TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 822 di Mercoledì 28 giugno 2017

 
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MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE RELATIVE ALL'APPLICAZIONE DELLA COSIDDETTA DIRETTIVA BOLKESTEIN

   La Camera,
   premesso che:
    il 12 dicembre 2006 il Parlamento e il Consiglio europeo hanno approvato la direttiva 2006/123/CE, meglio nota come «direttiva Bolkestein», con lo scopo di facilitare la creazione di un libero mercato dei servizi in ambito europeo;
    l'Italia ha dato attuazione alla citata direttiva mediante il decreto legislativo n. 59 del 26 marzo 2010, che ne ha esteso l'applicazione anche al settore del commercio ambulante su aree pubbliche, secondo un'interpretazione estensiva dell'articolo 12 della direttiva, ai sensi del quale, qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri devono applicare una procedura di selezione tra i potenziali candidati;
    l'Italia è l'unico Stato membro dell'Unione europea ad aver applicato la «direttiva Bolkestein» al commercio ambulante oltre alla Spagna, la quale ha tuttavia istituito un regime transitorio a tutela delle imprese già presenti della durata di settantacinque anni;
    lo stesso Parlamento europeo, con la risoluzione n. 2010/2109 (INI), ha preso atto della forte preoccupazione espressa dai venditori ambulanti in relazione all'ipotesi che la «direttiva Bolkestein» possa essere applicata negli Stati membri estendendo il concetto di «risorsa naturale» anche al suolo pubblico, producendo limitazioni temporali alle concessioni per l'esercizio del commercio su aree pubbliche che sarebbero gravemente dannose per l'occupazione, la libertà di scelta dei consumatori e l'esistenza stessa dei tradizionali mercati rionali;
    il recepimento della «direttiva Bolkestein» nel settore dei mercati ambulanti significa inevitabilmente, fra le altre cose, l'apertura del settore a nuove imprese anche straniere e multinazionali e la possibilità che tali nuove imprese siano anche società di capitali, il divieto di rinnovo automatico delle concessioni e l'assegnazione degli spazi pubblici tramite bandi che rechino il divieto di favorire il prestatore uscente, come previsto dagli articoli 11, 16, comma 4, e 70, comma 1, del decreto legislativo n. 59 del 2010;
    in data 5 luglio 2012, due anni dopo il recepimento della direttiva in Italia, la Conferenza unificata ha raggiunto un accordo in attuazione dell'articolo 70, comma 5, del decreto legislativo n. 59 del 2010, che prevede una proroga dell'attuale situazione fino al 7 maggio 2017, seguita da un regime transitorio di licenze della durata compresa tra nove e dodici anni, durante il quale i comuni potranno assegnare gli spazi secondo criteri che tengano conto dell'anzianità di servizio nell'esercizio del mercato su aree pubbliche, per tutelare le imprese che già svolgono la propria attività in tali mercati;
    nel dicembre 2016, tuttavia, un parere emesso dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato ha espresso delle perplessità sulle regole per i bandi, suscettibili di «dissimulare, nella sostanza, una forma di rinnovo automatico della concessione» ha creato nuove incertezze negli operatori economici del settore;
    da ultimo, il decreto-legge 30 dicembre 2016, n. 244, ha disposto la proroga delle concessioni in essere e in scadenza, in varie tappe, entro luglio 2017, fino al 31 dicembre 2018, prevedendo altresì che «le amministrazioni interessate, che non vi abbiano già provveduto, devono avviare le procedure di selezione pubblica, nel rispetto della vigente normativa dello Stato e delle regioni, al fine del rilascio delle nuove concessioni entro la suddetta data. Nelle more degli adempimenti da parte dei comuni sono comunque salvaguardati i diritti degli operatori uscenti»;
    fino all'entrata in vigore del decreto legislativo n. 59 del 2010, la normativa italiana in materia di commercio al dettaglio sulle aree pubbliche riconosceva specifiche forme di tutela alle piccole imprese a conduzione familiare, riservando il settore alle imprese individuali e alle società di persone, evitando in tal modo una oggettiva quanto deprecabile sperequazione, finanziaria, fiscale ed operativa, tra operatori del medesimo settore;
    le misure previste dal decreto legislativo n. 59 del 2010, malgrado il regime transitorio approvato, non tengono conto, invece, delle peculiarità di queste attività, che difficilmente potrebbero competere in un mercato così aperto;
    il decreto legislativo fa, altresì, venire meno i requisiti di stabilità necessari per programmare investimenti in strutture e personale, nonché per recuperare gli investimenti già realizzati e indispensabili per garantire un'offerta migliore;
    non bisogna dimenticare, inoltre, che questa tipologia di mercati, che conta circa 195 mila imprese e 530 mila addetti a livello nazionale, fa parte del tessuto economico delle città italiane, nonché della loro immagine turistica e tradizionale, ed anche per questo necessita di maggior tutela;
    la regione Puglia, con la mozione n. 106/2016 e la regione Piemonte, con una proposta di legge approvata dalla III Commissione del consiglio regionale in sede legislativa e successivamente trasmessa al Parlamento (Atto Camera 3700), si sono impegnate a prevedere che l'Italia escluda il commercio ambulante dall'ambito di applicazione della «direttiva Bolkestein» per tutelare le piccole imprese del settore;
    la medesima situazione di incertezza normativa che affligge gli operatori del commercio ambulante ha investito anche quelli degli stabilimenti balneari, settore di punta dell'economia turistica nazionale che occupa duecentocinquantamila addetti e trentamila imprese, e la cui liberalizzazione è stata altresì prevista dalla direttiva 2016/123/CE;
    allo stato attuale la durata delle concessioni in essere è stata prorogata fino al 31 dicembre 2020, ma la recente presentazione di un disegno di legge delega da parte del Governo, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, che prevede espressamente l'espletamento di «procedure selettive che assicurino imparzialità, trasparenza e pubblicità e che tengano conto della professionalità acquisita nell'esercizio di concessioni di beni demaniali marittimi, nonché lacuali e fluviali, per finalità turistico-ricreative», ha rimesso in allarme gli addetti al settore, soprattutto a causa della mancanza di una adeguata disciplina transitoria;
    oltre ai settori citati, l'attuazione della «direttiva Bolkestein» sta recando grave nocumento anche alla categoria delle guide turistiche, erroneamente inserita nella direttiva servizi invece che in quella relativa alle professioni, con la conseguenza che in Italia potranno operare anche le guide dell'Unione europea, o meglio, le persone qualificate come guide turistiche ai sensi della legislazione di altro Stato membro dell'Unione, purché operino in prestazione temporanea;
    tale grave situazione nasce dal problema di fondo che in Italia la figura della guida turistica è nettamente separata da quella di accompagnatore, mentre in molti altri Stati membri dell'Unione la figura di guida turistica e quella di accompagnatore coincidono, e i percorsi di abilitazione alla professione sono sensibilmente meno complessi e più brevi;
    le conseguenze di tale superficiale normazione, se non di vero e proprio vuoto legislativo, non potranno che essere estremamente negative sia per le guide che per i turisti, fruitori finali del servizio: abbassamento della qualità, diminuzione del lavoro per le guide abilitate, aumento dell'abusivismo, perché se è vero che le guide di altri Stati dell'Unione europea potrebbero esercitare in Italia solo in regime di prestazione occasionale, i controlli sono talmente scarsi che centinaia di guide straniere esercitano in violazione delle norme, con anche una conseguente diminuzione del gettito fiscale per lo Stato, posto che le guide straniere pagheranno le tasse nello Stato di appartenenza;
    tale confusionario quadro normativo si inserisce in un contesto di difficile congiuntura economica che caratterizza non solo il Paese, ma l'intero sistema produttivo globale, con ripercussioni negative sulle categorie più deboli, dagli agricoltori, ai tassisti, alle guide turistiche, solo per fare alcuni esempi, che si trovano quotidianamente ad affrontare la sfida dei mercati;
    un grave freno alla crescita degli Stati membri è stato rappresentato, poi, dalla politica economica e sociale portata avanti finora dalla stessa Unione europea, che non si è mai dimostrata all'avanguardia sulle politiche attive di sostegno alle eccellenze e peculiarità dei singoli Paesi membri, schiacciati dagli interessi delle realtà più potenti;
    liberalizzare e aumentare la concorrenza non vuol dire eliminare ogni regola e lasciare le città in mano a multinazionali che eludono le tasse grazie alla compiacenza di Stati europei partner che ci fanno concorrenza sleale: si deve liberalizzare e regolamentare, facendo rispettare le regole e tutelando le realtà più deboli;
    negli ultimi trent'anni purtroppo, i Governi europei, e l'Italia in primis, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo non hanno saputo trovare soluzioni efficienti, legiferando sotto ricatto dei poteri forti, senza alcuna libertà di scelta dei settori su cui puntare e da proteggere, a danno dei cittadini e delle specificità del nostro Paese;
    serve una nuova politica europea che parta da regole chiare, condivise e semplici, e nella quale tutti gli Stati membri svolgano il proprio ruolo fino in fondo, garantendo tutele soprattutto alle classi deboli: avere, ad esempio, accordi di protezione delle indicazioni geografiche, come la denominazione di origine protetta del parmigiano reggiano, significa poter tutelare fino in fondo il sistema, di qualità che c’è dietro la sua produzione, mentre senza regole vincono la contraffazione, l'omologazione e le grandi dimensioni di chi riesce a essere comunque sovranazionale;
    il ruolo della politica è proprio quello di dettare tali regole e non può essere ridotto a quello di un semplice spettatore ed è compito del legislatore e del Governo salvaguardare i settori strategici dell'economia nazionale, quali nella fattispecie il piccolo commercio e la piccola e media imprenditoria,

