in Italia, secondo l'Istituto superiore di sanità, nel 2015 sono state segnalate 3.444 nuove diagnosi da infezione da Hiv, il 10 per cento in meno rispetto alle 3.850 del 2014. L'Italia è tredicesima in Europa in termini di incidenza delle nuove diagnosi;
    in Italia, la riduzione dei nuovi casi (l'incidenza è intorno a 1,4 per centomila), si accompagna al decremento del numero dei morti/anno (attualmente intorno ai 700/800 decessi/anno), mentre aumenta la prevalenza (intorno al 6,1 per centomila) e cresce l'età media dei soggetti colpiti, che sfiora i 40 anni;
    in Italia (come nel resto del mondo occidentale), è nel frattempo cambiata anche la modalità prevalente di contagio. Nel 1985, solo l'8 per cento della trasmissione di sieropositività avveniva attraverso la via sessuale, attualmente le percentuali di contagio per via sessuale raggiungono l'85,5 per cento e riguardano principalmente la sfera dei rapporti eterosessuali;
    in Italia, l'attuale sistema di raccolta dei dati epidemiologici sull'HIV e sull'Aids, che prevede due differenti percorsi per l'afferenza delle informazioni parrebbe essere alla base di una sottostima dei dati complessivi sulla patologia, che è stata denunciata dallo stesso Istituto superiore di sanità;
    come già ricordato dai parlamentari Ilaria Capua e Pierpaolo Vargiu, in una interrogazione parlamentare, presentata nel 2015 al Ministero della salute, «la letteratura scientifica internazionale è concorde nel sottolineare come la diagnosi precoce della sieropositività rappresenti un momento fondamentale della lotta all'HIV e alla patologie correlate, in quanto consente l'immediato inizio di un trattamento farmacologico mirato a mantenere condizioni ottimali del paziente per il tempo più lungo possibile»;
    «in particolare in Italia, i virologi sono concordi nell'adottare un approccio terapeutico “test and treat”, con intervento immediato al riconoscimento della sieropositività, avendo ormai abbandonato la prassi di dare inizio al trattamento terapeutico anti HIV sulla base del superamento della soglia nella conta delle cellule Cd4»;
    «i dati dello studio Ecdc purtroppo confermano come nel 2013, neppure la metà dei soggetti a rischio nei Paesi europei testati sia stato effettivamente sottoposto a test diagnostico e come ben il 47 per cento dei soggetti diagnosticati sia stato riconosciuto in fase avanzata, con conseguente riduzione dell'efficacia del trattamento sanitario»;
    nel contesto della citata interrogazione parlamentare, veniva altresì sottolineata l'urgenza di introdurre anche nel nostro Paese l'utilizzo dei kit di autodiagnosi dell'Aids, a basso costo, in vendita diretta presso le farmacie al pubblico, a tutti i soggetti maggiorenni che ne facessero richiesta;
    tale pronta disponibilità e immediata accessibilità dei kit autodiagnostici consente di superare con facilità il pregiudizio sociale che, ancora oggi esiste intorno alla malattia, rendendo assai difficile l’outing del paziente sieropositivo e rischiando di ritardare drammaticamente il momento della diagnosi;
    seppure in ritardo rispetto agli altri Paesi europei, dal dicembre del 2016 il kit di autodiagnosi è finalmente in vendita nelle farmacie italiane, fornendo un significativo aiuto all'emersione del fenomeno della mancata diagnosi di sieropositività (tali casi in Francia sarebbero circa 30.000, quelli italiani tra i 10 e i 20.000) e consentendo così il miglior controllo della diffusione del contagio e il trattamento precoce della positività;
    appare assolutamente evidente come la diffusione dell'utilizzo dei kit da autodiagnosi debba andare di pari passo con il rafforzamento della risposta sanitaria specifica, che consenta l'accertamento definitivo della sieropositività e la sua gestione terapeutica;
    uno sforzo particolare va effettuato nella sistematicità dell'approccio diagnostico in gravidanza, a tutela delle madri e del feto, al fine di eradicare completamente la trasmissione verticale della sieropositività che, purtroppo, non è completamente scomparsa neppure nel nostro Paese;
    parallelamente, si è purtroppo ridotta la sensibilità verso la necessità di azioni di regolamentazione dell'attività di prostituzione maschile e femminile, con il rischio che l'assenza di sistematici controlli sanitari nel settore, associata all'alta incidenza di sieropositività in alcune fasce di offerta e alla elevata richiesta di rapporti non protetti, mantenga comunque abnormemente alta la progressione dei nuovi contagi;
    appare invece importantissimo il rafforzamento delle attività di prevenzione primaria, attraverso la corretta informazione sulle modalità di trasmissione del virus, che indirizzino verso comportamenti sessuali corretti e, in particolare, sulla protezione dei rapporti che si realizzano nel mondo della prostituzione;
    tale azione di prevenzione rischia di restare estremamente difficoltosa sino a quando non verrà regolamentata l'attività di prostituzione, con la realizzazione di un rigoroso sistema di controlli sanitari, a garanzia del soggetto che si prostituisce, ma anche dei fruitori di tale attività;
    tale considerazione ha senz'altro particolare rilievo nel nostro Paese dove si stima che quasi il 95 per cento dell'attività di prostituzione sia esercitata da donne straniere clandestine, circa il 50 per cento delle quali provenienti dai Paesi africani, che presentano più elevata diffusione della sieropositività HIV;
    secondo Richard Horton e Pamela Das, rispettivamente direttore e direttore esecutivo della prestigiosa rivista scientifica «Lancet», con la regolamentazione dell'attività di prostituzione, le nuove infezioni potrebbero complessivamente ridursi nei prossimi 10 anni in una percentuale variabile tra il 33 e il 46 per cento,

impegna il Governo:

1) a potenziare le attività di prevenzione della diffusione della sieropositività da Hiv e di tutte le malattie a trasmissione sessuale, rafforzando le azioni divulgative sulle modalità di contagio e sottolineando la assoluta necessità di protezione dei rapporti sessuali a rischio;

2) a valutare l'opportunità, anche per motivi di carattere sanitario correlati alla attuale recrudescenza di incidenza delle malattie a trasmissione sessuale, di assumere iniziative normative per la regolamentazione e per la sorveglianza sanitaria dell'attività di prostituzione;

3) a promuovere l'informazione sulla necessità della diagnosi precoce della condizione di sieropositività, incentivando l'utilizzo dei kit di autodiagnosi disponibili in farmacia che, grazie alla loro facile disponibilità ed elevata attendibilità, consentono di intercettare anche quella fascia di popolazione a rischio che – a causa di pregiudizi culturali e sociali difficili da superare – non entra in contatto con le strutture sanitarie;

4) ad assumere iniziative per rendere routinaria e sistematica l'attività di screening della Hiv positività nel corso delle varie fasi della gravidanza;

5) ad assumere iniziative, per quanto di competenza, volte a potenziare non solo il sistema sanitario della presa in carico del paziente sieropositivo, ma anche e soprattutto le strutture socio sanitarie che ne devono fiancheggiare le attività esistenziali, al fine di garantire la miglior inclusione sociale del paziente sieropositivo, ma anche la correttezza dei suoi comportamenti nella circoscrizione di qualsiasi rischio di contagio;

6) a garantire l'adeguata dotazione e diffusione su tutto il territorio nazionale delle strutture di degenza e cura che consentano la gestione ottimale del paziente ammalato di Aids con la prevenzione e il trattamento tempestivo di tutte le possibili complicanze;

7) ad assumere iniziative per potenziare ogni attività di ricerca scientifica e di collaborazione medica con le autorità sanitarie internazionali e con quelle dei Paesi con maggior incidenza e prevalenza della malattia per favorire le attività di educazione e prevenzione che circoscrivano la diffusione del virus Hiv, per favorire la diagnosi precoce e per garantire l'accesso alle cure del maggior numero possibile di pazienti sieropositivi e ammalati;

8) ad unificare ed omogeneizzare i percorsi di raccolta delle informazioni su Hiv positività e Aids che hanno come riferimento l'Istituto superiore di sanità.
(1-01572)
«Vargiu, Monchiero, Matarrese, Molea, Mazziotti Di Celso, Dambruoso, Librandi, Quintarelli, Mucci, Galgano, Oliaro, Bombassei».
(3 aprile 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    nel mondo ci sono 36,7 milioni di persone affette dal virus dell'Hiv, ma solo metà di loro risulta essere sottoposta ad una terapia antiretrovirale;
    per quanto attiene al solo 2016, sono stati diagnosticati oltre 2 milioni di nuovi casi, stando ai numeri diffusi da Unaids, il programma lanciato dalle Nazioni Unite per contrastare la diffusione dell'epidemia;
    il 2015 ha registrato un notevole aumento della diffusione del virus nel continente europeo, con 153.407 casi rispetto ai 142.000 dell'anno precedente mentre, in riferimento alla sola Italia, le nuove diagnosi di infezione da Hiv, nel medesimo anno, sono state più di 3.000; in particolare, nel 2015, il nostro Paese si conferma al tredicesimo posto in Europa per le nuove diagnosi di Hiv, con un ammontare di 3.444 casi (pari ai 5,7 nuovi casi per 100.000 residenti), in lieve calo rispetto agli anni precedenti (erano 4.183 nel 2012, 3.845 nel 2013 e 3.850 nel 2014);
    il Registro nazionale dell'Aids, attivo sin dall'inizio degli anni ’80, ha indicato, nel 2015, 789 casi di Aids, pari a un'incidenza di 1,4 nuovi casi per 100.000 residenti; oltre il 50 per cento dei casi di Aids segnalati nel 2015 era costituito da persone che non sapevano di essere Hiv-positive;
    c’è stato, infatti, un importante cambiamento nelle percentuali relative alle modalità di trasmissione. A differenza del passato, l'Aids è attualmente una malattia prevalentemente a trasmissione sessuale, con prevalenza di casi relativi a rapporti eterosessuali. Prima, invece, sia in Italia che in Europa, l'Hiv si trasmetteva soprattutto mediante lo scambio di siringhe infette tra chi faceva uso di sostanze stupefacenti iniettabili. Le notifiche di infezione da Hiv associate a trasmissione sessuale sono passate dall'8,0 per cento del 1985 all'85,5 per cento del 2015;
    la raccolta dati sulle nuove diagnosi di infezione da Hiv è iniziata in alcune regioni già dal 1985. Nel 2008 è stato istituito il sistema di sorveglianza delle nuove diagnosi di infezione da Hiv. Le regioni si sono successivamente uniformate raggiungendo, nel 2012, la copertura completa del territorio italiano. Tuttavia, allo stato attuale, il registro delle nuove diagnosi di Hiv e il registro nazionale dell'Aids non sono unificabili, né compatibili in quanto il flusso informativo, la scheda di raccolta dati e l'identificativo individuale sono diversi;
    oltre la metà delle nuove diagnosi avviene molto tempo dopo l'avvenuta infezione, quando essa ha creato danni importanti al sistema immunitario degli individui, tali da consentire la comparsa di infezioni e tumori talvolta letali. Ed infatti, basti considerare come, negli ultimi anni, sia aumentata la proporzione delle persone che arrivano allo stadio di Aids conclamato, ignorando la propria sieropositività; pertanto, diminuiscono sensibilmente le probabilità di risposta positiva alle cure. Ed ancora, nel 2014, l'emersione dello stato di sieropositività al virus dell'Hiv è avvenuto principalmente per cause diverse dall'accesso volontario al test dell'Hiv; nello specifico, nel 26,4 per cento dei casi il test Hiv è stato eseguito per la presenza di sintomi correlati all'Hiv, e nel 12,9 per cento dei casi in seguito ad accertamenti per altra patologia o alla diagnosi di un'infezione sessualmente trasmessa;
    è un dato, ormai, sempre maggiormente confermato quello che riguarda la scoperta tardiva del proprio stato di sieropositività. Come già detto, ancora troppe persone in Italia, infatti, scoprono di aver contratto l'Hiv quando compaiono i primi sintomi dell'Aids. Questo fenomeno è indice di una bassa percezione del rischio, soprattutto fra chi si infetta per via sessuale, oltre che tra gli stranieri. Si stima, infatti, che un quarto delle persone Hiv positive, in Italia, ignori il proprio stato di sieropositività. È importante invece riconoscere precocemente l'avvenuta infezione da Hiv, da un lato, per intraprendere la terapia farmacologica antiretrovirale atta a rallentare la progressione del virus e, dall'altro, per assumere comportamenti consapevoli verso il prossimo;
    vi è un forte aumento degli stranieri sieropositivi o affetti da Aids. La popolazione immigrata straniera in Italia è andata fortemente crescendo negli ultimi anni e spesso proviene da Paesi ad alta endemia. Circa un 29 per cento delle nuove diagnosi di infezione da Hiv riguarda persone di cittadinanza straniera;
    l'ignoranza e la sottovalutazione del rischio sono i fattori principali che determinano il dilagare del virus dell'Hiv, anche per l'errata convinzione che, in Occidente, sia un flagello ormai debellato e relegato ai Paesi più poveri. Sebbene l'epidemia si sia depotenziata a metà anni ’90, il ventennio trascorso senza più paura ha però fatto dimenticare che l'Hiv continua a diffondersi, il che ha comportato un ridimensionamento, sia sotto il profilo quantitativo, che sotto quello qualitativo, delle campagne di comunicazione e di prevenzione che rivestono, invece, un tassello fondamentale specialmente nei confronti della fascia di popolazione più giovane;
    prevenzione e trattamento permetterebbero di abbattere anche la spesa dello Stato, appesantita dal costo altissimo dei farmaci antiretrovirali, fra i più cari per la sanità pubblica. Ogni diagnosi salva una vita, ma comporta in media 40 anni di terapie;
    la prevenzione è fondamentale, anche perché la circostanza che vede la malattia diagnosticata solamente una volta in stato avanzato determina la circolazione di persone infette che possono aver trasmesso l'Hiv in modo inconsapevole, accrescendo così il numero totale dei contagiati;
    si registra, in Italia, una aumentata sopravvivenza dei sieropositivi e dei malati di Aids, grazie alla terapia antiretrovirale ad alta efficacia, che ritarda sensibilmente la comparsa di sintomi, allunga anche di molto la sopravvivenza e, soprattutto, migliora la qualità della vita dei pazienti con Aids conclamato;
    è ampiamente riconosciuto come la prevenzione, laddove intelligentemente attuata, funzioni. Infatti, dal 1994, non si registrano nuovi casi, né tra gli emofilici, né tra i trasfusi e sono in netto calo i nuovi casi di Hiv pediatrico. Ciò è il frutto, da un lato, del controllo costante della provenienza del sangue: selezione ed educazione dei donatori ad una maggior consapevolezza e controllo di laboratorio di ogni singola sacca; dall'altro, è l'effetto dell'applicazione delle linee guida, che prevedono l'effettuazione del test Hiv in gravidanza ed il trattamento antiretrovirale nelle donne gravide risultate positive;
    sono profondamente cambiate le percentuali di modalità di trasmissione e, rappresentando quella sessuale la più rilevante, un'opera di informazione e sensibilizzazione concreta e capillare, soprattutto verso le categorie in questo senso più a rischio, come giovani e stranieri, potrebbe dare in breve tempo risultati importanti e, al contempo, contribuire a ridurre il numero dei nuovi contagi;
    risulta necessario perseguire l'obiettivo di incrementare il sostegno alle persone con infezione da Hiv (riduzione dello stigma), sensibilizzare le persone ad eseguire il test per l'Hiv (prevenire nuovi casi) e, non ultimo, supportare le persone che tutti i giorni lavorano e studiano in questo ambito della medicina;
    negli ultimi anni, l'attenzione pubblica sul tema dell'Aids è notevolmente calata, nonostante i nuovi casi di infezione, nei Paesi sviluppati come il nostro, siano stabili; così come, i dati raccolti sul fenomeno de quo testimoniano come gli adulti, ma soprattutto gli adolescenti, siano disinformati o non correttamente informati rispetto all'Hiv – a titolo esemplificativo, solo il 5,2 per cento dei ragazzi tra 15 e 19 anni sa che cosa sia l'intervallo finestra, informazione chiave per accedere correttamente al test per l'Hiv;
    l'importanza di non abbassare la guardia e di continuare a sensibilizzare e informare la popolazione sul tema è quindi sensibilmente evidente soprattutto laddove si consideri, si ripete, come negli ultimi anni sia aumentata la percentuale delle persone che arrivano allo stadio di Aids conclamato ignorando la propria sieropositività, per cui diminuiscono percettibilmente le probabilità di risposta positiva alle cure - gli ultimi dati disponibili indicano una proporzione del 67,9 per cento;
    nel mese di dicembre 2016, il Ministero della salute ha predisposto il piano nazionale contro l'Aids, sul quale ha espresso il parere il Consiglio superiore di sanità per poi passare al vaglio delle regioni per l'avallo definitivo e la concreta applicazione sul territorio. Tale piano si compone di una serie di obiettivi tra cui: la messa a punto e la realizzazione di modelli di intervento per ridurre il numero delle nuove infezioni; facilitare l'accesso al test per far emergere il sommerso; garantire a tutti l'accesso alle cure; favorire il mantenimento in cura dei pazienti diagnosticati e in trattamento; migliorare lo stato di salute e di benessere delle persone che vivono con Hiv e Aids; coordinare i piani di intervento sul territorio nazionale; tutelare i diritti sociali e lavorativi delle persone che vivono con Hiv e Aids; promuovere la lotta allo stigma; promuovere l'informazione e il coinvolgimento attivo delle popolazioni a rischio,

impegna il Governo:

1) a prevedere capillari, specifici interventi di prevenzione, incluse campagne informative riguardanti le modalità di trasmissione dell'Hiv;

2) ad attuare con la massima sollecitudine il nuovo piano nazionale d'intervento contro l'Aids;

3) ad incentivare la diffusione dei test atti a diagnosticare i virus dell'Hiv e dell'Hcv, favorendo un ulteriore, nuovo percorso finalizzato a consentire l'effettuazione di tali test anche al di fuori degli attuali, specifici contesti sanitari;

4) a promuovere la lotta all'Hiv-Aids e alle malattie sessualmente trasmissibili presso le nuove generazioni e a sostenere l'informazione e il coinvolgimento attivo delle popolazioni più a rischio;

5) ad intraprendere le opportune iniziative di competenza per addivenire all'unificazione dei due sistemi di sorveglianza Hiv e Aids, con implementazione di una scheda di segnalazione, uniforme per tutte le regioni, da impiegare sia per la prima diagnosi di Hiv, che per la prima diagnosi di Aids.
(1-01573) «Calabrò, Bosco».
(4 aprile 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    il Sistema di sorveglianza delle nuove diagnosi di infezione da Hiv è stato istituito con il decreto del Ministero della salute del 31 marzo 2008 (Gazzetta Ufficiale n. 175, 28 luglio 2008);
    in seguito alla pubblicazione del suddetto decreto, molte regioni italiane hanno istituito un sistema di sorveglianza di questa infezione, unendosi ad altre regioni e province che, già da vari anni, si erano organizzate in modo autonomo e avevano iniziato a raccogliere i dati;
    il decreto citato conferisce al Centro operativo Aids (Coa) dell'Istituto superiore di sanità (Iss) il compito di raccogliere le segnalazioni, gestire e analizzare i dati e assicurare il ritorno delle informazioni al Ministero della salute;
    al sistema di sorveglianza vengono notificati i casi in cui viene posta per la prima volta la diagnosi di infezione da Hiv, a prescindere dalla presenza di sintomi Aids-correlati. I dati vengono raccolti dalle regioni che, a loro volta, li inviano al Coa;
    dal 2012, anno in cui tutte le regioni italiane hanno attivato un Sistema di sorveglianza delle nuove diagnosi di infezione da Hiv, la copertura ha raggiunto il 100 per cento dei casi;
    dal 2010 al 2015 sono state segnalate, entro giugno 2016, rispettivamente 4.051, 3.924, 4.183, 3.845, 3.850 e 3.444 nuove diagnosi di infezione da Hiv. La diminuzione delle nuove diagnosi di infezione da Hiv, nell'ultimo anno, è in parte dovuta al ritardo di notifica;
    l'incidenza delle nuove diagnosi di infezione da Hiv (calcolata in base ai dati inviati dalle regioni segnalanti) era alta nella seconda metà degli anni ’80, raggiungendo un picco massimo di 26,8 nuovi casi per 100.000 residenti nel 1987; successivamente, è diminuita fino al 2006 e, dal 2010, è in costante lieve diminuzione, sia negli uomini che nelle donne;
    nel 2015 l'incidenza di infezione da Hiv è risultata pari a 5,7 nuovi casi per 100.000 residenti. Rispetto all'incidenza riportata dagli altri Paesi dell'Unione europea, l'Italia si posiziona al 13o posto: l'incidenza più alta è stata osservata nel Regno Unito, quella più bassa in Francia; nel 2015, Italia, Germania e Grecia hanno registrato incidenze simili intorno al 6 per 100.000 residenti;
    per quanto riguarda le differenze regionali, l'incidenza più alta, nel 2015, è stata osservata nel Lazio e quella più bassa in Calabria. Nella maggior parte delle regioni, l'incidenza delle nuove diagnosi di infezione da Hiv presenta un andamento in diminuzione, mentre in poche altre (Liguria, Campania, Basilicata) sembra essere in aumento;
    dal 1985, escludendo le persone di età inferiore ai 15 anni diagnosticate con Hiv, si osserva un aumento costante dell'età mediana al momento della diagnosi di infezione da Hiv, che è passata da 26 anni per i maschi e 24 anni per le femmine a 39 anni e 36 anni nel 2015 rispettivamente;
    negli ultimi anni l'età mediana, al momento della diagnosi di infezione da Hiv, appare relativamente costante per le principali modalità di trasmissione;
    nelle classi d'età successive ai 14 anni la distribuzione delle nuove diagnosi di infezione da Hiv aumenta progressivamente tra i maschi, arrivando, nella fascia 40-49 anni all'80,2 per cento di maschi contro il 19,8 per cento di femmine;
    nei report epidemiologici, la modalità di trasmissione è attribuita secondo un ordine gerarchico che risponde a criteri definiti a livello internazionale, in base ai quali ogni nuova diagnosi è classificata in un solo gruppo. Con coloro che presentano più di una modalità di trasmissione, classificati nel gruppo con rischio di trasmissione più elevato (in ordine decrescente di rischio: 1. utilizzatori di droghe per via iniettiva, 2. omosessuali maschi, 3. eterosessuali, 4. non riportato);
    dalla metà degli anni ’80 a oggi la distribuzione delle nuove diagnosi di infezione da Hiv per modalità di trasmissione ha subito un notevole cambiamento: la proporzione degli utilizzatori di droghe per via iniettiva è diminuita dal 76,2 per cento nel 1985 al 3,2 per cento nel 2015, mentre sono aumentati i casi attribuibili a trasmissione sessuale. In particolare, i casi attribuibili a trasmissione eterosessuale sono aumentati dall'1,7 per cento nel 1985 al 44,9 per cento nel 2015 e i casi attribuibili a trasmissione tra omosessuali maschi nello stesso periodo sono aumentati dal 6,3 per cento al 40,7 per cento;
    in numeri assoluti, i casi più numerosi negli ultimi 4 anni sono attribuibili a trasmissione tra omosessuali maschi, costituendo in alcune regioni come Puglia (54,3 per cento), Emilia-Romagna (51,6 per cento) e Lombardia (51,2 per cento), più della metà delle nuove diagnosi di infezione da Hiv;
    appare significativo che, mentre sono gli omosessuali maschi che costituiscono quasi la metà delle nuove diagnosi tra gli italiani, tra gli stranieri, la proporzione maggiore di nuove diagnosi è in eterosessuali femmine, verosimilmente in relazione al fenomeno della prostituzione;
    significativo anche che, tra gli omosessuali maschi, il motivo del test per Hiv maggiormente riportato è stato un comportamento a rischio non specificato (33,2 per cento);
    infine, appare anche di rilievo che, tra i casi con età compresa tra i 18 e i 25 anni, il 49,3 per cento delle nuove diagnosi di infezione da Hiv era rappresentato da omosessuali maschi, rispetto al 22,5 per cento di eterosessuali femmine e al 15,2 per cento di eterosessuali maschi. Per quanto riguarda lo sviluppo dell'infezione in forma clinicamente evidente, nel 2015, sono stati diagnosticati 789 nuovi casi di Aids segnalati entro giugno 2016, pari a un'incidenza di 1,4 per 100.000 residenti, un dato che attribuisce all'Italia la più alta incidenza di Aids tra i Paesi dell'Europa occidentale dopo il Portogallo;
    la diagnosi viene, purtroppo, effettuata sovente con grande ritardo, sia per comportamenti irresponsabili, sia per la ritardata comparsa dei sintomi che soli possono mettere in allarme il paziente che non si sia sottoposto alla indagine diagnostica;
    ne risulta che ancora troppe persone scoprono di aver contratto l'infezione da Hiv solo alla comparsa dei primi sintomi di Aids;
    circa l'80 per cento dei casi di Aids diagnosticati nel 2015 risulta non aver assunto alcuna terapia antiretrovirale prima della diagnosi, mentre si stima che un quarto delle persone Hiv positive sia inconsapevole del proprio stato di sieropositività;
    la consapevolezza dell'avvenuta infezione è, invece, fondamentale non solo per intraprendere al più presto la terapia farmacologica che rallenterà la progressione dei virus, ma anche per assumere comportamenti responsabili verso la diffusione dell'infezione;
    in analogia a quanto rilevato per le nuove diagnosi di infezione da Hiv, anche per i casi di Aids la distribuzione cumulativa dei casi di adulti per modalità di trasmissione e periodo di diagnosi evidenzia come il 51,8 per cento del totale dei casi segnalati tra il 1982 e il 2015 sia attribuibile alle pratiche associate all'uso di sostanze stupefacenti per via iniettiva. Tuttavia, la distribuzione nel tempo mostra un aumento della proporzione dei casi attribuibili ai rapporti sessuali sia omo che eterosessuali; quest'ultima rappresenta la modalità di trasmissione più frequente nell'ultimo biennio;
    suddividendolo, ulteriormente, la distribuzione dei casi di Aids attribuibili a rapporti eterosessuali (16.930 casi), in base all'origine della persona o al tipo di partner e al genere, si osserva che, in un decennio è diminuita la proporzione degli eterosessuali che hanno un partner tossicodipendente, mentre è aumentata la quota degli eterosessuali con un partner pluripartner o che hanno avuto rapporti con un partner pluripartner (persone che hanno presumibilmente contratto l'infezione per via sessuale, inclusi i partner di prostituta e le prostitute, non includibili in nessuna delle altre categorie);
    se è indubbio che, nel 2015, la maggioranza delle nuove diagnosi di infezione da Hiv era attribuibile a rapporti sessuali non protetti, che costituivano l'85,5 per cento di tutte le segnalazioni (eterosessuali 44,9 per cento; omosessuali maschi 40,6 per cento), è altrettanto vero che l'uso o il non uso del preservativo non bastano da soli a spiegare perché, a fronte di analoghe percentuali di rapporti non protetti gli omosessuali maschi e i pluripartner (i partner di prostituta e le prostitute) presentino proporzionalmente in maniera più elevata sia l'infezione e che la malattia conclamata;
    è evidente che è la stessa tipologia di comportamento (sesso promiscuo e omosessualità maschile a rappresentare il rischio maggiore di infettarsi e di ammalarsi;
    all'inverso è la forte diminuzione dell'uso di droghe per via iniettiva ad averne ridotto il ruolo infettivo;
    appare quindi illusorio pensare di limitare la diffusione dell'infezione senza una modificazione dei comportamenti a rischio affidandosi solo all'azione di barriera costituita dal preservativo;
    del resto, ciò e quanto insegna il differente esito delle campagne contro l'infezione da Hiv in Paesi, come la Thailandia, affidatasi solo al benefico del condom, e l'Uganda, che, senza rinunciare al condom, ha basato le sue campagne di prevenzione sull'educazione ed il cambiamento dei comportamenti a rischio;
    un ulteriore motivo di allarme per il futuro è costituito dal boom delle vendite di ellaOne, la pillola dei 5 giorni dopo, il cui uso è particolarmente diffuso tra le adolescenti e le giovani che praticano sesso non protetto con partner occasionali e che ricorrono all'uso di questo farmaco che impedisce l'annidamento dell'embrione per evitare la gravidanza indesiderata, moltiplicando tuttavia le occasioni a rischio con comportamenti deresponabilizzati;
    l'Italia si è recentemente dotata di un Piano nazionale di interventi contro l'Hiv e l'Aids per il triennio 2017-2019 che il Ministero della salute ha da poco trasmesso alle regioni in vista dell'esame in sede di Conferenza Stato-regioni;
    tra i principali obiettivi del Piano nazionale di interventi contro l'Hiv e l'Aids c’è quello di ampliare e facilitare l'accesso al test per incrementare i casi di Hiv diagnosticati, fino a rendere consapevoli del proprio stato il 90 per cento delle persone con Hiv, proteggendo la salute dei singoli, consentendo un accesso tempestivo alle cure, riducendo drasticamente la latenza diagnostica, anche per raggiungere più efficacemente la soppressione della carica virale con il trattamento precoce dei pazienti;
    ad oggi non è stato individuato un finanziamento specifico per attuare il suddetto piano,

impegna il Governo:

1) a reperire già nel prossimo disegno di legge di bilancio le risorse finanziarie necessarie a rendere attuabili le azioni proposte dal Piano nazionale di interventi contro l'Hiv e l'Aids, con particolare riferimento a quelle volte ad ampliare e facilitare l'accesso al test dell'Hiv, a garantire l'accesso alle cure, a migliorare le condizioni di salute delle persone affette;

2) a dare al più presto attuazione al nuovo Piano nazionale contro l'Aids, favorendo nel più breve tempo possibile, il raggiungimento dell'accordo sullo stesso in sede di Conferenza Stato-regioni;

3) a promuovere iniziative per la lotta contro la stigmatizzazione sociale delle persone sieropositive e di quelle affette da Aids;

4) a promuovere iniziative a carattere divulgativo ed informativo, miranti a far conoscere le modalità d'infezione e a sollecitare l'adozione di comportamenti responsabili;

5) a diffondere nelle scuole una cultura della prevenzione, fondata sull'educazione all'affettività ed il contrasto all'uso consumistico ed irresponsabile della sessualità e sull'adozione di comportamenti non a rischio dal punto di vista sessuale e del consumo di droghe;

6) a contrastare la diffusione di modelli di comportamento sessuale indifferenziati e intercambiabili, considerati i rischi sanitari connessi alla diffusione dell'Hiv/Aids che l'omosessualità, in particolar modo maschile, ad avviso dei firmatari del presente atto indubbiamente comporta;

7) a contrastare, a fini di prevenzione delle malattie in questione, il fenomeno della prostituzione attraverso meccanismi sanzionatori a carico dei fruitori del sesso a pagamento;

8) a coinvolgere le comunità straniere residenti in Italia nelle suddette campagne informative ed educative.
(1-01574)
«Gigli, Sberna, Baradello, Dellai».
(4 aprile 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    la diffusione del virus dell'Hiv e delle infezioni sessualmente trasmissibili costituisce una delle principali sfide della sanità pubblica nel nostro Paese e nell'Unione europea, in generale;
    i progetti finanziati dall'Unione europea negli ultimi anni sono stati incentrati sulla finalità di prevenire la trasmissione del pericoloso virus, attraverso la sensibilizzazione sulla malattia, il miglioramento della qualità dei servizi di salute sessuale, la vigilanza sui comportamenti, la diagnosi e il trattamento precoce;
    nonostante ogni sforzo messo in campo, però, il 2015 è stato un anno record per la diffusione del virus nel continente europeo: 153.407 casi rispetto ai 142.000 dell'anno precedente, con una forte maggioranza nei Paesi dell'Europa dell'Est, ove risiede circa l'ottanta per cento delle persone infette dal virus, a fronte del tre per cento delle persone che risiedono nell'Europa centrale e il diciotto per cento nei Paesi dell'Europa occidentale;
    nei ventotto Stati dell'Unione europea, il primo mezzo di trasmissione del virus è rappresentato dai rapporti sessuali tra uomini, da cui derivano oltre il quaranta per cento delle diagnosi, mentre le relazioni eterosessuali riguardano il trentadue per cento dei casi e la tossicodipendenza il quattro;
    per quanto riguarda, in particolare, l'Italia, la sindrome da immunodeficienza acquisita ha avuto il suo picco nella prima metà degli anni Novanta, e l'anno più drammatico è certamente stato il 1995, in cui si sono registrati 5.563 nuovi casi di Aids e 4.582 morti legate a questa patologia;
    ciononostante, non si può parlare soltanto al passato della diffusione di una infezione che, soltanto nel 2016 è stata diagnosticata a quasi tremilacinquecento persone;
    a livello geografico, l'Hiv si conferma una malattia metropolitana, diffusa soprattutto in grandi città come Roma e Milano e in Emilia, mentre, sotto il profilo dell'età delle persone che contraggono il virus, più della metà dei casi ha interessato persone tra i 30 ed i 49 anni, anche se l'Istituto superiore di sanità ha censito anche sei bambini minori di due anni affetti dal virus;
    in Italia, si calcolano poco meno di centotrentamila persone sieropositive, alle quali bisogna aggiungere circa un venti per cento di «inconsapevoli», che non sanno di avere il virus, e il sessanta per cento delle diagnosi avviene quando la malattia è già in uno stato avanzato;
    i principali gruppi a rischio comprendono gli uomini che hanno rapporti sessuali con altri uomini (MSM), i transgender, le persone che si iniettano droghe (PWID) e i detenuti: queste comunità sono soggette anche a rischi più elevati di altre infezioni come la gonorrea, la sifilide, la tubercolosi (TBC) e l'epatite B e C;
    ovviamente, la società è cambiata e un fattore che non può essere sottovalutato è l'incidenza dell'immigrazione, soprattutto dall'Africa: in Italia il 27 per cento degli Hiv positivi è straniero, quasi uno su tre;
    tra i motivi che continuano a far dilagare il virus, vi è anche l'errata convinzione che in Occidente sia un flagello ormai debellato e relegato nei Paesi più poveri mentre è, invece, purtroppo ancora attualissimo: una cappa di silenzio infranta qualche mese fa dal clamore di una vicenda con al centro un trentenne romano e le numerose ragazze da lui infettate;
    secondo gli ultimi dati dell'organizzazione mondiale della sanità la percentuale di infezione in Europa non è molto inferiore a quella di trenta anni fa, segno che la risposta ai virus non è stata efficace nell'ultimo decennio;
    le campagne di comunicazione e di prevenzione sono scomparse e, da tempo, la stessa Lega italiana per la lotta all'Aids (Lila) ha posto la questione della carenza di dati, prima al Comitato tecnico del Ministero della salute, poi all'Istituto superiore per la sanità;
    diagnosticare il prima possibile l'infezione significa rendere più efficace la cura della persona ammalata, diminuire la sua carica virale e ridurre le possibilità di trasmissione;
    prevenzione e trattamento permetterebbero, inoltre, di abbattere la spesa dello Stato, appesantita dal costo altissimo dei farmaci antiretrovirali, fra i più cari per la sanità pubblica, perché se è vero che ogni diagnosi salva una vita, è altrettanto vero che comporta in media quaranta anni di terapie;
    il nostro Paese eccelle nella cura dell'Hiv, ma risulta estremamente carente nella prevenzione, sia per l'assenza di azioni informative rivolte alla popolazione, sia per la mancanza di un serio progetto di formazione in materia sanitaria delle giovani generazioni e, in particolare, in materia di prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili;
    appare ormai improcrastinabile l'esigenza di intervenire affinché siano programmate e sviluppate serie e concrete iniziative per la prevenzione e la cura efficace dell'Hiv nel nostro Paese;
    è necessario, in particolare, sviluppare progetti finalizzati ad approfondire il livello di conoscenza della popolazione, per evitare che persone non consapevoli di essere positive all'Hiv ritardino involontariamente l'accesso alle cure, con gravi rischi per la propria salute;
    la grande sfida della sanità pubblica dovrebbe partire, poi, dall'effettuazione dei test, che potrebbero interrompere la catena infettiva, ma, invece, più di un italiano su tre (il 37 per cento) non lo ha mai fatto e spesso la causa è da ricercarsi nelle difficoltà di accesso o nelle mancate garanzie su anonimato e gratuità dei test, requisiti previsti dalla legge n. 135 del 1990,

impegna il Governo:

1) a provvedere alla concreta attuazione del nuovo Piano nazionale d'intervento contro l'Aids, sul quale ha espresso il parere il Consiglio superiore di sanità, puntando a migliorare il flusso di informazioni, a monitorare i finanziamenti alle regioni, a incoraggiare l'accesso ai test in forma gratuita e anonima e soprattutto ad assicurare il cosiddetto «trattamento preventivo» che mette in sicurezza chi è infettato e persegue l'obiettivo di azzerare i contagi;

2) ad assumere iniziative per finanziare specifici interventi pluriennali relativi a prevenzione primaria (informazione e educazione alla salute sessuale, informazione sulle modalità di trasmissione e di protezione, sui luoghi dove è possibile ottenere consulenza e assistenza) e secondaria (offerta del test Hiv) rivolti alla popolazione generale e a specifiche popolazioni a maggior rischio, informazione e ricerca sull'Aids;

3) ad assumere iniziative volte a promuovere la cultura della prevenzione e favorire un approccio integrato alla lotta contro il disagio e le dipendenze, unendo iniziative di competenza sanitarie e interventi sociali;

4) ad assumere iniziative per promuovere l'introduzione di progetti strutturati di educazione sessuale, nelle scuole medie inferiori e superiori, che non siano iniziative-spot per appagare la coscienza, ma che abbiano l'ambizione di rendere consapevoli le giovani generazioni affinché si possa interrompere quanto prima il meccanismo di diffusione del virus che, troppo spesso, affonda le proprie radici nella mancata conoscenza;

5) a far ripartire le campagne informative, adattandole anche ai social network e ai nuovi mezzi di comunicazione di massa.
(1-01575)
«Rampelli, Cirielli, La Russa, Giorgia Meloni, Murgia, Nastri, Petrenga, Rizzetto, Taglialatela, Totaro».
(4 aprile 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    l'infezione da Hiv rappresenta un'emergenza che i numeri non riescono più a fotografare, tanto rapido è il passo della sua espansione che, dal momento in cui ha fatto la sua comparsa, il virus ha contagiato 70 milioni di essere umani in tutti i continenti, uccidendone circa un terzo;
    considerato il lungo tempo di incubazione del virus e la bassa età media delle persone colpite da Aids nel mondo, gli studi epidemiologici consentono di affermare con certezza che un numero molto elevato dei casi abbiano contratto l'infezione quando avevano meno di 20 anni;
    come rilevato dall'indagine condotta dall'Istituto superiore di sanità, negli anni si è progressivamente osservato un cambiamento delle modalità di trasmissione poiché la proporzione di consumatori di sostanze per via iniettiva è passata dal 76,2 per cento nel 1985 al 3,2 per cento nel 2015, mentre è aumentata dall'1,7 per cento del 1985 al 44,9 per cento nel 2015 la proporzione di casi attribuibili a trasmissione eterosessuale;
    lo studio sopra citato ha altresì rilevato come l'incidenza più alta delle nuove diagnosi di infezione da Hiv è osservata tra le persone di 15-29 anni; nello specifico, nel 2015, sono state segnalate 12 nuove diagnosi di Hiv in adolescenti con età compresa fra 15 e 17 anni e 369 casi di giovani con età compresa tra i 18 e 25 anni;
    nonostante i grandi sforzi preventivi ed educativi realizzati in seguito all'emergenza Aids, a tutt'oggi, solo il 54 per cento degli adolescenti sessualmente attivi riporta un uso consistente del profilattico negli Usa, mentre, in Italia, un terzo di tutti i rapporti sessuali degli adolescenti scolarizzati avviene senza alcuna protezione;
    la comunità scientifica internazionale ha più volte ribadito la convinzione che, per cambiare i comportamenti a rischio legati all'epidemia, la sola informazione – per quanto corretta ed esaustiva – non sia assolutamente sufficiente, bensì debba essere accompagnata in modo continuativo da attività educative;
    la sessualità adolescenziale è accompagnata ad un adeguato sviluppo della sfera emotivo-affettiva e, vissuta in modo consapevole e sicuro dal punto di vista della salute fisica e psichica, può fornire un contributo positivo per lo sviluppo, conducendo a più indipendenza, competenza sociale ed autostima; al contrario, mancando tali prerequisiti, può diventare un fattore in grado di generare problemi al soggetto in crescita;
    la prevenzione dei comportamenti a rischio costituisce oggi l'unica arma davvero efficace per ridurre l'incidenza dell'infezione;
    l'ambito della sessualità rappresenta per gli adolescenti uno dei tratti identitari più forti; uno dei contesti relazionali in cui si esprime con maggiore peculiarità la propria dinamica affettiva, nella sua intrinseca interconnessione sia con lo sviluppo della sessualità, che con la maturità complessiva degli adolescenti;
    sessualità, affettività e maturità intellettuale sono peculiarità che definiscono il perimetro esistenziale entro il quale si colloca l'adolescente, che si muove in cerca del senso e del significato da dare alla sua vita;
    l'immagine prevalente dell'Aids, continuando ad essere legata alla sfera dei comportamenti sessuali, all'aggressività e alla paura della morte, apre o amplifica una lunga serie di questioni sociali, sanitarie ed etico-morali che richiedono interventi formativi e informativi in età precoci e un approccio multidisciplinare;
    i giovani in età scolare rappresentano un gruppo potenzialmente a rischio per il virus dell'Aids e la presenza di comportamenti a rischio è ampiamente documentata, considerato che il contagio per via sessuale appare una modalità di trasmissione in costante crescita rispetto a quella dell'assunzione di droghe per via endovenosa;
    equivoci e lacune si fissano nelle conoscenze dei ragazzi in età scolare su problemi legati all'Aids proprio dove manca un'adeguata educazione alla sessualità. In Italia, alcune ricerche dimostrano la grande disponibilità degli studenti ed anche dei genitori affinché le informazioni sul rischio di contrarre l'infezione da Hiv siano diffuse nell'ambito scolastico;
    una buona prevenzione dell'Aids deve necessariamente partire da una specifica attività educativo-formativa, nella scuola, che, se collegata nella sua azione alla famiglia, costituisce una sede ideale per interventi che siano in grado di accrescere la capacità di promuovere e difendere la propria salute, aumentando la percezione del rischio di infezione prima che i soggetti vi siano esposti;
    il passaggio da una visione strettamente biomedica a un approccio multidisciplinare alla salute chiama la scuola ad assumere una funzione di coordinamento tra le diverse associazioni e istituzioni territoriali su tutti i problemi relativi alla salute fisica, psichica e sociale dei suoi allievi;
    la scuola, luogo di aggregazione e di dibattito, può essere il teatro ideale per l'analisi e la successiva sintesi dei modelli comportamentali suggeriti dal mondo della sanità. Attraverso appropriati messaggi, essa può fungere da mediatrice tra i cittadini, le famiglie, gli operatori sanitari e le diverse realtà territoriali nel formare una solida e diffusa conoscenza sanitaria e favorire poi la conversione in modello culturale;
    l'evoluzione del concetto di educazione alla salute e la stessa emergenza Aids inducono la scuola a una collaborazione sempre più stretta non solo con istituzioni sanitarie, ma anche con associazioni e presidi territoriali, per una integrazione di competenze nella gestione di progetti e processi mirati a produrre salute;
    come rilevato anche nell'ambito scientifico, il nostro Paese mostra evidenti carenze nella prevenzione, in particolar modo per la mancanza di progetti di formazione rivolti in particolar modo alle giovani generazioni in materia di prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili;
    se, da un lato, la scuola, quale luogo di partecipazione attiva, può offrire risposte alla difficoltà di comunicazione tra adulti e giovani e tra giovani e istituzioni, dall'altro, una campagna informativa che parta da associazioni e presidi presenti sul nostro territorio può contribuire a sensibilizzare i cittadini, soprattutto i più giovani, alla lotta contro questa gravissima malattia,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative per prevedere, nei percorsi scolastici, programmi specifici di educazione alla sessualità, tenuti da figure professionali specializzate, propedeutici a interventi preventivi per tutte le infezioni sessualmente trasmissibili in costante aumento tra i giovani;

2) ad avviare, con il coinvolgimento delle istituzioni e delle associazioni territoriali, campagne informative e progetti di formazione, rivolti in particolar modo alle giovani generazioni, per diffondere una maggiore sensibilizzazione e conoscenza delle patologie sessualmente trasmissibili.
(1-01576)
«Centemero, Occhiuto».
(4 aprile 2017)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE ALL'ESTENSIONE DEI COSIDDETTI POTERI SPECIALI DEL GOVERNO AL FINE DI SALVAGUARDARE GLI ASSETTI PROPRIETARI DELLE AZIENDE ITALIANE DI RILEVANZA STRATEGICA

   La Camera,
   premesso che:
    il 7 giugno 2014 sono entrati in vigore due regolamenti (il decreto del Presidente della Repubblica n. 85 e il decreto del Presidente della Repubblica n. 86 del 2014) sui poteri speciali (cosiddetti golden power) attinenti alla governance di società operanti in settori considerati strategici, applicativi della riforma operata con il decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, al fine di rendere compatibile con il diritto europeo la disciplina nazionale dei poteri speciali del Governo, che era stata oggetto di censure della Commissione europea e di una sentenza di condanna da parte della Corte di giustizia dell'Unione europea. I due regolamenti riguardavano l'individuazione degli attivi di rilevanza strategica e il regolamento per l'individuazione delle procedure per l'attivazione dei poteri speciali;
    per «poteri speciali» si intende la facoltà concessa al Governo di dettare specifiche condizioni all'acquisito di partecipazioni, di porre il veto all'adozione di determinate delibere societarie e di opporsi all'acquisto di partecipazioni. Tali poteri si applicano, in particolare, nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché di taluni ambiti di attività definiti di rilevanza strategica nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni; la normativa suddetta si ricollega agli istituti della golden share e action spécifique previsti rispettivamente nell'ordinamento inglese e francese;
    con la nuova normativa i poteri speciali nei comparti difesa e sicurezza nazionale sono applicabili a tutte le società, pubbliche o private, che svolgono attività considerate di rilevanza strategica, e non più soltanto rispetto alle società privatizzate o in mano pubblica. Con decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2014, n. 108, sono state individuate le attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale rispetto alle quali l'Esecutivo: potrà imporre specifiche condizioni all'acquisto di partecipazioni; potrà porre il veto all'adozione di delibere relative ad operazioni di particolare rilevanza; potrà opporsi all'acquisto di partecipazioni, ove l'acquirente arrivi a detenere un livello della partecipazione al capitale in grado di compromettere gli interessi della difesa e della sicurezza nazionale; potrà dichiarare nulle le delibere adottate con il voto determinante delle azioni o quote acquisite in violazione degli obblighi di notifica, nonché delle delibere o degli atti adottati in violazione o adempimento delle condizioni imposte;
    le disposizioni su sicurezza e difesa sono state estese, attraverso regolamenti, agli asset strategici nel settore dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni, nei quali l'eventuale opposizione tout court all'acquisizione di partecipazioni si può esercitare solo nei confronti di un'azienda extra Unione europea; una volta individuati tali asset, l'Esecutivo può far valere il proprio veto alle delibere, agli atti e alle operazioni, ovvero imporvi specifiche condizioni. A carico dei soggetti interessati, gli obblighi di notifica sono estesi alle delibere, atti o operazioni aventi ad oggetto il mutamento dell'oggetto sociale, lo scioglimento della società, la modifica di clausole statutarie riguardanti l'introduzione di limiti al diritto di voto o al possesso azionario;
    ulteriori diritti speciali in capo all'azionista pubblico sono stati previsti nella disciplina codicistica delle società, nonché, successivamente, nella legge 23 dicembre 2005, n. 266 (legge finanziaria 2006), che ha introdotto nell'ordinamento italiano la cosiddetta «poison pill» (pillola avvelenata) che consente, in caso di offerta pubblica di acquisto ostile riguardante società partecipate dalla mano pubblica, operanti in qualsiasi settore, di deliberare un aumento di capitale, grazie al quale l'azionista pubblico potrebbe accrescere la propria quota di partecipazione, vanificando il tentativo di scalata non concordata; quando la società in cui lo Stato detiene una partecipazione rilevante rientra anche tra le società privatizzate di cui alla legge n. 474 del 1994, la decisione di emettere questa «poison pill» influisce anche sull'efficacia dei tetti azionari, poiché, a partire dal momento in cui lo Statuto autorizza tali strumenti, la norma che prevede i tetti azionari cessa di trovare applicazione;
    da ultimo, l'articolo 7 del decreto-legge n. 34 del 2011 ha autorizzato la Cassa depositi e prestiti ad assumere partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale, in termini di strategicità del settore di operatività, di livelli occupazionali, di entità di fatturato, ovvero di ricadute per il sistema economico-produttivo del Paese; in questo ambito sono state definite «di rilevante interesse nazionale» le società di capitali operanti nei settori della difesa, della sicurezza, delle infrastrutture, dei trasporti, delle comunicazioni, dell'energia, delle assicurazioni e dell'intermediazione finanziaria, della ricerca e dell'innovazione ad alto contenuto tecnologico e dei pubblici servizi;
    la normativa sulle offerte pubbliche di acquisto (Opa), fissata dal Testo unico della finanza (TUF), di cui al decreto legislativo n. 58 del 1998, ha, quale obiettivo principale, la tutela dell'investimento azionario da parte dei risparmiatori e degli investitori istituzionali italiani ed esteri rispetto alle decisioni degli azionisti di maggioranza; a questo scopo il legislatore ha stabilito che chiunque acquisti azioni oltre una certa soglia sia obbligato a lanciare un'Opa rivolta a tutti gli azionisti e che analogo obbligo si determini anche quando cambi la maggioranza assoluta all'interno di una società o di un accordo, pattizio che controlla una partecipazione già superiore alla soglia; l'attuale soglia unica del 30 per cento è efficace nel caso di società quotate a capitale diffuso in piccolissime quote, mentre non lo è quando, all'interno di una compagine azionaria frazionata, esista una società o un patto comunque dominanti nelle assemblee;
    le direttive dell'Unione europea esigono che sia stabilita una soglia per l'Opa obbligatoria, ma demandano agli Stati membri la sua determinazione; in Europa uno Stato, l'Ungheria, ha due soglie a percentuali fisse, mentre quattro Stati (Spagna, Repubblica ceca, Danimarca ed Estonia) hanno una soglia a percentuale fissa e un'altra a percentuale variabile, legata al controllo di fatto; in Italia, la precedente soglia unica al 30 per cento, infatti, venne a suo tempo individuata nella convinzione che avrebbe favorito il mercato del controllo laddove nessuno avesse avuto interesse a lanciare un'Opa. L'esperienza di questi ultimi 15 anni, invece, ha dimostrato che, molto spesso, il passaggio del controllo senza Opa ha favorito le rendite di posizione e penalizzato le minoranze azionarie, senza procurare vantaggi alle aziende, anzi non di rado gravandole di debiti ingenti legati al processo di acquisizione e non all'investimento operativo; il decreto-legge n. 91 del 2014, cosiddetto «decreto competitività», ha introdotto la doppia soglia Opa al 25 per cento per le società quotate, escluse le piccole e medie imprese che, invece, potranno scegliere di inserire nello statuto una soglia compresa tra il 20 per cento e il 40 per cento;
    per definire i criteri di compatibilità comunitaria della disciplina dei poteri speciali, comunque definiti, la Commissione europea ha adottato un'apposita comunicazione (97/C 220/06) con la quale ha affermato che l'esercizio di tali poteri deve comunque essere attuato senza discriminazioni ed è ammesso se si fonda su «criteri obiettivi, stabili e resi pubblici» e se è giustificato da «motivi imperiosi di interesse generale». Riguardo a taluni settori di intervento, la Commissione europea ha ammesso un regime particolare per gli investitori di un altro Stato membro qualora esso sia giustificato da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica, con esclusione di ragioni di carattere economico e purché conforme alla giurisprudenza della Corte di giustizia;
    inoltre, secondo la Commissione europea, «l'interesse nazionale», invocato come criterio di base per giustificare diversi di questi provvedimenti, «(...) non risulta sufficientemente trasparente e può, quindi, introdurre un elemento di discriminazione nei confronti degli investitori esteri e un'incertezza del diritto». Pertanto, la Commissione europea né nega l'applicabilità se non in connessione e in subordine ai criteri già individuati i quali sottostanno alle ulteriori limitazioni della proporzionalità e della durata nel tempo;
    i singoli Stati mantengono, in assenza di armonizzazione, un certo spazio discrezionale nel definire, nel rispetto dei vincoli posti dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, sia i settori strategici, sia le forme di controllo all'accesso della proprietà delle società operanti in tali settori. Ne deriva una frammentazione del mercato interno. Molti degli Stati membri hanno mostrato, in modo crescente negli ultimi anni, una significativa propensione a prevedere forme di controllo agli investimenti diretti stranieri nei settori strategici, anche se diversi sono i settori considerati strategici e le forme di controllo in concreto previste;
    procedure di infrazione in materia di golden share hanno riguardato la Francia, il Belgio, la Spagna, la Germania il Portogallo e il Regno Unito. Dall'esame della giurisprudenza che ne è derivata, emerge che la Corte di giustizia europea, una volta rispettate le condizioni di massima individuate dalla Commissione europea, mostra prudenza nel sindacare previsioni statutarie restrittive della libertà di accesso del mercato. La misura nazionale è considerata restrittiva solo ove sia imposta in via imperativa da una norma nazionale. Viceversa, ciò non ricorrerebbe ove la normativa nazionale sia autorizzativa/dispositiva e rimetta di conseguenza alla libera scelta del privato l'adozione o meno di una misura che pur sia astrattamente idonea a limitare o restringere le libertà fondamentali;
    secondo la dottrina dalla giurisprudenza della Corte europea si deduce che «nessuna delle disposizioni di diritto societario comune neppure quelle che prevedono la facoltà, il cui esercizio è rimesso all'autonomia negoziale dei soci, di inserire nello statuto delle clausole che alterino il cosiddetto assetto di default modificando i quorum costitutivi e deliberativi oppure limitando i diritti di voto esercitabili in assemblea, oppure ancora creando strumenti in grado di spezzare il rapporto di corrispondenza tra entità del capitale posseduto e poteri amministrativi - può essere qualificata come restrizione della libertà circolazione dei capitali»;
    il nostro Paese è da tempo soggetto ad una serie di acquisizioni da parte di competitor stranieri, sia comunitari che extra comunitari, che, con tutta evidenza, ne stanno riducendo la base produttiva, economica e, da ultimo, finanziaria. Non si disconosce la rilevante importanza, per il nostro Paese, dell'apporto dei capitali esteri, sia come significativo contributo alla crescita economica e all'occupazione, sia come segnale della fiducia degli investitori internazionali. Tuttavia, taluni aspetti di queste cessioni e di queste scalate azionarie mettono comunque in luce una problematica che dovrebbe essere valutata e risolta;
    secondo i dati elaborati a inizio 2017 dai consulenti di Kpmg, multinazionale operante nel settore della consulenza per le imprese e gli Stati, dal 2006 al 2016, la somma investita dagli investitori internazionali in Italia arriva a 200 miliardi di euro dal 2006. Gli stessi esperti considerano questa una cifra sottostimata perché non include l'acquisto di partecipazioni di minoranza o i chip comprati a Piazza Affari. Per Kpmg la cifra reale si spingerebbe sopra i 300 miliardi di euro. Un trend che, negli ultimi anni, ha subito una buona accelerazione con picchi di 27 e 32 miliardi di euro tra il 2014 e il 2015 e 19 puntati nell'anno appena concluso. Le operazioni relative al solo passaggio del controllo del capitale (acquisizioni) sono state 1.340 in dieci anni. Se si includono le quote di minoranza, il numero raddoppia. Nel 2016 gli investitori esteri hanno chiuso 240 operazioni su asset della Penisola, con una crescita del 19,4 per cento;
    in tale ambito, tra la fine del 2015 e il 2016, la Francia ha effettuato operazioni di acquisizione di quote in Italia per 5 miliardi di euro, tra la quota in Telecom Italia e quella appena spuntata in Mediaset. Dal 2006, la Francia ha acquisito quote d'imprese per circa 52 miliardi di euro comprando 185 aziende, 34 lo scorso anno. L'alta finanza italiana è sempre più francese. Unicredit ha da poco venduto, per poco meno di 4 miliardi di euro, la sua Pioneer (un'ottima società di gestione del risparmio con 200 miliardi di soldi italiani investiti sui suoi prodotti) alla francese Amundi. Non esiste, nel credito, un esempio in direzione opposta, cioè acquisizioni da parte di banche italiane in Francia. Basti pensare alle operazioni Bnl-Bnp e Cariparma-Credit Agricole. Ad oggi, le loro operazioni sul suolo italiano stanno generando buoni risultati. Ciò avviene senza grandi sforzi finanziari, visto che Bnp Paribas e Credit Agricole non hanno voluto contribuire al fondo Atlante;
    c’è una sproporzione evidente tra il controvalore delle acquisizioni fatte nell'ultimo decennio da aziende italiane in Francia e i numeri dello shopping francese in Italia. Kpmg calcola che, a fronte dei 52 miliardi di euro spesi dagli investitori francesi in Italia tra il 2006 e il 2016, gli italiani abbiano messo sul piatto appena 7,6 miliardi di euro, se si analizzano i trend dal punto di vista qualitativo, si può notare che le acquisizioni transalpine riguardano principalmente settori strategici come finanza, telecomunicazioni, tecnologia, media e lusso;
    dopo l'acquisizione del 23,9 per cento di Telecom, l'aggressività del gruppo francese Vivendi, società francese attiva nel campo dei media e delle comunicazioni, è venuta di recente allo scoperto nei confronti di Mediaset. Causa scatenante dell'acquisizione del 28,8 per cento di azioni Mediaset da parte di Vivendi, sono state le azioni avviate dal gruppo italiano a seguito della disdetta unilaterale operata dalla multinazionale francese nel luglio 2016 di un accordo su Mediaset premium, sottoscritto ad aprile 2016. Tale scalata appare oggi essersi arenata grazie ad un complesso di fattori favorevoli e concomitanti: la decisa risposta della proprietà Mediaset alle pretese della controparte, le difficoltà finanziarie interne a Vivendi, le prese di posizione del Governo e dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Giova rilevare che il gruppo Vivendi, tra Mediaset e Telecom, ha un portafoglio che, agli attuali prezzi di mercato vale 4,49 miliardi di euro, il che ne fa il terzo investitore francese a Piazza Affari dietro Bpce (5,23) e Lactalis (4,94);
    altro asset strategico nazionale che da tempo è oggetto di attenzione è Assicurazioni generali SpA, la cui ventilata acquisizione da parte del colosso assicurativo francese Axa appare avere conseguenze imprevedibili: Generali è uno dei primi proprietari immobiliari italiani, con un patrimonio di circa 24 miliardi di euro e detiene 500 miliardi di asset, di cui ben 70 investiti in titoli di Stato italiani. È una delle poche compagnie finanziarie italiane ad avere caratura internazionale, essendo presente in 60 Paesi, con 470 società e quasi 80.000 dipendenti. Oltre che quarta compagnia di assicurazioni a livello mondiale, Generali è anche il terzo gruppo industriale italiano, ha 113 miliardi di euro di fatturato e controlla le grandi partecipazioni e scheletri industriali, spine dorsali dell'industria italiana. Infine Generali è socio forte di Monte dei Paschi di Siena assieme ad Axa stessa;
    ulteriori preoccupazioni nascono se si osserva il board che attualmente governa Generali e, in particolare, la sua specifica attività nel nostro Paese. In questo contesto il capo azienda di Generali, Donnet, ha smentito le ricorrenti voci di una fusione con Axa, ma i dossier con progetti che vanno in questa direzione ingombrano le scrivania delle società di analisi finanziarie e di advisoring finanziario; è anche circolata l'ipotesi di una vendita della divisione francese di Generali ad Allianz, che (eliminando in premessa le sovrapposizioni di mercato oggi esistenti in Francia tra Axa e Generali, con i relativi profili di trust) avrebbe favorito la strada alla fusione stessa;
     in tale quadro, il direttore generale del gruppo Alberto Minali costituisce una sicura garanzia; ma si deve pur rilevare come, anche in periodi recenti, la fisionomia culturale e della stessa struttura di Generali sia segnata da forti elementi chiaramente riconducibili alla Francia. Correttamente è stato osservato (Sole 24 Ore) che il risparmio degli italiani rappresenta una delle attività che più interessano la Francia;
    l'unico grande attore finanziario del mercato, (da oltre vent'anni di gestione con la migliore gestione della media del sistema ed un'invidiabile solidità patrimoniale) è Banca Intesa Sanpaolo. Ed è chiaro che un avvicinamento tra Intesa e le Generali costituirebbe, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, l'unica mossa in grado di prevenire l'inevitabile scalata. Tuttavia, Generali ha reagito alla sola notizia dell'interessamento alla fusione di Intesa, acquistando il 3,1 per cento della medesima. A metà febbraio circa, Intesa ha deciso di non proseguire su questa strada;
    differente la filosofia dei gruppi italiani che effettuano acquisizioni in Francia. Qui si tratta, per lo più, di azioni mirate nei settori meno strategici per lo Stato francese, storicamente protezionista nei riguardi delle proprie grandi imprese. Il Governo transalpino ha posto una serie di condizioni da quando si è ufficialmente aperta la trattativa per l'acquisizione di Stx France, controllata dalla coreana STX Offshore & Shipbuilding e dallo Stato stesso, da parte di Fincantieri. Parigi ha una quota del 33 per cento nella ex Chantiers de l'Atlantique. Ha diritto di prelazione sulle azioni ancora in mano ai coreani e, in virtù della legge sulle società strategiche, ha il potere di stroncare sul nascere qualsiasi operazione suscettibile di ledere gli interessi nazionali. Il Governo francese, ad avviso dei presentatori del presente atto, non si blinderà contro Fincantieri, ma ha i mezzi per ottenere un accordo vantaggioso e tutelare know how e occupazione;
    pur nella diversità dei vari contesti, le metodologie di scalata di questi asset sembrano seguire un copione prestabilito: rastrellamento di azioni, intese e acquisizioni strategiche, manovre di borsa, con l'obiettivo di affossare o gonfiare, a seconda delle esigenze, il valore del titolo; se necessario, lancio dell'offerta pubblica di acquisto e, infine, acquisizione. La Borsa non appare più come il luogo dove le imprese si finanziano, ma come il luogo dove si può perdere il controllo della propria impresa, senza che sia possibile intervenire, a causa della preponderante potenza finanziaria della controparte;
    il sistema bancario nazionale, da sempre perno centrale della capitalizzazione delle imprese nazionali, si trova nel cuore di una profonda crisi determinata dalla necessaria ristrutturazione e non è più in grado di capitalizzare le imprese. L'annoso problema dei crediti in sofferenza, eredità della recessione, ha eroso il patrimonio degli istituti. Le banche in questi anni hanno dovuto concentrarsi sempre più sul rafforzamento del loro capitale e in questo modo si è creato un vuoto. Le imprese, pertanto, si ritrovano o sottoquotate o sottocapitalizzate e il loro valore reale è superiore al valore di mercato: questa situazione è stata definita «capitalismo senza capitali»;
    secondo la relazione trasmessa al Parlamento «in materia di esercizio dei poteri speciali», dal Ministro per i rapporti col Parlamento e redatta dal Comitato di coordinamento per l'esercizio dei poteri speciali (periodo 3 ottobre 2014 al 30 giugno 2016), il golden power finora si è rivelato un'arma spuntata. Il bilancio appena pubblicato dal Governo mette in luce tutte le fragilità di una normativa che appare inadeguata in una fase storica dominata da un'ondata di investimenti esteri. Nel periodo, sono stati emanati solo 2 decreti con prescrizioni su 30 operazioni notificate, e mai si è arrivati a porre il veto. Circa il 47 per cento delle notifiche ha riguardato operazioni nel settore della difesa e sicurezza nazionale, il 23 per cento le comunicazioni, il 17 per cento l'energia, il 13 per cento i trasporti;
    secondo il Comitato, l'attuale meccanismo «entra in gioco in maniera tardiva e cioè solo a seguito di decisioni già programmate e/o assunte dalle aziende». Il rapporto «ritiene auspicabile perseguire obiettivi atti ad indirizzare ed accompagnare le scelte più importanti della vita di una società». L'obiettivo deve essere «(...) assicurare continuità alla protezione degli assetti strategici nazionali attraverso la tutela nei confronti di manovre acquisitive che sottendono all'obiettivo di sottrarre tecnologie e know how industriale e commerciale essenziale per la competitività del sistema Italia». «(...) Il mondo sta cambiando velocemente e anche gli strumenti di difesa devono aggiornarsi, come del resto stanno facendo competitor come Germania e Regno Unito». «(...) Lo squilibrio in termini di fusioni e acquisizioni (merger and acquisitions) è nei numeri e merita di essere approfondito»;
    il decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, predisposto dal Governo pro tempore Monti, disponeva che i provvedimenti attuativi fossero aggiornati ogni tre anni. Quindi si apre proprio nel 2017 una finestra utile per aggiornare la normativa. Componenti del Governo hanno rilasciato alcune dichiarazioni (relative al periodo in cui l'operazione «Mediaset-Vivendi» era all'attenzione della pubblica opinione), per cui il golden power potrebbe essere esteso per campo di applicazione e per modalità di esercizio, ad esempio prevedendo una fase negoziale tra governo e investitore straniero per confrontarsi sui piani. In entrambi i casi, il Governo punterebbe a ottenere garanzie su permanenza in Italia di asset produttivi strategici, competenze e posti di lavoro. Potrebbero essere fissati nuovi obblighi, in modo particolare per operazioni di fonte extra Unione europea o effettuate da imprese di Paesi che non rientrano tra le economie di mercato. Il Governo afferma che si valuta «(...) l'opportunità di introdurre una regolamentazione che incrementi gli obblighi di trasparenza a carico degli acquirenti, esaminando anche le normative vigenti in altri Paesi e nell'Ocse». Si ritiene possibile l'introduzione di una norma ispirata alla disciplina relativa alla Securities and Exchange Commission, l'autorità di Borsa americana, nella quale si impone all'investitore che supera l'acquisto del 5 per cento di fornire alla Consob un'informativa dettagliata sui piani di investimento, quanto meno in situazioni strategiche o di potenziale conflitto di interessi;
    assistere oggi alla cessione, alla svendita o al trasferimento di aziende centrali non solo per il loro portato economico in termini occupazionali e di sviluppo di indotto, ma persino operanti in settori definiti «strategici», come Telecom Italia, o, a suo tempo, Alitalia, mostra come, nell'attuale fase, l'azione dell'Esecutivo risulti ad avviso dei presentatori del presente atto di indirizzo insufficiente rispetto alla fase di deindustrializzazione che sta attraversando il nostro Paese e che occorra adottare nuove e straordinarie misure a tutela del tessuto produttivo italiano, del risparmio degli italiani, del know how italiano e di conseguenza a tutela della base occupazionale nazionale. In questo quadro, i rischi connessi alla vicenda Assicurazioni Generali SpA-Axa-Unicredit, rappresenta un ulteriore salto di qualità, in quanto è in gioco il risparmio nazionale e il possesso di innumerevoli asset industriali;
    in conclusione, si valuta assai negativamente e si guarda con allarme la serie di acquisizioni estere elencate nella citata relazione, che, per questa parte, non copre l'anno 2016, ma si limita agli anni 2014-2015. Si riporta testualmente: «Nel 2014-2015 sono state acquistate da soggetti esteri tra l'altro imprese siderurgiche italiane (Acciaierie di Terni dalla Germania e di Piombino dall'Algeria), di telefonia (Telecom Italia dalla Francia e Wind dalla Russia), industriali (Pirelli dalla Cina, Italcementi dalla Germania, Indesit dagli USA), farmaceutiche (Rottapharm dalla Svezia, Sorin dagli USA, Sigma-Tau Pharma Ltd dagli USA e Gentium S.p.a. dall'Irlanda), finanziarie (Istituto Centrale delle Banche Popolari Italiane S.p.a. dagli USA, BSI - Banca della Svizzera Italiana dal Brasile), della moda e del lusso (Krizia dalla Cina, oltre a numerose operazioni negli anni precedenti da Francia e paesi arabi in particolare), alimentari (numerose operazioni di dimensioni minori), oltre agli acquisti di quote percentuali limitate ma significative in volume di investimenti di società industriali, finanziarie e bancarie da parte della State Administration of Foreign Exchange cinese e della People's Bank of China (ENI, ENEL, FCA, Telecom Italia, Prysmian, Mediobanca, Generali, Saipem, Terna, Intesa Sanpaolo, UniCredit, Banca Monte dei Paschi di Siena)»,

impegna il Governo:

1) ad adottare iniziative normative per introdurre, con criteri di urgenza, l'estensione dell'esercizio dei poteri speciali (cosiddetto golden power) anche alle società nazionali operanti nel settore finanziario, con particolare riferimento a quelle società che gestiscono rilevanti quote sia del risparmio nazionale, che di asset produttivi;

2) ad adottare iniziative normative per introdurre, con le medesime modalità, modifiche alla normativa vigente sul golden power che diano corso alle proposte del Comitato di coordinamento per l'esercizio dei poteri speciali, prevedendo:
   a) l'introduzione del criterio di reciprocità con gli Stati esteri in materia di acquisizione di asset rilevanti;
   b) l'incremento degli obblighi di trasparenza a carico degli acquirenti, esaminando anche le normative vigenti in altri Paesi e nell'Ocse;
   c) l'obbligo delle comunicazioni preventive a carico dell'investitore che superi la quota del 5 per cento in società ritenute strategiche nelle quali siano evidenziati, tramite informativa dettagliata alla Consob, i piani di investimento, i potenziali conflitti di interessi, nonché le azioni volte al mantenimento sul territorio nazionale delle strutture produttive e dei livelli occupazionali, anche al fine di assicurare l'invarianza del gettito fiscale da parte delle società acquisite dall'estero;

3) ad attuare il disposto del comma 7 dell'articolo 1, del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56, nella parte in cui prevede l'aggiornamento della normativa per l'individuazione delle attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e di sicurezza nazionale «almeno ogni tre anni»;

4) a valutare la possibilità di assumere iniziative normative per estendere l'esercizio dei poteri speciali anche ai settori dell'agroalimentare e delle tecnologie avanzate, nonché ai settori ad alta intensità di lavoro.
(1-01525)
(Nuova formulazione) «Lupi, Tancredi, Garofalo, Vignali, Bosco, Misuraca, Sammarco, Scopelliti».
(1o marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    il decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56, ha introdotto norme in materia di poteri speciali sugli assetti societari nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché per le attività di rilevanza strategica nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni;
    in particolare, l'articolo 1 del citato decreto-legge ha stabilito che, con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, fossero individuate le attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale, ivi incluse le attività strategiche chiave, in relazione alle quali potessero essere esercitati i poteri speciali (cosiddetti golden power) «in caso di minaccia di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale»;
    con decreto del Presidente della Repubblica 25 marzo 2014, n. 85, è stato emanato il regolamento per l'individuazione degli attivi di rilevanza strategica nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni, mentre con il regolamento contenuto nel decreto del Presidente della Repubblica 25 marzo 2014, n. 85, sono state individuate delle procedure per l'attivazione dei poteri speciali nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni, in attuazione del citato decreto-legge n. 21 del 2012;
    con tali «poteri speciali» il Governo può definire specifiche condizioni all'acquisito di partecipazioni, porre il veto all'adozione di determinate delibere societarie e opporsi all'acquisto di partecipazioni. Il provvedimento aveva l'obiettivo di rendere compatibile con il diritto europeo la disciplina nazionale dei poteri speciali del Governo, che era già stata oggetto di censure sollevate dalla Commissione europea e di una pronuncia di condanna da parte della Corte di giustizia dell'Unione Europea;
    con la comunicazione 97/C220/06 relativa ad alcuni aspetti giuridici attinenti agli investimenti intracomunitari, fin dal 1997, la Commissione europea ha affermato che l'esercizio di tali poteri deve essere attuato senza discriminazioni ed è consentito se si basa su «criteri obiettivi, stabili e resi pubblici» e se è giustificato da «motivi imperiosi di interesse generale». Fu sulla base di tali indirizzi che la Commissione europea avviò procedure di infrazione nei confronti delle disposizioni contenute del decreto-legge n. 332 del 1994. Procedure di infrazione analoghe vennero sollevate anche riguardo alle normative di Portogallo, Regno Unito, Francia, Belgio, Spagna e Germania;
    la nuova normativa ha fissato puntualmente i requisiti per l'esercizio dei poteri speciali nei comparti della sicurezza e della difesa, individuandoli nella sussistenza di minacce di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale. Il Governo, può imporre specifiche condizioni all'acquisto di partecipazioni in imprese strategiche nel settore della difesa e della sicurezza; può porre il veto all'adozione di delibere relative ad operazioni straordinarie o di particolare rilevanza, ivi incluse le modifiche di clausole statutarie eventualmente adottate in materia di limiti al diritto di voto o al possesso azionario; può opporsi all'acquisto di partecipazioni, ove l'acquirente arrivi a detenere un livello della partecipazione al capitale in grado di compromettere gli interessi della difesa e della sicurezza nazionale. Tali norme si applicano a tutte le società, pubbliche o private, che svolgono attività considerate di rilevanza strategica, e non più soltanto rispetto alle società privatizzate o in mano pubblica. Sono, inoltre, stati fissati gli aspetti procedurali dell'esercizio dei poteri speciali e le conseguenze derivanti dagli stessi o dalla loro violazione. Sono nulle le delibere adottate con il voto determinante delle azioni o quote acquisite in violazione degli obblighi di notifica nonché delle delibere o degli atti adottati in violazione o inadempimento delle condizioni imposte;
    con il decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2014, n. 108, che ha contestualmente abrogato il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 253 del 2012, come modificato dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 129 del 2013, è stato adottato il regolamento per l'individuazione delle attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale, riunendo in un unico regolamento le norme che individuano le attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale, comprese le attività strategiche chiave, di competenza sia del Ministero dell'interno, sia del Ministero della difesa;
    in modo analogo al comparto sicurezza e difesa, attraverso specifici regolamenti sono stati individuati gli asset strategici nel settore dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni, sui quali il Governo può esercitare i poteri speciali. In tali casi, il golden power consiste nella possibilità di far valere il veto dell'esecutivo alle delibere, agli atti e alle operazioni concernenti asset strategici, in presenza dei requisiti richiesti dalla legge, ovvero imporvi specifiche condizioni; di porre condizioni all'efficacia dell'acquisto di partecipazioni da parte di soggetti esterni all'Unione europea in società che detengono attivi «strategici», anche, in casi eccezionali, opponendosi all'acquisto stesso;
    altri interventi normativi hanno perseguito scopi analoghi di tutela delle società operanti in settori giudicati strategici per l'economia nazionale: la legge 23 dicembre 2005, n. 266, ha introdotto la cosiddetta « poison pill» che consente all'azionista pubblico, in caso di OPA ostile riguardante una società partecipata, di deliberare un aumento di capitale, grazie al quale poter accrescere la propria quota di partecipazione vanificando il tentativo di scalata non concordata; il decreto-legge n. 34 del 2011, il cui articolo 7 ha autorizzato la Cassa depositi e prestiti ad assumere partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale, in termini di strategicità del settore di operatività, di livelli occupazionali, di entità di fatturato ovvero di ricadute per il sistema economico-produttivo del Paese. In particolare, sono state definite «di rilevante interesse nazionale» le società di capitali operanti nei settori della difesa, della sicurezza, delle infrastrutture, dei trasporti, delle comunicazioni, dell'energia, delle assicurazioni e dell'intermediazione finanziaria, della ricerca e dell'innovazione ad alto contenuto tecnologico e dei pubblici servizi. Infine, relativamente alle offerte pubbliche di acquisto, va ricordato che il decreto-legge n. 91 del 2014 ha introdotto una doppia soglia Opa al 25 per cento per le società quotate, escluse le piccole e medie imprese che potranno inserire nello statuto una soglia compresa tra il 20 per cento e il 40 per cento;
    la ratio delle norme introdotte è la tutela delle imprese operanti in settori considerati strategici, indipendentemente da una partecipazione azionaria dello Stato mettendo a disposizione degli Esecutivi strumenti proporzionati al rischio concreto e consentendo il ricorso, in via eccezionale, al veto preventivo sulle acquisizioni. Ne consegue una riduzione del potere discrezionale del Governo pur allargandone la sfera d'influenza, facendo salvi i principi della concorrenza e della contendibilità delle imprese;
    fino ad oggi il golden power è stato utilizzato dai Governi solo per poche operazioni minori: secondo la relazione trasmessa al Parlamento «in materia di esercizio dei poteri speciali», dal 3 ottobre 2014 al 30 giugno 2016 sono stati emanati solo 2 decreti con prescrizioni su 30 operazioni notificate e mai e stato posto il veto. Circa il 47 per cento delle notifiche ha riguardato operazioni nel settore della «difesa e sicurezza nazionale», il 23 per cento le comunicazioni, il 17 per cento l'energia, il 13 per cento i trasporti;
    il Comitato di coordinamento per l'esercizio dei poteri speciali presso la Presidenza del Consiglio, nella sua relazione sottolinea come il meccanismo del golden power «entra in gioco in maniera tardiva e cioè solo a seguito di decisioni già programmate e/o assunte dalle aziende (...) Detto ciò, si ritiene auspicabile perseguire obiettivi atti ad indirizzare ed accompagnare le scelte più importanti della vita di una società»;
    lo stesso rapporto fornisce indicazioni per il futuro, sottolineando come l'obiettivo debba essere quello di «assicurare continuità alla protezione degli assetti strategici nazionali attraverso la tutela nei confronti di manovre acquisitive che sottendono all'obiettivo di sottrarre tecnologie e know how industriale e commerciale essenziale per la competitività del sistema Italia»;
    la relazione, citando un'indagine di Kpmg, evidenzia lo squilibrio in termini di merger and acquisition e ricorda che nel 2015 sono avvenuti acquisti di imprese italiane dall'estero per 32,1 miliardi (raggiungendo il record del 2008) contro acquisizioni di imprese estere da parte di soggetti italiani per appena 10 miliardi;
    è evidente che una netta distinzione va posta, in base alla natura degli investitori esteri nel nostro Paese, distinguendo quelli realmente produttivi da quelli che realmente mettono a rischio l’«interesse nazionale». L'apporto di capitali esteri, contribuisce infatti alla crescita economica e all'occupazione del nostro Paese, soprattutto in un periodo che vede l'Italia non riuscire ad agganciare in modo deciso i segnali di ripresa che caratterizzano i partner europei;
    l'adozione di strumenti di tutela effettivi, se da un lato deve fornire una risposta all'eventualità di un uso politico «ostile» degli investimenti esteri nel nostro Paese, dall'altro non deve impedire l'ingresso di investitori di lungo termine, anche stranieri, nell'azionariato d'imprese operanti nei settori regolati, né la partecipazione diretta a progetti infrastrutturali decisivi per l'Italia;
    a livello di Unione europea, tra il 2007 e il 2015, nonostante l'attivismo cinese, si è registrato un calo del 42 per cento negli investimenti esteri diretti in entrata ed è evidente che, in attesa di un rilancio della politica industriale europea e dei singoli Stati, l'introduzione non attentamente ponderata di ulteriori barriere rischia di aggravare una perdita di competitività interna, ferma restando la necessità di un attento monitoraggio degli investimenti esteri, nell'ottica di una parità di trattamento da richiedere da parte di tutti, compresi i Paesi comunitari, che, da un lato, sono impegnati nella costruzione di una politica industriale continentale forte e coesa e dall'altro, gestiscono interessi nazionali spesso confliggenti i partner;
    la necessità di aggiornare gli strumenti di difesa delle imprese strategiche, adeguandoli alle mutate situazioni internazionali, è ormai sentita anche in Paesi, nostri partner e competitor, come Germania e Regno Unito;
    in questi ultimi anni numerosi sono stati i casi di acquisizioni «ostili» di imprese italiane ad opera di investitori stranieri e tutte riconducibili ad un modus operandi simile: acquisto massiccio di azioni, manovre di borsa e attività volte ad alterare il valore del titolo, lancio di un'offerta pubblica di acquisto e acquisizione finale;
    una modifica della normativa sul golden power deve tenere bene in considerazione i confini tra interesse nazionale e deriva interventista, coerente con la politica industriale che si intende perseguire, anche in considerazione del fatto che si disciplinano, da un lato, materie inerenti le libertà individuali quali la libertà d'impresa, i principi costituzionali e dell'Unione europea, il diritto alla concorrenza, la libertà di iniziativa economica, il diritto di proprietà, dall'altro, le esigenze prioritarie di interesse pubblico, in particolare quelle della difesa, della sicurezza nazionale e delle attività strategiche;
    grande attenzione va, quindi, posta anche sulle misure idonee ad attrarre investimenti diretti esteri su progetti di lungo periodo, ancora più necessari e più difficili da finanziare, offrendo garanzie per gli investimenti infrastrutturali, il project financing e creando un quadro giuridico certo e favorevole agli investimenti, italiani o stranieri che siano;
    un quadro normativo chiaro che riduca la discrezionalità dell'Esecutivo e che, contestualmente, definisca chiaramente doveri e diritti delle parti è, sicuramente, più attrattivo per gli investitori internazionali intenzionati ad investire a lungo termine nel nostro Paese;
    il comma 7 dell'articolo 1, del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56, già stabilisce che i decreti di individuazione delle attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e di sicurezza nazionale siano aggiornati almeno ogni tre anni,

impegna il Governo:

1) ad adottare iniziative volte ad una revisione delle norme relative al cosiddetto golden powerche, tenendo conto della necessità di contemperare, da un lato, la libertà d'impresa, il diritto alla concorrenza, la libertà di iniziativa economica e il diritto di proprietà e, dall'altro, le esigenze prioritarie di interesse nazionale, introducano nuovi e/o ulteriori obblighi in tema di trasparenza e di comunicazioni a carico degli acquirenti, anche al fine di ottenere garanzie sulla permanenza in Italia di asset produttivi strategici, competenze e posti di lavoro, considerando le esperienze maturate in altri Paesi e nell'Ocse;

2) a farsi promotore a livello di Unione europea dell'introduzione del criterio di reciprocità con gli Stati esteri in materia di acquisizione di asset rilevanti;

3) a procedere, così come previsto dalla normativa vigente, all'aggiornamento dei regolamenti per l'individuazione delle attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e di sicurezza nazionale.
(1-01545)
«Palese, Altieri, Bianconi, Capezzone, Chiarelli, Corsaro, Distaso, Fucci, Latronico, Marti».
(20 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    il 7 giugno 2014 sono entrati in vigore il decreto del Presidente della Repubblica n. 85 e il decreto del Presidente della Repubblica n. 86 del 2014 inerenti ai cosiddetti poteri speciali – golden power – attinenti alla governance di società operanti in settori considerati strategici;
    i citati provvedimenti riguardano l'individuazione degli attivi di rilevanza strategica e il regolamento per l'individuazione delle procedure per l'attivazione dei poteri speciali;
    con decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2014, n. 108, sono state individuate le attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale, rispetto alle quali l'Esecutivo potrà imporre specifiche condizioni all'acquisto di partecipazioni; potrà porre il veto all'adozione di delibere relative ad operazioni di particolare rilevanza; potrà opporsi all'acquisto di partecipazioni, ove l'acquirente arrivi a detenere un livello della partecipazione al capitale in grado di compromettere gli interessi della difesa e della sicurezza nazionale; potrà dichiarare nulle le delibere adottate con il voto determinante delle azioni o quote acquisite in violazione degli obblighi di notifica, nonché delle delibere o degli atti adottati in violazione o adempimento delle condizioni imposte;
    le direttive dell'Unione europea esigono che sia stabilita una soglia per l'Opa obbligatoria, ma demandano agli Stati membri la sua determinazione;
    per definire i criteri di compatibilità comunitaria della disciplina dei poteri speciali, comunque definiti, la Commissione europea ha adottato una apposita comunicazione (97/C 220/06) con la quale ha affermato che l'esercizio di tali poteri deve comunque essere attuato senza discriminazioni ed è ammesso se si fonda su «criteri obiettivi, stabili e resi pubblici» e se è giustificato da «motivi imperiosi di interesse generale»;
    la suddetta comunicazione individua nell'articolo 223 del Trattato istitutivo della Comunità europea (oggi Trattato dell'Unione europea) le disposizioni che autorizzano gli Stati membri ad adottare misure che ritengono necessarie a tutela degli interessi considerati necessari, cioè quelli relativi al comparto sicurezza e difesa;
    il nostro Paese è da tempo soggetto ad una serie di acquisizioni da parte di competitor stranieri, comunitari e extra-comunitari, nonché a una serie di svendita di «asset strategici»,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative, anche di carattere normativo, sia in sede nazionale che in sede comunitaria, al fine di estendere l'esercizio dei poteri di « golden power», con la previsione della partecipazione dello Stato nazionale nell'azionariato oggetto dell'acquisizione al fine di mantenerne il controllo ad altri ambiti di interesse nazionali, tra cui i trasporti, le telecomunicazioni, la gestione delle risorse pubbliche, la sicurezza ed il benessere dei cittadini;

2) ad assumere iniziative, anche di carattere normativo, al fine di prevedere la stabile organizzazione sul territorio italiano come condizione necessaria per le società che, a seguito di operazioni finanziarie, intendano assumere una quota pari ad almeno il 5 per cento in strumenti finanziari, partecipativi e con diritti amministrativi nelle suddette società a rilevanza nazionale;

3) ad assumere iniziative, anche di carattere normativo, per far sì che i criteri di nomina degli amministratori all'interno delle società a rilevanza nazionale siano ispirati a principi coerenti con tale carattere, salvaguardando in particolare l'indipendenza degli amministratori da ingerenze particolari e politiche, ivi comprese quelle derivanti dall'elezione nelle istituzioni nazionali e sovranazionali negli ultimi 5 anni, nonché le caratteristiche di onorabilità e rispettabilità, anche tenendo conto dei procedimenti giudiziario in corso e di qualsivoglia conflitto di interesse.
(1-01546)
«Sorial, Vallascas, Pesco, Cecconi, Paolo Nicolò Romano, Spessotto, Caso, Castelli, Cariello, Brugnerotto, D'Incà, Cancelleri, Crippa, Da Villa, Della Valle, Fantinati, Alberti, Fico, Pisano, Ruocco, Sibilia, Villarosa».
(20 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    al fine di salvaguardare gli assetti proprietari delle società operanti in settori ritenuti strategici e di interesse nazionale, con il decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, è stata disciplinata la materia concernente i poteri speciali esercitabili dal Governo nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché in alcuni ambiti definiti di rilevanza strategica nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni;
    in attuazione del predetto decreto-legge con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 19 febbraio 2014, n. 35, in materia di poteri speciali nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, e con il decreto del Presidente della Repubblica 25 marzo 2014, n. 86, con riguardo ai poteri speciali nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni, sono stati definiti gli ambiti soggettivi ed oggettivi, la tipologia, le condizioni e le procedure per l'esercizio dei poteri speciali nei due diversi settori;
    la specifica individuazione degli attivi di rilevanza strategica, avvenuta con il decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2014, n. 108, per il settore della difesa e sicurezza nazionale e con il decreto del Presidente della Repubblica 25 marzo 2014, n. 85, per i settori energetici, dei trasporti e delle comunicazioni, ha consentito di completare il quadro organizzativo regolamentare del settore;
    i citati regolamenti hanno altresì previsto il coordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri per lo svolgimento delle attività propedeutiche all'esercizio dei poteri speciali, finalità conseguita con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 6 agosto 2014, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 2 ottobre 2014, che ha fissato le modalità procedimentali per lo svolgimento delle corrispondenti attività;
    l'afflusso di capitali stranieri rappresenta un fattore moltiplicatore per la competitività delle imprese nei mercati internazionali. Con la diffusa incertezza sull'andamento della domanda interna, la capacità di attrarre investimenti esteri si è confermata come un'importante leva di crescita, soprattutto per l'Italia che presenta ampie opportunità di investimento;
    tuttavia, negli ultimi anni a causa del perdurare della crisi economica, le difficoltà di crescita riscontrate nell'area dell'eurozona, la voragine sociale legata all'aumento della disoccupazione nei Paesi dell'Unione europea, la posizione del sistema industriale del Paese si è indebolita, lasciando spazio ad una serie sempre crescente che, lungi dal rappresentare occasioni di rafforzamento del sistema produttivo ed occupazionale, hanno sostanzialmente depauperato il contesto economico dell'Italia;
    inoltre, se si considera anche il fatto che la crisi in corso è anche e soprattutto una crisi della finanza pubblica sono spesso i soggetti statali, il Ministero dell'economia e delle finanze in primis, ad aver avviato una nuova fase di privatizzazioni, purtroppo che sembra ancora non conclusa, che ha messo e mette a repentaglio il patrimonio di lavoro e conoscenza acquisito nel corso degli anni dalle società indirettamente o direttamente controllate dallo Stato, sollevando altresì criticità in materia di tutela di ambiti strategici, come le telecomunicazioni, il risparmio di natura bancaria o finanziaria, il trattamento dei dati personali;
    un caso tipico di questo atteggiamento – oltre a quelli riguardanti Poste italiane o il gruppo delle Ferrovie dello Stato – riguarda l'Enel. A gennaio 2017, a seguito della fusione tra Enel green Power ed Enel, per la prima volta la quota di controllo dello Stato italiano nella società energetica è scesa sotto la quota del 25 per cento, rendendo di fatto l'azienda contendibile a soggetti nazionali o sovranazionali;
    tornando all'esercizio dei poteri speciali da parte del Governo, esso dunque, sembra essere – come del resto ricorda anche la recente relazione al Parlamento in materia di esercizio dei poteri speciali – un'arma spuntata sotto un duplice motivo. Il primo motivo riguarda strettamente gli effetti della globalizzazione e l'incapacità dell'Unione europea di agire come attore internazionale. Energia, difesa e reti. Per questi settori più o meno in quasi tutti i Paesi dell'Unione europea esistono golden powers attribuiti allo Stato, con cui un Governo può porre condizioni all'acquisto di partecipazioni strategiche in imprese considerate strategiche. Ma di fronte allo shopping da parte di Paesi al di fuori dell'Unione europea, in particolare quando non sono economie di mercato o non hanno medesimi standard di protezione in tema di diritto del lavoro o diritti sociali, l'Unione europea dovrebbe fare fronte comune;
    in questo senso, appare opportuna la necessità che, anche attraverso forme di cooperazione rafforzata, Italia, Germania e Francia, ma anche gli altri Paesi europei interessati, si facciano portatori di una proposta alla Commissione europea per introdurre il concetto di golden power comunitario a tutela delle tecnologie, delle capacità industriali e occupazionali dell'area dell'Unione europea. Il caso della competizione senza regole della Cina nel campo della siderurgia, oppure del comportamento antielusivo in campo fiscale degli over the top statunitensi come google o apple, impongono l'adozione di una strategia in tal senso, si attiverebbe così anche ad una definitiva armonizzazione delle varie legislazioni nazionali nell'ambito dell'esercizio dei poteri speciali, che tante disparità ha creato in questi anni;
    il secondo versante di criticità riguarda proprio il mercato unico. Infatti, all'interno del mercato unico si assiste oggi ad una reviviscenza di singoli nazionalismi economici che, da un lato, coincidono con scorribande finanziarie opache e aggressive (vedi le mire francesi sul risparmio italiano e sul mondo delle telecomunicazioni), dall'altro sfociano in un protezionismo senza precedenti (vedi il caso dell'acquisizione dei cantieri navali Stx da parte di Fincantieri);
    tale comportamento contrasta con lo spirito e la pratica dell'integrazione economica europea, in una fase politica dell'Unione europea dove al contrario vi sarebbe bisogno di maggiore coesione e trasparenza. In questo senso, sul tema degli asset strategici, appare sempre più utile un intervento che sappia colmare le asimmetrie informative che si sono aperte con la parte del recepimento da parte dei vari Paesi della direttiva europea sull'Opa. Asimmetrie che si notano con la Francia, tanto per citare il più intraprendente investitore nel made in Italy, che ha adottato un criterio di reciprocità che riguarda la condizione di imprese in certi settori strategici;
    il considerando n. 12 della direttiva 2013/50/Ue, in materia di obblighi di trasparenza riguardanti le informazioni sugli emittenti quotati e di prospetto per l'offerta pubblica o l'ammissione alla negoziazione di strumenti finanziari, consente agli Stati membri di definire obblighi più rigorosi di quelli stabiliti dalla direttiva 2004/109/CE, riguardo al contenuto, alla procedura e ai tempi di notifica delle partecipazioni rilevanti nel capitale di società quotate, nonché consente di richiedere informazioni aggiuntive, incluse, in particolare, le intenzioni degli azionisti;
    non si può non rilevare, tuttavia, come in alcuni casi la cessione o il trasferimento di aziende strategiche del nostro Paese avvenga per indirizzo dello stesso Governo, intento a perseguire in questa fase una politica di privatizzazioni dalla dubbia efficacia, ci si chiede infatti se investire nelle privatizzazioni convenga davvero. Se si prendono le ultime cinque operazioni di privatizzazione a mezzo di collocamento di titoli in Borsa e si confrontano il prezzo di collocamento con quello di Borsa al 24 febbraio 2017, si vede che il bottino è tutt'altro che esaltante. L'operazione più controversa è l'offerta pubblica iniziale di Fincantieri, voluta dall'amministratore delegato Giuseppe Bono e avallata dal Ministero dell'economia e delle finanze: la vendita di circa il 25 per cento della società è stata fatta nel giugno 2014 a 0,78 euro per azione. I titoli, rimasti quasi sempre sotto il prezzo di collocamento, adesso valgono 0,594, cioè il 23,8 per cento in meno. Nel febbraio 2015 il Ministero dell'economia e delle finanze ha venduto la quinta tranche Enel, il 5,74 per cento a un gruppo di banche a 4 euro per azione, il prezzo oggi è lo stesso. Nell'ottobre 2015, il Ministero dell'economia e delle finanze ha venduto Poste a 6,75 euro per azione. Il titolo della società oggi vale 5,94 euro, -12 per cento rispetto al collocamento. Infine, le azioni Enav, collocate a luglio 2016 a 3,3 euro, dopo un balzo del 10,6 per cento al debutto i guadagni sono ora a 3,324 euro;
    con riferimento al debito pubblico, la dismissione di un'ulteriore quota di partecipazione dello Stato al capitale di Poste italiane è suscettibile di determinare effetti negativi dovuti al venir meno del versamento dei dividendi distribuiti al Ministero dell'economia e delle finanze da Poste italiane spa. Sono altresì prefigurabili effetti, di carattere eventuale e indiretto e di entità non predeterminabile, dovuti alle variazioni di gettito fiscale per la tassazione, da un lato, dei maggiori dividendi distribuiti a soggetti esterni alla pubblica amministrazione, dall'altro, dei minori interessi sul debito erogati. Come emerso nelle dichiarazioni congiunte delle organizzazioni sindacali i rapporti sempre più intrecciati tra Poste italiane e Cassa depositi e prestiti potrebbero far emergere un conflitto di interessi. È infatti noto che Poste italiane colloca per conto di Cassa depositi e prestiti i cosiddetti buoni postali fruttiferi e libretti di risparmio postale a fronte di commissioni periodicamente contrattate. Le consistenze di Cassa depositi e prestiti per quasi l'80 per cento derivano proprio dalla raccolta di risparmio postale. Dunque si verificherà che Cassa depositi e prestiti, maggiore azionista di Poste, sarà contemporaneamente controparte contrattuale nella definizione del rapporto economico tra emittente e collocatore. Altrettanto allarmanti appaiano poi eventuali effetti della privatizzazione di Poste sul servizio universale. I rapporti tra lo Stato e il fornitore del servizio universale sono disciplinati dal contratto di programma. Il nuovo contratto di programma 2015-2019 tra il Ministero dello sviluppo economico e la società Poste italiane per la fornitura del servizio postale universale e stato firmato il 15 dicembre 2015, come previsto dalla legge di stabilità per il 2015. Il contratto è entrato in vigore il 1o gennaio 2016 e ha ottenuto l'approvazione della Commissione europea. Il contributo per l'onere del servizio postale universale è pari a 262,4 milioni di euro all'anno e viene erogato entro il 31 dicembre di ciascun anno di vigenza del contratto, con cadenza mensile. Il servizio universale rappresenta un presidio essenziale per la vita economica e sociale di tutti i territori del nostro Paese. L'ingresso di una nuova compagine azionaria rischia di mettere a repentaglio la capillarità della rete postale italiana e i servizi offerti alla cittadinanza. Inoltre, sono oltre 30 milioni i soggetti (piccole e medie imprese, enti locali, cittadini, pensionati e lavoratori) che hanno un rapporto costante con il Gruppo Poste italiane, una tale massa di dati sensibili rischia di essere gestita da un soggetto totalmente privato, assunto che nell'era della comunicazione e dell'economia digitale costituisce valore il possesso e la gestione di dati individuali, senza effettive garanzie in termini di tutela della privacy e dei dati industriali ed economici sensibili;
    secondo quanto si apprende da fonti stampa, il Ministero dell'economia e delle finanze sta studiando un nuovo assetto della Cassa depositi e prestiti, diventata nel corso degli anni una sorta di banca d'affari pubblica con una dote da 250 miliardi di euro, il risparmio postale degli italiani. Siamo ancora nella fase istruttoria. Ma si ragiona sulla cessione di una quota del 15 per cento simile a quella già oggi posseduta dalle fondazioni bancarie. L'operazione lascerebbe il controllo di Cassa depositi e prestiti nelle mani del Ministero dell'economia e delle finanze, che scenderebbe al 65 per cento. E porterebbe nelle casse dello Stato, per essere destinati all'abbattimento del debito pubblico, circa 5 miliardi di euro. Anche in questo caso si tratterebbe di un'operazione destinata solo ad indebolire il profilo industriale del nostro Paese. L'istituto di via Goito è un tassello fondamentale per sostenere la dimensione socio-economica, come gli investimenti sul social-housing, sul disagio abitativo o la ricerca universitaria;
    il 10 aprile 2017 scadono i termini di presentazione del documento di economia e finanze ed il Governo è al lavoro proprio in questi giorni per cercare di capire quali siano gli interventi improrogabili e dove invece si può cercare di tagliare qualcosa alla spesa nazionale. Preme, infatti, la richiesta di Bruxelles di ridurre la spesa pubblica, che negli ultimi anni, in particolare durante il Governo Renzi, ha subito una crescita di ben 25 miliardi di euro, accentuando il debito pubblico. Secondo le prime indiscrezioni, pubblicate nel corso della scorsa settimana dal quotidiano economico Il Sole 24 ore, al momento a Palazzo Chigi i riflettori sono puntati su 4 punti fondamentali. I punti più discussi sono incentrati sulla riduzione del cuneo fiscale, sulla revisione della spesa e sull'intervento sulle aliquote Iva in aumento,

impegna il Governo:

1) sul versante europeo:
   a) a promuovere un'iniziativa congiunta, anche attraverso forme di cooperazione rafforzata, per introdurre una legislazione comunitaria completa sull'esercizio dei poteri speciali da parte delle istituzioni europee a tutela delle tecnologie, delle capacità industriali e occupazionali dell'Unione europea, con particolare riferimento ai mercati internazionali e alla competizione operata dai Paesi caratterizzati da economie non di mercato e conseguentemente ad istituire una cabina di regia a livello europeo sulle industrie strategiche, anche a tutela di inappropriate forme di delocalizzazione del lavoro;
   b) a valutare l'assunzione di iniziative a livello di legislazione europea volte a diminuire le asimmetrie informative tra i vari Stati membri derivanti dal recepimento della direttiva europea sull'offerta pubblica d'acquisto;