impegna il Governo:

1) a convocare appositi tavoli di confronto con gli operatori del commercio su aree pubbliche;

2) ad adottare iniziative volte a rivedere il decreto legislativo n. 59 del 2010, nel senso di escludere il commercio su aree pubbliche dal perimetro di applicazione della direttiva 2006/123/CE;

3) ad assumere le necessarie iniziative dirette, comunque, a modificare l'articolo 70 del decreto legislativo n. 59 del 2010, al fine di prevedere che l'attività di commercio al dettaglio su aree pubbliche sia riservata esclusivamente alle imprese individuali e alle società di persone;

4) ad adottare le iniziative di competenza affinché la categoria delle guide turistiche sia ricondotta nell'ambito della direttiva sulle professioni, salvaguardando la professionalità e le specifiche competenze dei suoi operatori, e al fine di introdurre criteri più stringenti per l'esercizio dell'attività di guida turistica sul territorio nazionale;

5) ad assumere iniziative per prevedere, nell'ambito della direttiva servizi, una deroga in favore delle concessioni demaniali marittime, elementi essenziali di un settore strategico per l'economia nazionale, data la posizione geografica dell'Italia e la rilevanza turistica di buona parte delle coste della penisola e delle maggiori isole;

6) ad adottare le iniziative opportune, per quanto di competenza, volte ad allineare sotto il profilo temporale la pubblicazione dei bandi da parte dei comuni per il rinnovo delle concessioni.
(1-01582)
(Nuova formulazione) «Rampelli, Cirielli, La Russa, Giorgia Meloni, Murgia, Nastri, Petrenga, Rizzetto, Taglialatela, Totaro».
(7 aprile 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    la direttiva 2006/123/CE, nota come «direttiva Bolkestein», in materia di servizi nel mercato interno, è stata recepita dall'Italia con il decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, che provvede a regolare anche i settori del commercio su aree pubbliche e del demanio marittimo;
    la direttiva Bolkestein ha irrigidito il sistema autorizzatorio prevedendo che, qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato a causa della scarsità delle risorse naturali, i comuni applichino una procedura di selezione tra i potenziali candidati;
    l'articolo 16, del decreto legislativo n. 59 del 2010, sul commercio ambulante in aree pubbliche, oltre ad introdurre un limite al numero delle concessioni di posteggio utilizzabili nella stessa area, stabilisce, al comma 4, il divieto di rinnovo automatico dei titoli scaduti, creando non poche difficoltà per il settore, che impiega circa 500.000 addetti a livello nazionale;
    il citato articolo, equiparando la nozione di «risorse naturali» con quella di «posteggi in aree di mercato» ha avuto l'effetto di generare una forte concorrenza nel settore, questa non sostenibile per gli operatori del commercio ambulante. Infatti, esso fa rientrare il suolo pubblico, concesso per l'esercizio dell'attività di commercio ambulante, nella nozione di «risorse naturali», assoggettandolo quindi alla procedura di selezione pubblica;
    alle suddette criticità si aggiungono quelle relative all'applicazione dell'articolo 70 del citato decreto legislativo, il quale riconosce l'accesso al settore anche alle società di capitali, rischiando di mettere fuori dal mercato le piccole aziende a conduzione familiare, che fino ad oggi hanno operato nel settore rendendolo fortemente competitivo;
    il parere sullo schema di decreto legislativo di attuazione della direttiva 2006/123/CE, approvato dalle Commissioni II e X della Camera dei deputati, in data 11 marzo 2010, invitava il Governo, anche su proposta del gruppo della Lega Nord, a «escludere espressamente l'equiparazione dei posteggi in aree di mercato alle risorse naturali» al fine di «evitare interpretazioni estensive della nozione di “risorse naturali”», sia per ragioni di coerenza con la normativa comunitaria sia per non penalizzare il settore del commercio ambulante e su aree pubbliche;
    il medesimo parere invitava altresì il Governo a «escludere la possibilità di esercizio del commercio al dettaglio sulle aree pubbliche da parte di società di capitali»;
    il 5 luglio 2012, ai sensi del comma 5, dell'articolo 70 del citato decreto legislativo n. 59 del 2010, è stata adottata un'intesa in sede di Conferenza unificata per la definizione della durata e del rinnovo delle autorizzazioni; in tale intesa, in particolare, viene stabilita la durata delle autorizzazioni da 9 a 12 anni, e soltanto in prima applicazione, viene data priorità al criterio della «professionalità acquisita». Essa, tuttavia, non supera del tutto le criticità di settore, continuando di fatto a far ricadere espressamente la fattispecie del commercio su aree pubbliche nell'ambito di applicazione dell'articolo 16, del citato decreto legislativo n. 59 del 2010;
    la suddetta intesa al fine di evitare eventuali disparità di trattamento tra i soggetti le cui concessioni di aree pubbliche sono scadute prima della data di entrata in vigore del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (recante attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno) e che hanno, quindi, usufruito del rinnovo automatico ed i soggetti titolari di concessioni scadute successivamente a tale data, che non hanno usufruito di tale possibilità, stabilisce l'applicazione, in fase di prima attuazione delle seguenti disposizioni transitorie:
     a) le concessioni scadute e rinnovate (o rilasciate) dopo l'entrata in vigore del decreto legislativo n. 59 del 2010 (8 maggio 2010) sono prorogate di diritto per sette anni da tale data, quindi fino al 7 maggio 2017 compreso;
     b) le concessioni che scadono dopo l'entrata in vigore dell'Accordo della Conferenza unificata (16 luglio 2015) e nei due anni successivi, sono prorogate di diritto fino al 15 luglio 2017 compreso;
     c) le concessioni scadute prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 59 del 2010 e che sono state rinnovate automaticamente mantengono efficacia fino alla naturale scadenza prevista al momento di rilascio o di rinnovo;
    il decreto-legge 30 dicembre 2016, n. 244, recante proroga e definizioni di termini, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 2017, n. 19, all'articolo 6, comma 8, ha da ultimo prorogato il termine delle concessioni per il commercio su aree pubbliche al 31 dicembre 2018, ed ha stabilito l'obbligo per i comuni di avviare, qualora non abbiano già provveduto, le procedure di selezione pubblica per il rilascio delle nuove concessioni, entro il 31 dicembre 2018, nel rispetto della normativa vigente;
    il suddetto decreto non risolve tuttavia l'annosa questione legata all'opportunità di escludere la categoria dall'applicazione della direttiva comunitaria relativa ai servizi nel mercato interno, ed anzi rischia di generare profonda incertezza in merito all'espletamento delle gare già avviate dai comuni, che a giudizio dei proponenti, dovrebbero ritenersi nulle;
    con l'entrata in vigore della direttiva 2006/123/CE, anche la disciplina delle concessioni demaniali marittime è stata oggetto di una lunga contrattazione tra le istituzioni europee e quelle italiane circa l'assoggettabilità della stessa alla procedura della gara pubblica;
    nei confronti dell'Italia, che ha ritenuto di estromettere il settore demaniale marittimo dalla disciplina della gara pubblica, sono state aperte due procedure di infrazione comunitaria, sanate dal legislatore italiano dapprima, con l'abrogazione dell'articolo 37 del Codice della Navigazione nella parte inerente il «diritto di insistenza», ossia il diritto di preferenza accordato al cessionario uscente, e successivamente, con l'eliminazione del rinnovo automatico delle concessioni, previsto dall'articolo 1, comma 2 del decreto-legge n. 400 del 1993;
    in questo arco temporale, le imprese balneari hanno potuto usufruire di un periodo di proroga della concessione, da ultimo rinnovato con il decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, che ha rinviato al 31 dicembre 2020, la scadenza delle concessioni in essere al 31 dicembre 2015. In conseguenza di tale disposizione sono state sollevate questioni interpretative da parte dei giudici italiani che hanno portato alla sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea del 14 luglio 2016 (C-458/14), con la quale la Corte medesima ha affermato che il diritto comunitario non consente la possibilità di prorogare in modo automatico e in assenza di qualsiasi procedura di selezione pubblica dei potenziali candidati, le concessioni relative all'esercizio di attività turistico-ricreative nelle aree demaniali marittime e lacustri;
    con l'articolo 24, commi 3-septies e 3-octies, del decreto-legge 24 giugno 2016, n. 113, per evitare la nascita di eventuali contenziosi nelle more dell'adozione di una nuova disciplina di riordino del settore, il legislatore italiano ha riconosciuto la validità dei rapporti concessori già instaurati e pendenti in base alla proroga concessa al 31 dicembre 2020;
    in molti sostengono la necessità di escludere le concessioni demaniali dall'ambito di applicazione della stessa direttiva 2006/123 /CE, rilevando che le autorizzazioni sono concesse in riferimento ai «beni» demaniali e non ai «servizi», e perciò riguardano il conferimento in uso di una superficie e non l'autorizzazione a svolgere un servizio; questo orientamento ha trovato conferme nelle recenti posizioni assunte da altri Paesi europei; la Spagna, ad esempio, con la legge sulla protezione del litorale e di modifica della legge costiera, ha elevato il termine massimo di durata delle concessioni da settanta a settantacinque anni, per quelle scadute o in scadenza nel 2018; il Portogallo, nel 2007, ha emanato una disciplina che accorda al concessionario uscente il diritto di prelazione in caso di riassegnazione della concessione,

impegna il Governo:

1) a chiarire, con apposita iniziativa normativa, che i posteggi utilizzati per l'esercizio del commercio ambulante su aree pubbliche non rientrano nella nozione di «risorse naturali» e che le relative concessioni non sono soggette all'applicazione del comma 4 dell'articolo 16 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59;

2) ad assumere le necessarie iniziative normative per la modifica dell'articolo 70 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, riservando l'attività del commercio al dettaglio su aree pubbliche esclusivamente alle imprese individuali e alle società di persone;

3) a promuovere tavoli di confronto con le associazioni di categoria delle imprese del commercio su aree pubbliche affinché siano al meglio risolte le problematiche da questi denunciate, anche al fine di mettere ordine nella normativa di settore per quanto concerne i criteri per il rilascio ed il rinnovo della concessione dei posteggi per l'esercizio dell'attività;

4) ad adottare opportune iniziative normative al fine di chiarire che sono nulle le procedure di gara avviate dalle amministrazioni comunali prima del 31 dicembre 2018, esonerando quindi le stesse dall'obbligo di avviare le procedure di selezione pubblica entro la medesima data;

5) ad attivarsi presso le istituzioni comunitarie per fare in modo che le concessioni demaniali marittime siano estromesse dall'applicazione della direttiva 2006/123/CE, anche alla luce del fatto che le stesse si riferiscono a «beni» e non a «servizi».
(1-01549)
(Nuova formulazione) «Allasia, Saltamartini, Gianluca Pini, Fedriga, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caparini, Castiello, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Molteni, Pagano, Picchi, Rondini, Simonetti».
(20 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    con il decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, il legislatore italiano ha dato attuazione alla direttiva 2006/123/CE (cosiddetta direttiva Bolkestein) relativa ai servizi nel mercato interno, approvata il 12 dicembre 2006 dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell'Unione europea al fine di facilitare la creazione di un libero mercato di servizi in ambito europeo;
    secondo quanto stabilito dalla direttiva Bolkestein all'articolo 12, qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali;
    il decreto legislativo n. 59 del 2010, in attuazione di quanto stabilito dalla direttiva Bolkestein, ha disposto all'articolo 16 l'obbligo di prevedere procedure selettive, la limitazione della durata delle autorizzazioni, il divieto di rinnovare automaticamente le concessioni e di accordare vantaggi al prestatore uscente;
    il citato provvedimento ha esteso l'applicazione della direttiva Bolkestein anche al settore del commercio ambulante su aree pubbliche, che costituiscono una «risorsa naturale» limitata, in particolare rinviando, all'articolo 70, comma 5, ad una intesa in sede di Conferenza unificata Stato-regioni-Autonomie locali l'individuazione dei criteri per il rilascio e il rinnovo della concessione dei posteggi per l'esercizio del commercio su aree pubbliche e le disposizioni transitorie da applicare, con le decorrenze previste, anche alle concessioni in essere;
    il decreto legislativo n. 59 del 2010, all'articolo 70, comma 1, ha inoltre esteso la possibilità di esercitare il commercio ambulante su area pubblica anche a società di capitali regolarmente costituite o a cooperative, oltre che a persone fisiche e a società di persone;
    l'accordo sancito in data 5 luglio 2012 in sede di Conferenza Unificata ha stabilito una proroga dell'attuale situazione fino al 7 maggio 2017, seguita da un regime transitorio di licenze, della durata compresa fra i 9 e i 12 anni, durante il quale i comuni potranno assegnare gli spazi secondo criteri che tengano conto dell'anzianità di servizio nell'esercizio del mercato su aree pubbliche, per tutelare le imprese che già svolgono la loro attività in tali mercati;
    il decreto-legge 30 dicembre 2016, n. 244, (cosiddetto «decreto milleproroghe»), ha da ultimo prorogato il termine delle concessioni per commercio su aree pubbliche in essere alla data di entrata in vigore del medesimo decreto-legge e con scadenza anteriore al 31 dicembre 2018, fino a tale data, al fine di allineare le scadenze delle concessioni e garantire omogeneità di gestione nelle procedure di assegnazione sull'intero territorio nazionale;
    il recepimento della direttiva Bolkestein, introducendo limitazioni temporali alle concessioni per l'esercizio del commercio su aree pubbliche, ostacola la programmazione degli investimenti o il recupero di quelli già realizzati, danneggiando soprattutto i piccoli operatori del settore, già in difficoltà nel fronteggiare la maggior forza finanziaria delle società di capitali, in grado di detenere – anche indirettamente – un maggior numero di autorizzazioni;
    il decreto legislativo n. 59 del 2010 comporta, infatti, l'apertura del settore del commercio ambulante su area pubblica, che impiega circa 500.000 addetti a livello nazionale e che è tradizionalmente svolto da microimprese spesso a conduzione familiare, a nuove imprese straniere e multinazionali – comprese società di capitali;
    le disposizioni introdotte dal decreto legislativo n. 59 del 2010 non sembrano tenere pienamente conto delle peculiarità e della eterogeneità del settore, che affianca attività di commercio svolte su posteggio fisso ad attività svolte in forma itinerante e con turnazioni, e che coinvolge non solo i centri storici e i tradizionali mercati rionali, ma anche aree periferiche meno qualificabili come limitate;
    considerato altresì che: già in altre occasioni, alcune associazioni di categoria hanno chiesto la disapplicazione della direttiva Bolkestein al commercio ambulante;
    la Commissione X della Camera, nel novembre 2015, ha approvato una risoluzione che impegnava il Governo a promuovere l'attivazione di un tavolo di lavoro con la partecipazione di tutti i livelli istituzionali ed amministrativi interessati, nonché delle associazioni di categoria delle imprese del commercio su aree pubbliche maggiormente rappresentative e a valutare l'opportunità di una rinnovata fase di approfondimento e discussione del quadro giuridico europeo in materia di posteggi su aree pubbliche;
    il 3 novembre del 2016 si è tenuto il primo incontro di questo tavolo presso il Ministero dello sviluppo economico per approfondire la tematica sulla base delle motivazioni esposte dalle rappresentanze di categoria,