2) sul versante nazionale:
    a) ad assumere iniziative normative volte a dare corso alle proposte del Comitato di coordinamento per l'esercizio dei poteri speciali, come evidenziate nell'ultima relazione al Parlamento in materia di esercizio dei poteri speciali, rafforzando in particolare le direttrici di indirizzo e l'integrazione dei meccanismi decisionali;
   b) al fine di migliorare il grado di trasparenza del mercato e incrementare il grado di conoscenza e di informazione degli stakeholder, onde favorire l'assunzione di decisioni consapevoli, a valutare l'adozione di iniziative volte all'estensione del contenuto degli obblighi di comunicazione su chi acquisisce una partecipazione particolarmente importante in una società quotata operante in settori di interesse strategico, imponendo allo stesso di chiarire le finalità perseguite con l'acquisizione, anche con particolare riferimento a tutti quei soggetti che operano nel settore del risparmio di natura bancaria e finanziaria;
   c) nelle more della presentazione del documento di economia e finanza, ad assumere impegni chiari circa la necessità di non procedere ad ulteriori dismissioni di quote di partecipazione di società direttamente o indirettamente controllate dallo Stato senza il pieno coinvolgimento del Parlamento sulla missione delle società stesse, a cominciare dalla Cassa depositi e prestiti, anche al fine di salvaguardare tali soggetti strategici in un'ottica di competizione internazionale.
(1-01548)
«Franco Bordo, Ricciatti, Epifani, Folino, Ferrara, Bersani, Laforgia, Roberta Agostini, Albini, Bossa, Capodicasa, Cimbro, D'Attorre, Duranti, Fava, Fontanelli, Formisano, Fossati, Carlo Galli, Kronbichler, Leva, Martelli, Murer, Nicchi, Giorgio Piccolo, Piras, Quaranta, Ragosta, Sannicandro, Scotto, Speranza, Stumpo, Zaccagnini, Zappulla, Zaratti, Zoggia».
(20 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    negli ultimi anni, complice anche la crisi, l'Italia ha ceduto parti importanti del suo patrimonio industriale in favore di investitori esteri, perdendo via via asset che sono sempre stati considerati strategici per la crescita economica del Paese. Le note vicende di dismissioni che hanno interessato due aziende storiche come Alitalia e Telecom Italia si sono sommate a numerose altre privatizzazioni o vendite a società estere di imprese italiane del comporto siderurgico (Acciaierie di Terni), telefonico (Telecom Italia e Wind), industriale (Pirelli e Indesit), nonché dei settori farmaceutico, finanziario e della moda, dove molte note aziende, o parti consistenti di esse, quali Loro Piana, Fiorucci e Valentino sono state vendute a investitori esteri (dalla Francia fino al Giappone);
    l'intensa ondata di privatizzazioni e vendite delle eccellenze italiane a multinazionali estere sono state tra le maggiori cause del preoccupante fenomeno di deindustrializzazione che sta interessando il nostro Paese, a cui, inevitabilmente, si accompagnano la perdita dell'indotto, con la conseguente crescita della disoccupazione, dovuta anche allo spostamento all'estero dell'impianto di produzione, perdita del know-how e delle tipicità delle produzioni locali;
    anche per l'Italia, al pari di Portogallo, Spagna, Germania, Belgio, Regno Unito e Francia (i cui ordinamenti, prevedono, rispettivamente, gli istituti della « golden share» e « action spécifique»), si è aperta una procedura di infrazione (2009/2255 in merito alla disposizioni del decreto-legge n. 332 del 1994), ma, a differenza degli altri membri, questa non ha sufficientemente protetto i propri assetti strategici del comparto privato e pubblico dalle oltre mille operazioni di acquisizione per il controllo di capitale di aziende italiane, verificatesi negli ultimi dieci anni, da parte di investitori esteri;
    il potere di intervento statale si sostanzia principalmente in una serie di poteri speciali (o Golden Power), fra cui la facoltà di dettare specifiche condizioni all'acquisito di partecipazioni, di porre il veto all'adozione di determinate delibere societarie e di opporsi all'acquisto di partecipazioni;
    a tal riguardo, la Commissione, nel 1997, con la comunicazione relativa ad alcuni aspetti giuridici attinenti agli investimenti intracomunitari (97/c 220/06), ha affermato che l'esercizio di tali poteri deve rispettare il principio di proporzionalità, ossia attribuire allo Stato solo i poteri strettamente necessari al conseguimento degli obiettivi, e deve comunque essere attuato senza discriminazioni e che lo stesso è ammesso se si fonda su «criteri obiettivi, stabili e resi pubblici» e se è giustificato da «motivi imperiosi di interesse generale»; la stessa ha poi ammesso la possibilità, per specifici settori di intervento, di un regime particolare per gli investitori di un altro Stato membro qualora esso sia giustificato da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica, purché sia esclusa qualsiasi interpretazione che poggi su considerazioni di ordine economico, in base alla giurisprudenza della Corte di giustizia;
    per quanto concerne il settore fiscale e in quello della vigilanza prudenziale sulle istituzioni finanziarie, o con riguardo ai movimenti di capitali, la Commissione ammette la liceità del Golden Power qualora questo non costituisca un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al libero movimento dei capitali;
    il decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56, sanando la suddetta procedura di infrazione, ha riallineato la normativa italiana ai principi e alle regole del diritto dell'Unione europea, emanando una nuova disciplina in materia di poteri di intervento dello Stato su operazioni straordinarie riguardanti imprese pubbliche e private attive nei settori strategici della difesa e della sicurezza nazionale e nei settori delle comunicazioni, energia e trasporti, anche mediante il rinvio ad atti di normazione secondaria. Per quanto concerne questi ultimi comparti, nel 2014, sono stati emanati due regolamenti sui poteri speciali nei settori dell'energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni: il decreto del Presidente della Repubblica 25 marzo 2014, 85 contenente il «Regolamento per l'individuazione degli attivi di rilevanza strategica» e il decreto del Presidente della Repubblica 25 marzo 2014, n. 86 contenente il «Regolamento per l'individuazione delle procedure per l'attivazione dei poteri speciali». Entrambi i regolamenti sono entrati in vigore il 7 giugno 2014;
    per quanto riguarda, invece, il settore della difesa e della sicurezza, la materia è stata attuata con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 20 marzo 2014, n. 35, che ha individuato le procedure per l'attivazione dei poteri speciali nei settori della difesa e della sicurezza nazionale; con il decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2014, n. 108 è stato adottato il regolamento per l'individuazione delle attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale. Si è provveduto, in seguito, a riunire in un unico regolamento le norme che individuano le attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale, ivi incluse le attività strategiche chiave, di competenza sia del Ministero dell'interno, sia del Ministero della difesa, procedendo contestualmente all'abrogazione dei precedenti decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 253 del 2012 e del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 129 del 2013, di modifica, con cui erano state individuate le attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale al fine dell'esercizio dei poteri speciali e gli atti/operazioni infragruppo esclusi dall'ambito operativo della nuova disciplina;
    inoltre, con la legge finanziaria 2006, si è introdotta nell'ordinamento la disciplina della poison pill che permette di deliberare un aumento di capitale di società partecipate, in caso di offerta pubblica di acquisto ostile, al fine di accrescere la quota di partecipazione dell'azionista pubblico; sullo stesso filone interviene il decreto-legge 31 marzo 2011, n. 34, che, all'articolo 7, autorizza Cassa depositi e prestiti ad «assumere partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale in termini di strategicità del settore di operatività, di livelli occupazionali, di entità di fatturato ovvero di ricadute per il sistema economico-produttivo del Paese, e che risultino in una stabile situazione di equilibrio finanziario, patrimoniale ed economico e siano caratterizzate da adeguate prospettive di redditività»;
    la normativa sulle offerte pubbliche di acquisto (Opa) contenuta nel Tuf (testo unico sulla finanza), di cui al decreto legislativo n. 58 del 1998 e successive modificazioni, ha come obiettivo principale la tutela dell'investimento azionario da parte dei risparmiatori e degli investitori istituzionali italiani rispetto alle decisioni degli azionisti di maggioranza; in tal senso, si prevede che chiunque acquisti azioni oltre una certa soglia, oppure nel caso di mutamenti di maggioranza assoluta all'interno di una società che controlla una partecipazione già superiore alla soglia, sia obbligato a lanciare un'Opa a tutti gli azionisti;
    in passato, la soglia unica era fissata al 30 per cento ma questa era efficace solo nel caso di società quotate a capitale diffuso in piccolissime quote, perché, in caso contrario, non era sufficiente di fronte ad una compagine azionaria frazionata in cui i soci maggioritari avessero stretto patti al fine di diventare dominanti in sede di voto;
    con il decreto-legge n. 91 del 24 giugno 2014, convertito con modificazioni dalla legge n. 116 dell'11 agosto 2014 (il cosiddetto «decreto competitività»), il legislatore ha apportato importanti modifiche alla disciplina delle società quotate, con l'obiettivo precipuo di favorire e semplificare l'accesso al mercato dei capitali di rischio da parte delle società (ivi incluse le piccole e medie imprese), nonché di dotare le società quotande e quotate di una serie di ulteriori strumenti finalizzati a incentivare gli investimenti azionari di lungo periodo e, conseguentemente, a colmare il deficit strutturale che attualmente caratterizza la dimensione complessiva del mercato mobiliare italiano, e di quello azionario in particolare, rispetto alle principali economie europee;
    in particolare, ha introdotto all'articolo 106 del testo unico sulla finanza un regime agevolato ai fini della disciplina dell'offerta pubblica di acquisto obbligatoria applicabile, su base opzionale, alle piccole e medie imprese e, precisamente la facoltà per ciascun piccola e media impresa di stabilire, con apposita previsione dello statuto sociale, la soglia Opa più adeguata alle proprie caratteristiche nell'ambito di un intervallo prestabilito compreso tra il 25 per cento e il 40 per cento, nonché quella, per ciascuna piccola e media impresa, di sospendere, con apposita previsione dello statuto sociale (cosiddetto opt-out statutario), l'applicazione delle disposizioni in materia di offerta pubblica di acquisto da consolidamento durante i primi cinque anni successivi alla quotazione;
    da notizie di stampa si apprende che, presso il Ministro dello sviluppo economico, sia stata elaborata una bozza della cosiddetta norma «anti-scorrerie» sulle scalate finanziarie, ispirata dal codice di commercio francese a dalla normativa statunitense, in cui si prevede che, al raggiungimento del 10 per cento di partecipazioni di una società quotata in una società che opera in un settore strategico, scatti l'obbligo di fornire informazioni sul piano di intervento da parte dell'acquirente; se dovesse entrare in vigore, non basterà più dare comunicazione alla Consob del superamento del 3 per cento di partecipazione, ma al raggiungimento del 10 per cento, del 20 per cento e del 25 per cento, sarà anche necessario trasmettere alla società e alla Consob un prospetto di progetto dettagliato sugli obiettivi che si intendono perseguire nei sei mesi successivi in cui si riportino: le modalità di finanziamento, i soggetti interessati nell'operazione, la strategia finalizzata al semplice acquisto ovvero al controllo, le intenzioni per eventuali accordi e patti parasociali, nonché quelle relative all'eventuale integrazione o revoca degli organi amministrativi o di controllo della società;
    le misure prese fin qui dimostrano ancora degli aspetti molto deboli rispetto al nuovo sistema economico globalizzato: solo tra il 2014 e il primo semestre 2016, su 30 operazioni notificate, sono stati emanati soltanto due decreti di consenso alle operazioni, con prescrizioni e, nello stesso lasso di tempo, il Governo non ha mai esercitato il suo potere di veto, come riportato nella relazione concernente l'attività svolta sulla base dei poteri speciali sugli assetti societari nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché per le attività di rilevanza strategica nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni, aggiornata al 30 giugno 2016;
    lo stesso comitato di coordinamento per l'esercizio dei poteri speciali presso la Presidenza del Consiglio dei ministri sottolinea come il golden power sia uno strumento utile ma non efficace e sufficiente ad evitare le cosiddette «scalate» finalizzate a sottrarre know-how tecnologico e commerciale al nostro Paese, che invece risulta essenziale per la crescita e la competitività dell'economia italiana,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative, anche di carattere normativo, nelle competenti sedi europee e internazionali al fine di favorire l'introduzione del criterio di reciprocità con gli Stati esteri in materia di acquisizione di assetti rilevanti per l'economia del nostro Paese, anche in settori differenti da quello della sicurezza e della difesa, nonché in quelli dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni;

2) ad assumere iniziative normative per prevedere un obbligo di comunicazione preventiva da parte del potenziale acquirente di partecipazioni in società ritenute strategiche, al fine di ottenere specifiche garanzie, pena l'esercizio del diritto di veto, circa il mantenimento in Italia dell'assetto produttivo, nonché delle competenze e dei livelli occupazionali;

3) ad informare tempestivamente le Camere di ogni operazione suscettibile di importanti acquisizioni del controllo, da parte di investitori esteri, di imprese ritenute strategiche per il settore economico in cui operano.
(1-01550)
«Allasia, Busin, Fedriga, Attaguile, Borghesi, Bossi, Caparini, Castiello, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Molteni, Pagano, Picchi, Gianluca Pini, Rondini, Saltamartini, Simonetti».
(21 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    parallelamente all'avvio del processo di privatizzazione delle imprese pubbliche, a partire dal 1994 un complesso quadro normativo di riferimento ha previsto una serie di disposizioni che conferivano al Governo un potere discrezionale capace di contenere o impedire, nelle operazioni di acquisto di partecipazioni azionarie, la contendibilità delle imprese coinvolte;
    la prima delle suddette previsioni, contenuta nel decreto-legge n. 332 del 1994, stabiliva l'attribuzione allo Stato di alcune partecipazioni azionarie munite di poteri speciali (cosiddette golden shares) che consentissero l'esercizio di prerogative in grado di influenzare le decisioni del management: dall'opposizione all'acquisizione di partecipazioni rilevanti, al veto su alcune delibere societarie, al diritto di nomina di membri degli organi amministrativi. Alcune norme successive avevano poi ampliato il concetto della golden share prevedendo che tali prerogative, a prescindere dal possesso azionario da parte dello Stato, potessero essere inserite direttamente negli statuti delle società operanti in alcuni settori strategici (ovvero di quelle che svolgono, per usare le espressioni del legislatore, «attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale» nonché quelle che detengono «le reti e gli impianti, i beni e i rapporti di rilevanza strategica per il settore dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni»);
    il quadro normativo era completato da quanto previsto dall'articolo 2449 del codice civile laddove dispone che lo statuto di una società per azioni può conferire allo Stato o agli enti pubblici, che possiedono partecipazioni, la facoltà di nominare uno o più amministratori o sindaci ovvero componenti del consiglio di sorveglianza, in numero proporzionale alla partecipazione al capitale sociale, un potere concesso a prescindere dalla quota azionaria posseduta, quindi anche di minoranza. Lo stesso articolo riconosce ai nominati gli stessi diritti e gli stessi obblighi dei membri nominati dall'assemblea e possono essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati. Ai sensi dell'articolo 2346 del codice civile alle società, ricorrenti al mercato azionario, è prevista la possibilità di riservare allo Stato o agli enti partecipanti azioni fornite di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi, ma non del voto nell'assemblea generale degli azionisti;
    un tale impianto risultò ben presto incompatibile con una serie di principi comunitari (quali quelli della libera circolazione dei capitali, del diritto di stabilimento, della libera prestazione dei servizi), in quanto considerato una forma di dissuasione all'investimento da parte di operatori degli altri Stati membri nelle imprese condizionate dalla golden share, circostanza sanzionata dalla Corte di giustizia europea che nel 2002 chiese al nostro Paese l'adozione di regole che consentissero una valutazione ex ante delle possibili limitazioni all'attività ed alle operazioni riguardanti le imprese operanti nei settori interessati;
    per definire i criteri di compatibilità comunitaria della disciplina dei poteri speciali, la Commissione europea è ricorsa ad un'apposita comunicazione, nella quale ha affermato che l'esercizio di tali poteri deve comunque essere attuato: «senza discriminazioni ed è ammesso se si fonda su criteri obiettivi, stabili e resi pubblici e se è giustificato da motivi imperiosi di interesse generale». Ciò significa che le autorità europee non si oppongono in via pregiudiziale alla discesa in campo dello Stato tramite strumenti di diretta proprietà. Resta possibile, ad esempio, utilizzare la Cassa depositi e prestiti e i suoi fondi per interventi nell'economia, anche attraverso la partecipazione al capitale d'impresa. L'articolo 7 del decreto-legge n. 34 del 2011, seguendo la medesima logica di salvaguardia delle società d'interesse nazionale, ha infatti autorizzato Cassa depositi e prestiti ad assumere partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale, sia in termini di strategicità del settore di operatività e di fatturato, sia di ricadute per il sistema economico-produttivo del Paese;
    oltre alla suddetta disciplina della golden share, altri interventi normativi hanno perseguito – con diverse modalità – scopi analoghi di tutela delle società operanti in settori giudicati strategici per l'economia nazionale. In particolare, ulteriori diritti speciali in capo all'azionista pubblico sono stati previsti nella legge finanziaria per il 2006, che ha introdotto nell'ordinamento italiano la cosiddetta poison pill (pillola avvelenata) che consente, in caso di necessità, di impedire i tentativi di scalata, le cosiddette Opa ostili, impedendo al soggetto interessato a rilevare la società di raggiungere la quota di maggioranza. Per completezza occorre, infine, menzionare un ulteriore strumento a disposizione del Governo: quello dell'azione di moral suasion e di indirizzo;
    riguardo agli specifici settori di intervento, la Commissione europea ha ammesso un regime particolare per gli investitori di un altro Stato membro qualora esso sia giustificato da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica, purché, conformemente alla giurisprudenza della Corte di giustizia, sia esclusa qualsiasi interpretazione che poggi su considerazioni di ordine economico. Nel settore fiscale e in quello della vigilanza prudenziale sulle istituzioni finanziarie, o con riguardo ai movimenti di capitali, le deroghe ammesse non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al libero movimento dei capitali. In ogni caso, secondo quanto indicato dalla Commissione, la definizione dei poteri speciali deve rispettare il principio di proporzionalità, vale a dire deve attribuire allo Stato solo i poteri strettamente necessari per il conseguimento dell'obiettivo perseguito;
    successivamente, con il dichiarato intento di razionalizzare e circoscrivere gli ambiti ed i criteri di esercizio dei suddetti poteri statali, nonché di risolvere il contenzioso comunitario derivato dal precedente regime, è stato emanato il decreto-legge n. 21 del 2012, che ha ridotto la discrezionalità del Governo pur allargandone la sfera d'influenza, passando dal sistema di conferimento allo Stato dei golden shares (azioni d'oro) a quello di alcuni golden powers (poteri d'oro) di carattere generale, esercitabili in caso di operazioni straordinarie di imprese (tutte e non soltanto quelle partecipate dallo Stato o da altri enti pubblici) operanti in determinati settori strategici individuati per decreto ed aggiornati con cadenza triennale, attraverso tre diverse modalità: condizioni prescrittive all'acquisto di partecipazioni, veto all'adozione di delibere da parte degli organi societari e opposizione all'acquisto di partecipazioni. Quindi, la principale differenza con la normativa precedente si rinviene nell'ambito operativo che consente l'esercizio dei poteri speciali rispetto a tutte le società, pubbliche o private, che svolgono attività considerate di rilevanza strategica e non più soltanto rispetto alle società privatizzate o in mano pubblica;
    secondo molti si tratterebbe di un approccio innovativo che aspira a diventare benchmark all'interno dell'Unione e che dovrebbe tutelare le imprese operanti in settori considerati strategici indipendentemente da una partecipazione azionaria dello Stato, offrendo, al contempo, al Governo strumenti proporzionati al rischio concreto, che gli assicurano di adoperarsi nell'attività ordinaria delle società e gli riconoscono, solo in via d'eccezione, esercizio del veto preventivo sulle acquisizioni;
    pertanto, il merito del decreto-legge n. 21 del 2012 è quello di aver determinato uno spostamento della disciplina e del potere dello Stato da un piano privatistico, quello dei rapporti societari, in cui venivano inseriti elementi pubblicistici di controllo, ad un piano meramente pubblicistico-regolatorio, sul quale il potere di opposizione possa essere esercitato non soltanto in relazione all'operazione di acquisto della partecipazione rilevante ovvero alla conclusione del patto parasociale, ma anche ogniqualvolta insorga l'esigenza di tutelare i sopra citati e sopravvenuti motivi imperiosi di interesse pubblico. Grazie ad esso l'intervento dello Stato in economia si è rafforzato, avendolo messo nelle condizioni di gestire informazioni, decisioni e potere per le questioni di rilevanza strategica per il futuro del Paese, mettendo in azione un'ampia gamma di strumenti e restando dentro le regole di democrazia, trasparenza e assenza di conflitto d'interessi;
    allo stato attuale sono definite «di rilevante interesse nazionale» le società di capitali operanti nei settori della difesa, della sicurezza, delle infrastrutture, dei trasporti, delle comunicazioni, dell'energia, delle assicurazioni e dell'intermediazione finanziaria, della ricerca e dell'innovazione ad alto contenuto tecnologico e dei pubblici servizi. L'articolo 2, comma 1, del decreto-legge n. 21 del 2012 ha stabilito che i regolamenti, ai quali è affidata l'individuazione delle attività di rilevanza strategica e delle attività strategiche chiave, vengono aggiornati almeno ogni tre anni, pertanto nel 2017 si è aperta una finestra utile per il loro aggiornamento;
    nel corso di un'audizione tenutasi il 31 gennaio 2017 presso la Commissione attività produttive, commercio e turismo della Camera, il Ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda ha dichiarato che insieme al Vicecancelliere tedesco Gabriel stanno lavorando ad una bozza di proposta da sottoporre alla Commissione europea per rafforzare i poteri di golden power connessi agli acquisti di aziende strategiche da parte di Paesi che non siano economie di mercato, un progetto per il quale stanno anche cercando la convergenza del Governo francese. Secondo il Ministro è assolutamente necessario e non più rinviabile (tanto più se connesso con le aziende acquisite ci sia un rischio di trasferimento di tecnologia) codificare altri settori sensibili, che, pur non rientranti tra quelli già tutelati, come difesa, energia e reti, detengano della tecnologia;
    dopo il caso Vivendi-Mediaset il Governo, avendo dato un giudizio fortemente negativo delle modalità, giudicate opache, con cui questa operazione è stata portata avanti, sta valutando l'opportunità di introdurre una regolamentazione che incrementi gli obblighi di trasparenza a carico degli acquirenti, esaminando anche le normative vigenti in altri Paesi e nell'Ocse, attraverso un'estensione del golden power per campo di applicazione e per modalità di esercizio, prevedendo una fase negoziale con l'investitore straniero che punti da ottenere garanzie su permanenza in Italia di asset produttivi strategici, competenze e posti di lavoro;
    alcuni recenti fatti, quali il tentativo di scalata di Vivendi o la paventata acquisizione di Assicurazioni generali spa da parte della francese Axa, dimostrano come la valenza strategica, ai fini della crescita del sistema Paese, dell'attrazione degli investimenti esteri debba essere perseguita e realizzata in un quadro che garantisca la tutela degli interessi e degli asset strategici economici nazionali: non solo, dunque, la difesa nazionalistica della proprietà delle imprese, ma la permanenza sul suolo nazionale di asset produttivi, competenze e posti di lavoro;
    in un contesto fortemente globalizzato risulta con evidenza che aziende italiane di importanti settori dell'economia esercitano un forte appeal su quei gruppi economici stranieri che operano con obiettivi di acquisizione e controllo. Del resto anche la vicenda dell'acquisizione di Parmalat da parte della francese Lactalis o quelle, nel settore bancario, di Bnl-Bnp o Cariparma-Credit agricole confermano quell'aggressività del capitalismo francese venuta di recente allo scoperto con i casi di Telecom e Mediaset;
    l'acquisizione di quote di controllo di società da parte di azionisti esteri è un fenomeno naturale in un'economia aperta e può permettere l'afflusso di importanti capitali necessari allo sviluppo ed alla preservazione della società in questione, come pure può sostenere la crescita economica più in generale. Inoltre la storica difficoltà di compagini azionarie italiane a fornire ingenti capitali per gli investimenti o ad acquisire quote importanti di grandi aziende pubbliche in corso di dismissione o di apertura al capitale privato rende indispensabile il ricorso ad investitori esteri. Tuttavia negli ultimi anni il processo è diventato in una certa misura sbilanciato dal punto di vista quantitativo, con un aumento delle acquisizioni di imprese italiane dall'estero e un forte calo dell'acquisizione di imprese straniere da parte di azionisti italiani, in un contesto di arretramento dell'industria italiana, che dal 2007 ad oggi ha assistito ad un ridimensionamento della produzione industriale di circa il 25 per cento;
    dall'ultima indagine Mediobanca-Unioncamere emerge che nel periodo 2004-2013 la quota di medie imprese del campione sotto controllo estero è cresciuta dal 28,5 per cento al 36,2 per cento e per quelle manifatturiere dal 14,3 per cento al 26,7 per cento. Nei tre anni successivi, dal 2014 al 2016, il fenomeno ha toccato ulteriormente molte medie e grandi imprese italiane, senza una capacità di acquisizione comparabile di aziende estere da parte di investitori italiani;
    secondo il rapporto Kpmg mergers and acquisitions per il 2015 sono avvenuti acquisti di imprese italiane dall'estero per 32,1 miliardi di dollari (raggiungendo il record stabilito nel 2008 per queste operazioni e in forte aumento rispetto ai 26,6 miliardi del 2014 e i 13,2 del 2013), contro acquisizioni di imprese estere da parte di soggetti italiani per appena 10 miliardi di euro. Nel 2015 società statunitensi hanno acquisito imprese italiane per 10 miliardi di euro, quelle cinesi per 9,1 miliardi e quelle francesi per 4,2 miliardi. Nel periodo 2005-2009, secondo i dati Kpmg, invece vi era un sostanziale equilibrio tra acquisti di soggetti esteri in Italia e di soggetti italiani all'estero;
    tra l'altro, nel solo biennio 2014-2015 sono state acquistate da soggetti esteri importanti imprese italiane operanti nel campo della siderurgia (Acciaierie di Terni dalla Germania e di Piombino dall'Algeria), della telefonia (Telecom Italia dalla Francia e Wind dalla Russia), dell'industria (Pirelli dalla Cina, Italcementi dalla Germania, Indesit dagli USA), della farmaceutica (Rottapharm dalla Svezia, Sorin dagli Usa, Sigma-Tau Pharma ltd dagli Usa e Gentium S.p.a. dall'Irlanda), del credito (Istituto centrale delle banche popolari italiane s.p.a. dagli Usa, Bsi - Banca della Svizzera italiana dal Brasile), della moda e del lusso (Krizia dalla Cina, oltre a numerose operazioni negli anni precedenti da Francia e Paesi arabi in particolare), dell'alimentazione (numerose operazioni di dimensioni minori), che si aggiungono a quote percentuali limitate ma significative in volume di investimenti di società industriali, finanziarie e bancarie da parte della State administration of foreign exchange cinese e della People's Bank of China (Eni, Enel, Fca, Telecom Italia, Prysmian, Mediobanca, Generali, Saipem, Terna, Intesa Sanpaolo, UniCredit, Banca Monte dei Paschi di Siena);
    utile per graduare l'incisività del golden power e degli altri strumenti interdittivi è la lettura dei dati contenuti nella «Relazione in materia di esercizio dei poteri speciali», presentata dal Ministro per i rapporti con il Parlamento ed aggiornata al 30 giugno 2016, dalla quale emerge che nel periodo che va dal 2013 al 20 giugno 2016, a fronte di 30 operazioni notificate, il Governo ha emanato solo due decreti con prescrizioni (che consistono in adempimenti prescrittivi soggetti a monitoraggio) e non è arrivato mai a porre il veto. Nel medesimo periodo circa il 47 per cento delle notifiche ha riguardato operazioni nel settore della difesa e sicurezza nazionale, il 23 per cento quello delle comunicazioni, il 17 per cento quello dell'energia, il 13 per cento quello dei trasporti. Ciò evidenzia che i poteri esercitabili dal Governo sono più ampi nel settore della difesa, mentre per settori, quali telecomunicazioni, energia e trasporti, l'eventuale opposizione tout court all'acquisizione di partecipazioni si possa esercitare solo nei confronti di aziende extra Unione europea. Di più, secondo la stessa Relazione il golden power entra in gioco in maniera tardiva, cioè solo a seguito di decisioni già programmate e/o assunte dalle aziende;
    con altra relazione presentata dal Governo al Parlamento, quella relativa ai servizi di sicurezza, e riferita al 2016, è stata evidenziata la debolezza attuale del sistema creditizio che sta lasciando spazio a capitali stranieri che vogliono acquisire quote rilevanti del risparmio italiano. «La congiunturale fase di contrazione creditizia», dicono i servizi di sicurezza, ha accentuato il complesso di criticità «ponendo le imprese nazionali dinanzi ad un'accresciuta sovraesposizione rispetto a manovre acquisitive estere dettate, più che da strategie di investimento, da finalità di depotenziamento competitivo, come pure agli inserimenti tossici di matrice criminale volti a condizionare la fisiologica concorrenza in ragione di prevalenti interessi al reinvestimento di capitali di provenienza illecita. Particolarmente sensibili in questa finestra temporale, per il ruolo connettivo di sostegno della crescita economica, la integrità e la solidità del sistema bancario, bersaglio, in qualche caso, di operazioni acquisitive da parte di campioni stranieri in grado di drenare all'estero quote significative del nostro risparmio». In tale contesto, la relazione riporta che i servizi d'informazione hanno intensificato il lavoro di monitoraggio a tutela degli asset nazionali rientranti nell'ambito della disciplina del golden power, orientando l'attività di intelligence verso «condotte estere potenzialmente lesive del corretto sviluppo della concorrenza internazionale e dell'allocazione efficiente delle risorse, nonché verso politiche economiche aggressive nell'attrazione di capitali stranieri»;
    le considerazioni della citata relazione sui servizi di sicurezza suggerirebbero di allargare, attraverso il previsto aggiornamento triennale dei regolamenti di cui all'articolo 2, comma 1, del decreto-legge n. 21 del 2012, i settori di operatività del golden power estendendolo a quello del credito e finanziario;
    ulteriori valutazioni, che investono anche la dimensione europea dell'esercizio dei poteri speciali, dovranno essere svolte con riferimento all'impatto delle operazioni golden power (con particolare riferimento a quelle che riguardano investimenti esteri extra UE) nel quadro delle politiche dell'Unione a favore del mercato interno e nei settori economici strategici;
    la valutazione di un'operazione sottoposta alla procedura dei poteri speciali, se svolta unicamente da una prospettiva nazionale, rischia, da un lato, di non tenere conto delle conseguenze sul mercato interno europeo dei beni e servizi, dall'altro di non prendere in considerazione, nei settori considerati, analoghe e contestuali operazioni in altri Stati membri con impatti sugli equilibri interni all'Unione, e perfino sull'Unione stessa in quanto attore sui mercati globali. Queste criticità riguardano in generale il sistema industriale e infrastrutturale dell'Unione e le prospettive di sviluppo competitivo della sua economia. Tale valutazione, inoltre, acquisisce maggiore valenza in considerazione della mancanza, nei Trattati dell'Unione europea di una politica comune in tema di industria;
    inoltre gli stessi Trattati non consentono, ad esempio, un presidio stabile e mirato delle operazioni nei settori di rilevanza strategica ed un monitoraggio del loro impatto sulla competitività complessiva dell'Unione. Sarebbe, pertanto, opportuno individuare un punto di equilibrio tra l'interesse dello Stato membro a conservare la propria autonomia – ad esempio, in tema di privatizzazioni ed attrazione di investimenti esteri – e la necessità di assicurare il monitoraggio di operazioni che possono influire sugli assetti infrastrutturali, produttivi e tecnologici dell'Unione, ricorrendo a modalità di consultazione e condivisione a livello europeo, che potrebbero contribuire a contemperare queste diverse esigenze,

impegna il Governo:

1) ad assicurare protezione degli assetti strategici nazionali attraverso la tutela nei confronti di manovre acquisitive che possono mettere a rischio il controllo effettivo di tecnologie e know how industriale e commerciale essenziale per la competitività del sistema Italia;

2) ad adottare iniziative finalizzate ad introdurre una regolamentazione volta a rafforzare nelle operazioni di acquisizione la tutela degli asset strategici nazionali, attraverso la previsione di obblighi di trasparenza a carico degli acquirenti, in grado di garantire la permanenza sul territorio di insediamenti produttivi, competenze e posti di lavoro, sul modello di quanto già previsto in altri Paesi dell'Unione europea;

3) ad adottare le necessarie iniziative normative per modificare la disciplina del cosiddetto golden power, al fine di prevedere che l'eventuale opposizione tout court all'acquisizione di partecipazioni in attività di rilevanza strategica si possa esercitare anche nei confronti di imprese dell'Unione europea;

4) a provvedere entro il 2017 al previsto aggiornamento triennale di cui all'articolo 2, comma 1, del decreto-legge n. 21 del 2012, allargando il perimetro di operatività del cosiddetto golden power alle attività dei settori creditizio e finanziario.
(1-01555)
«Marcon, Fassina, Paglia».
(22 marzo 2017)

MOZIONI CONCERNENTI LA QUESTIONE DELL'INSERIMENTO DEL COSIDDETTO FISCAL COMPACT NEI TRATTATI EUROPEI, NONCHÉ LE POLITICHE ECONOMICHE E DI BILANCIO DELL'UNIONE EUROPEA