impegna il Governo

1) ad assumere iniziative volte ad una revisione del decreto legislativo n. 59 del 2010, escludendo il commercio su aree pubbliche dall'applicazione della direttiva 2006/123/CE, ovvero stabilendone l'applicazione secondo modalità atte a contenere le ripercussioni negative sul tessuto economico e sociale, anche mediante l'individuazione – per quanto di competenza – di criteri per la concessione delle autorizzazioni che tengano conto delle diverse caratteristiche e dimensioni degli operatori, segnatamente a tutela di chi è intestatario delle licenze e lavora direttamente o con dipendenti nei mercati, e dei luoghi in cui si svolge il commercio ambulante.
(1-01542)
«Donati, Becattini, Ermini, Paris, Impegno, Paola Bragantini, Barbanti, Dallai, Manfredi, Minnucci, Moscatt, Palladino».
(15 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    la commissione bilancio del Senato ha deliberato la modifica della disposizione dell'articolo 6, comma 8, del decreto-legge n. 244 del 2016, il cui disegno di legge di conversione era all'esame, che proroga al 31 dicembre 2018 il termine delle concessioni per commercio su aree pubbliche. La proroga ora riguarda le concessioni in essere alla data di entrata in vigore della disposizione in esame, al fine di allineare le scadenze delle concessioni medesime, garantendo omogeneità di gestione delle procedure di assegnazione; essa prevede anche che, nelle more degli adempimenti da parte dei comuni, siano comunque salvaguardati i diritti degli operatori uscenti. Resta definito che le amministrazioni interessate, che non vi abbiano già provveduto, devono pertanto avviare le procedure di selezione pubblica, nel rispetto della vigente normativa dello Stato e delle regioni, al fine del rilascio delle nuove concessioni entro la suddetta data; con la disposizione suddetta il Governo, finalmente, ha preso atto delle difficoltà applicative della Direttiva Bolkestein.  Tant’è vero che lo stesso ex premier Renzi ha dichiarato: «A un passo dall'applicazione pratica delle nuove regole in materia, emergono forti criticità. Il Governo ha deciso di prendersi carico di queste criticità, ritenendo doveroso quantomeno un momento di approfondimento e riflessione»;
    lo stesso presidente dell'Anci De Caro ha dichiarato: «I Comuni stanno lavorando per non arrivare sprovvisti alla scadenza di luglio 2017, ma è evidente la necessità di un prolungamento adeguato dei tempi, in ragione dell'elevato numero di concessioni da assegnare tramite gara e della conseguente mole di verifiche e incombenze in carico agli uffici comunali ancora prima dell'indizione delle gare stesse»;
    inoltre, si fa presente che la regione Piemonte ha approvato all'unanimità una proposta di legge al Parlamento, per escludere il commercio ambulante dagli effetti della direttiva Bolkestein, così come la regione Puglia ha approvato una mozione del gruppo consiliare M5S sulla medesima linea e le amministrazioni comunali di Roma e Torino hanno deliberato di sospendere la pubblicazione dei bandi per i singoli posteggi;
    sul punto, infine, è intervenuta anche l'Autorità garante della concorrenza e del mercato che ha dato parere contrario e contestato i criteri e le procedure stabiliti dell'intesa Stato-regioni con i quali i comuni stavano provvedendo alla pubblicazione dei bandi per l'assegnazione delle concessioni nei mercati; si ricorda che il decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, ha recepito la direttiva Bolkestein e si configura come una legge-quadro, che dispone norme di portata generale, nonché principi operativi, riconoscendo ai singoli Stati membri le modalità, nonché i tempi di applicazione degli stessi; in particolare, le disposizioni in questione, con l'obiettivo di salvaguardare l'impatto del commercio ambulante sulle aree pubbliche, introducono significativi limiti all'eccesso e all'operatività nel settore, basato sul principio della disponibilità di suolo pubblico destinata dagli strumenti urbanistici all'esercizio dell'attività stessa;
    l'articolo 16 del decreto legislativo n. 59 del 2010 irrigidisce il sistema autorizzatorio, in particolare, al comma 4, non viene riconosciuta la dinamica di proroga automatica ai titoli autorizzatori scaduti, creando delle oggettive difficoltà operative agli oltre 160.000 operatori ambulanti e microimprese operanti nel settore l'articolo suindicato; esso però interviene su una disciplina già ampiamente regolamentata, introducendo un ulteriore limite al numero delle concessioni di posteggio utilizzabili sullo stesso mercato o fiera;
    in particolare, emergerebbero criticità conseguenti all'equiparazione tra la nozione di «risorse naturali», citata dal suindicato articolo, e «posteggi in aree di mercato», tali da compromettere le possibilità e l'operatività degli operatori del commercio ambulante. Infatti, il decreto legislativo interpreta il suolo pubblico concesso per l'esercizio dell'attività di commercio su aree pubbliche, come rientrante nella nozione di «risorse naturali»;
    alle suindicate criticità, si aggiungono ulteriori relative al portato dell'articolo 70, comma 1, del medesimo decreto legislativo, in materia di riconoscimento di titoli autorizzatori alle società di capitali operanti nel settore del commercio ambulante;
    fino all'entrata in vigore del decreto legislativo n. 59 del 2010, la normativa italiana in materia riconosceva specifiche forme di tutela alle piccole imprese a conduzione familiare, riservando il settore del commercio al dettaglio sulle aree pubbliche, alle imprese individuali e alle società di persone, evitando in tal modo una oggettiva quanto deprecabile sperequazione – finanziaria, fiscale ed operativa – tra operatori del medesimo settore;
    le disposizioni in materia di regolamentazione del commercio al dettaglio sulle aree pubbliche introdotte dalla direttiva suindicata, creano un’impasse normativa rispetto a quanto già sancito dalla normativa nazionale e regionale in materia segnatamente sul versante della tutela delle piccole imprese, della chiarezza delle procedure operative e autorizzative e del rapporto con gli enti locali,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative in sede di Unione europea al fine di modificare la «direttiva Bolkestein» in modo tale da escludere gli operatori ambulanti e le microimprese operanti nel settore che rappresentano il tessuto tradizionale socio-economico dell'Italia;

2) ad assumere le necessarie iniziative dirette a modificare l'articolo 70 del decreto legislativo n. 59 del 2010 al fine di prevedere che l'attività di commercio al dettaglio su aree pubbliche sia riservata esclusivamente alle imprese individuali e alle società di persone.
(1-01565)
«Della Valle, Caso, Vallascas, Fantinati, Cancelleri, Crippa, Da Villa, D'Uva».
(29 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    il decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, ha dato attuazione alla direttiva 2006/123/CE, cosiddetta direttiva Bolkestein, approvata il 12 dicembre 2006 dal Parlamento europeo, e dal Consiglio dell'Unione europea al fine di facilitare la creazione di un libero mercato dei servizi in ambito europeo;
    tra le categorie commerciali, per le quali è prevista l'applicazione della direttiva in Italia, rientra quella del commercio al dettaglio su aree pubbliche, per il quale sono introdotti l'obbligo di applicazione da parte delle autorità competenti di una procedura di selezione tra i candidati potenziali, la durata limitata delle autorizzazioni, il divieto del rinnovo automatico delle concessioni e il divieto di accordare vantaggi al prestatore uscente;
    l'attuale situazione, per il settore e per le amministrazioni interessate da mercati, appare ad avviso dei proponenti del presente atto di indirizzo ampiamente confusa, in quanto le norme di attuazione della direttiva non hanno ancora trovato piena applicazione. In sede di Conferenza unificata era stata stabilita una proroga delle concessioni al 7 maggio 2017, successivamente ridefinita con il decreto-legge 30 dicembre 2016, n. 244, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 2017, n. 19, che prevede il termine delle concessioni in essere al 31 dicembre 2018, invitando poi le amministrazioni ad avviare le procedure di selezione pubblica;
    la direttiva Bolkestein, recepita nell'ordinamento italiano con il citato decreto legislativo n. 59 del 2010, introducendo limitazioni temporali alle concessioni per l'esercizio del commercio su aree pubbliche ed estendendo l'esercizio del commercio su area pubblica anche a società di capitali regolarmente costituite o a cooperative, oltre che a persone fisiche e a società di persone, di fatto, ostacola la programmazione degli investimenti o il recupero di quelli già realizzati, danneggiando, soprattutto, i piccoli operatori del settore, già in difficoltà nel fronteggiare la maggior forza finanziaria delle predette società, in grado di detenere, anche indirettamente, un maggior numero di autorizzazioni;
    inoltre, le disposizioni della direttiva non tengono pienamente conto delle peculiarità e della eterogeneità del settore, costituito da attività di commercio, svolte su posteggio fisso ed attività svolte in forma itinerante e con turnazioni, svolte, non solo nei centri storici e nei tradizionali mercati rionali, ma anche nelle aree periferiche,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative per modificare il decreto legislativo n. 59 del 2010, che ha recepito la direttiva 2006/123/CE, escludendo il commercio su aree pubbliche dall'applicazione della stessa, ovvero a delimitarne l'applicazione mediante l'individuazione di criteri per la concessione delle autorizzazioni, che tengano conto delle diverse caratteristiche e dimensioni degli operatori, al fine di contenere le ripercussioni negative sul tessuto economico e sociale, e a tutela dei luoghi in cui si svolge il commercio ambulante e degli operatori intestatari delle licenze e che lavorano direttamente o con personale dipendente nei mercati;

2) ad assumere iniziative per prevedere una proroga al 31 dicembre 2020 delle concessioni in essere, al fine di omogeneizzare la situazione su tutto il territorio nazionale.
(1-01610)
«Laffranco, Brunetta, Occhiuto, Bergamini, Alberto Giorgetti».
(20 aprile 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    il decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, ha dato attuazione alla direttiva 2006/123/CE, cosiddetta direttiva Bolkestein, approvata il 12 dicembre 2006 dal Parlamento europeo, e dal Consiglio dell'Unione europea, al fine di facilitare la creazione di un libero mercato dei servizi in ambito europeo;
    l'entrata in vigore della direttiva sui servizi n. 2006/123/CE istituisce un quadro giuridico generale per un'ampia varietà di servizi nel mercato interno, con l'obiettivo di assicurare la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei servizi tra gli Stati membri, e si applica ai requisiti che influenzano l'accesso all'attività di servizi o il suo esercizio;
    la direttiva è stata recepita in Italia con il decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, integrato dal decreto legislativo n. 147 del 2012. L'articolo 12 della direttiva prevede che qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un'adeguata pubblicità dell'avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento. In tali casi l'autorizzazione è rilasciata per una durata limitata adeguata e non può prevedere la procedura di rinnovo automatico né accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami;
    gli Stati membri possono, però, tener conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell'ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi d'interesse generale conformi al diritto comunitario;
    tra le categorie commerciali, per le quali è prevista l'applicazione della direttiva in Italia, rientra quella delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative la cui disciplina risulta essere molto complessa, a causa dei numerosi interventi normativi che si sono succeduti negli anni, interventi, oltretutto, che si sono intrecciati, con la normativa e con le procedure di contenzioso aperte in sede europea, che hanno riguardato essenzialmente i profili della durata e del rinnovo automatico delle concessioni, oltre la liceità della clausola di preferenza per il concessionario uscente: il cosiddetto diritto di insistenza;
    nelle ultime due legislature, si è intervenuti sulla disciplina legislativa di tali concessioni, da ultimo con la proroga sino al 31 dicembre 2020 delle concessioni demaniali in essere alla data del 30 dicembre 2009 ed in scadenza entro il 31 dicembre 2015 (articolo 34-duodecies del decreto-legge n. 179 del 2012);
    nel nostro Paese, il settore dell'attività turistico-balneare conta oltre 30.000 imprese, soprattutto medio e piccole, con circa 300.000 persone occupate lungo tutto l'arco della penisola, ai quali vanno aggiunti gli occupati dell'indotto, ovvero degli esercizi pubblici e commerciali che vivono a stretto contatto con gli stabilimenti balneari. In sostanza, si tratta di imprese di tipo familiare, che hanno effettuato notevoli investimenti economici al fine di migliorare i servizi offerti ed elevando, in tal modo, gli standard qualitativi dell'accoglienza turistica a livelli di eccellenza, dando vita ad una realtà di fondamentale importanza per la creazione di ricchezza e di sviluppo turistico che si coniuga con un totale rispetto per l'ambiente ed il territorio;
    risulta evidente che in un quadro legislativo confuso le imprese del settore, da tempo, chiedano certezze normative e tutela dei lavoratori e degli investimenti;
    la Conferenza delle regioni e delle province autonome, in data 25 marzo 2015, ha approvato un documento sulla revisione e sul riordino della legislazione relativa alle concessioni demaniali marittime (12/22/CR09/C5), documento che riconosce la necessità di adeguare il quadro normativo italiano in materia di demanio marittimo ai principi comunitari in materia di trasparenza, non discriminazione, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi in modo da riformare l'intera materia per contemperare, al tempo stesso, anche le legittime esigenze delle varie categorie economiche che operano sul demanio marittimo;
    il documento, inoltre, contiene una serie di richieste, tra le quali: chiarezza con la Commissione europea sulla possibilità di un regime transitorio delle attuali concessioni demaniali marittime, così come già accaduto in altri Paesi europei dove le concessioni demaniali marittime sono state prolungate di 75, 50 o 30 anni, a seconda della tipologia (Spagna), oppure sono state mantenute forme di preferenza in favore del concessionario uscente (Portogallo);
    entrando nello specifico, in Spagna e Portogallo, sono stati approvati provvedimenti che non tengono conto della direttiva 2006/123/CE; in Spagna, infatti, le attività degli stabilimenti balneari (denominati chiringuitos) hanno goduto di una lunga proroga delle concessioni e, nonostante ciò, la Spagna non ha subito, a differenza del nostro Paese, alcuna procedura d'infrazione. Con l'articolo 2, comma 3, della ley de Costas n. 2 del 29 maggio 2013, la Spagna ha modificato la legge n. 22 del 1988, prevedendo una proroga delle concessioni demaniali in essere di un massimo di 75 anni per quelle scadute o in scadenza nel 2018, prevedendo, inoltre, la possibilità di trasmissione delle stesse, oltre che per mortis causa, anche tra i viventi, il tutto con il tacito assenso dell'Unione europea. Il Portogallo, invece, nel 2007 ha emanato una disciplina che accorda al concessionario uscente il diritto di prelazione in caso di riassegnazione della concessione;
    l'Unione, in questi anni, non ha mai inteso riconoscere la specificità del caso italiano mantenendo l'intenzione di applicare la direttiva servizi agli stabilimenti balneari italiani;
    la medesima situazione di incertezza patita dai titolari degli stabilimenti balneari riguarda anche gli operatori del commercio ambulante, tenuto conto che il recepimento della direttiva «Bolkestein», nell'ambito dei mercati ambulanti, introduce non solo limitazioni temporali alle concessioni per l'esercizio del commercio su aree pubbliche, ma comporta anche l'apertura del settore a nuove imprese straniere e multinazionali, comprese le società di capitali, il divieto di rinnovo automatico delle concessioni e l'assegnazione degli spazi pubblici tramite bandi con lo specifico divieto di favorire il prestatore uscente, in base a quanto previsto dagli articoli 11, 16, comma 4, e 70, comma 1, del decreto legislativo n. 59 del 2010;
    in tal modo, oltre 200.000 piccole imprese italiane, soprattutto a conduzione familiare, attive nel settore dei venditori ambulanti nei mercati rionali, verrebbero messe a forte rischio perché obbligate a competere con le grandi società di capitali, le società di cooperative e le multinazionali dotate di un ovvio e fortissimo vantaggio competitivo, fiscale e organizzativo;
    tale situazione costituirebbe, inoltre, un forte rischio anche per l'esistenza stessa dei tradizionali mercati rionali che costituiscono parte dell'offerta e dell'immagine turistico-culturale di moltissime città italiane e che impiegano circa 500.000 addetti a livello nazionale,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative volte ad una revisione del decreto legislativo n. 59 del 2010 in modo che le concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative siano del tutto escluse dall'applicazione della «direttiva Bolkestein» o, in alternativa, vengano prorogate quelle in essere per almeno trent'anni a partire dal 2020, in considerazione degli ingenti investimenti sostenuti dagli attuali concessionari e, dall'altro lato, vengano affidate le nuove concessioni attraverso procedure ad evidenza pubblica, confermando, in sostanza, la possibilità di attivare un «doppio binario» che distingua le concessioni attualmente in vigore da quelle nuove, con una proroga di congrua durata per le prime, volta a tutelare gli investimenti sostenuti, e procedure di evidenza pubblica, di immediata applicazione, per le seconde;