   La Camera,
   premesso che:
    per la prima volta dalla firma del Trattato di Roma nel 1957, le spinte verso la disintegrazione prevalgono sulla costruzione di «una Unione sempre più stretta fra i popoli europei». L'Unione europea è ben lungi dalla stabilità, dalla legittimità, dallo sviluppo concertato che avevano garantito le sue classi dirigenti. Alla vigilia dei negoziati della Brexit, che rappresenta un campanello d'allarme sull'impopolarità del «progetto europeo», sembra al contrario che, questo, sia entrato in una crisi irreversibile e la sua stessa esistenza sia messa in questione;
    si sono accumulati ostacoli e contraddizioni la cui coincidenza non dipende dal caso; questi sono:
     a) persistente effetto divaricante e deflattivo dell'euro e conseguente innalzamento dei debiti pubblici in rapporto al Pil senza che si intraveda una soluzione;
     b) tragedia dei rifugiati che l'accordo con la Turchia non ha fatto che spostare temporaneamente da una frontiera all'altra;
     c) continuità delle politiche mercantiliste legate all'austerità e alla svalutazione del lavoro che accelerano la deindustrializzazione dei territori e mettono in concorrenza al ribasso i lavoratori di diverse nazionalità e liquidano le risorse del welfare;
     d) crisi delle istituzioni parlamentari nazionali;
     e) guerra lungo tutti i confini d'Europa, dall'Ucraina alla Siria alla Libia;
    l'obiettivo di un'unione sempre più stretta ha ceduto il passo a un sistema di integrazione a «varie velocità». Le celebrazioni ufficiali per il 60esimo della firma dei Trattati di Roma hanno segnato, di fatto, la decisione di disintegrare l'Europa che, lungo la rotta dei Trattati europei e del Fiscal compact, porta a disintegrare l'Unione europea, con la solita prassi di dichiarare che si tratta di un grande passo in avanti nella direzione del suo rafforzamento;
    l'unione monetaria così come è stata realizzata, all'insegna del mercantilismo tedesco e senza politiche comuni in ambito economico, fiscale e sociale, si è dimostrata insostenibile: si è realizzata attraverso una svalutazione del lavoro, la riduzione della spesa pubblica e degli investimenti pubblici, la privatizzazione del patrimonio collettivo ed ha alimentato gli squilibri geografici, ha depresso l'economia e la crescita, ha fatto crescere le diseguaglianze; l'organizzazione dell'eurogruppo presieduto da Dijsselbloom si è dimostrata per i presentatori del presente atto di indirizzo una struttura opaca, non democratica e senza regole condivise;
    l'euro-riformismo di facciata che chiede «più Europa», la riforma dei trattati, maggiore flessibilità e meno rigore, ma che in realtà si accontenta del piccolo cabotaggio e degli «zero-virgola», rispettoso di regole ingiuste e controproducenti non è una soluzione; è la continuazione di politiche neoliberiste che fanno crescere povertà e diseguaglianze;
    infatti, se le pratiche attuali dell'eurogruppo proseguiranno, si avrà presto una grave crisi politico-finanziaria italiana, che avrà ricadute anche in Germania. Si riaffaccia, inoltre, il progetto della «Kernel Europa», un'Unione europea a più velocità ed a cerchi concentrici subordinati ad un nucleo centrale. Questo piano è destinato al fallimento nel medio termine. In ogni caso, l'Italia ne verrebbe probabilmente esclusa di fatto;
    altre forze politiche nazionaliste e xenofobe premono per una disintegrazione dell'Unione europea, la fine della democrazia liberale e una ricostruzione di muri e frontiere;
    ma oltre la falsa opposizione fra Europa e Stato nazionale, la questione chiave sarà come ricostruire potere popolare per cambiare e democratizzare entrambi;
    il «Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell'Unione economica e monetaria» o «Patto di Bilancio Europeo» (cosiddetto «Fiscal compact») è un trattato intergovernativo europeo, sottoscritto dai Paesi dell'eurozona, il quale prevede, in particolare:
     a) il vincolo dello 0,5 per cento di deficit «strutturale» rispetto al Pil;
     b) l'obbligo di ridurre il rapporto debito/Pil di almeno 1/20esimo all'anno per i Paesi con un rapporto superiore al 60 per cento, come previsto dal Trattato di Maastricht;
     c) l'obbligo di mantenere al massimo al 3 per cento il rapporto tra deficit e Pil, come previsto dal Trattato di Maastricht;
    per l'Italia – vista la situazione del suo bilancio strutturale e con un rapporto debito/Pil attualmente pari a circa il 133 per cento – si tratterebbe di impostare manovre finanziarie annuali da decine di miliardi di euro, onde rispettare l'accordo;
    il Fiscal compact prevede, inoltre, l'introduzione dell'equilibrio di bilancio per ciascuno Stato in «disposizioni vincolanti di natura permanente - preferibilmente costituzionale»;
    l'Italia ha proceduto non solo al recepimento del Trattato - senza, peraltro, alcuna consultazione popolare, ma solo con un passaggio parlamentare - nel luglio 2012, ed è tra i pochi Paesi dell'eurozona che ha introdotto tale obbligo in Costituzione nel 2012 (legge costituzionale n.  1 del 2012);
    ma lo stesso Fiscal compact ha obbligato sì a introdurre principi di equilibrio dei conti «tramite disposizioni vincolanti e di natura permanente», ma con una semplice indicazione di «preferenza» per il livello costituzionale (articolo 3, comma 2). La scelta dunque di «costituzionalizzare» il princìpio dell'equilibrio di bilancio ricade pienamente nella responsabilità politica del Parlamento italiano. Ciò comporta il gravissimo effetto di rendere immodificabili le politiche del rigore anche nell'ipotesi - auspicabile e da perseguire politicamente - di un ravvedimento a livello europeo;
    l'articolo 16 del Trattato prevede che, entro cinque anni dall'entrata in vigore (1o gennaio 2013) del Fiscal compact, esso venga inserito nell'ordinamento comunitario; di conseguenza che avvenga la sua trasformazione - entro il 31 dicembre 2017 - da accordo intergovernativo in parte integrante dei trattati fondativi dell'Unione europea;
    tale trasformazione imporrà ai Paesi sottoscrittori il pieno dispiegamento dei suoi obblighi, il suo farsi parte costitutiva e fondante dell'Unione europea, e assai più difficoltoso, complesso e arduo procedere alla sua cancellazione o anche solo ad una sua revisione;
    per l'inserimento del Fiscal compact nei Trattati europei è necessaria l'unanimità dei consensi;
    il Fiscal compact è solo uno di quelli che appaiono ai presentatori del presente atto i soffocanti paletti imposti dall'inizio della crisi. Infatti, l'Europa ha adottato una serie di regole che – sommate alle storture congenite dell'unione monetaria europea – obbediscono alla stessa logica, quella di evitare la condivisione dei rischi:
     a) nel 2010-2012, il programma straordinario di acquisti di titoli di Stato (Securities Market Programme – SMP), mentre aiutava i Paesi periferici a risollevarsi, ha trasferito 10 miliardi di euro alla Banca centrale europea (Bce) (di cui oltre 2 sono andati alla Bundesbank) sotto forma di interessi pagati sui titoli coinvolti nel programma;
     b) i 2 mega-prestiti a lungo termine (LTRO) da 1.000 miliardi di euro erogati dalla Bce tra dicembre 2011 e febbraio 2012 alle banche della periferia che, con questa liquidità, hanno saldato i debiti con le banche tedesche e comprato titoli emessi dai loro rispettivi governi. Così le banche tedesche hanno ridotto la loro esposizione verso la periferia per oltre 750 miliardi di euro;
     c) a marzo 2012, il Fiscal Compact ha aggravato gli interventi di contenimento della spesa pubblica, compresa quella destinata agli investimenti infrastrutturali, il cui crollo è la causa della perdita di quasi 1/4 della nostra produzione industriale;
     d) nell'autunno 2012, l'accordo sul Meccanismo europeo di stabilità ha imposto clausole di azione collettiva (CAC) sulle nuove emissioni di titoli di Stato a partire dal gennaio 2013, con le quali una minoranza degli obbligazionisti (appena il 25 per cento +1) può bloccare la ridenominazione del debito nella nuova valuta nazionale nel caso un Paese esca dalla moneta unica;
     e) per coprirsi dal rischio del debito privato, a gennaio 2016, è entrato in vigore il bail-in che riversa sui risparmiatori domestici le perdite delle banche dovute a una prolungata congiuntura avversa;
     f) il Quantitative Easing (QE) risponde alla stessa logica di segregazione dei rischi. Le banche centrali nazionali si fanno carico della maggioranza degli acquisti di titoli emessi dai rispettivi Governi e, per farlo, si indebitano con la Bce; perciò, se un Governo non paga, a farne le spese è la sua banca centrale, mentre – proprio come in un derivato di credito – la Bce non subirà perdite. Il saldo negativo più o meno elevato dei Paesi periferici dell'eurozona all'interno del sistema Target2, in larga misura, è dovuto proprio al QE. La liquidità ricevuta dai Paesi periferici nell'ambito del QE non è andata a supportare la loro economia reale, bensì è finita all'estero, pompando il loro disavanzo Target2 e, in parallelo, l'avanzo tedesco. La somma dei saldi negativi di Italia e Spagna corrisponde quasi al surplus Target2 della Germania, cieca 720 miliardi di euro. Per l'Italia, il conto sarebbe di 363 miliardi di euro, oltre il 20 per cento del Pil;
    nel 2016, la Bce ha continuato e addirittura rafforzato la sua politica di creazione di abbondante liquidità. Ma tale politica sembra aver raggiunto i suoi limiti. Nel corso della crisi, la Bce ha acquisito nuovi ampi poteri e responsabilità, che fanno ancora di più della sua indipendenza da tutti gli organi politici dell'Unione europea una forzatura dei principi democratici;
    tali politiche, che hanno imposto l'austerità dei conti pubblici all'insieme dell'eurozona, come ha dovuto ammettere ormai anche la maggior parte degli economisti mainstream, hanno avuto effetti negativi sulla crescita economica;
    nell'ambito di un quadro di recessione globale, la zona euro mostra, infatti, particolari difficoltà e il peggioramento dell'economia si è accompagnato a una crisi sociale senza precedenti, mentre si sono sviluppati movimenti xenofobi e antieuropei; l'Europa ha risposto alla crescente instabilità dei mercati finanziari, imboccando la strada dell'austerità. A partire dalla primavera 2010, sono stati così varati programmi di riequilibrio delle bilance commerciali dei Paesi in deficit, attraverso drastici interventi sui conti pubblici, simultanei e concentrati in un lasso di tempo relativamente breve. Nei Paesi periferici, il riequilibrio della bilancia commerciale è avvenuto al prezzo di pesanti ricadute economiche e sociali (catastrofiche, nel caso greco), che hanno determinato un aumento del debito pubblico in rapporto al Pil dovuto alla recessione indotta dalle politiche di austerità;
    la gestione neoliberista della crisi economica ha aumentato le asimmetrie e le disuguaglianze esistenti all'interno dei Paesi europei e tra di loro, attuando una competizione sulla base di svalutazioni interne concorrenziali che si sono tradotte in un attacco sistematico al lavoro ed al welfare;
    nel 2008 la Germania e la Grecia avevano quasi lo stesso livello di disoccupazione, nel 2015 la Germania l'aveva ridotto dal 7,4 per cento al 4,6 per cento, mentre in Grecia è aumentato dal 7,8 per cento al 25 per cento. La gestione della crisi economica in Europa ha portato benefici al Nord contro il Sud Europa;
    in Italia, la disoccupazione è aumentata ad oltre il 12 per cento (quella giovanile oltre il 43 per cento), la capacità produttiva del sistema industriale è scesa del 25 per cento (rispetto all'inizio della crisi) e lo stesso debito pubblico è continuato a salire arrivando nel 2016 al 133 per cento sul Pil che, in 9 anni di crisi, è sceso di oltre 7 punti;
    è sostanzialmente l'analisi delle cause profonde della crisi ad essere sbagliata. Essa viene fatta risalire alla «crisi dei debiti sovrani», mentre i debiti sovrani sono peggiorati a seguito della crisi e non viceversa. Nel biennio della grande recessione, l'aumento del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo (Pil) è stato, nei Paesi periferici, solo leggermente superiore alla media della zona euro. La sfiducia dei mercati finanziari è stata innescata dai crescenti squilibri macroeconomici tra i sistemi produttivi più forti (Germania in primis), molto competitivi e in forte avanzo commerciale, e i Paesi periferici considerati – a causa di debolezze strutturali che sono andate aggravandosi negli anni duemila – meno capaci in prospettiva di onorare i propri debiti pubblici;
    i risultati di queste politiche economiche sono stati largamente fallimentari ed hanno portato alla stagnazione e alla depressione economica. La disoccupazione è cresciuta del 40 per cento, gran parte dei Paesi della zona euro è stata colpita dalla recessione e – nonostante le politiche dei tagli – il debito pubblico è cresciuto mediamente dal 66 per cento (in rapporto al Pil) del 2008 al 93 per cento del 2015;
    pensare che il taglio nei deficit pubblici possa essere compensato dall'aumento di altre componenti della domanda aggregata è una pia illusione. Come mostrato in studi e dall'esperienza pratica (Grecia), il moltiplicatore fiscale, in una fase di recessione, è positivo e l'austerità porterà, quindi, a un calo del Pil maggiore del calo del debito, rendendo impossibile raggiungere l'obiettivo della riduzione del rapporto tra debito e Pil;
    si è attuata una transizione dei poteri dagli Stati nazionali all'oligarchia dell'Unione europea, una vera espropriazione della democrazia a favore di una tecnocrazia che risponde, di fatto, solo ai poteri finanziari e a ristretti gruppi sociali che, secondo i presentatori del presente atto, di tali politiche di austerità si stanno avvantaggiando in maniera scandalosa; tra il 1976 e il 2006, la quota dei salari (incluso il reddito dei lavoratori autonomi) sul Pil è diminuita in media di 10 punti, scendendo dal 67 al 57 per cento circa. In Italia, è andata peggio: il calo ha toccato i 15 punti, dal 68 al 53 per cento (dati dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), un trasferimento di ricchezza, a favore soprattutto del capitale finanziario, pari – in moneta attuale – a 240 miliardi di euro;
    le misure economiche varate in questi ultimi 15 anni stanno dunque minando alle radici, insieme alla dimensione sostanziale e sociale del costituzionalismo europeo, lo stesso processo di integrazione dell'Unione europea;
    l'unità politica di un popolo è data dall'uguaglianza nei diritti, stabiliti nelle Costituzioni, di quanti in esso si riconoscono, appunto come uguali. È quanto afferma lo stesso preambolo alla Carta europea dei diritti fondamentali: «l'Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà». Prima ancora, del resto, il Consiglio europeo di Colonia del 3-4 giugno 1999 aveva dichiarato: «la tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell'Unione europea» e «il presupposto indispensabile della sua legittimità»;
    l'Unione europea, ben più che un mercato comune, è quindi un insieme di popoli che si vogliono unificati da comuni valori di civiltà, oggi, però, posposti ai valori dei bilanci dalle inadeguate tecnocrazie comunitarie; le quali, mentre minacciano l'espulsione della Grecia, culla dell'Europa, nulla dicono delle derive autoritarie dell'Ungheria e del riemergere in tanti Paesi di rigurgiti neonazisti, antisemiti e razzisti. Ben più della libera concorrenza, l'unificazione politica dell'Europa richiederebbe, insomma, come presupposto, l'uguaglianza dei cittadini europei e l'indivisibilità dei loro diritti fondamentali;
    l'economia, che dai padri costituenti dell'Europa fu concepita e progettata come un fattore di unificazione – dapprima il mercato comune e poi la moneta unica – è oggi diventata, in assenza di politiche in grado di governarla, un fattore di conflitto e divisione;
    la ricetta giusta per uscire dalla crisi è sopperire alla carenza di domanda privata con la politica di bilancio. In un periodo durante il quale consumi ed investimenti privati faticano a crescere, è lo Stato che deve intervenire con politiche espansive, in particolare aumentando la spesa pubblica per investimenti per stimolare direttamente la domanda. Date le attuali condizioni di sottoutilizzo della capacità produttiva, è altamente probabile che lo stimolo fiscale incrementi a sua volta anche consumi ed investimenti privati, perché l'impatto positivo dell'aumento del reddito sarebbe superiore all'impatto negativo dell'aumento dei tassi di interesse. Grazie all'effetto moltiplicatore, la politica espansiva genera un aumento più che proporzionale dell’output, innescando un circolo virtuoso: maggiore produzione, maggiori investimenti e maggior capacità produttiva;
    lo stesso Presidente del Consiglio dei ministri pro tempore, Matteo Renzi, ebbe a dichiarare nel novembre 2016 che: «Nel 2017 il “fiscal compact”, le regole del pareggio di bilancio dovrebbero entrare nei trattati. Io sono nettamente contrario a questa ipotesi. Monti, Bersani e Brunetta ci hanno regalato il fiscal compact. Nel 2017 l'Italia dirà no al suo inserimento nei trattati», ed ha aggiunto: «Al netto delle elezioni francesi, tedesche e olandesi, sarà l'anno in cui, in un senso o nell'altro, si metterà la parola fine alle discussioni sulle politiche europee. La politica dell’austerity è fallita». C’è da chiedersi se il Governo attualmente in carica, sostenuto dalla stessa maggioranza parlamentare del Governo pro tempore, darà un seguito concreto a tali affermazioni;
    il pareggio di bilancio strutturale dei nostri conti pubblici, calcolato al netto del ciclo e delle una tantum, era previsto in origine nel 2014, ma è slittato di anno in anno. Lo stesso calcolo dell’output gap (la differenza tra crescita effettiva e crescita potenziale) è una costruzione artificiosa, tant’è che esistono diverse metodologie di calcolo che danno risultati molto diversi: con i criteri della Commissione europea, si è in deficit, ma per i criteri Ocse si è in surplus, mentre per i criteri del Fondo monetario internazionale si è in pareggio;
    l'inserimento del Fiscal Compact nei Trattati europei avrebbe effetti moltiplicativi di queste politiche fallimentari, oltre ad alimentare un clima di distacco e sfiducia delle popolazioni europee verso l'Unione europea. Tale clima potrebbe contribuire a determinare una vera e propria disintegrazione dell'Unione europea e portare all'acuirsi del consenso a soggettività politiche che individuano in politiche nazionalistiche e di colpevolizzazione dei migranti le responsabilità della situazione venutasi a creare;
    il dogma dell'obbedienza cieca ai parametri del Fiscal compact è stato contraddetto anche dalla sentenza della Corte costituzionale italiana n.  275 dell'ottobre 2016, dove si indica – in estrema sintesi – che servizi primari incomprimibili per i cittadini non possono venir negati da vincoli di bilancio e che il corpus normativo costituzionale nazionale ha primazia sul rispetto dei trattati medesimi (anche se inserito in un singolo articolo della Carta costituzionale). Aspetto, quest'ultimo, già sentenziato dagli organi preposti dello Stato tedesco;
    l'8 marzo 2016 la Commissione europea ha presentato una prima stesura del «Pilastro europeo dei diritti sociali». Il 31 dicembre 2016 si è conclusa la consultazione europea che ha visto la partecipazione di istituzioni, parlamenti, sindacati e associazioni; ora si tratta di procedere alla stesura definitiva che dovrà avvenire entro il 2017;
    il «Pilastro europeo dei diritti sociali» rappresenta un obiettivo condivisibile se il risultato finale è quello di fissare principi essenziali da garantire in tutti i Paesi aderenti all'Unione europea. Nel «Pilastro europeo dei diritti sociali», si afferma tra gli altri, il diritto ad un reddito minimo; ma non viene posto in essere un vincolo giuridico per stabilire a livello europeo un reddito minimo, né tantomeno per gli altri diritti sociali in esso contenuti. Se la volontà è di andare in questa direzione, allora occorre definire questo diritto e renderlo effettivo per tutti gli Stati aderenti come misura fondamentale di lotta all'esclusione sociale;
    la politica macroeconomica dell'Unione europea richiede un approccio alternativo che, nel breve periodo, generi una dinamica di sviluppo capace di auto sostenersi, che assicuri la piena occupazione e, in una prospettiva di lungo periodo, una crescita equa e capace di correggere gli evidenti squilibri macroeconomici;
    è necessario ottenere innovazioni radicali dei trattati che regolano le relazioni intraeuropee, a partire dal Fiscal compact, in almeno sei distinte aree:
     a) il requisito di bilancio in pareggio deve essere sostituito da un requisito di bilanciamento dell'economia, che includa fra gli obiettivi livelli di occupazione alti e sostenibili. Merita ricordare che, nelle versioni consolidate del Trattato dell'Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea ricorrono pochissime volte espressioni che impegnino l'Unione a promuovere «un elevato livello di occupazione». Tale obiettivo non risulta attualmente un impegno dell'Unione, bensì appare come l'esito dell'economia sociale di mercato fortemente competitiva, di stampo neo-liberale, che purtroppo l'Unione e le sue istituzioni (Banca centrale europea in testa) hanno promosso. La modifica dei trattati dell'Unione europea nel senso indicato può segnare il ritorno allo spirito della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, che «pone la persona al centro della sua azione», ridisegnando la sua «costituzione economica», contro quella «costituzione finanziaria» che, acriticamente assunta, ha sottratto linfa allo spirito e alla lettera della Carta dei diritti fondamentali e alla costruzione del «popolo europeo»;
     b) in una prospettiva di lungo termine, le dimensioni del budget comunitario devono aumentare sostanzialmente, così da poter finanziare investimenti europei, insieme a beni e servizi pubblici e poter mettere in atto una politica fiscale anticiclica europea, a supporto delle politiche fiscali nazionali;
     c) piuttosto che concentrare l'attenzione solamente sulla crescita complessiva, dare priorità anche al superamento delle disuguaglianze regionali e intersettoriali;
     d) è necessaria una strategia europea per gli investimenti a lungo termine, finalizzata allo sviluppo europeo, nazionale e locale;
     e) politiche per la (re)industrializzazione dei Paesi periferici, che richiedono l'introduzione di specifiche misure protezionistiche. Le politiche anti-cicliche di breve periodo dovrebbero includere misure per la promozione di una ristrutturazione del tessuto produttivo esistente. Tutto ciò richiede, ovviamente, specifici interventi di messa in discussione dell'attuale regolamentazione europea e dell’acquis comunitario;
     f) l'odierna strategia deflazionistica di svalutazione competitiva deve essere rimpiazzata da una strategia di crescita dei salari che assicuri un'inflazione stabile e la partecipazione dei lavoratori alla crescita del reddito nazionale;
     g) vanno poste in atto misure incisive per combattere la concorrenza fiscale,

impegna il Governo:

1) ad intervenire con forza, in tutte le sedi europee, assumendo iniziative per una radicale riscrittura dei Trattati europei per ridurne le contraddizioni con i princìpi delle Costituzioni dei Paesi dell'Unione europea, nate dopo la II Guerra mondiale. In assenza di tale riscrittura, a rifiutare di inserire il Fiscal compact nei Trattati europei, opponendo il veto in sede europea;

2) a promuovere la rimozione delle disposizioni pro-cicliche (come quelle contenute nel Fiscal compact) e lo scorporo della spesa per investimenti dal calcolo del saldo strutturale dal momento che, senza investimenti pubblici, è impensabile che il Pil possa riprendere a crescere oltre lo zero virgola, e quindi permettere al Paese di creare da sé le risorse necessarie per finanziare il fabbisogno del settore pubblico e ridurne il debito;

3) a proporre la mutualizzazione dei rischi del Quantitative Easing e l'introduzione, a livello europeo, di politiche di bilancio di compensazione dei disallineamenti dei cicli economici dei vari Stati membri, esattamente come accadrebbe in una unione monetaria completata dall'unione politica (si veda l'esempio degli Stati Uniti d'America);

4) a proporre una conferenza europea sui debiti sovrani per affrontare le situazioni nazionali più critiche;

5) a proporre, in sede europea, che i titoli di Stato comprati dalle banche centrali nazionali nell'ambito del Quantitative Easing siano trasferiti nell'attivo di bilancio della Banca centrale europea e successivamente congelati a tempo indefinito, senza alcuna sterilizzazione;

6) ad assumere iniziative per reperire, in sede europea, le necessarie risorse finanziarie e, per garantire, specialmente nei Paesi più poveri, che i trasferimenti sociali ai rifugiati non siano a loro spese, e per realizzare diversi interventi di sostegno sia verso i richiedenti asilo, che verso le aree più sotto pressione dai flussi migratori considerato che entrambi gli obiettivi potrebbero essere perseguiti se l'Unione europea potesse incanalare in tale direzione almeno una parte della moneta creata attraverso il Quantitative Easing della Banca centrale europea;

7) a mettere in discussione l'aumento delle spese militari dell'Unione europea, respingendo le proposte di rafforzamento della capacità militare dell'Unione in risposta alla crisi, dato che il ricorso alla coercizione nazionale e internazionale non potrà risolvere i problemi socio-economici più di quanto non abbia fatto in passato;

8) a proporre l'utilizzazione, a livello europeo, di una quota del gettito della tassa sulle transazioni finanziarie, unitamente all'emissione di eurobond e project bond, per finanziare e promuovere l'occupazione, in particolare quella giovanile, e la riconversione ecologica del sistema produttivo;

9)  a proporre la ridefinizione del ruolo della Banca centrale europea come prestatrice di ultima istanza;

10) a proporre un programma europeo, una sorta di «social compact», per lo sviluppo sostenibile e la coesione sociale, la lotta alle disuguaglianze ed alla povertà, da concordare con gli altri partner continentali, nel quale inserire, in particolare, un'indennità di disoccupazione europea;

11) a promuovere una modifica dei Trattati e del diritto dell'Unione europea nel senso di includere la lotta alla disoccupazione e la promozione di un'elevata occupazione tra gli obiettivi principali delle politiche dell'Unione, nonché ad assumere iniziative per integrare e a modificare lo Statuto del sistema europeo di Banche centrali (Sebc) e della Banca centrale europea (Bce), al fine di includere tra i princìpi generali per le operazioni di credito a banche dell'eurozona la condizione per cui un credito viene concesso soltanto se appare promuovere sicuramente l'occupazione netta nel Paese dell'ente richiedente;

12) ad assumere iniziative per fare sì che, in sede di Unione europea, la stesura finale del «Pilastro europeo dei diritti sociali»:
   a) sia approvata definitivamente entro giugno del 2017;
   b) si riferisca espressamente all'articolo 151, paragrafo 1, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea ovvero alla armonizzazione verso l'alto, e che non si limiti alla sola necessità di una maggiore convergenza degli Stati, affermando che i principi sociali di riferimento siano da garantire in tutti Paesi aderenti all'Unione europea;

13) a sostenere, a livello nazionale, attraverso risorse adeguate, azioni, programmi ed iniziative di carattere normativo, il diritto ad un reddito minimo e tutti i diritti recati dal «Pilastro europeo dei diritti sociali»;

14) ad assumere le opportune iniziative normative al fine di cancellare le modifiche agli articoli 81, 97 e 119 della Costituzione, apportate dalla legge costituzionale n.  1 del 2012, al fine di eliminare il principio dell’«equilibrio di bilancio» e di garantire la salvaguardia dei diritti fondamentali;

15) ad assumere le opportune iniziative anche al fine di modificare i meccanismi di cui alla cosiddetta «legge rinforzata», la legge 24 dicembre 2012, n. 243, con particolare riguardo alla definizione del saldo strutturale, alla cosiddetta «regola del debito» per quanto concerne i fattori rilevanti, alla cosiddetta «regola della spesa», alle modalità del monitoraggio da parte del Ministro dell'economia e delle finanze del livello della spesa, alla definizione di eventi eccezionali, alle norme concernenti gli enti territoriali, al ruolo dell'Ufficio parlamentare di bilancio che dovrà essere di supporto del ruolo democratico e sovrano del Parlamento.
(1-01589)
«Marcon, Fratoianni, Civati, Airaudo, Brignone, Costantino, Daniele Farina, Fassina, Giancarlo Giordano, Gregori, Andrea Maestri, Paglia, Palazzotto, Pannarale, Pastorino, Pellegrino, Placido».
(11 aprile 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    il 25 marzo 2017 si sono celebrati i sessanta anni dalla firma dei Trattati di Roma e dell'inizio di un percorso che sino a tempi recenti ha assicurato non solo pace, ma anche prosperità al continente europeo;
    il testo finale della «Dichiarazione di Roma», lungi dal definire un minimo comune denominatore europeo, al fine di ottenere la sottoscrizione di tutti e 27 gli Stati aderenti e di contenere la sottolineatura che l'Unione europea è «indivisa e indivisibile», non poteva che essere il risultato di compromessi e ambiguità tali che dalla sua interpretazione ognuno si potrà appellare a ciò che più convince, interessa e conviene;
    sul problema dei profughi e migranti si limita a indicare una generica politica «efficace, responsabile, sostenibile, rispettosa delle norme internazionali», senza nemmeno accennare ad una cooperazione europea per l'esercizio di filtri più efficaci, soprattutto sul versante mediterraneo;
    ancora più evanescente appare il paragrafo dedicato all'economia, che non indica alcuna priorità decisiva, se non l'affermazione che si vuole la crescita sostenibile, la coesione, la convergenza, tenuto conto della diversità dei sistemi nazionali, la lotta contro la disoccupazione e la discriminazione e l'esclusione sociale;
    il Consiglio dei capi di Stato e di governo dell'Unione, riuniti a Bruxelles il 9 e 10 marzo 2017 ha riproposto quanto, a Versailles, Germania, Francia, Italia e Spagna, il 7 marzo 2017, avevano annunciato: l'idea di un'Europa a più velocità, che, di fatto già da alcuni decenni è attuata grazie alle varie «cooperazioni rafforzate». Un'idea che difficilmente potrà rilanciare in modo efficace il progetto europeo;
    nessuna riflessione per un rilancio di un processo di «federalismo competitivo», in cui i vari Stati competono virtuosamente tra loro per trovare le soluzioni migliori; nessuna idea per un'Unione più moderna e più giusta o per una riflessione su un modello confederale o federale; nessun accenno allo storico deficit democratico delle istituzioni europee;
    il «Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell'Unione economica e monetaria», più noto come «Fiscal Compact», all'articolo 16, stabilisce che, al più tardi entro cinque anni dalla data dalla sua entrata in vigore (1o gennaio 2013), «sulla base di una valutazione dell'esperienza maturata in sede di attuazione, sono adottate in conformità del trattato sull'Unione europea e del trattato sul funzionamento dell'Unione europea le misure necessarie per incorporare il contenuto del presente trattato nell'ordinamento giuridico dell'Unione europea»;
    tra fine 2017 e inizio 2018, quindi gli Stati membri dovranno decidere che futuro riservare al Fiscal compact e come modificarlo, ricordando che, per l'inserimento nei trattati europei, è richiesta l'unanimità degli Stati membri;
    il Fiscal compact è stato firmato in occasione del Consiglio europeo del 1o-2 marzo 2012 da tutti gli Stati membri dell'Unione europea ad eccezione di Regno Unito e Repubblica ceca (che ha aderito nel 2014);
    il suddetto trattato, concordato al di fuori della cornice giuridica dei trattati europei, all'articolo 3, ha impegnato le Parti contraenti ad applicare e ad introdurre, entro un anno dalla sua entrata in vigore, con norme vincolanti e a carattere permanente, preferibilmente di tipo costituzionale, o di altro tipo purché ne garantiscano l'osservanza nella procedura di bilancio nazionale, diverse regole, in aggiunta a e senza pregiudizio per gli obblighi derivanti dal diritto dell'Unione europea:
     a) il bilancio dello Stato dovrà essere in pareggio o in attivo; tale regola si considera rispettata se il disavanzo strutturale dello Stato è pari all'obiettivo a medio termine specifico per Paese, con un deficit che non eccede lo 0,5 per cento del Pil;
     b) gli Stati contraenti potranno temporaneamente deviare dall'obiettivo a medio termine o dal percorso di aggiustamento solo nel caso di circostanze eccezionali, ovvero eventi inusuali che sfuggono al controllo dello Stato interessato e che abbiano rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione, oppure in periodi di grave recessione, a patto che tale disavanzo non infici la sostenibilità di bilancio a medio termine;
     c) qualora il rapporto debito pubblico/Pil risulti significativamente al di sotto della soglia del 60 per cento, e qualora i rischi per la sostenibilità a medio termine delle finanze pubbliche siano bassi, il valore di riferimento del deficit può essere superiore allo 0,5 per cento, ma in ogni caso non può eccedere il limite dell'1 per cento del Pil;
     d) qualora il rapporto debito pubblico/Pil superi la misura del 60 per cento, le parti contraenti si impegnano a ridurlo mediamente di 1/20 all'anno per la parte eccedente tale misura. Il ritmo di riduzione, tuttavia, dovrà tener conto di alcuni fattori rilevanti, quali la sostenibilità dei sistemi pensionistici e il livello di indebitamento del settore privato;
    il Parlamento italiano, oltre a ridisegnare la propria disciplina contabile ordinaria, con la legge costituzionale 12 aprile 2012, n. 1, ha introdotto nella Costituzione il pareggio di bilancio, modificando gli articoli 81, 97, 117 e 119 della Costituzione;
    già nel gennaio 2014 la Camera dei deputati, approvando tre diversi atti di indirizzo ha evidenziato l'opportunità ed ha impegnato il Governo ad agire in sede europea per un riesame dei meccanismi posti a presidio delle regole della governance economica al fine dell'introduzione di una maggiore flessibilità degli obiettivi di bilancio a medio termine. Con lo scopo di liberare risorse da destinare alle politiche di sviluppo e crescita;
    in vista della scadenza del dicembre 2017, nell'ambito dell'Unione europea, sta operando un gruppo di lavoro sulla revisione del Fiscal compact, che starebbe seguendo l'idea di rendere il Fiscal compact più flessibile, incorporandolo, contestualmente, nel Trattato di Maastricht;
    la necessità di dover «ratificare» il Fiscal compact nei Trattati europei può costituire un'opportunità unica per inserire la norma di buon senso volta a scorporare gli investimenti che creano valore. Inoltre, è un'occasione sia per rivedere i parametri di Maastricht, che non hanno retto alla prova di circa un quarto di secolo di esperienza, sia per ripensare le basi stesse dell'unione monetaria – senza per questo percorrere la via del ritorno alle monete nazionali – a cominciare dall'esistenza di una moneta senza un bilancio comune e una condivisione dei rischi. Una tale riflessione diventa ancora più importante per l'Italia, anche in prospettiva di un probabile prossimo ridimensionamento del Quantitative easing da parte della Bce;
    il Trattato di Maastricht venne firmato nella convinzione che si sarebbe presto giunti a una piena integrazione politico-statuale europea; invece, venne creata una valuta priva di Stato e furono trasferite alle istituzioni comunitarie le politiche monetarie e la garanzia del mercato unico,

impegna il Governo:

1) nell'ambito di una revisione del Fiscal Compact, a promuovere una rinegoziazione complessiva di tutti gli altri trattati dell'Unione europea vigenti, nessuno escluso;
2) ad assumere iniziative per fare dell'Italia la promotrice e la protagonista, con le opportune alleanze, di un processo di rinegoziazione globale nell'Unione europea, nella direzione della flessibilità, del riconoscimento delle diversità territoriali, del rifiuto di soluzioni uniche – specialmente fiscali e di bilancio – imposte indiscriminatamente all'intera Unione;
3) sul piano interno, a perseguire una politica di consistente riduzione di tasse-spesa-debito, visto che non è infatti in discussione il principio astratto del pareggio di bilancio, ma il livello concreto di tassazione e di spesa pubblica al quale questo pareggio viene conseguito.
(1-01600)
«Capezzone, Palese, Altieri, Chiarelli, Ciracì, Corsaro, Distaso, Fucci, Latronico, Marti».
(18 aprile 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    nel preambolo alla carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che a partire dal Trattato di Lisbona è stata equiparata come valenza ai trattati istitutivi dell'Unione europea si legge: «l'Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà; l'Unione si basa sui principi di democrazia e dello stato di diritto. [...]. L'Unione contribuisce al mantenimento e allo sviluppo di questi valori comuni, nel rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli europei, dell'identità nazionale degli Stati membri e dell'ordinamento dei loro pubblici poteri a livello nazionale, regionale e locale; essa cerca di promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile e assicura la libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali nonché la libertà di stabilimento»;
    gli articoli 99 e 104 del Trattato di Roma istitutivo della Comunità economica europea (così come modificato con il Trattato di Maastricht e dal Trattato di Lisbona) trovano attuazione attraverso il rafforzamento delle politiche di vigilanza sui deficit ed i debiti pubblici, nonché con un particolare tipo di procedura di infrazione;
    la procedura per deficit eccessivo (pde), che ne costituisce il principale strumento, è stata implementata dal Patto di stabilità e crescita (psc). Stipulato nel 1997, il Patto di stabilità e crescita ha rafforzato le disposizioni sulla disciplina fiscale nell'unione economica e monetaria, di cui agli articoli 99 e 104 del suddetto trattato di Roma, ed è entrato in vigore con l'adozione dell'euro, il 1o gennaio 1999;
    in base al Patto di stabilità e crescita, gli Stati membri devono continuare a rispettare nel tempo i parametri di deficit pubblico (3 per cento) e di debito pubblico (60 per cento del prodotto interno lordo);
    da più parti si è sottolineata l'eccessiva rigidità del patto, perché questa, se non applicata considerando l'intero ciclo economico, genera rischi involutivi derivanti dalla contrazione della politica degli investimenti;
    l'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha in diversi studi fatto presente come il prodotto interno lordo non sia un indicatore esaustivo per parametrare il benessere di un Paese e dei suoi cittadini, e che bisogna tener conto anche di altri indicatori, come la qualità e il costo delle abitazioni, salari, sicurezza dell'impiego e disoccupazione, l'educazione, la coesione sociale, la qualità dell'ambiente, la salute, la sicurezza e altri;
    la politica economica europea nel suo complesso non è riuscita a risolvere gli enormi squilibri tra i Paesi dell'Unione europea, in particolare i problemi di decadimento sociale e di mancati livelli minimi di benessere dei cittadini, accentuati dalla crisi sopraggiunta a partire dal 2007;
    le misure di austerità adottate in Italia, e non solo, non hanno prodotto gli effetti positivi sperati, anzi hanno acuito effetti ciclici negativi;
    le misure di austerità avevano come scopo di diminuire la spesa pubblica e miravano a equilibrare il bilancio, con l'ovvia conseguenza di ridurre ulteriormente la spesa nazionale senza risultati notevoli in termini di crescita, recupero, nonché in termini di riduzione del rapporto debito/prodotto interno lordo;
    tali politiche di austerità hanno prodotto come risultato una riduzione della domanda aggregata e, direttamente e indirettamente, hanno indebolito il potere d'acquisto dei lavoratori (ad esempio, riducendo la spesa per i servizi pubblici, sanità e istruzione);
    le cattive performance dell'Italia, stando ai dati, sono da ricercarsi nelle cattive politiche legislative e, in particolare, relative alla non tutela dei posti di lavoro;
    oltre a essere dannose, le politiche di austerity sono anche tarate su vincoli oramai anacronistici. Il numero «3» del famoso vincolo del 3 per cento deficit/Prodotto interno lordo deriva da una mera espressione algebrica e serviva a stabilizzare il rapporto debito/Prodotto interno lordo al valore medio (60 per cento) dei primi Paesi che, negli anni ’90, sono entrati nell'Unione monetaria europea, tutto ciò a condizione che il Prodotto interno lordo reale crescesse, in media, attorno al 3 per cento annuo. Tale obiettivo (60 per cento rapporto debito/Prodotto interno lordo) e tale ipotesi (3 per cento crescita annua Prodotto interno lordo) si sono rivelati nei trascorsi 20 anni, secondo i presentatori del presente atto, palesemente irrealistici;
    tale parametro non era nato da considerazioni di tipo politico, e a maggior ragione non lo è dopo 20 anni dal suo primo utilizzo, ma è stato riutilizzato acriticamente e sistematicamente senza nessuna correlazione coi Paesi a cui si riferisce;
    oltre all'anacronismo della misura di austerity, va tenuto presente che da ricerche effettuate sia dal Fondo monetario internazionale, che in ambito accademico, emerge che, in periodo di crisi finanziaria, i moltiplicatori assumono valori molto più alti. Da ciò si desume che è proprio nei momenti di crisi che l'investimento genera i maggiori benefici;
    essendo oramai chiaro che tali vincoli sono troppo penalizzanti per la nostra economia, appare evidente che la miglior strategia da adottare per superare lo stallo in cui è precipitato il nostro Paese e rilanciarne la crescita economica, è quella di superare tali vincoli;
    servirebbero politiche, sia a livello nazionale che europeo, coerenti con un sano sviluppo delle economie europee, tendenti quindi a migliorare il benessere dei cittadini, con policy atte a aumentare gli investimenti, nonché l'occupazione e la stabilità del salario, sia con politiche di sostegno al reddito, che eliminando qualsivoglia politica di precarizzazione del mercato del lavoro,

impegna il Governo:

1) a intervenire nelle sedi europee rifiutando in modo perentorio l'inserimento del Fiscal compact nei Trattati europei, e quindi opponendo il veto dell'Italia;

2) a intervenire nelle sedi europee assumendo iniziative volte a modificare i trattati europei per promuovere il ritorno ad una Unione europea dei popoli, realmente dedita alla creazione e allo sviluppo di un'unione ove si concretizzino i valori fondamentali comuni codificati nelle Costituzioni degli Stati nella parte in cui promuovono la solidarietà tra i popoli;

3) ad assumere iniziative per rimuovere le deleterie disposizioni di austerity inserite con legge costituzionale n. 1 del 2012;

4) a intervenire nelle sedi europee, in attesa di una coerente rivisitazione dei trattati, per promuovere una interpretazione estensiva dei trattati esistenti in modo da contrastare le attuali interpretazioni promotrici di politiche di austerità e passare a interpretazioni foriere di espansione economica;

5) a intervenire, anche nelle sedi europee, per rilanciare il principio di una gestione autonoma del debito da parte degli Stati, basata non più su politiche di austerity, ma di riduzione progressiva del debito, attraverso la crescita economica;

6) a programmare una politica di crescita basata su obiettivi chiari e ben definiti e sulla promozione dell'innovazione nei settori chiave come quello dell'energia pulita;

7) ad assumere iniziative per scorporare dal computo dell'indebitamento netto gli investimenti pubblici relativi a finanziamenti per opere innovative, per la ricerca, per la salute, il benessere dei cittadini, la coesione sociale, l'occupazione e la sicurezza dell'impiego e per gli obiettivi di missione intrapresi dai Paesi per il loro rilancio economico;

8) a intervenire in sede europea per una armonizzazione interna dei montanti di surplus/deficit tra i vari Paesi dell'Unione europea;

9) a non considerare in alcun caso come vincolante l'obiettivo di mantenere al 3 per cento il rapporto deficit/Prodotto interno lordo;

10) a considerare come vincolanti gli indicatori di benessere equo  e sostenibile recentemente individuati nel documento di economia e finanza, rendendoli programmatici;

11) a promuovere misure adeguate di sostegno al reddito e di inclusione sociale, di entità non inferiore a quelle già adottate dagli altri Paesi europei, considerando anche le proposte di legge depositate in Parlamento su tali temi.
(1-01601)
«Caso, Cariello, Brugnerotto, Castelli, D'Incà, Sorial, Cecconi».
(18 aprile 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    nel suo programma legislativo per il 2017, la Commissione europea, illustrando le misure cui dar corso per assicurare «un'Unione economica e monetaria più profonda e più equa», sottolinea come il Libro bianco sul futuro dell'Europa, che dovrà indicare le tappe per riformare l'Unione europea a 27 Stati membri sessant'anni dopo i Trattati di Roma, comprenderà un ampio capitolo sul futuro dell'Unione economica monetaria, nel quale saranno incluse una revisione del patto di stabilità e crescita incentrata sulla stabilità e misure per conformarsi all'articolo 16 del Fiscal Compact ossia per integrarne il contenuto nel quadro giuridico dell'Unione europea;
    firmato in occasione del Consiglio europeo dell'1 e 2 marzo 2012 da tutti gli Stati membri dell'Unione europea a eccezione del Regno Unito e della Repubblica ceca, il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell'Unione economica e monetaria (cosiddetto Fiscal Compact) incorpora e integra in una cornice unitaria alcune delle regole di finanza pubblica e delle procedure per il coordinamento delle politiche economiche, in buona parte già introdotte o in via di introduzione nel quadro della governance economica europea. Tra gli elementi principali ivi contenuti meritano di essere richiamati:
     a) l'impegno delle parti contraenti ad applicare e introdurre, entro un anno dall'entrata in vigore del trattato, con norme costituzionali o di rango equivalente, la «regola aurea» in base alla quale il bilancio dello Stato deve essere in pareggio o in attivo. Sotto tale profilo si evidenzia che in Italia, il 17 aprile 2012, è stata approvata la legge costituzionale n. 1 del 2012, volta a introdurre in Costituzione il principio del pareggio di bilancio, nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea. Con successiva legge «rinforzata» n. 243 del 2012, approvata a maggioranza assoluta dei membri di ciascuna Camera ai sensi del nuovo comma 6 dell'articolo 81 della Costituzione, sono state dettate le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l'equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni;
     b) l'impegno delle parti contraenti, qualora il rapporto debito pubblico/Pil superi la misura del 60 per cento, a ridurlo mediamente di 1/20 l'anno per la parte eccedente tale misura;
     c) la possibilità, per qualsiasi parte contraente che consideri un'altra parte contraente inadempiente rispetto agli obblighi stabiliti dal patto di bilancio, di adire la Corte di giustizia dell'Unione europea, anche in assenza di un rapporto di valutazione della Commissione europea;
     d) la potestà, per le parti contraenti, di fare ricorso a cooperazioni rafforzate nei settori essenziali per il buon funzionamento dell'eurozona, senza tuttavia recare pregiudizio al mercato interno;
     e) l'istituzione di «vertici euro» informali dei Capi di Stato e di governo delle parti contraenti la cui moneta è l'euro, insieme con il Presidente della Commissione europea;
    come noto, il Fiscal Compact è entrato in vigore il 1o gennaio 2013, dopo essere stato ratificato – come previsto dall'articolo 14 del medesimo trattato – da dodici Paesi dell'Eurozona (Austria, Cipro, Germania, Estonia, Spagna, Francia, Grecia, Italia, Irlanda, Finlandia, Portogallo, Slovenia), oltre che da quattro Paesi non aderenti alla zona euro (Lettonia, Lituania, Romania e Danimarca). Il nostro Paese ha ratificato il Fiscal Compact con la legge n. 114 del 23 luglio 2012. Ultimo Paese a ratificare è stato il Belgio, in data 21 marzo 2014;
    per quanto concerne il livello cui i singoli Stati membri hanno dato seguito agli impegni assunti, firmando e ratificando il Fiscal Compact, uno studio del Servizio Studi e Ricerche del Parlamento europeo (ERPS), pubblicato nel mese di giugno del 2016 (Fiscal Compact Treaty: Scorecard for 2015), evidenziava, a tre anni dall'entrata in vigore, un quadro contrastato;
    gli sforzi per rispettare i termini del Fiscal Compact – incluse le norme volte a rafforzare la disciplina di bilancio – hanno registrato forti variazioni tra uno Stato membro e l'altro. Alcuni Paesi sono riusciti a ridurre significativamente il deficit pubblico, mantenendo una posizione di bilancio solida, in linea con i requisiti del Fiscal Compact. Altri Paesi sono riusciti a tagliare il debito pubblico con la cadenza prevista dal trattato, ma altri ancora hanno realizzato progressi decisamente più limitati. Ciò ha indotto numerosi studiosi ed economisti ad affermare che il Fiscal Compact è stato «inefficace», facendo riferimento, per esempio, ai bilanci di Francia e Italia nel 2015, che risultavano entrambi palesemente disallineati rispetto al Fiscal Compact, oltre a violare gli impegni precedentemente assunti in materia di riduzione deficit. Lo studio del Parlamento europeo si sofferma sulle posizioni espresse dal Fmi e dalla Bce, che hanno entrambi sottolineato come il rispetto del quadro fiscale dell'Unione europea «sia rimasto debole», nonostante gli sforzi per rafforzare l'efficacia delle politiche economiche e il loro coordinamento. Parallelamente, la Corte dei conti europea, in un suo rapporto, ha evidenziato la crescente complessità del quadro di governance dell'economia, che rischia inevitabilmente di comprometterne l'efficacia;
    ormai si discute da anni, sia a livello parlamentare sia extraparlamentare, della necessità di porre con forza il tema della revisione del Fiscal Compact relativamente ai parametri e ai vincoli legati alla riduzione del debito, del rapporto deficit-Pil e della distinzione netta, nell'ambito del patto di stabilità, delle risorse di parte corrente da quelle in conto capitale per gli investimenti;
    già nel gennaio 2014 l'Assemblea della Camera dei deputati approvava tre mozioni, firmate sia da parlamentari di maggioranza che di opposizione e sulle quali il Governo aveva espresso parere favorevole, con cui si evidenziava l'opportunità, e si impegnava in tal senso l'Esecutivo, di agire in sede europea per un riesame degli attuali meccanismi posti a presidio delle regole della governance economica al fine dell'introduzione di una maggiore flessibilità degli obiettivi di bilancio a medio termine al fine di liberare risorse da destinare alle politiche di sviluppo economico e alla crescita;
    ciononostante, al netto degli sforzi profusi dal Governo in sede europea, sino ad oggi, purtroppo, è stato perpetuato un approccio estremamente miope e rigido nella gestione della politica di bilancio e dell'integrazione europea perché si è continuato a governare secondo principi di austerità impraticabili che hanno solo aggravato crisi e recessioni, con l'interdizione di ogni forma di eurobond garantiti pro quota dagli Stati nazionali ed una contraddizione evidente fra politica fiscale restrittiva e politica ultraespansiva della Bce che avrebbe dovuto compensarne gli effetti con la sola leva monetaria;
    a ciò si aggiungono i risultati modestissimi del cosiddetto «Piano Junker», l'arretramento degli investimenti pubblici e del loro potenziale traino agli investimenti privati, gli altissimi livelli di disoccupazione soprattutto giovanile e, infine, il dilagare di una gravissima sofferenza sociale e povertà diffusa;
    in tale contesto, appare quanto mai urgente che il Governo assuma una posizione forte, puntando innanzitutto all'eliminazione di quei paletti rigidi che oggi bloccano la crescita e gli investimenti pubblici in infrastrutture e trasporti, ricerca, innovazione, formazione, politiche per il lavoro e green economy;
    come si ricorderà anche l'ex Presidente del Consiglio dei ministri, Matteo Renzi, nel corso di un comizio svoltosi in data 29 ottobre 2016 in Piazza del Popolo a Roma, aveva dichiarato: «Noi diciamo che siccome nel 2017 casualmente a Roma si riuniranno i capi di governo e in UE arriva a scadenza il tema del Fiscal Compact, noi non accetteremo di inserirlo nei trattati UE» e il riferimento al citato articolo 16 del Fiscal Compact appariva chiaro in quanto esso prevede che «al più tardi entro 5 anni (ovverosia entro l'anno 2017), dalla data di entrata in vigore del presente trattato (1o gennaio 2013), sulla base di una valutazione dell'esperienza maturata in sede di attuazione, sono adottate in conformità del Trattato sull'Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea le misure necessarie per incorporare il contenuto del presente trattato nell'ordinamento giuridico dell'Unione europea»;
    del resto, appare a tutti chiara la necessità di avviare un confronto critico teso ad una revisione profonda del Fiscal Compact e delle regole europee del bilancio. Il criterio con cui affrontare questo lavoro è noto e dovrebbe essere quello, come più volte auspicato, dell'eliminazione dai vincoli di bilancio di tutte le spese pubbliche definite, con estrema cura e precisione, di investimento, secondo regole e monitoraggi costruiti in modo rigoroso a livello comunitario e applicati da organismi comunitari del tutto indipendenti dai governi e dagli apparati nazionali. Per questa quota di investimenti nazionali riconosciuti come spese di investimento dovrebbe, inoltre, risultare agevole costruire forme di copertura comunitaria a debito e/o forme di garanzia diretta e indiretta del bilancio comunitario, a cui occorrerebbe garantire uno zoccolo fiscale europeo più significativo;
    una strada per trovare una soluzione c’è ed è possibile ed il Governo ha l'opportunità e la possibilità di chiedere e ottenere una modifica del Fiscal Compact che vada nella direzione di una golden rule relativa a spese di investimento, anche nazionali, concordate con e controllate dalla Commissione europea al fine di evitare abusi e usi impropri;
    solo in questo modo l'Italia e l'Europa potranno tornare a crescere e ristabilire un clima di consenso presso le loro popolazioni;
    l'avvento di Trump e ancor prima la Brexit, il ritorno di politiche protezionistiche e di scenari geopolitici che si sperava definitivamente chiusi negli archivi del passato, non lasciano dubbi circa l'assoluta necessità di una svolta europea in questo senso. I lavoratori, i loro diritti, le tutele, il welfare subirebbero effetti devastanti da un improvviso ritorno alle monete nazionali, alle barriere doganali e valutarie, alle svalutazioni competitive, all'inflazione galoppante e un debito pubblico sempre più alto;
    per il nostro Paese la situazione appare molto delicata per diversi fattori che sono sotto gli occhi di tutti. Negli ultimi mesi, lo spread è cresciuto di circa 80 punti base; la crescita rimane stentata, e la performance dell'Italia continua ad occupare l'ultimo posto tra i principali Paesi europei; la Commissione europea ha chiesto una manovra correttiva di 3,4 miliardi di euro; a fine anno, o forse anche prima, verrà meno il Quantitative Easing della Bce, e quindi i tassi di interesse saliranno con effetti preoccupanti sui nostri conti; con la manovra del prossimo anno dovremo, inoltre, compensare le clausole di salvaguardia di poco meno di 20 miliardi di euro;
    occorre dunque una nuova strategia da declinare a livello europeo che oltre a mettere in sicurezza dei conti, punti a indirizzare tutte le risorse disponibili ad un massiccio programma di spese per investimenti (almeno mezzo punto di Pil l'anno per tre anni), spese che negli ultimi 10 anni sono state ridotte di oltre 10 miliardi di euro,

impegna il Governo:

1) ad adoperarsi, costruendo le opportune alleanze, affinché il Fiscal Compact sia modificato nella direzione di una golden rule sugli investimenti anche nazionali da esercitare almeno entro il limite del 3 per cento oppure, in caso contrario, a contrastare l'inserimento del Fiscal Compact nei Trattati europei;
2) a intraprendere ogni iniziativa di competenza presso le sedi europee volta a modificare le regole sulla misurazione del pareggio strutturale, attraverso un metodo di calcolo condiviso fra la Commissione europea, il Fmi e l'Ocse, e, in particolare, a riconsiderare quelli che per i presentatori del presente atto sono parametri astrusi e particolarmente penalizzanti per l'Italia, quali l’Output Gap e il NAWRU, in base ai quali per il nostro Paese è considerato di «equilibrio», rispetto a possibili tensioni inflazionistiche, un livello di disoccupazione oltre il 10 per cento ancora per i prossimi anni, con la conseguenza di comprimere la possibilità di adottare politiche espansive e anti-cicliche, adoperandosi affinché siano rivisti i criteri in base ai quali la Commissione calcola i disavanzi strutturali: in particolare, proponendo di rivedere il sistema di calcolo insieme a Fmi e Ocse in modo da avere valutazioni condivise a livello internazionale;
3) ad adottare iniziative presso le competenti sedi europee affinché la Germania ridimensioni il proprio surplus commerciale entro il limite indicato dai Trattati in vigore.
(1-01602)
«Melilla, Albini, Capodicasa, Laforgia, D'Attorre, Scotto, Speranza, Zoggia, Bersani, Ragosta, Epifani, Roberta Agostini, Franco Bordo, Bossa, Cimbro, Duranti, Fava, Ferrara, Folino, Fontanelli, Formisano, Fossati, Carlo Galli, Kronbichler, Leva, Martelli, Matarrelli, Mognato, Murer, Nicchi, Giorgio Piccolo, Piras, Quaranta, Ricciatti, Rostan, Sannicandro, Stumpo, Zaccagnini, Zappulla, Zaratti».
(18 aprile 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    all'origine, il fiscal compact avrebbe dovuto essere un atto europeo – si pensava a un regolamento – per «compattare» (copyright Mario Draghi) in un testo unico tutte le normative che erano state adottate nel periodo della grande crisi dell'eurozona (Six Pack, Two Pack);
    per il Regno Unito un regolamento avrebbe avuto un'influenza eccessiva anche per i Paesi non euro, limitando, per esempio, la libertà di circolazione dei servizi finanziari, e si oppose;
    per superare questa impasse si usò la formula dell'accordo internazionale, la stessa utilizzata in precedenza anche per Schengen, e fu inserito l'articolo 16, per cui a 5 anni data dalla firma (quindi nel 2017) si sarebbe valutata la possibilità di recepire l'accordo internazionale nell'ambito dei Trattati europei (come è effettivamente accaduto, in altra sede e con altri tempi, per Schengen);
    l'appuntamento dei 5 anni non è una scadenza, non è un rinnovo, non è neanche un tagliando/controllo. Al massimo, quello che un Paese può fare è, come per ogni accordo internazionale, ritirare la firma e uscire dal fiscal compact. Resta comunque, come Stato dell'Unione europea vincolato a tutte le regole del Six Pack e del Two Pack, che rimangono in vigore;
    l'unico vincolo di cui ci si libererebbe sarebbe l'equilibrio di bilancio, se non fosse che lo si è inserito nella Costituzione. Quindi si sarebbe tenuti a rispettarlo comunque, salvo nuove modifiche costituzionali;
    l'uscita da fiscal compact preclude la possibilità di ricorso, qualora ve ne fosse bisogno, alle risorse del fondo Salva-Stati;
    piuttosto, è necessario cancellare l’«imbroglio» del dopo Maastricht, e tornare al suo spirito originario con la sospensione delle norme che ne hanno modificato l'impianto iniziale;
    tornare a Maastricht significa recuperare la lezione di Guido Carli. Fu su proposta dell'allora Ministro del tesoro, infatti, che nel testo fu inserita una clausola che, con riferimento ai parametri fissati, consentiva agli Stati «di tenere conto della tendenza ad avvicinarsi al valore di riferimento e di eventuali cause eccezionali o temporanee di scostamento da quei parametri»;
    il patto di stabilità del 1997 (e le modifiche successive) ha cambiato, tra l'altro con modalità di dubbia legittimità, proprio questo punto fondamentale del Trattato, inviso ovviamente ai tedeschi, in quanto contrario alla loro dottrina calvinista e alla loro ossessione nei confronti dell'inflazione;
    così facendo, è stato dato un segnale alla speculazione e ai mercati, che si sono scatenati a scommettere sulla prevedibilità del non rispetto di quei «paletti», considerati troppo rigidi e per questo irrealizzabili. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, soprattutto negli ultimi anni;
    è ora di tornare all'Europa vera, solidale, illuminata, lungimirante, della crescita, vincendo così anche i populismi e gli estremisti. «Sì» alla genialità di Maastricht, ma basta agli egemonismi e ai «ricatti» tedeschi;
    solo così l'Italia e l'Europa tornerebbero più forti, in grado di affrontare le sfide e le difficoltà più grandi. Abbiamo le idee e gli strumenti per ridisegnare il futuro. O ne saremo travolti;
    il trattato di Maastricht fu firmato il 7 febbraio 1992, ma il passaggio clou di tutte le negoziazioni fu l'Ecofin (riunione dei Ministri economici e finanziari) del 21 settembre 1991;
    grazie alla clausola citata, inserita su proposta italiana, gli Stati che non rispettavano i «paletti» di Maastricht non erano costretti a realizzarli attraverso un piano di rientro a tappe forzate che avrebbe richiesto misure di politica economica restrittive, bensì adottando politiche virtuose che comportassero miglioramenti progressivi. Vale a dire senza stress eccessivo, e controproducente, bensì impegnandosi a sforzi graduali e compatibili con lo stato dell'economia e del tessuto sociale e produttivo del Paese, senza costringerlo a imprese impossibili;
    viene, cioè, fissato l'obiettivo, ma il suo conseguimento è affidato alle politiche che ciascun Governo adotta autonomamente, tenendo conto delle specificità e delle concrete condizioni della propria economia. Per cui il grado di conseguimento dell'obiettivo varia da Paese a Paese e di anno in anno. «I criteri di convergenza economica rispetto a debito, deficit, inflazione e tassi di interesse da inserire nel Trattato non devono essere applicati in maniera meccanica e occorre lasciare la possibilità di sviluppare un'attenta valutazione politica», annunciò in conferenza stampa, soddisfatto, Guido Carli;
    i parametri, dunque, furono fissati, ma con una dose di flessibilità. Il deficit, per esempio, doveva essere minore o uguale al 3 per cento del prodotto interno lordo, certo, ma andava comunque tutto bene anche se i singoli Stati dimostravano che il rapporto diminuiva in modo sostanziale e continuo nel tempo, raggiungendo livelli sempre più vicini al valore di riferimento. Allo stesso modo, il debito non doveva superare il 60 per cento del prodotto interno lordo, a meno che il Paese non dimostrasse di essere in grado di ridurre quel rapporto in misura sufficiente, avvicinandosi al valore di riferimento con un ritmo adeguato;
    pochi anni dopo, nel 1997, il trattato di Maastricht è stato modificato proprio in questo punto fondamentale. Ma non attraverso un nuovo Trattato, che avrebbe comportato la ratifica dei parlamenti nazionali o un referendum popolare, come era già avvenuto per Maastricht; bensì attraverso dei regolamenti, che non necessitano di alcun via libera popolare, diretto o indiretto per via parlamentare;
    con il patto di stabilità, quindi, dei regolamenti sono stati elevati al rango di Trattati, allorquando essi possono solo disciplinare l'applicazione delle disposizioni previste dai trattati, senza mai entrare, però, in contraddizione con questi ultimi;
    i regolamenti in questione, che costituiscono il patto di stabilità, sono il n. 1466/97 e il n. 1467/97, del 17 giugno 1997, entrati in vigore a marzo 1998. Con un colpo di mano, introducono quel principio di rigidità che Guido Carli era riuscito a evitare. Pertanto il rispetto dei vincoli di bilancio diventa forzato e indipendente dai governi e dalle politiche che essi intendono implementare, nonché incurante delle fasi di congiuntura economica sfavorevole;
    inoltre, vengono inseriti meccanismi di sorveglianza e sanzionatori che, oltre a far venire meno la filosofa portante del trattato di Maastricht, tolgono di fatto agli Stati membri la piena autonomia nelle scelte di politica economica. Si realizza così, con strumenti giuridicamente inadeguati (si ripete: due regolamenti e non un trattato), il primo vero «scippo» di sovranità degli Stati nazionali da parte dell'Europa. Anzi, per essere precisi, di Germania e Francia. Il tutto senza alcun dibattito politico-parlamentare. D'altronde, i regolamenti non lo richiedevano. Tattica perfetta dell'asse franco-tedesco;
    il patto di stabilità resta in vigore fino al 6 dicembre 2011, e pochi giorni dopo, il 13 dicembre 2011, ne entra in vigore uno nuovo e rinforzato. Le misure in esso contenute, denominate six pack, sono scritte in 5 regolamenti e una direttiva approvate dal Parlamento europeo a novembre 2011. Stessi principi dei due precedenti regolamenti, stessi meccanismi di sorveglianza e sanzionatori;
    anche in questo caso (Consiglio europeo del 17 giugno 2010), qualcuno fece inserire una clausola di flessibilità, sulla linea di quanto fatto in passato da Guido Carli: l'allora Presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, che insistette a lungo affinché nel percorso di avvicinamento agli obiettivi di bilancio si tenesse conto dei cosiddetti «fattori rilevanti», vale a dire delle specificità delle economie dei singoli Paesi, e del ciclo economico;
    in particolare, la proposta di Berlusconi era incentrata sulla previsione di «attribuire importanza maggiore ai livelli, all'andamento e alla sostenibilità globale dell'indebitamento degli Stati» e che, pertanto, nel calcolo del rapporto debito/prodotto interno lordo si comprendesse, al nominatore, oltre al debito pubblico, anche quello di famiglie e imprese;
    prendendo in considerazione l'indebitamento aggregato, infatti, l'Italia è seconda solo alla Germania. E rivedendo in tal senso i parametri del six pack, sarebbe chiamata a uno sforzo di riduzione del debito pubblico ridotto almeno alla metà rispetto alle manovre del 3 per cento annuo del prodotto interno lordo per 20 anni previste dalle regole attuali e che oggi strozzano il nostro Paese;
    è nato così il fiscal compact, approvato dai capi di Stato e di governo a Bruxelles il 2 marzo 2012, e ratificato in Italia il 19 luglio 2012. Nonostante esso rechi «Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell'unione economica e monetaria», neanche il fiscal compact ha il rango di trattato in grado di modificare Maastricht, in quanto non è stato adottato all'unanimità, visto che è mancato il voto dell'Inghilterra. Per questo oggi, a cinque anni di distanza, ci si trova a valutare, come previsto dall'articolo 16 dello stesso, la possibilità di recepire l'accordo internazionale nell'ambito dei Trattati europei,

impegna il Governo

1) ad intervenire in tutte le sedi europee, assumendo ogni opportuna iniziativa volta al ritorno all'impianto originale del trattato di Maastricht e alla sospensione di tutte le modifiche intervenute successivamente, in primis il fiscal compact, attraverso strumenti legislativi inadeguati e, per alcuni versi, di dubbia legittimità, che hanno squilibrato il sistema europeo.
(1-01604) «Brunetta».
(18 aprile 2017)

MOZIONI IN MATERIA DI ROBOTICA ED INTELLIGENZA ARTIFICIALE

   La Camera,
   premesso che:
    negli anni recenti il progresso scientifico e tecnologico ha favorito la crescita della robotica e delle intelligenze artificiali applicate, dando origine ad una profonda innovazione nel mondo della produzione dei beni e servizi, con un ampio impatto atteso in molti settori, come, per esempio, la domotica, la medicina, la difesa, i servizi alle persone;
    nel 2014 la crescita della vendita dei robot è aumentata al 29 per cento, quasi il doppio della media degli anni precedenti e le richieste di brevetto per le tecnologie robotiche sono triplicate nel corso dell'ultimo decennio; ci si attende che nei prossimi anni saranno venduti circa 35 milioni di robot personali in tutto il mondo, per uso domestico, per i veicoli senza guidatore, per l'intrattenimento, l'educazione, l'assistenza sanitaria;
    entro il 2020 si prevede che il mercato mondiale avrà un valore di oltre 150 miliardi di dollari. A livello internazionale, l'Asia è il mercato a più alto tasso di crescita, la Cina ha superato da sola l'intera Europa. L'Italia, essendo il sesto Paese del mondo produttore di robot industriali e il secondo in Europa, ha un ruolo di leadership in termini di ricerca, innovazione e produzione;
    lo sviluppo e la crescita del settore della robotica e delle intelligenze artificiali avrà effetti dirompenti dal punto di vista dell'organizzazione del lavoro, con importanti conseguenze sull'occupazione, ma anche sullo stile di vita delle persone e molti analisti sottolineano che si stanno vivendo gli albori di una «quarta rivoluzione industriale»;
    la Commissione giuridica del Parlamento europeo ha approvato una bozza di risoluzione con la quale si chiede alla Commissione europea di definire un quadro giuridico comune in materia di robotica e intelligenza artificiale. La relazione della Commissione giuridica del Parlamento europeo propone, tra le altre cose, la creazione di un sistema di registrazione di robot avanzati e invita la Commissione europea a stabilire criteri per la classificazione dei robot per individuare quelli da sottoporre a registrazione; propone anche un codice etico-deontologico degli ingegneri robotici, un codice per i comitati etici di ricerca per il loro lavoro di revisione dei protocolli di robotica e modelli di licenze per progettisti e utenti; la creazione di un'agenzia europea per la robotica e l'intelligenza artificiale al fine di fornire le competenze tecniche, etiche e normative necessarie per sostenere gli attori pubblici pertinenti, a livello sia di Unione europea che di Stati membri; suggerisce di istituire un regime di responsabilità civile e di personalità giuridica per i robot più evoluti;
    altri Stati, quali gli Stati Uniti d'America, la Gran Bretagna, il Giappone, Cina e Corea del Sud, stanno prendendo in considerazione, e in una certa misura hanno già adottato, atti normativi in materia di robotica e intelligenza artificiale e alcuni Stati membri hanno iniziato a riflettere su possibili cambiamenti legislativi per tenere conto delle applicazioni emergenti di tali tecnologie;
    alcuni Ministeri hanno già posto nella loro agenda l'approfondimento di alcune tematiche legate allo sviluppo della robotica in alcuni settori, come, ad esempio, la progettazione di strade per le auto a guida autonoma,

impegna il Governo:

1) a favorire una linea comune tra i Ministeri nell'approccio allo sviluppo sostenibile della robotica, dell'intelligenza artificiale e della sicurezza informatica; a promuovere attività di formazione, ricerca e sviluppo nelle scuole, nelle università e nei centri di ricerca italiani di tali tecnologie e a sostenerne le applicazioni alla produzione industriale e ai servizi civili in imprese consolidate e a start up innovative, in linea con quanto emerso dall'indagine conoscitiva della Camera dei deputati su «Industria 4.0: quale modello applicare al tessuto industriale italiano. Strumenti per favorire la digitalizzazione delle filiere industriali nazionali» e in linea con il piano «Italia 4.0» del Governo, tenendo conto dei problemi aperti relativi al tema della cyber-security e della rilevanza etica e dell'impatto che tali tecnologie avranno sulla società e sul mondo del lavoro;
2) ad analizzare soluzioni alternative e innovative di welfare in merito agli effetti che lo sviluppo della robotica e dell'intelligenza artificiale avrà sull'occupazione.
(1-01508)
«Rosato, Carrozza, Basso, Coppola, Boccadutri, Quintarelli, Tancredi, Miotto, Zan, Giorgis, Senaldi, Misiani, Dell'Aringa, Braga, Cinzia Maria Fontana, Cardinale, Marantelli, Montroni, Parrini, Baruffi, Murer, Lenzi, Patriarca, Carnevali, Simoni, Lodolini, Borghi, Lattuca, Realacci, Giuliani, Fossati, Casellato, Monaco, Ribaudo, Schirò, Rostellato, Grassi, Fragomeli, Giovanna Sanna, Falcone, Rocchi, Piazzoni, Catalano, Venittelli, Taranto, Albanella, Bergonzi, Marco Di Maio, Amato, Gadda, Gnecchi, Tullo, Manfredi, Campana, Mognato, Taricco, Cominelli, Paola Boldrini, Paola Bragantini, Pinna, Fontanelli, Petrini, Carrescia, Mariani, Rampi, De Menech, Capone, Zampa, Moretto, Rubinato, Albini, Arlotti, D'Ottavio, Peluffo, Colaninno, Bruno Bossio, Vico, Amoddio, Gribaudo».
(13 febbraio 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    l'intelligenza artificiale (AI – Artificial Intelligence) crea continuamente nuovi mercati digitali che, a loro volta, possono liberare livelli di creatività, genio e produttività, con un impatto positivo sulla società. In questo modo si potrebbe raddoppiare il tasso di crescita delle economie sviluppate e aumentare la produttività del lavoro con incrementi fino al 40 per cento;
    ciò richiede però un'ampia riflessione sul modo di produrre, rafforzando i ruoli e competenze delle persone che guidano i processi di crescita e di sviluppo;
    sono già in atto nei prossimi tre anni investimenti significativi in tecnologie di intelligenza artificiale e il 31 per cento degli esperti impegnati nelle aziende a più elevato tasso di sviluppo dichiarano che la loro azienda sta pianificando il modo di utilizzare estensivamente gli studi sul comportamento dell'uomo per guidare lo sviluppo di nuove forme di customer experience entro lo stesso periodo;
    un numero elevato di imprenditori giovani e tecnologicamente evoluti prevedono di aumentare il ricorso, nella propria organizzazione, a freelance indipendenti entro il prossimo anno, per acquistare nuove competenze e maturare una nuova vision organizzativa per la propria azienda;
    cresce continuamente l'impatto del digitale nell'ambito delle diverse professioni e poco più del 50 per cento dei soggetti recentemente intervistati da Accenture (2015) pensa di rimanere nello stesso posto di lavoro per non più di cinque anni, mentre il 67 per cento vuole provare a lavorare autonomamente in futuro, proprio grazie alle nuove potenzialità offerte dalle nuove tecnologie robotiche;
    lo sviluppo delle nuove tecnologie si sta estendendo a macchia d'olio nei campi più diversi: dalla formazione alla domotica, dalla medicina, alla difesa; dai progetti nel campo dell'automazione industriale ai settori di trasporto sia in campo aerospaziale, che automotive/meccatronico; dai servizi alle persone all'utilizzo di robot di nuova generazione che è sempre più diffuso in ambito medico-chirurgico;
    ma mentre la tecnologia propone soluzioni sempre più innovative, i legislatori non riescono a stare al passo con i tempi. Non è sempre facile distinguere i livelli di responsabilità, ad esempio, se un braccio robotico va in tilt in sala operatoria, durante un intervento chirurgico;
    robotica ed intelligenza artificiale applicati alla teleriabilitazione hanno contribuito alla nascita dell'area della neuro-robotica, con lo sviluppo di piattaforme robotiche indispensabili per la ricerca di base in neuroscienze, di sistemi meccatronici per la diagnosi precoce di disturbi del neurosviluppo e di sistemi robotici indossabili ispirati al concetto innovativo di «structural embodied intelligence»;
    tra le questioni affrontate dalla commissione giuridica, istituita a livello della Commissione europea proprio su queste tematiche, i problemi tecno-scientifici mostrano importanti risvolti legali, ma anche etici, sociali ed economici; occorre definire non solo un sistema di registrazione di robot avanzati, ma anche un codice etico-deontologico per gli ingegneri robotici, un codice per i comitati etici di ricerca per il loro lavoro di revisione dei protocolli di robotica e nuovi modelli di licenze per progettisti e utenti;
    diventa sempre più urgente raggiungere livelli adeguati allo sviluppo tecnico-scientifico anche nel campo della formazione: studiare e applicare la robotica educativa non è importante soltanto per imparare a costruire o ad usare i robot, ma anche per imparare un metodo di ragionamento e sperimentazione, promuovendo attitudini creative negli studenti, compresa la loro capacità di comunicazione, cooperazione e lavoro di gruppo;
    nel 2015, la crescita della vendita dei robot si è raddoppiata rispetto alla media degli anni precedenti e i brevetti per le tecnologie robotiche si sono triplicate nell'ultimo decennio;
    l'Italia ha, nel campo della robotica, un ruolo di leadership in termini di ricerca, innovazione e produzione: è infatti il secondo Paese in Europa e il sesto al mondo come produttore di robot industriali;
    i Paesi più avanzati dell'Italia in questo campo, come ad esempio gli Stati Uniti d'America, la Gran Bretagna, il Giappone, Cina e Corea del Sud, in una certa misura, hanno già introdotto normative specifiche in materia di robotica e di intelligenza artificiale, o stanno innescando possibili cambiamenti legislativi per tenere conto delle applicazioni emergenti dall'uso di tali tecnologie;
    entro il 2020 si prevede che il mercato mondiale avrà un valore di oltre 150 miliardi di dollari, con una collocazione prevalente in Asia, soprattutto in Cina, dove l'impiego della robotica ha già superato l'intera Europa;
    lo sviluppo e la crescita del settore della robotica e delle intelligenze artificiali avrà effetti dirompenti dal punto di vista dell'organizzazione del lavoro, con importanti conseguenze sull'occupazione, ma anche sullo stile di vita delle persone, e molti analisti sottolineano che si stanno vivendo gli albori di una quarta rivoluzione industriale: la cosiddetta Industria 4.0,

impegna il Governo:

1) a favorire un approccio integrato tra i diversi Ministeri: dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca al Ministero dello sviluppo economico, dalla salute ai trasporti e alle infrastrutture, dalla difesa alla pubblica amministrazione, dall'economia al lavoro, per facilitare lo sviluppo della robotica, dell'intelligenza artificiale e della sicurezza informatica, secondo un modello di ricerca traslazionale, che permetta di superare quelle barriere e quegli steccati di tipo culturale che circoscrivono aree chiuse e non comunicanti tra di loro;
2) a promuovere attività di formazione, ricerca e sviluppo nelle scuole con riguardo a robotica e intelligenza artificiale, a cominciare dai primi livelli scolastici e con particolare attenzione alle problematiche della disabilità;
3) ad assumere iniziative per sviluppare nelle università e nei centri di ricerca italiani tecnologie ad alto livello di complessità, incoraggiando i giovani a trasformare in brevetti molte delle loro intuizioni, investendo soprattutto nei giovani ricercatori con opportuni incentivi che favoriscano il loro inserimento nei settori strategici del Paese;
4) a sostenerne le applicazioni delle nuove tecnologie alla produzione industriale e ai servizi civili, anche favorendo la nascita di start up innovative, che promuovano lo sviluppo complessivo delle aziende e favoriscano processi di cambiamento organizzativo a servizio dei cittadini;
5) ad approfondire i problemi relativi al tema della cyber-security e della rilevanza etica e dell'impatto che tali tecnologie avranno sulla società e sul mondo del lavoro, investendo energie significative nella formazione e nella riqualificazione professionale di soggetti che altrimenti resterebbero tagliati fuori da questo settore produttivo;
6) ad analizzare soluzioni alternative e innovative di welfare in merito agli effetti che lo sviluppo della robotica e dell'intelligenza artificiale avranno sulla domotica, consentendo ai soggetti più fragili di raggiungere un buon livello di autonomia personale e familiare attraverso soluzioni altamente innovative proprio per pazienti cronici e disabili, anziani, e altro;
7) a favorire a livello europeo proposte politiche che si traducano in una normativa capace di salvaguardare valori come: la dignità umana; la privacy, attraverso una corretta gestione dei dati personali; la sicurezza, evitando in ogni modo possibili manipolazioni; la non discriminazione, permettendo a tutti coloro che lo desiderano e ne hanno bisogno di accedere ai programmi che l'intelligenza artificiale consente di realizzare progressivamente; in altri termini contribuendo a creare una carta dei valori in robotica, di cui si parla da lungo tempo ma che non è ancora attiva.
(1-01558)
«Binetti, Buttiglione, Cera, De Mita, Pisicchio».
(27 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    il progresso tecnologico ha favorito la crescita dell'automazione, della robotica e delle cosiddette intelligenze artificiali;
    le nuove tecnologie sono applicate sempre più profondamente e organicamente ai sistemi produttivi, logistici e organizzativi, nonché a quelli di trasporto, andando progressivamente a svilupparsi e radicarsi nell'ambito dei servizi diretti alla persona;
    all'innovazione in senso stretto consegue un impatto in termini rigorosamente sociali e occupazionali, i cui trend e le cui prospettive destano preoccupazioni che necessitano di attenzione, analisi e soluzioni;
    con la risoluzione del Parlamento europeo n. 51 del 16 febbraio 2017 recante raccomandazioni alla Commissione concernenti norme di diritto civile sulla robotica (2015/2103(INL)) si invita la Commissione europea ad avviare una fase di analisi e monitoraggio delle tendenze occupazionali, con particolare attenzione «alla creazione, alla dislocazione e alla perdita di posti di lavoro nei diversi campi/settori di qualifica, in modo da individuare i campi in cui vengono creati posti di lavoro e quelli in cui vengono persi a seguito dell'aumento dell'uso dei robot»;
    nella medesima risoluzione si richiede che la Commissione europea analizzi i diversi scenari possibili e le relative conseguenze sulla sostenibilità dei sistemi di sicurezza sociale degli Stati membri anche in funzione dello sviluppo e della diffusione della robotica e dell'intelligenza artificiale;
    secondo gli esperti, un rischio concreto sarebbe rappresentato dal fatto che l'innovazione tecnologica comporterà sempre più un costo sociale in termini di riduzione dell'occupazione, con particolare impatto in quei settori ad alta intensità di capitale umano, tale per cui oggi i lavoratori impiegati in tali settori e quanti sono in attesa di collocazione risultano subire l'innovazione tecnologica invece di affrontarla e guidarla. A questo aspetto si aggiunge una progressiva sperequazione nella redistribuzione della ricchezza prodotta dai sistemi ad elevato sviluppo tecnologico;
    secondo quanto rilevato nella relazione Delvaux, da cui la richiamata risoluzione, «l'importanza della flessibilità delle competenze e delle capacità sociali, creative e digitali nell'ambito dell'istruzione» è tale che «oltre alle conoscenze accademiche impartite a scuola» è ormai necessario realizzare in via sistemica e strutturale percorsi di «apprendimento permanente»;
    in tal senso, la formazione in servizio può costituire un valido strumento di politica del lavoro volto a mitigare l'impatto dello sviluppo delle Information and Communication Technologies (ICT) in termini di riduzione dell'occupazione. D'altro canto, va rilevato come gli investimenti pubblici in questa direzione sono stati sempre molto deboli e comunque poco valorizzati nella pianificazione strategica e nella programmazione delle politiche pubbliche;
    serve sottolineare, ad esempio, come non esistano ricerche valutative commissionate dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali che abbiano valutato l'indice di redditività del capitale investito (ROI) nella formazione continua finanziata dai fondi strutturali e dai fondi interprofessionali gestiti dalle parti sociali;
    parimenti, le stesse attività di ricerca pubblica che sono state svolte in questa direzione stentano ad avere un seguito applicativo o operativo né vengono valorizzate, a dimostrazione dello scarso se non nullo interesse da parte del decisore pubblico;
    val la pena richiamare l'esperienza del Sistema informativo sulle professioni che da anni l'ex Isfol, oggi Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche (Inapp), sta implementando in partnership con l'Istat, integrando dati amministrativi e informazioni prodotti da una pluralità di istituzioni sui versanti dei settori di attività economica, del mercato del lavoro e dei sistemi professionali. Il sistema fornisce un panorama completo ed analitico di tutte le professioni esercitate nel nostro Paese, la loro consistenza occupazionale attuale e le tendenze a breve e medio termine del mercato professionale nonché, i trend di cambiamento delle loro competenze;
    a livello internazionale, diversi studi (a titolo esemplificativo si veda il rapporto Investing in the Care Economy) dimostrano come gli investimenti nel welfare, ovvero nelle infrastrutture sociali, oltre a innalzare il benessere generale della popolazione, genererebbe un incremento dell'occupazione, mitigando al contempo la flessione occupazionale indotta dal pervadere dell'automazione e della robotica. Tale aspetto, nel nostro Paese, risulta ancora poco esplorato dalla ricerca economica, laddove invece si necessiterebbe di ricerche sociali ed economiche capaci di «stimare» il ritorno in questa tipologia di investimenti;
    casi di studio, come quello della sperimentazione del reddito universale di base in atto in Finlandia su duemila cittadini, alcuni esperti del settore dell'innovazione tecnologica come il patron di Tesla, Elon Musk, e aziende che fanno dell'innovazione il proprio core business, come Google, promuovono l'idea, alla luce dell'impatto dello sviluppo tecnologico sull'occupazione, di disgiungere l'idea di fonte di sostentamento, ovvero di reddito, da quella di attività svolta, ovvero di lavoro. In questo solco, si sta sviluppando l'applicazione di un reddito di base non condizionato dallo status di attività. Si tratta di una misura di sostegno riconosciuta a tutti i cittadini maggiorenni indistintamente, senza alcun requisito particolare, predisposta nell'ottica di una revisione complessiva dei trattamenti assistenziali o sociali, che permane anche, in concomitanza con altre fonti di reddito, come quella da lavoro, proprio per garantire la completa autonomia e libertà dei cittadini dal «vincolo», in termini sociali ed economici, della ricerca e del mantenimento di un posto di lavoro, spesso accettato e difeso per necessità, oltre che per dovere, invece che per effettiva e autonoma scelta,

impegna il Governo:

1) a promuovere le opportune iniziative volte a informare e sensibilizzare i cittadini sull'evoluzione tecnologica applicata agli ambiti produttivi e ai servizi, nonché sulle nuove dinamiche e ricadute in termini socio-economici ad essa connesse, finalizzate a sviluppare maggiore consapevolezza nel Paese;
2) ad istituire un osservatorio nazionale, adeguatamente organizzato, in accordo con regioni e enti locali, per la rilevazione alla luce degli sviluppi della robotica e dell'intelligenza artificiale dei mutamenti dei sistemi economici e produttivi in termini di impatto sulle competenze delle figure professionali, al fine di:
  a) mappare adeguatamente quei «nuovi saperi» e adottare le conseguenti iniziative per sviluppare percorsi di formazione continua in modo da dotare chi già è occupato, così come chi è in attesa di collocazione, delle competenze necessarie – adeguate ai diversi livelli di specializzazione – per rispondere attivamente alle sfide dell'innovazione anziché subirle (fuoriuscita dal mercato);
  b) svolgere, in maniera sistematica, indagini specifiche, a livello territoriale, per profilare ciascuna realtà territoriale secondo le caratteristiche e dinamiche peculiari del tessuto economico locale;
3) ad assumere le opportune iniziative per dare concreta operatività al Sistema informativo sulle professioni, garantendone, nell'ambito del piano nazionale cui in premessa, i processi di manutenzione ed aggiornamento;
4) a promuovere lo sviluppo di un programma di formazione più specifico e tecnico all'interno delle scuole secondarie di secondo grado, delle università e dei centri di ricerca al fine di stimolare la nascita di nuove figure professionali e nuove imprese adeguate ad affrontare le sfide poste dalla quarta rivoluzione industriale, considerando gli impatti sul tessuto sociale che essa comporta;
5) ad assumere iniziative per potenziare le misure di incentivo alle imprese per l'assunzione di personale altamente qualificato e per l'impiego di strumenti fisici o digitali ad alto valore tecnologico al fine di realizzare prodotti innovativi;
6) a promuovere iniziative normative per favorire l'adeguamento degli strumenti contrattuali esistenti, rispetto all'impatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro, anche attraverso iniziative volte a rimodulare progressivamente l'orario di lavoro al fine di migliorare la conciliazione tra la giornata lavorativa e la vita familiare e sociale;
7) ad adottare le opportune iniziative per definire e sviluppare un programma di investimenti nella cura, nell'istruzione e nella salute pubblici (cosiddette infrastrutture sociali), al fine di rafforzare la rete sociale a beneficio dei cittadini, nonché migliorare e omogeneizzare gli standard minimi di vita anche grazie alla redistribuzione della ricchezza prodotta dai sistemi produttivi con elevato ricorso all'automazione e alla robotica;
8) ad assumere le iniziative necessarie per avviare, anche in conseguenza degli effetti dello sviluppo della robotica, un programma di sperimentazione di forme di reddito di base incondizionato, analogamente a quanto già in atto in Finlandia, come richiamato in premessa.
(1-01559)
«Cominardi, Della Valle, Cecconi, Chimienti, Vallascas, Cancelleri, Ciprini, Crippa, Dall'Osso, Da Villa, Fantinati, Lombardi, Tripiedi, Caso».
(27 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    negli ultimi anni l'umanità si è trovata sulla soglia di un'era nella quale robot, androidi e altre manifestazioni dell'intelligenza artificiale sembrano sul punto di avviare una nuova rivoluzione industriale, suscettibile di toccare tutti gli strati sociali;
    il 2015 è stato un anno d'oro per la robotica, ma sarà nei prossimi anni che il settore conoscerà un boom senza precedenti, come ha confermato il rapporto «The future of jobs» presentato al World Economic Forum di Davos, secondo cui, entro il 2020, il valore complessivo del mercato dei robot raggiungerà 151,7 miliardi di dollari e a trainare le vendite per la prima volta non sarà il comparto industriale, ma quello dei robot per uso privato;
    in particolare, lo sviluppo tecnologico e la riduzione dei costi di produzione hanno permesso a robot sempre più sofisticati e intelligenti di penetrare in molti altri settori: da quelli più seri come la chirurgia, la difesa o l'assistenza a quelli più frivoli come l'intrattenimento e le pulizie;
    l'Italia è tra i primi Paesi al mondo nella produzione di robotica industriale, un settore che, nel 2014, è cresciuto globalmente del due per cento, con un guadagno di sessantaquattromila milioni di euro, e il contributo dell'Europa al raggiungimento del valore è stato secondo solo all'Asia, leader indiscussa del settore che a oggi è trainato dalla Cina;
    tale scenario in rapida evoluzione rende imprescindibile la necessità che la legislazione nazionale ne valuti attentamente le implicazioni e le conseguenze legali ed etiche, senza ostacolare l'innovazione;
    in particolare, occorre un nuovo quadro di norme che disciplini la diffusione e l'impiego di robot e intelligenza artificiale, soprattutto con riferimento ai settori più delicati: dalla responsabilità civile delle macchine all'impatto sul mercato del lavoro e ai risvolti etici, dalla privacy alla tutela dei dati acquisiti e trasmessi da tecnologie che invadono sempre di più la vita dei cittadini;
    la stessa Unione europea, consapevole di tali prospettive, ha approvato la recentissima risoluzione del 16 febbraio 2017 recante raccomandazioni alla Commissione concernenti norme di diritto civile sulla robotica, partendo dalle preoccupazioni che l'avanzamento della robotica suscita sul piano sociale ed economico;
    se è vero, infatti, che la robotica e l'intelligenza artificiale potrebbero portare notevoli benefici in termini di efficienza e di risparmio economico anche in ambiti come quelli dei trasporti, dell'assistenza medica, dell'educazione e dell'agricoltura, è altrettanto vero che lo sviluppo di tale settore potrebbe comportare la sostituzione della macchina all'uomo in molti lavori, con ripercussioni negative sul piano dell'occupazione e per la sostenibilità dei sistemi di previdenza sociale;
    l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha calcolato che l'impatto diretto dei robot potrebbe mettere a rischio il dieci per cento dei posti di lavoro, ma spingerebbe alla modifica delle mansioni di almeno un terzo dei lavoratori, e uno dei compiti della classe politica e dirigente dovrebbe essere proprio quella di tracciare una prospettiva capace di conciliare il progresso tecnologico e quello sociale;
    sul piano istituzionale, il Parlamento chiede la creazione di un’«Agenzia europea per la robotica e l'intelligenza artificiale», che abbia il compito di fornire le competenze, anche giuridiche, necessarie per sostenere gli attori pubblici operanti nel settore;
    anche in questo settore il nostro Paese sembra silente, nonostante il Piano per l’Industry 4.0 promosso dal Ministro dello sviluppo economico e propugnato con grande entusiasmo politico-mediatico dal Governo pro tempore Renzi, che dovrebbe diventare operativo a breve;
    il piano, tuttavia, è stato pensato in termini esclusivamente fiscali, prevedendo un controvalore teorico di 13 miliardi di euro di incentivi in quattro anni, che, a loro volta, dovrebbero mobilitare 23 miliardi di euro di investimenti privati (10 in tecnologie più 11,3 in ricerca e sviluppo e 2,6 in venture capital e start-up), senza però una visione complessiva e lungimirante in termini di investimenti per la ricerca e lo sviluppo;
    l’Industry 4.0 avrà, invece, effetti enormi sulle dinamiche occupazionali, e nei prossimi anni centinaia di migliaia di lavoratori rischiano di essere espulsi dai processi produttivi, con scarse o nulle possibilità di reimpiego, mentre altri ancora, quelli che rimarranno, si vedranno probabilmente costretti ad affrontare percorsi di riqualificazione complessi e difficili, e per i nuovi saranno richieste competenze in buona parte diverse da quelle formate con l'attuale sistema universitario;
    secondo stime di Assinform, il quaranta per cento dei lavori che si svolgeranno nel mondo nei prossimi anni, oggi non esistono e tutto questo richiede politiche di sostegno al reddito e politiche attive per la formazione e la riqualificazione dei lavoratori. Nel suddetto piano c’è poco o nulla di tutto ciò;
    bisogna valutare certamente le opportunità, ma anche i rischi dell'evoluzione dell'intelligenza artificiale,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative per promuovere la costituzione di un impianto regolatorio omogeneo in materia di robotica e intelligenza artificiale, favorendo altresì l'adozione di una linea comune tra i Ministeri nell'approccio alla tematica;
2) a favorire una politica di investimenti in ricerca e sviluppo in grado di fronteggiare la sfida dell’Industry 4.0, che richiede politiche industriali basate soprattutto sulla conoscenza, che rappresenta il vantaggio competitivo più importante;
3) a garantire un monitoraggio e una vigilanza costanti rispetto alle ripercussioni della nuova rivoluzione industriale sul mercato del lavoro e ad assumere iniziative per prevedere lo stanziamento degli investimenti necessari per evitare una crisi occupazionale, mantenendo costanti i saldi occupazionali attraverso politiche di ricollocamento dei lavoratori in esubero a causa del progresso della meccanizzazione dei processi produttivi, secondo una logica one to one in cui a ogni posto di lavoro perso ne corrisponda uno nuovo.
(1-01561)
«Rampelli, Cirielli, La Russa, Giorgia Meloni, Murgia, Nastri, Petrenga, Rizzetto, Taglialatela, Totaro».
(28 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    le traiettorie dello sviluppo tecnologico ed industriale degli ultimi anni hanno coinciso con l'avanzamento del peso della robotica e dell'intelligenza artificiale in tutti i campi della produzione di beni e servizi;
    allo stato, i robot operativi in tutto il mondo sono 1,8 milioni. Ma, secondo le previsioni dell’International Federation of Robotics, entro il 2019, saranno 2,6 milioni solo nelle fabbriche, con l'Unione europea nel ruolo di leader mondiale di questa espansione, e se ne venderanno 42 milioni per uso personale e domestico. Insomma, robot aspirapolvere, tagliaerba, o per la pulizia delle finestre, saranno sempre più diffusi nelle case;
    come afferma uno studio recente pubblicato dalla Pricewaterhouse Coopers, nel giro di quindici anni, il 38 per cento dei posti di lavoro disponibili oggi negli Stati Uniti potrebbero essere presi da robot. Il fenomeno riguarda anche l'Europa e l'Asia, visto che in Germania l'automazione è avviata ad eliminare il 35 per cento dei posti, in Gran Bretagna il 30 per cento e il Giappone il 21 per cento;
    la differenza tra i vari Paesi si spiega – sempre secondo gli analisti della Pricewaterhouse Coopers – soprattutto con il livello di sviluppo ed istruzione. I lavori più a rischio, infatti, sono quelli che richiedono un livello inferiore di studio per essere svolti, e in America ce ne sono di più che in Asia e in Europa. I settori dove l'avvento dell'automazione sarà più massiccio sono quelli dell'ospitalità, i servizi alimentari, i trasporti e lo stoccaggio;
    un altro segno dell'importanza che il mercato e l'economia stanno assegnando alla robotica e all'intelligenza artificiale è dato dalle recenti stime legate alle operazioni di fusione e acquisizione nel mondo. Automazione industriale, telecomunicazioni, robotica: nell'anno 2016 hanno sfiorato i 700 miliardi di dollari. Non solo: in un anno di calo generalizzato delle operazioni di fusione e acquisizione (-19 per cento, secondo i dati di Mergermarket), il comparto tecnologico ha messo a segno una crescita delle operazioni del 3 per cento rispetto all'anno precedente. Nemmeno le utilities e l'energia hanno saputo fare meglio. Tra i Paesi che hanno saputo capitalizzare al meglio lo sprint in questi settori, c’è senza dubbio la Germania, dove in generale tali operazioni nel 2016 sono cresciuto del 27 per cento. La cinese Midea – che produce elettrodomestici – ha acquistato il 94,55 per cento di Kuka, specializzata in robot industriali, per circa 4,5 miliardi di euro. L'operazione Midea-Kuka, che è stata perfezionata soltanto nel gennaio 2017, è anche la più grande acquisizione fatta dai cinesi in terra tedesca;
    Alessandro Perego, direttore del dipartimento di ingegneria gestionale del Politecnico di Milano, sostiene che i lavori che l'intelligenza artificiale mette più a rischio sono quelli «ripetitivi, più probabilmente quelli cognitivi che quelli manuali». Come sostiene Perego: «Innanzitutto sarebbe più corretto parlare di Intelligenza Artificiale, di cui fanno parte anche i robot intesi come umanoidi, ma il vero tema è quello dell'automazione delle attività, tramite software in grado di fare operazioni con le caratteristiche dell'intelligenza umana. E le professioni più a rischio non sono quelle che tutti credono»;
    il segretario al Tesoro americano Mnuchin, ha detto che l'avvento dei robot è così lontano nel tempo da non essere neppure nel radar dell'amministrazione americana e che, comunque, quando avverrà l'automazione riguarderà i lavori che pagano meno;
    ma non tutti sono d'accordo con questa impostazione. Secondo una ricerca di Manpower Group dal titolo – «Skills Revolution» – presentata al World Economic Forum 2017 di Davos. La digitalizzazione e l'automazione del lavoro rappresentano un'opportunità. L'indagine, condotta tra 18.000 datori di lavoro in 43 Paesi del mondo, affronta il tema dell'impatto della digitalizzazione sull'occupazione e dello sviluppo di nuove competenze dei lavoratori. I risultati rivelano che, a livello mondiale, oltre il 90 per cento dei datori di lavoro intervistati prevede che la propria azienda verrà impattata dalla «quarta rivoluzione industriale» nei prossimi due anni, e che questo fattore influenzerà la caratterizzazione delle competenze dei lavoratori verso una sempre maggiore digitalizzazione, creatività, agilità e «learnability», l'attitudine a rimanere costantemente aggiornati e a continuare ad imparare. L'83 per cento del campione intervistato ritiene che l'automatizzazione e la digitalizzazione del lavoro faranno crescere il totale dei posti di lavoro. Inoltre, si prevede che questi cambiamenti avranno un impatto positivo sull'aggiornamento delle competenze dei lavoratori, rispetto al quale i datori di lavoro prevedono di implementare specifici programmi formativi nel prossimo futuro. Tra i 43 Paesi oggetto dell'indagine, è l'Italia ad aspettarsi il maggior incremento di nuovi posti di lavoro grazie alla quarta rivoluzione industriale al netto di un «upskilling», un aggiornamento delle competenze, con una creazione di nuovi posti di lavoro prevista tra il 31 per cento ed il 40 per cento;
    particolarmente meritevole di attenzione appare la proposta recentemente lanciata da Bill Gates, fondatore di Microsoft, di tassare i robot che svolgono lavori umani. «Al momento se un lavoratore umano guadagna 50.000 dollari lavorando in una fabbrica, il suo reddito è tassato. Se un robot svolge lo stesso lavoro dovrebbe essere tassato allo stesso livello», ha spiegato Gates, secondo il quale l'uso di robot può aiutare a liberare un numero maggiore di persone per altri tipi di lavoro, che solo gli esseri umani possono svolgere. Fra questi l'insegnamento, la cura degli anziani e delle persone con esigenze speciali. L'uso di robot «può generare profitti con risparmi sul costo del lavoro» e quindi i robot potrebbero pagare imposte minori di quelle umane, ma dovrebbero pagarle, ha detto il fondatore del colosso informatico;
    come segnala Vincenzo Visco, «la proposta di Bill Gates di tassare i robot non è quindi stravagante perché, se la base imponibile rappresentata dal lavoro si riduce, è inevitabile che il prelievo si indirizzi, prima o poi, verso altre fonti, anche con modalità inedite». Secondo il presidente di Nens, «se i robot vengono utilizzati dalle imprese che aumentano così i loro profitti, e se la quota dei profitti sul reddito nazionale cresce, è evidente che in futuro il maggior prelievo non potrebbe che riguardare i profitti crescenti, per esempio rendendo progressive le imposte sulle società. Più difficile immaginare un sistema in cui vengono individuati i singoli robot da colpire. È chiaro comunque che le nuove fonti di produzione di nuova ricchezza sono oggi internet (e non a caso si è parlato anche di una bit tax) e l'automazione. E sono attualmente quelli ignorati o addirittura incentivati e favoriti dalle normative fiscali esistenti»;
    una risoluzione recentemente approvata dal Parlamento europeo ha chiesto norme comunitarie nel campo della robotica, per far rispettare standard etici o per stabilire la responsabilità civile in caso di incidenti che coinvolgono un'auto senza conducente. I parlamentari europei hanno chiesto alla Commissione europea di proporre norme in materia di robotica e di intelligenza artificiale per sfruttarne appieno il potenziale economico e garantire un livello standard di sicurezza e protezione. La relatrice Mady Delvaux (del gruppo parlamentare dei socialisti e democratici) ha dichiarato: «Sono lieta per l'approvazione della mia relazione sulla robotica, ma mi rammarico che la coalizione di destra formata da Alde, Ppe e Ecr si sia rifiutata di prendere in considerazione le possibili conseguenze negative sul mercato del lavoro. La coalizione ha quindi rifiutato un dibattito aperto e lungimirante, ignorando le preoccupazioni dei nostri cittadini». La risoluzione è stata approvata con 396 voti in favore, 123 voti contrari e 85 astensioni. La Commissione non sarà obbligata a seguire le raccomandazioni del Parlamento, ma in caso di rifiuto dovrà indicarne i motivi,

impegna il Governo:

1) a promuovere iniziative, anche normative, volte all'istituzione di una cabina di regia a livello governativo per garantire un approccio onnicomprensivo allo sviluppo della robotica e dell'intelligenza artificiale all'interno della pubblica amministrazione, al fine di migliorare i servizi e le prestazioni al cittadino;
2) a favorire l'introduzione di programmi su scala nazionale per potenziare l'ecosistema tecnologico e industriale legato alla robotica e all'intelligenza artificiale, a partire dalle scuole e dalle università;
3) in linea con quanto individuato dalla relazione conclusiva deliberata al termine dell'indagine conoscitiva della Commissione attività produttive della Camera dei deputati, a rafforzare i modelli produttivi tendenti a valorizzare il ruolo della robotica e dell'intelligenza artificiale, anche sulla base del programma governativo Industria 4.0;
4) a valutare, di concerto con quanto già disposto a livello comunitario e, in particolare dal Parlamento europeo, l'introduzione di uno status giuridico specifico per i robot, con particolare riferimento ai profili etici e di responsabilità civile, nonché in ambito fiscale;
5) ad avviare iniziative, anche normative, per promuovere nuovi profili occupazionali legati all'innovazione tecnologica e che compensino le possibili conseguenze dello sviluppo della robotica e dell'intelligenza artificiale sul lavoro umano.
(1-01562)
«Ricciatti, Epifani, Ferrara, Roberta Agostini, Albini, Bersani, Franco Bordo, Bossa, Capodicasa, Cimbro, D'Attorre, Duranti, Fava, Folino, Fontanelli, Formisano, Fossati, Carlo Galli, Kronbichler, Laforgia, Leva, Martelli, Matarrelli, Melilla, Mognato, Murer, Nicchi, Giorgio Piccolo, Piras, Quaranta, Ragosta, Rostan, Sannicandro, Scotto, Speranza, Stumpo, Zaccagnini, Zappulla, Zaratti, Zoggia».
(28 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    nel 2015 si sono venduti 250.000 robot in tutto il mondo, di cui 100.000 nel solo settore dell’automotive;
    la comparsa dei primi robot industriali avviene intorno agli anni Settanta, in particolare nel settore dell’automotive, in applicazioni dove l'uomo opera in condizioni di pericolo e grande fatica fisica. Per più di 40 anni l'attenzione dei progettisti si è incentrata principalmente sulla sicurezza; solo da poco si è iniziato a parlare di «collaborazione» tra uomo e macchina e di «robot collaborativi», sulla spinta di coniugare la «potenza» e la «velocità» dei robot industriali, con i sensi e l'intelligenza umana, la nuova tendenza al prodotto pensato per il singolo cliente e la necessità di affiancare i robot all'uomo in nuove applicazioni nei settori della medicina, dell'agricoltura e dell'artigianato;
    come le tecnologie Information & Communication Technology (ICT) sono diventate parte della nostra vita quotidiana, anche la robotica può e ancor più potrà, giocare un ruolo importante nel miglioramento della qualità della vita, aggiungendo all'ICT la capacità di movimento e azione nel mondo reale;
    in questo settore, l'Italia è sempre stata all'avanguardia, anche in ambito industriale, dove le aziende italiane di automazione e robotica hanno avuto e continuano ad avere posizioni di rilievo, insieme a Germania, Giappone e Stati Uniti. Nella ricerca, l'Italia è tra i Paesi leader nella robotica di servizio, nella biorobotica e nella soft robotics;
    occorre che anche in Italia sia considerata una standard practice la collaborazione università-impresa, così come accade negli Stati Uniti, in Israele e in Germania, soprattutto in un contesto di crescente innovazione tecnologica che rischia di vedere depauperate le potenzialità che il nostro Paese indubbiamente possiede;
    nei primi mesi del 2017 partiranno 17 nuovi progetti selezionati dalla Commissione europea, nell'ambito dei finanziamenti « Horizon 2020» e di questi ben 5 saranno sviluppati da centri di ricerca italiani. I 17 progetti finanziati toccano ogni settore, dalla telemedicina di SmartSurg, alle piattaforme intelligenti per la sicurezza; quasi tutti i progetti scelti sono proiettati verso le applicazioni commerciali, volte a migliorare la qualità della vita e del lavoro;
    l'utilizzo delle tecnologie digitali per la produzione di beni fisici, la robotizzazione, la tecnologia cloud, l’Internet of Things, l'impiego di intelligenze artificiali e la flessibilizzazione del mercato del lavoro costituiscono, nel loro complesso, quella che è stata definita la rivoluzione dell'Industria 4.0, che, come tutte le rivoluzioni, determinerà notevoli cambiamenti sociali, a partire dal mercato del lavoro. La rivoluzione 4.0 è destinata a investire tutti i settori di mercato e le diverse aree aziendali, generando grandi opportunità;
    su quale sarà l'impatto sull'occupazione di Industria 4.0 gli esperti non sono concordi: mentre vi è una convergenza di opinioni su alcuni punti (i robot e l'intelligenza artificiale permeeranno in breve tempo ogni aspetto della nostra vita; l'attuale formazione scolastica e universitaria non sono in grado di preparare adeguatamente le persone per le sfide del prossimo decennio; occorre cogliere l'occasione per ripensare l'attuale concetto di lavoro), diversa è la valutazione dell'impatto sulla creazione di posti di lavoro;
    secondo il World Economic Forum, entro il 2020 a fronte di 7,1 milioni di posti di lavoro persi, ne saranno creati appena 2 milioni di nuovi e ciò a causa della digitalizzazione dei processi – smart manufacturing; d'altro canto, una ricerca condotta da Manpower Group tra 18.000 datori di lavoro in 43 Paesi del mondo, rileva che oltre il 90 per cento dei datori di lavoro intervistati prevede che la propria azienda verrà impattata dalla «quarta rivoluzione industriale» nei prossimi due anni, mentre l'83 per cento del campione ritiene che l'automatizzazione e la digitalizzazione del lavoro faranno crescere il totale dei posti di lavoro;
    in questa indagine, l'Italia si attende il maggior incremento di nuovi posti di lavoro, al netto di un « upskilling», con una creazione di nuovi posti di lavoro prevista tra il 31 per cento ed il 40 per cento. Meno ottimistiche appaiono le prospettive per i datori di lavoro di Germania, Francia, Finlandia, Svezia e Svizzera, secondo cui l'impatto potrebbe essere nullo o addirittura negativo (tra lo 0 e il -9 per cento);
    l'automazione è parte di un più ampio processo di innovazione che dovrebbe favorire la domanda e di conseguenza l'offerta in settori più svariati, alimentando quindi l'occupazione, sempre che si affronti in modo determinato quel «cambiamento culturale» che Industria 4.0 impone;
    industria 4.0 sicuramente potrà far ripartire investimenti e produttività in Italia, ma indispensabile è compiere sforzi adeguati per sostenere la nascita di una nuova generazione di lavoratori digitalizzati, sia formando persone con competenze tecniche, sia riqualificando coloro che stanno già lavorando, accompagnandoli con l'acquisizione di soft skill minimi di base, sia rafforzando gli interventi sulla formazione di competenze digitali nelle piccole e medie imprese;
    sempre secondo l'analisi del World Economic Forum, il 65 per cento dei bambini che iniziano oggi il loro ciclo di studi è destinato a trovare un lavoro che oggi ancora non esiste. Proprio per questo risulta fondamentale uno sforzo congiunto tra le piccole e medie imprese e il Governo per l'attuazione delle best practice, a partire dalla scuola e dall'università, e la creazione di centri di competenza;
    la legge di bilancio 2016 ha puntato sulla conferma e sul potenziamento degli incentivi agli investimenti, tuttavia, gli incentivi fiscali, in un tessuto industriale composto da molte piccole e medie imprese, riusciranno difficilmente a stimolare investimenti in ricerca e sviluppo, soprattutto in un clima ancora caratterizzato da forte incertezza;
    la previsione, inoltre, che per accedere all'iper-ammortamento, i beni, oltre ad essere funzionali alla trasformazione tecnologica delle imprese in ottica di Industria 4.0, debbano dimostrare di essere interconnessi al sistema di gestione aziendale, rischia di escludere buona parte delle piccole e medie imprese, che dovrebbero rivedere l'intero sistema informativo interno; gli incentivi fiscali previsti, incluso il super-ammortamento, si dimostrano quindi più adatti alle grandi imprese che non alle realtà di piccole dimensioni,

impegna il Governo:

1) a porre maggiore attenzione ai problemi che riguardano la piccola e media industria nel suo processo di passaggio a «Industria 4.0», in particolare prevedendo un piano industriale ragionato, basato su quello che l'Italia può e meglio sa fare, delineando una nuova Italia produttiva con le piccole e medie imprese come protagoniste;
2) ad assumere iniziative di competenza, volte a promuovere attività di formazione, ricerca e sviluppo nelle scuole, nelle università e nei centri di ricerca, favorendo la collaborazione università-impresa e prevedendo anche l'allocazione di maggiori risorse per la creazione dei centri di competenza.
(1-01571)
«Palese, Altieri, Bianconi, Capezzone, Chiarelli, Ciracì, Corsaro, Distaso, Fucci, Latronico, Marti».
(3 aprile 2017)

INTERROGAZIONI A RISPOSTA IMMEDIATA

   ROCCELLA. – Al Ministro della salute. – Per sapere – premesso che:
   si apprende da articoli di stampa che nella regione Lazio si avvierà una sperimentazione per effettuare aborti farmacologici nei consultori regionali;
   lo scopo dichiarato è di alleggerire il carico di lavoro negli ospedali, dove il numero degli obiettori di coscienza causerebbe problemi nell'accesso, e di «umanizzare» il percorso abortivo;
   dai numeri relativi alla situazione del Lazio riguardo all'applicazione della legge n. 194 del 1978, riportati nella relazione annuale al Parlamento, non emergono però criticità per il carico di lavoro del personale non obiettore, sia per le strutture ospedaliere che per i consultori;
   l'articolo 8 della legge n. 194 del 1978 prevede esplicitamente che l'aborto avvenga in strutture ospedaliere o in «poliambulatori pubblici adeguatamente attrezzati, funzionalmente collegati agli ospedali ed autorizzati dalla regione», e non in consultori;
   inoltre, tre pareri distinti del Consiglio superiore di sanità indicano che l'aborto medico debba avvenire in regime ospedaliero;
   il primo, nel 2004, ritiene che: «alla luce delle conoscenze disponibili, i rischi dell'interruzione farmacologica di gravidanza si possono considerare equivalenti ai rischi di interruzione chirurgica solo se l'interruzione di gravidanza avviene in ambito ospedaliero»;
   il secondo, nel 2005, ritiene che: «pertanto l'associazione di mifepristone e misoprostolo debba essere somministrata in ospedale pubblico o in altra struttura prevista dalla predetta legge e la donna debba essere ivi trattenuta fino ad aborto avvenuto»;
   nel 2010, il Consiglio superiore di sanità afferma che è «necessario, al fine di garantire il rispetto della legge n. 194 del 1978 su tutto il territorio nazionale, che il percorso dell'interruzione volontaria di gravidanza medica avvenga in regime di ricovero ordinario fino alla verifica della completa espulsione del prodotto del concepimento»;
   in questi anni non sono cambiati i prodotti chimici autorizzati per uso abortivo (mifepristone e prostaglandine) in base ai quali sono stati forniti i pareri riguardo a questa procedura abortiva;
   nella relazione al Parlamento sull'applicazione della legge n. 194 del 1978, trasmessa il 7 dicembre 2016, sono inoltre riportati due decessi di donne a seguito di aborto farmacologico. Si tratta dei primi due decessi a seguito di aborto segnalati dall'entrata in vigore della legge stessa, confermando la maggiore mortalità, anche in Italia, per aborto farmacologico rispetto a quello chirurgico, considerando che per quest'ultimo dal 1978 ad ora non sono stati segnalati decessi;
   secondo la letteratura scientifica la mortalità per aborto chimico è dieci volte maggiore di quella per aborto chirurgico –:
   se il Governo sia a conoscenza della documentazione scientifica e amministrativa alla base della sperimentazione suddetta e come l'aborto farmacologico si concili con la normativa nazionale. (3-02959)
(18 aprile 2017)

  MUCCI e MONCHIERO. – Al Ministro della salute. – Per sapere – premesso che:
   con il decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, «cresci Italia», era stato previsto il potenziamento del sistema farmaceutico con l'apertura di oltre 4.000 nuovi esercizi assegnati tramite concorsi regionali «al fine di favorire l'accesso alla titolarità delle farmacie da parte di un più ampio numero di aspiranti, aventi i requisiti di legge, nonché garantendo una più capillare presenza sul territorio del servizio farmaceutico»;
   da allora sono stati indetti i concorsi a cui hanno partecipato migliaia di farmacisti e sono state pubblicate quasi tutte le graduatorie, ma risultano poche le aperture di nuove farmacie;
   le principali cause sono da rinvenire nei numerosi ricorsi a tribunali amministrativi regionali e nei ritardi nel lavoro delle commissioni regionali. L'Emilia-Romagna, ad esempio, ha impiegato un anno e mezzo dalla pubblicazione della graduatoria per portare a termine il primo interpello, quando i tempi previsti dal bando sarebbero stati di circa sette mesi (cinque giorni per la risposta all'interpello, quindici giorni per l'accettazione della sede, sei mesi per aprire l'esercizio come da bando). Nelle Marche non è ancora stato svolto alcun interpello e la graduatoria è stata pubblicata ad agosto 2015. Nel Lazio, per via di un ricorso al tribunale amministrativo regionale, risulta tutto fermo a marzo 2016, pure in Lombardia è tutto fermo;
   risulta evidente come i tempi di validità della graduatoria, stabiliti in due anni, vadano prolungati al più presto, in quanto le graduatorie risultano quasi tutte vicine alla scadenza;
   se così non fosse si dovrebbe ricorrere, entro breve, a indire nuovi concorsi regionali, con ulteriore aggravio di spese per lo Stato e un ulteriore allungamento dei tempi per le aperture previste;
   in tal senso, si è espressa anche la Commissione salute della Conferenza delle regioni, chiedendo di modificare l'articolo 11, comma 6, del decreto-legge n. 1 del 2012 sulle liberalizzazioni –:
   se e quali iniziative concrete, eventualmente anche di carattere normativo, abbia intenzione di porre in essere affinché le disposizioni dettate dal decreto-legge n. 1 del 2012 trovino immediata e concreta applicazione. (3-02960)
(18 aprile 2017)

  MARTELLI, NICCHI, FOSSATI, PIRAS, SCOTTO, QUARANTA, RICCIATTI, ZARATTI, ZAPPULLA, ALBINI, CARLO GALLI, LAFORGIA, CAPODICASA, DURANTI, FRANCO BORDO, FONTANELLI, ROBERTA AGOSTINI, MELILLA, MURER, KRONBICHLER, MOGNATO, LEVA e CIMBRO. – Al Ministro della salute. – Per sapere – premesso che:
   in relazione all'applicazione della legge n. 194 del 1978 l'Italia torna alla clandestinità. Da Nord a Sud l'80 per cento dei ginecologi, e oltre il 50 per cento di anestesisti e infermieri, non applica più la legge n. 194 del 1978;
   la conseguenza è che le donne respinte dalle istituzioni sono costrette a rivolgersi a chi pratica illegalmente l'aborto. Con grossi rischi per la salute e per la vita stessa delle donne;
   il Ministero della salute stima 20.000 aborti clandestini nel 2008, 40.000/50.000 probabilmente quelli reali; 75.000 sono gli aborti spontanei nel 2011 dichiarati dall'Istat, ma un terzo di questi frutto probabilmente di interventi «casalinghi» finiti male;
   il Comitato per i diritti umani dell'Onu ha espresso preoccupazione sulla situazione italiana, per le difficoltà di accesso agli aborti legali, a causa del numero di medici che si rifiutano di praticare l'interruzione di gravidanza per motivi di coscienza;
   lo stesso Comitato dell'Onu ha sottolineato il fenomeno del ricorso all'aborto clandestino, oltre a sottolineare quale dovrebbe essere il ruolo dello Stato che dovrebbe adottare misure necessarie per garantire il libero e tempestivo accesso ai servizi di aborto legale, con un sistema di riferimento valido –:
   quali iniziative intenda porre in essere il Governo per garantire la piena applicazione della legge n. 194 del 1978, così come sottolineato dal Comitato dei diritti umani dell'Onu, e contrastare la pratica illegale degli aborti, contribuendo in questo modo anche a combattere il fenomeno delle organizzazioni criminali che sul territorio italiano gestiscono le strutture clandestine che mettono a grave rischio la salute e la vita delle donne.
(3-02961)
(18 aprile 2017)

  TAGLIALATELA, RAMPELLI, CIRIELLI, LA RUSSA, GIORGIA MELONI, MURGIA, NASTRI, PETRENGA, RIZZETTO e TOTARO. – Al Ministro della salute. – Per sapere – premesso che:
   il blocco delle assunzioni nel comparto della sanità ha fatto sì che molti professionisti abbiano dovuto trasferirsi in regioni diverse da quella di origine per poter continuare a svolgere il proprio lavoro;
   con particolare riferimento alla regione Campania, tuttavia, i risparmi di spesa attesi dal blocco assunzionale non hanno dato gli esiti sperati, posto che molte strutture ospedaliere hanno fatto ricorso a personale impiegato con contratti a termine stipulati con agenzie per il lavoro temporaneo;
   questa pratica ha determinato l'immissione nei reparti ospedalieri di personale giovane ed inesperto, reclutato, a giudizio degli interroganti, secondo modalità non sempre trasparenti, e ha creato, negli anni, una rete clientelare che non porta certo giovamento al sistema sanitario regionale campano;
   ad oggi, in Campania, nonostante lo sblocco del turnover e le direttive regionali del commissario ad acta per il piano di rientro dal disavanzo sanitario della regione Campania, si continuano a bandire o prorogare gare d'appalto per lavori in somministrazione;
   il decreto del commissario ad acta n. 6 dell'11 febbraio 2016 ha stabilito che «le aziende sanitarie dovranno rispettare pedissequamente le procedure di reclutamento indicate nella circolare presidenziale n. 1824 del 15 aprile 2014, avendo cura di evitare di mettere in atto procedure diverse dall'indizione di pubblici concorsi, precedute, per ritenuti casi di urgenza, dall'indizione di avvisi pubblici, e di non ricorrere a forme alternative di reclutamento»;
   inoltre, l'assunzione di personale medico e infermieristico, che potrebbe verificarsi attingendo alle vigenti graduatorie di concorsi già svolti, comporterebbe un minor costo di circa il 30 per cento rispetto al lavoro in somministrazione –:
   quali iniziative intenda assumere il Governo, per quanto di competenza, per il tramite del commissario ad acta per il piano di rientro del disavanzo sanitario di cui in premessa, affinché non si faccia più ricorso da parte delle strutture mediche e ospedaliere della Campania al lavoro in somministrazione e le stesse, a fronte di carenze di personale, ricorrano all'assunzione dei soggetti iscritti nelle graduatorie in esito a regolari concorsi, tutelando il loro legittimo auspicio all'immissione in servizio. (3-02962)
(18 aprile 2017)

  CAPELLI. – Al Ministro della salute. – Per sapere – premesso che:
   il 16 maggio 2014 la regione Sardegna, la Qatar foundation endowment e l'Ospedale pediatrico Bambin Gesù sottoscrivevano un'intesa per l'attivazione di un tavolo tecnico-sanitario per la definizione dell'offerta e dell'attività del nuovo ospedale pianificato sul mai nato progetto del San Raffaele;
   il 22 maggio 2014 la Presidenza del Consiglio dei ministri pro tempore si impegnava a sostenere l'iniziativa della regione nella realizzazione del progetto con Qatar foundation endowment;
   l'8 luglio 2014 la giunta della regione Sardegna approvava la deliberazione necessaria per attivare le procedure di competenza;
   all'interno del decreto-legge «sblocca Italia» sono inserite due specifiche deroghe alla normativa vigente, valevoli per il triennio 2015-2017, la prima concede alla regione la facoltà di non considerare i posti letto accreditati nella struttura sanitaria ai fini del rispetto del parametro massimo di 3,7 posti letto per 1.000 abitanti previsto dalle leggi regionali;
   inoltre, la stessa regione può incrementare fino al 6 per cento il tetto di incidenza della spesa per l'acquisto di prestazioni sanitarie fornite da soggetti privati, con costi a carico del bilancio regionale stesso;
   la Commissione affari sociali della Camera dei deputati ha riconosciuto la portata fortemente innovativa del progetto, chiedendo il monitoraggio da parte della regione Sardegna e del Ministero della salute sull'effettiva rispondenza della qualità delle prestazioni sanitarie erogate dell'ex Ospedale San Raffaele di Olbia al contenuto del protocollo sopra citato, chiedendo anche la fissazione di un limite temporale per l'adozione da parte della regione del piano di razionalizzazione della rete ospedaliera;
   il 27 agosto 2014 il project manager della Qatar foundation endowment dichiarava che l'ospedale avrebbe aperto il 1o marzo 2015;
   il 28 maggio 2015 il Presidente del Consiglio dei ministri pro tempore si esprimeva positivamente sul progetto del Mater Olbia, simbolo della rinascita dell'Italia;
   nel novembre 2015 veniva annunciata una prima apertura delle strutture per il dicembre successivo. Da allora, però, molte sono state le date di possibile apertura annunciata e non realizzata;
   ad aprile 2016 la nuova data di apertura veniva posticipata al giugno 2017;
   la regione Sardegna deve assicurare, a partire dal 1o gennaio 2018, con il programma di riorganizzazione della rete ospedaliera, il rispetto dei parametri nazionali previsti, includendo anche quelli relativi al nuovo ospedale di Olbia trascorso il triennio in deroga –:
   quali iniziative di competenza intenda intraprendere il Governo per affrontare la situazione sopra esposta, anche in vista della scadenza alla fine del 2017 del regime di deroga accordato alla regione. (3-02963)
(18 aprile 2017)

  RONDINI, FEDRIGA, ALLASIA, ATTAGUILE, BORGHESI, BOSSI, BUSIN, CAPARINI, CASTIELLO, GIANCARLO GIORGETTI, GRIMOLDI, GUIDESI, INVERNIZZI, MOLTENI, PAGANO, PICCHI, GIANLUCA PINI, SALTAMARTINI e SIMONETTI. – Al Ministro della salute. – Per sapere – premesso che:
   nel silenzio generale, i servizi per le dipendenze denunciano da anni che si è abbassata l'età di primo approccio con le sostanze legali e illegali; tra i consumi dei giovanissimi vi sono sostanze ancor più pericolose e la dimenticata eroina (o meglio le sostanze oppioidi) sta godendo una seconda giovinezza, anche se con modalità di assunzione diverse da una volta. Il costo delle sostanze illegali si è abbassato, recando con sé la possibilità di forme di poliabuso alla portata di molte tasche;
   i dati emersi dallo studio Espad Italia dell'Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Ifc-Cnr), che ha coinvolto 30 mila studenti italiani tra i 15 e i 19 anni, riportano come seicentocinquantamila studenti delle superiori nell'ultimo anno hanno fumato cannabis o sniffato cocaina, preso eroina, allucinogeni o stimolanti. Spesso più sostanze contemporaneamente, come se non ci fosse differenza;
   in un quadro che vede sempre più italiani, sono oltre tre milioni sotto i 35 anni, consumare abitualmente hashish, dove alcuni stupefacenti registrano finalmente una flessione nei consumi, il dato più inquietante riguarda il ritorno dell'eroina: ben 320 mila persone che hanno fumato, sniffato o si sono iniettate il derivato dell'oppio che è in costante aumento;
   tra i quindicenni l'eroina risulta essere la droga più popolare dopo la cannabis: il 2 per cento dei maschi 15enni, circa 5.000 ragazzi, ha dichiarato di averne consumato almeno una volta nel mese precedente all'indagine. Ulteriore allarme viene dal fatto che 3.000 15enni se la sono iniettata;
   tra i maschi quindicenni, due su 3 hanno consumato anche eroina, cocaina, allucinogeni e/o stimolanti negli ultimi 12 mesi, mentre 3 su 4 hanno fatto uso di cannabis. E tra loro si segnala il maggior impiego di nuove sostanze sintetiche: il 62 per cento, infatti, ha usato spice, la cannabis sintetica, e il 57 per cento painkiller, farmaci antidolorifici per sballare. In aumento anche l'uso di smart drug, le droghe cosiddette furbe perché al limite tra legalità ed illegalità, facilmente reperibili sul web sotto forma di prodotti naturali o come gli sciroppi all'oppio, percentuale raddoppiata rispetto al 2010 –:
   se il Governo sia a conoscenza della situazione e se non intenda intervenire predisponendo campagne informative e sostenendo, anche economicamente, le associazioni che si impegnano quotidianamente per la lotta contro il consumo di stupefacenti, colpite da pesanti tagli nel corso degli anni. (3-02964)
(18 aprile 2017)

  SPESSOTTO, DELL'ORCO, LIUZZI, PAOLO NICOLÒ ROMANO, NICOLA BIANCHI, DE LORENZIS e CARINELLI. – Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. – Per sapere – premesso che:
   il decreto-legge n. 145 del 2013 «destinazione Italia», convertito, con modificazioni, dalla legge n. 9 del 2014, è intervenuto in materia di accordi stipulati dalle società di gestione degli aeroporti con i vettori aerei, prevedendo l'obbligo di espletamento di procedure concorrenziali per la scelta, da parte dei gestori aeroportuali, dei vettori ai quali erogare contributi, sussidi o altre forme di emolumento per lo sviluppo delle rotte;
   l'articolo 13, comma 14, del decreto-legge stabilisce che, per l'erogazione di contributi per lo sviluppo di rotte destinate a soddisfare e promuovere la domanda nei rispettivi bacini di utenza, le società di gestione esperiscano procedure di scelta concorrenziali e trasparenti, così da consentire la più ampia partecipazione dei vettori potenzialmente interessati;
   la norma prevede che i gestori aeroportuali comunichino all'Enac e all'Autorità di regolazione dei trasporti l'esito delle procedure concorrenziali, ai fini della verifica del rispetto delle condizioni di trasparenza e competitività;
   entro il 31 gennaio di ciascun anno, le società aeroportuali devono inoltre comunicare ad Enac l'ammontare dei contributi versati dalle stesse società ai vettori, anche sotto forma di contratti di co-marketing, dati che non risultano ad oggi effettivamente reperibili ed accessibili;
   negli ultimi anni, nonostante gli indirizzi comunitari e nazionali in relazione ai principi di trasparenza e competitività per lo sviluppo delle rotte aeree, grazie alla conclusione di contratti di co-marketing tra gestori aeroportuali e vettori, con la compartecipazione di regioni, province e comuni, le compagnie low cost hanno goduto di contributi pubblici – stimati intorno ai 100 milioni di euro annui circa – giunti attraverso «fondi di sviluppo rotte e marketing» stanziati dagli aeroporti italiani;
   sebbene le norme comunitarie in materia di aiuti di Stato prescrivano la pubblicazione, a cadenza semestrale, sui siti degli aeroporti, delle procedure selettive per godere degli incentivi, l'obbligo viene disatteso, attraverso la pubblicazione di bilanci poco chiari, complice la mancata previsione, all'interno delle linee guida dell'agosto 2016, di procedure sanzionatorie per i gestori che non rispettano suddetto obbligo;
   parimenti è slittato a luglio del 2017 il termine previsto per la realizzazione del registro degli aiuti dove i gestori devono comunicare gli incentivi erogati per lo sviluppo di rotte aeree da parte dei vettori –:
   se il Ministro interrogato intenda fornire un elenco aggiornato degli scali aeroportuali italiani che hanno attualmente in corso accordi di co-marketing, con l'indicazione dei relativi importi, precisando se corrisponda a realtà l'importo stimato di 100 milioni di euro di cui in premessa. (3-02965)
(18 aprile 2017)

  RABINO, FRANCESCO SAVERIO ROMANO e PARISI. – Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. – Per sapere – premesso che:
   ogni giorno in Piemonte sono 165 mila i pendolari che prendono il treno per spostarsi per ragioni di lavoro o di studio, il 9,5 per cento in meno rispetto al 2011. È quanto emerso dal rapporto «Pendolaria» curato da Legambiente, secondo cui «è questa la più evidente e diretta conseguenza dei tagli al servizio ferroviario regionale che dal 2010 ad oggi hanno portato alla soppressione di intere linee con un taglio complessivo del servizio pari all'8,4 per cento»;
   con l'avvenuta elettrificazione della linea Alba-Bra, l'attenzione delle istituzioni locali è tornata a focalizzarsi sul treno quale mezzo di trasporto indispensabile per il Piemonte meridionale, nonché quale strumento in grado di decongestionare le arterie stradali e offrire al pubblico nuove possibilità di mobilità anche a scopo turistico;
   in quest'ottica i comuni dell'asse Alba-Asti hanno già siglato un protocollo d'intesa, precondizione per spingere la regione ad attivarsi per la riapertura dell'asse ferroviario Alba-Asti, fondamentale per il collegamento di tutta l'area verso est (in direzione Milano) e verso sud (in direzione Genova);
   la tratta Alba-Asti venne chiusa nel 2010 a causa dei problemi strutturali della galleria «Ghersi», coinvolta dal cedimento di tutta la collina soprastante, e non certo per mancanza di utenza, tanto che a tutt'oggi i pullman sostitutivi sono affollati di pendolari e studenti. Rete ferroviaria italiana ha stimato in 12 milioni di euro gli oneri per il ripristino;
   la riattivazione della linea ferroviaria è sostenuta da mesi dal tavolo tecnico sulla mobilità sostenibile che riunisce i comuni dell'Unesco, gli ordini professionali di architetti, ingegneri, dottori agronomi e forestali, oltre a numerose associazioni del territorio;
   la chiusura della linea ferroviaria che da Neive, attraverso Castagnole, porta ad Asti appare ingiustificata, in quanto non coinvolta dai disagi dovuti al cedimento della galleria «Ghersi» ed una sua celere riapertura potrebbe portare giovamento all'intero sistema di trasporti della zona;
   le linee ferroviarie citate non sono di solo interesse locale, in quanto ricadenti negli scenari delle Langhe, del Roero e del Monferrato, divenute Patrimonio dell'Umanità Unesco –:
   se e come il Governo sia intenzionato a sostenere, nei limiti delle proprie competenze, in sinergia con Rete ferroviaria italiana e la regione Piemonte, la riapertura della tratta ferroviaria Alba-Asti.
(3-02966)
(18 aprile 2017)

  CENTEMERO. – Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. – Per sapere – premesso che:
   la tranvia Milano-Limbiate è una linea interurbana che collega Milano a Limbiate su un asse viario a intenso flusso;
   a causa delle carenze infrastrutturali venne previsto l'intervento di riqualificazione della tranvia extraurbana Milano-Limbiate, nella tratta Comasina-deposito Varedo, finanziato con le risorse della legge n. 133 del 2008. Tali risorse sono state impegnate dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti con decreto 28 dicembre 2010, n. 4107, a conclusione della procedura di cui al decreto ministeriale n. 99 del 2009;
   il Cipe, con delibera 6 dicembre 2011, n. 91, esaminate e condivise le valutazioni effettuate dalla competente commissione di alta vigilanza, ha approvato il programma degli interventi ammissibili a finanziamento ai sensi della citata legge n. 133 del 2008 per un contributo di euro 58.934.983,20, pari al 60 per cento del costo dell'opera ammissibile a finanziamento, pari a euro 98.224.972,00;
   con decreto-legge 25 novembre 2015, n. 185, il Governo pro tempore ha revocato e destinato le risorse finalizzate alla realizzazione della riqualificazione tranvia extraurbana Milano-Limbiate, 1o lotto funzionale, anche in attuazione dell'articolo 1, comma 101, della legge 27 dicembre 201, n. 147, alla società Expo s.p.a. per fare fronte al mancato contributo della provincia di Milano;
   lo sviluppo della mobilità sostenibile è uno dei pilastri fondamentali per la riduzione delle emissioni di gas inquinanti nell'atmosfera;
   la regione Lombardia ha recentemente investito 13,6 milioni di euro per la messa in sicurezza della linea Milano-Limbiate. Il finanziamento è stato concesso per interventi urgenti di ammodernamento e adeguamento alle norme di sicurezza dell'attuale linea tramviaria. A questi si aggiungeranno anche ulteriori 20 milioni di euro per l'acquisto di altre vetture;
   ad oggi l'Ufficio ministeriale che vigila sulla sicurezza dei trasporti ad impatti fissi (Ustif) ha più volte minacciato l'interruzione del servizio, a causa di mancati adeguamenti alle norme di sicurezza;
   in sede di esame del disegno di legge di stabilità per il 2016, con l'approvazione dell'ordine del giorno n. 9/03444-A/349, il Governo aveva già manifestato la propria disponibilità a valutare il rifinanziamento dell'infrastruttura; volontà confermata anche con l'accoglimento dell'ordine del giorno 9/3495/58, nel mese di gennaio 2016, che impegnava l'Esecutivo a reperire le risorse necessarie al rifinanziamento –:
   se e quali iniziative urgenti intenda adottare affinché venga ripristinato il finanziamento finalizzato alla riqualificazione della tranvia extraurbana Milano-Limbiate. (3-02967)
(18 aprile 2017)

  LAURICELLA, BERRETTA, TULLO, CULOTTA, CARLONI, MURA, MARTELLA, CINZIA MARIA FONTANA e BINI. – Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. – Per sapere – premesso che:
   il 7 luglio 2014 si è verificato il crollo del viadotto Petrulla, situato lungo la strada statale n. 626/dir che collega i comuni di Licata, Ravanusa, Canicattì e Campobello di Licata in Sicilia;
   a seguito del crollo del viadotto la viabilità della zona ha evidentemente subito pesanti ripercussioni; il perpetuarsi della situazione di interruzione ha comportato da tre anni a questa parte una gravissima limitazione dell'economia del territorio, con il sostanziale isolamento del territorio di Licata e gravose difficoltà di collegamento tra i paesi circostanti;
   in particolare, la difficoltà dei cittadini dell'entroterra nel raggiungere il mare e le spiagge di Licata ha recato un rilevante danno economico agli operatori turistici della zona, che hanno visto diminuire in modo sostanziale le presenze nelle ultime due stagioni;
   una vera e propria situazione di emergenza, quindi, su cui si è intervenuti fin dall'inizio con determinazione e con la volontà di agire rapidamente, stante la gravità e la risonanza anche nazionale avuta dall'evento;
   fin dal 2014 la direzione dell'Anas ha agito con impegno e consapevolezza della serietà del problema e, dopo il dissequestro del viadotto da parte dell'autorità giudiziaria, sono state attivate le procedure per la gara d'appalto e nel febbraio 2016 si è dato inizio ai lavori;
   ad oggi, benché l'Anas abbia provveduto a ripristinare il viadotto Salso, si procede con evidente ritardo nel completamento delle opere di ripristino del viadotto Petrulla: a quanto risulta agli interroganti, lo stato di avanzamento dei lavori è solo al 10,23 per cento e non viene indicata una data precisa di conclusione dei lavori;
   il 3 febbraio 2017 si è tenuto un incontro tra il sindaco di Licata e la direzione regionale dell'Anas, nel corso del quale è stato assicurato al sindaco che il ripristino del viadotto Petrulla sarà completato entro la fine del mese di aprile 2017 –:
   quali siano i tempi previsti per il completamento delle opere di ripristino del viadotto Petrulla, in considerazione dei pesanti disagi che da quasi tre anni i cittadini e gli operatori economici della zona di Licata stanno affrontando per l'interruzione di un tratto cruciale delle infrastrutture viarie. (3-02968)
(18 aprile 2017)

  GAROFALO, D'ALIA, BOSCO, CALABRÒ, MAROTTA, MINARDO, MISURACA e SCOPELLITI. – Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. – Per sapere – premesso che:
   nel quadro complessivo di crisi economica che il Paese sta attraversando, uno degli elementi che ne determinano il rallentamento è senza dubbio la carenza e l'inadeguatezza delle infrastrutture nel settore dei trasporti, in particolar modo al Sud;
   infatti, risulta evidente come il sistema infrastrutturale del Mezzogiorno sia decisamente meno sviluppato e moderno rispetto a quelli presenti in altre parti d'Italia. Il complesso sistema dei trasporti e dei collegamenti con il resto del Paese, composto da strade, autostrade, ferrovie, da porti ed aeroporti, sconta gravissimi ritardi ed inefficienze;
   fondamentale, in un'ottica di rilancio del Sud attraverso l'implementazione delle infrastrutture, appare la realizzazione definitiva del «corridoio Sud» che rappresenta l'asse portante di una tale operazione;
   a determinare queste carenze è anche la rilevante differenza di investimenti che si sono verificati nel corso degli anni, proprio nel settore delle infrastrutture, tra Nord e Sud del Paese;
   occorrerebbe, pertanto, un impegno forte e risoluto del Governo al fine di implementare le opere infrastrutturali presenti nel Mezzogiorno: ciò consentirebbe non solo di superare la marginalità oggi presente nel Sud del Paese, ma anche di favorire la ripresa dell'intero sistema economico e produttivo, nonché dell'occupazione;
   la realtà dei trasporti e delle infrastrutture nell'area dello Stretto è drammaticamente evidente: le occasioni perse sono state infinite e si parla ancora e persino di studi di fattibilità quando esiste da tempo un progetto redatto sulla base di una precisa scelta delle modalità operative (ponte e non tunnel);
   inoltre, ad oggi il tratto ferroviario della Salerno-Reggio Calabria viene ancora escluso dal progetto generale di alta velocità, dal momento che se ne parla ancora soltanto in termini di «velocizzazione» –:
   quali iniziative il Governo intenda adottare al fine di implementare gli investimenti (nel più breve tempo possibile, atteso che, oltre all'impegno economico, l'altro tema fondamentale dell'intera questione è rappresentato dal tempo) destinati alle infrastrutture del Mezzogiorno e, quindi, al fine di evitare che questa parte del Paese subisca un drammatico, ineluttabile declino determinato anche e soprattutto da carenze di collegamento, che inducono a prevedere concretamente la desertificazione di un intero territorio. (3-02969)
(18 aprile 2017)

  MARCON, PANNARALE, GIANCARLO GIORDANO, PAGLIA, PELLEGRINO, FRATOIANNI, GREGORI e PLACIDO. – Al Ministro dell'economia e delle finanze. – Per sapere – premesso che:
   la Corte di cassazione, con ordinanza n. 8945 del 6 aprile 2017, ha ribadito che: «nel settore scolastico la clausola 4 dell'accordo quadro sul rapporto a tempo determinato recepito dalla direttiva n. 1999/70/CE, di diretta applicazione, impone di riconoscere l'anzianità di servizio maturata dal personale del comparto scuola assunto con contratti a termine, ai fini dell'attribuzione della medesima progressione stipendiale prevista per i dipendenti a tempo indeterminato dai contratti collettivi nazionali di lavori succedutisi nel tempo»;
   in tal modo, la Corte di cassazione, in forza della suddetta direttiva, ha inteso valorizzare i principi affermati dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, per i quali si fa obbligo agli Stati membri di assicurare ai lavoratori precari le medesime condizioni di impiego riservate ai lavoratori assunti a tempo indeterminato, e ciò a prescindere dalla legittimità del termine apposto al contratto;
   tale pronunciamento rischia di entrare a gamba tesa e di complicare la partita attualmente aperta tra il Ministro interrogato ed il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, in merito all'intenzione da parte di quest'ultimo di voler utilizzare tutte le risorse stanziate dalla legge di bilancio per il 2017 per l'incremento dell'organico dell'autonomia, al fine di consolidare in diritto circa 20.000 posti comuni dell'organico di fatto ai quali aggiungere 5.000 posti di sostegno in deroga;
   il 12 aprile 2017 il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, interrogato alla Camera dei deputati, ha testualmente dichiarato che: «Dal punto di vista degli oneri per ciascun posto consolidato occorrerà pagare la differenza tra lo stipendio di un docente di ruolo e un supplente: si tratta di due mensilità in più, quelle di luglio e agosto, oltre alla progressione di carriera. Per questo motivo il costo dell'operazione è inferiore a quanto occorrerebbe per istituire nuovi posti e i 400 milioni di euro disponibili a regime sono sufficienti per consolidare circa 25.000 posti». Ha poi rassicurato il mondo scolastico dichiarando che «Sono in corso interlocuzioni tra i tecnici del mio Ministero e del Ministero dell'economia e delle finanze per affinare i conti»;
   invero la Ragioneria generale dello Stato contesta le stime del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, sostenendo che per la sola ricostruzione di carriera occorrerebbe almeno il doppio delle risorse stanziate per l'operazione, e cioè circa 800 milioni di euro all'anno, con ciò facendo intendere di essere disposta a finanziare non più di 8.000 stabilizzazioni –:
   quali siano, anche alla luce di quanto statuito il 6 aprile 2017 dalla Corte di cassazione, le stime ufficiali del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca. (3-02970)
(18 aprile 2017)

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