2) ad attuare ogni iniziativa utile, nel rispetto dei princìpi di concorrenza e libertà di stabilimento, al fine di garantire l'esercizio, lo sviluppo, la valorizzazione delle attività imprenditoriali e di tutela degli investimenti del settore turistico-balneare-ricreativo, anche al fine di salvaguardare gli attuali livelli occupazionali;

3) ad assumere iniziative per riconoscere al concessionario attuale le competenze e la professionalità acquisite nell'esercizio dell'attività turistico-ricreativa;

4) a valutare, con la Commissione europea, le motivazioni del differente trattamento riservato al nostro Paese con riferimento alle concessioni demaniali marittime, soprattutto in rapporto a quanto verificatosi in altri Paesi europei nei quali le concessioni demaniali marittime sono state prolungate di 75, 50 e 30 anni, a seconda della tipologia, oppure sono state mantenute forme di preferenza in favore del concessionario uscente senza che ciò abbia comportato l'apertura di alcuna procedura di infrazione per mancato rispetto della direttiva sui servizi;

5) con riferimento al settore del commercio su aree pubbliche, ad adottare iniziative volte ad assicurare il rigoroso rispetto della proroga dei termini di attuazione della direttiva e ad attivare un tavolo di confronto con le parti interessate finalizzato a definire condizioni di applicazione della norma che, pur nel rispetto delle direttive europee, garantisca alle aziende già operanti la continuità e la necessaria agibilità economica ed occupazionale, non senza aver verificato, in ogni caso, la possibilità di escludere del tutto la categoria del commercio ambulante dall'applicazione della direttiva sui servizi.
(1-01640)
«Palese, Altieri, Bianconi, Chiarelli, Ciracì, Corsaro, Distaso, Fucci, Latronico, Marti».
(29 maggio 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    a direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, è entrata in vigore il 28 dicembre 2006, dopo quasi tre anni di lavoro e un iter legislativo particolarmente complesso, per i contrasti politici che ha incontrato e che ne hanno modificato la formulazione iniziale;
    essa viene anche denominata «direttiva servizi» o «direttiva Bolkestein», dal nome del commissario europeo per il mercato interno, Fritz Bolkenstein, della Commissione presieduta da Romano Prodi, che ha curato e sostenuto questa direttiva. La direttiva «servizi» è basata sugli articoli 43-48 (Il diritto di stabilimento) e 49-55 (I servizi) del Trattato che istituisce la comunità europea e si pone l'obiettivo di facilitare la circolazione e la fruibilità dei servizi nell'Unione europea, secondo i criteri tracciati dalla Strategia di Lisbona;
    il comma 1 dell'articolo 1 chiarisce che la direttiva contiene «disposizioni generali che permettono di agevolare l'esercizio della libertà di stabilimento dei prestatori nonché la libera circolazione dei servizi, assicurando nel contempo un elevato livello di qualità dei servizi stessi». Questo obiettivo è declinato nelle seguenti azioni strategiche: 1) facilitare la libertà di stabilimento dei servizi nell'Unione europea. A tal fine, gli Stati membri si impegnano ad eliminare gli ostacoli che impediscono o scoraggiano gli operatori di altri Stati membri a stabilirsi sul loro territorio; 2) facilitare la libertà di prestazione dei servizi nell'Unione europea. Per potenziare l'offerta transfrontaliera di servizi, la direttiva precisa il diritto dei destinatari ad utilizzare servizi di altri Stati membri; 3) promuovere la qualità dei servizi. La direttiva mira a rafforzare la qualità dei servizi incoraggiando ad esempio la certificazione volontaria delle attività o l'elaborazione di carte di qualità e incoraggiando l'elaborazione di codici di condotta europei, in particolare da parte di organismi o associazioni professionali; 4) stabilire una cooperazione amministrativa effettiva tra gli Stati per favorire la crescita del mercato dei servizi, per garantire una protezione equivalente su questioni generali e per garantire un efficace controllo dei servizi;
    la direttiva servizi doveva essere recepita negli ordinamenti nazionali entro il 28 dicembre 2009. Il Consiglio medesimo ha riconosciuto che affinché il mercato dei servizi diventi una realtà, dovranno essere eliminati gli ostacoli legislativi, ma anche non legislativi presenti nei diversi Stati membri. Infatti, non è sufficiente una semplice legge per applicare la direttiva «servizi», ma sono necessari anche un impegno importante di razionalizzazione del diritto amministrativo e una serie di iniziative concrete, di carattere organizzativo e di sostegno delle azioni finalizzate ad assicurare le informazioni per i prestatori e per i destinatari;
    la direttiva «servizi» si presenta come una «direttiva quadro». Essa non mira a dettare norme specifiche per la regolamentazione della materia dei servizi, ma tratta le questioni con un approccio orizzontale, con l'obiettivo di perseguire l'armonizzazione della materia nel tempo;
    secondo la direttiva «servizi», gli Stati membri devono esaminare ed eventualmente semplificare le procedure e le formalità applicabili per accedere ad un'attività di servizi ed esercitarla. Le procedure autorizzative possono essere mantenute solo se rispettano i principi di non discriminazione e di proporzionalità; i requisiti richiesti per rilasciare le autorizzazioni possono essere mantenuti solo se siano giustificati da ragioni di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di salute pubblica, di tutela dell'ambiente;
    con il decreto legislativo n. 59 del 2010, lo Stato italiano ha dato attuazione alla direttiva comunitaria per la liberazione dei servizi nel mercato interno. Il decreto è diviso in tre parti. Nella prima si stabiliscono i principi generali a cui tutte le pubbliche amministrazioni dovranno attenersi nell'applicazione del decreto: l'ambito di applicazione, le definizioni, le modalità di accesso, i regimi autorizzatori, la semplificazione amministrativa, la tutela dei destinatari, la qualità dei servizi e la collaborazione amministrativa fra Stati. Nella seconda parte si disciplinano alcuni procedimenti riconducibili alla competenza di indirizzo e vigilanza di alcuni ministeri, gestiti in buona parte dai comuni. Nella terza parte, oltre a modifiche e abrogazioni, viene normato il rapporto tra la legge statale e le leggi regionali, in materia di applicazione della direttiva «servizi»;
    nel difficile rapporto tra governo del territorio e libertà d'iniziativa economica che pone al centro la potestà di conformazione dei suoli attribuita ai pubblici poteri il recepimento della direttiva Bolkestein nel nostro ordinamento con particolare riferimento alle attività commerciali incontra ancora forti resistenze a livello regionale/locale nel favorire lì dove non vi siano limiti ambientali, culturali o della sicurezza pubblica l'impulso comunitario diretto all'affermazione della libertà del mercato e nel mercato;
    si tratta di resistenze non incomprensibili se si pensa alla forte connessione tra la presenza di concessioni demaniali o di altro tipo e la generazione di economie locali che rappresentano spesso una delle poche fonti di reddito capaci di mantenere la coesione socio-economica, in un momento di estrema difficoltà sociale ed economica per il contesto italiano;
    le tensioni che si vengono a creare ogni qualvolta si reintroduce il tema della concreta applicazione della direttiva «servizi» nei vari contesti territoriali italiani non possono dunque essere ridotte ad una mera rigida presa di posizione a tutela di interessi economici incancreniti, ma anche all'incapacità degli attori coinvolti di trovare il corretto bilanciamento tra interessi economici e interessi lato sensu pubblici, riguardando in particolare le modalità attraverso le quali le amministrazioni operano le loro scelte di conformazione dei suoli e la loro destinazione edificatoria e d'impresa;
    presso questo ramo del Parlamento sono in discussione una serie di provvedimenti l'applicazione della direttiva Bolkestein su vari rami dell'economia. Tra questi, il disegno di legge che reca una delega al Governo per la revisione e il riordino della normativa relativa alle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali ad uso turistico-ricreativo;
    anche le guide turistiche stanno correndo il rischio di non vedere più riconosciuta la loro qualificazione professionale, a seguito del processo di revisione della direttiva Bolkestein. La guida turistica, per definizione, è specializzata nell'illustrazione del patrimonio di un territorio. Le conoscenze e competenze acquisite nel paese di origine non sono automaticamente trasferibili nel Paese ospitante. La guida turistica sembra l'unica professione che, perdendo la competenza territoriale, perde la sua competenza specifica. L'adozione della tessera professionale europea per professioni come quella di guida turistica, in cui la formazione è diversa tra lo Stato di origine e quello ospitante, rischia di eliminare le prove compensative. La qualificazione verificata dallo Stato di origine non è sufficiente. Una guida che esercita in una città d'Europa potrebbe effettuare visite guidate ed illustrare l'identità culturale di 27 paesi, senza dimostrare di possederne la conoscenza,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative volte ad una revisione del decreto legislativo n.59 del 2010, garantendo l'estensione del regime del periodo di proroga transitoria con l'indicazione di un termine – delle concessioni demaniali, marittime, lacuali e fluviali ad uso turistico-ricreativo, al fine di contenere le ripercussioni negative sul tessuto economico e sociale;

2) ad avviare iniziative volte a censire tutte le strutture destinate a regime concessorio demaniale nelle zone marittime, lacuali e fluviali ad uso turistico-ricreativo, al fine di garantire la trasparenza, il regime di accesso e la tutela degli interessi pubblici e di valutare l'introduzione di una politica di revisione dei canoni concessori;

3) a valutare di assumere iniziative per l'esclusione del regime di applicazione della direttiva «servizi» per l'ambito professionale delle guide turistiche, a salvaguardia dell'interesse prevalente alla tutela del patrimonio artistico-culturale del Paese e delle alte competenze professionali che vi operano.
(1-01641)
(Nuova formulazione) «Ricciatti, Epifani, Ferrara, Bersani, Laforgia, Nicchi, Scotto, D'Attorre, Duranti, Sannicandro, Martelli, Albini, Fossati, Piras, Franco Bordo, Folino, Melilla, Quaranta, Carlo Galli, Zoggia, Matarrelli, Kronbichler, Zappulla, Mognato».
(1o giugno 2017)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE A GARANTIRE IL FUNZIONAMENTO DELLE PROVINCE

   La Camera,
   premesso che:
    la Costituzione sancisce che la Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato (articolo 114), che le province sono titolari di funzioni amministrative (articoli 117 e 118), hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa e risorse autonome, stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, rappresentanti le risorse con le quali possono finanziare integralmente le funzioni loro attribuite (articolo 119);
    tra le funzioni fondamentali, si ricorda, è competenza delle province, quali enti con funzioni di area vasta: la pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché la tutela e valorizzazione dell'ambiente, per gli aspetti di competenza; la pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, nonché la costruzione e gestione delle strade provinciali e relativa regolazione della circolazione stradale ad esse inerente; la programmazione provinciale della rete scolastica e la gestione dell'edilizia scolastica; la cura dello sviluppo strategico del territorio e la gestione di servizi in forma associata in base alle specificità del territorio medesimo;
    l'esito referendario negativo del 4 dicembre 2016 sulla riforma costituzionale proposta dal Governo Renzi, di fatto, riporta «in vita» le istituzioni provinciali, non essendosi manifestata la volontà popolare di eliminarle;
    tale esito stride oggi con la previsione della cosiddetta legge Delrio n. 56 del 2014, che ha smantellato le province, impoverendole di funzioni fondamentali e portando alla deregulation la gestione dell'area vasta a livello territoriale;
    necessita, pertanto, in una prospettiva di lungo periodo, un intervento normativo che adegui la citata legge n. 56 del 2014 ed al contempo delinei un ordinamento locale delle province in coerenza col dettame costituzionale;
    già la legge di stabilità per il 2015 (legge n. 190 del 2014), considerando le province quali «enti in attesa di riforma costituzionale», ha operato un taglio pari a 1 miliardo di euro nel 2015, cui si aggiunge un altro miliardo nel 2016 ed un altro miliardo ancora nel 2017;
    sulla base di una serie di interventi normativi (decreto-legge n. 201 del 2011; decreto-legge n. 95 del 2012; decreto-legge n. 66 del 2014 e, appunto, legge n. 190 del 2014) negli ultimi cinque anni c’è stata da parte dello Stato una continua riduzione di risorse alle province pari a: 1.115 milioni di euro nel 2013, 2.059 milioni di euro nel 2014, 3.241 milioni di euro nel 2015, 4.250 milioni di euro nel 2016 e 5.250 milioni di euro nel 2017 (dato che comprende anche le città metropolitane, istituite il 1o gennaio 2015);
    a fronte dei predetti tagli, le province hanno dovuto effettuare una drastica riduzione della propria spesa corrente, quantificata in 2,7 miliardi di euro dal 2013 al 2016 (2013: 7,5 miliardi di euro; 2014: 6,2 miliardi di euro; 2015: 5,2 miliardi di euro; 2016: 4,8 miliardi di euro), pari ad un 40 per cento in meno che, inevitabilmente, si riversa sui servizi essenziali erogati per la sicurezza dei territori e lo sviluppo locale;
    dal totale delle entrate di tutte le province e città metropolitane, pari a 3 miliardi e 668 milioni di euro (di cui 1,3 miliardi derivante dall'imposta provinciale di trascrizione e 2,3 miliardi dalle assicurazioni di responsabilità civili automobili), sottratto il taglio imposto dalla legge di stabilità n. 190 del 2014 (pari a 3 miliardi di euro nel triennio) e quello conseguente alla spending review di cui al decreto-legge n. 66 del 2014 (pari a 579 milioni di euro), sui territori provinciali resta appena il 3 per cento degli introiti per poter coprire le spese delle loro funzioni fondamentali;
    l'ammontare residuo di risorse a disposizione è, pertanto, decisamente ed ovviamente insufficiente, al punto che l'Upi – Unione delle province italiane ha dovuto promuovere una mobilitazione con il deposito, da parte dei presidenti di provincia, di esposti cautelativi alle procure della Repubblica, alle prefetture e alle sezioni regionali della Corte dei conti;
    secondo l'Upi, infatti, le entrate 2017 sono pari a 2 miliardi e 916 milioni di euro a fronte di uscite pari a 3 miliardi e 608 milioni di euro, escludendo l'ulteriore taglio di 650 milioni di euro, quindi con un ammanco nel 2017 per chiudere i bilanci delle sole 75 province di regioni a statuto ordinario pari a quasi 700 milioni di euro (691.954.000), il che pone le province medesime nell'oggettiva impossibilità di approvare i bilanci preventivi entro il 31 marzo 2017 secondo quanto disposto dalla legge di bilancio per il 2017;
    addirittura la stessa Sose, la società del Ministero dell'economia e delle finanze incaricata di calcolare i fabbisogni standard degli enti locali, ha quantificato in 651,5 milioni di euro la distanza tra le entrate garantite e le spese necessarie alle funzioni che ancora restano in capo alle province, nonostante l'alleggerimento della riforma cosiddetta Delrio, prime fra tutte la messa in sicurezza e la manutenzione dei 130 mila chilometri di strade provinciali e la gestione dei 5.100 edifici scolastici,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative, anche normative, volte a:
  a) ripristinare le funzioni attribuite alla province ante legge n. 56 del 2014, consolidando la loro esistenza costituzionale alla luce del voto referendario del 4 dicembre 2016;
  b) individuare le risorse adeguate a copertura delle funzioni assegnate in base all'analisi reale dei fabbisogni standard, nel rispetto del dettame costituzionale di cui all'articolo 119 della Costituzione;
  c) semplificare la forma di governo degli enti attraverso una revisione della disciplina relativa agli organi, allo loro durata, al sistema di elezione ripristinandone l'elezione diretta;
  d) destinare alle province una quota del fondo Anas pari ad almeno 300 milioni di euro per la manutenzione straordinaria delle strade provinciali, così da avviare le opere necessarie per riportare in sicurezza un'importante e strategica rete viaria;
  e) assegnare alle province le ulteriori risorse necessarie a garantire l'espletamento delle funzioni fondamentali necessarie per la sicurezza dei territori ed i servizi essenziali ai cittadini, come evidenziato anche dalla Sose nel corso dell'audizione parlamentare del 16 marzo 2017 in Commissione bicamerale per l'attuazione del federalismo fiscale;
  f) riportare nei bilanci delle province i risparmi derivanti dai propri atti e provvedimenti di spending review;
  g) ripristinare l'autonomia organizzativa degli enti attraverso l'abrogazione della disposizione di cui al comma 420 della legge n. 190 del 2014;
  h) riconoscere alle province, in via straordinaria anche per il 2017, la facoltà di utilizzare gli avanzi di amministrazione per assicurare gli equilibri dei bilanci.
(1-01553)
«Simonetti, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caparini, Castiello, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Molteni, Pagano, Picchi, Gianluca Pini, Rondini, Saltamartini».
(21 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    la Repubblica è composta dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato (articolo 114 della Costituzione);
    le province sono titolari di funzioni amministrative (articoli 117 e 118 della Costituzione);
    le province hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa; le risorse derivanti da queste fonti consentono di finanziare integralmente le funzioni attribuite (articolo 119 della Costituzione);
    la legge n. 56 del 2014 (cosiddetta «legge Delrio»), recante «Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni», non ha abolito le province, ma le ha trasformate in enti di secondo livello, governate da sindaci e amministratori comunali;
    infatti, l'articolo 1 della suddetta legge, al comma 85, dispone che le province, quali enti con funzioni di area vasta, mantengono l'esercizio delle seguenti funzioni fondamentali: a) pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché tutela e valorizzazione dell'ambiente, per gli aspetti di competenza; b) pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale, nonché costruzione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale; c) programmazione provinciale della rete scolastica, nel rispetto della programmazione regionale; d) raccolta ed elaborazione di dati, assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali; e) gestione dell'edilizia scolastica; f) controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale e promozione delle pari opportunità sul territorio provinciale;
    la «legge Delrio», del resto, era solo propedeutica all'eliminazione delle province dalla Costituzione, alla loro trasformazione in «enti di area vasta» e all'assegnazione a comuni e regioni, e solo residualmente agli enti di area vasta e alle città metropolitane, secondo il principio di sussidiarietà, anche delle funzioni fondamentali che la «legge Delrio» aveva mantenuto in capo alle province;
    tale progetto complessivo di riordino delle funzioni statali si è interrotto a seguito dell'esito negativo del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, che ha avuto, fra le altre, la conseguenza di mantenere in capo alle province la loro autonomia istituzionale, finanziaria e organizzativa, in coerenza con il principio autonomistico sancito dall'articolo 5 della Costituzione, e tutte le competenze fondamentali;
    anche il trasferimento alle regioni delle competenze sottratte alle province dalla «legge Delrio» (caccia e pesca, acque, trasporto rifiuti oltre frontiera, autonomie e altro) ha visto risultati del tutto difformi da regione a regione: in quelle virtuose il trasferimento è completato, ma in molte altre il trasferimento è ancora in corso, con la conseguenza che alcune province si devono ancora occupare di funzioni che non dovrebbero essere più di loro competenza, con conseguente aggravio di costi e di personale;
    senza aspettare la conclusione dell’iter della riforma costituzionale, e della conseguente eliminazione delle province, il Governo ha ritenuto, «in attesa della riforma costituzionale», di operare comunque tagli drastici ai bilanci provinciali;
    così, nella legge n. 190 del 2014 (legge di stabilità per il 2015) ha operato, all'articolo 1, comma 418, un taglio di 3 miliardi di euro complessivi a regime del tutto insostenibile per i bilanci, così attuato: un miliardo di euro nel 2015 (decreto-legge n. 78 del 2015, articolo 1, comma 10, e tabella 2), cui si aggiunge un miliardo di euro nel 2016 (decreto-legge n. 113 del 2016, articolo 8, comma 1-bis, e tabella 1) e un miliardo di euro nel 2017 (provvedimento attuativo ancora da definire);
    la manovra finanziaria nei confronti delle province non ha operato solo un taglio, ma un vero e proprio prelievo di risorse dai loro bilanci: a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo si tratta di un prelievo incoerente, perché nega il principio di autonomia finanziaria degli enti sancito dall'articolo 119 della Costituzione, e di una sottrazione di risorse proprie (le entrate dai tributi locali) che avrebbero come destinazione, secondo il dettato costituzionale, la copertura integrale delle funzioni attribuite;
    dal 2013 al 2017 alle province è stato imposto un taglio complessivo alle risorse pari a 5,2 miliardi di euro, che derivano dall'applicazione delle seguenti disposizioni: decreto-legge n. 201 del 2011 (taglio di 415 milioni di euro), decreto-legge n. 95 del 2012 (taglio di 1.250 milioni di euro), decreto-legge n. 66 del 2014 (taglio di 58 milioni di euro), legge n. 190 del 2014 (taglio 3.000 milioni di euro);
    conseguentemente, oggi vi è uno squilibrio nei bilanci delle province di circa 1.350 milioni di euro, che si ridurrà a circa 700 milioni di euro a fronte dell'assegnazione di una quota pari a 650 milioni di euro del «Fondo da ripartire per il finanziamento di interventi a favore degli enti territoriali», previsto all'articolo 1, comma 438, della legge n. 232 del 2016 (legge di bilancio per il 2017), a seguito dell'approvazione in data 23 febbraio 2017 in Conferenza unificata del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri ex articolo 1, comma 439, di suddetta legge;
    il Governo ha operato come se le province fossero già svuotate delle loro funzioni fondamentali (trasporti, strade, rete scolastica, tutela ambientale e altro), rimaste in realtà sotto la loro competenza, e i tagli di bilancio conseguenti a questa logica fanno sì che un intero comparto istituzionale costitutivo della Repubblica non sarà in grado né di approvare i bilanci, né di erogare i servizi: un'evenienza che non si è mai verificata nella storia del Paese;
    di conseguenza, si evidenziano, per esempio, profonde criticità ed emergenze sulla manutenzione degli edifici scolastici di competenza (oltre 5.000), a partire dalle più elementari regole di adeguamento alle norme antincendio (le cui scadenze vengono prorogate da oltre 20 anni) o all'acquisizione dei certificati di agibilità statico-sismica;
    anche la manutenzione dei circa 130.000 chilometri di strade provinciali subisce gli effetti della mancanza di fondi, considerando inoltre che, per la viabilità provinciale, è stata introdotta, con la normativa in materia di omicidio stradale, anche la responsabilità colposa a carico dei responsabili della manutenzione e costruzione delle strade, chiaramente indicata nella circolare del dipartimento di pubblica sicurezza del Ministero dell'interno del 25 marzo 2016. Da ciò consegue il concreto pericolo di responsabilità non soltanto amministrativa, ma anche civile e penale, sia delle amministrazioni e sia, nel caso di responsabilità penali, dei funzionari e dirigenti addetti ai servizi;
    a tale proposito, occorre evidenziare che anche la Corte dei conti nella deliberazione n. 17 del 2015 della sezione delle autonomie, in cui si relaziona al Parlamento sul riordino delle province, nel richiamare l'attenzione sull'impatto delle misure conseguenti alla legge di stabilità n. 190 del 2014, le ritiene «suscettibili di generare forti tensioni sugli equilibri finanziari» ed afferma che «ancora più problematico si prefigura il taglio incrementale per il biennio 2016-2017, atteso che una volta riallocate le funzioni e le risorse a queste destinate, le province si troveranno a dover conseguire i risparmi richiesti su aggregati di spesa più ristretti e soprattutto vincolati alle funzioni fondamentali»;
    il direttore centrale della finanza locale del dipartimento degli affari interni e territoriali del Ministero dell'interno, dottor Giancarlo Verde, in un'audizione svoltasi in data 16 febbraio 2017 presso la Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale, attesta che la riduzione delle risorse, che ammonta a circa 4,8 miliardi di euro dal 2008 al 2016, «ha condotto ad uno stato generale di disagio finanziario delle province che ha portato ad una difficoltà nell'attendere alle funzioni assegnate che si evidenzia con la flessione qualitativa e, talvolta, perfino l'assenza di importanti servizi. In alcuni casi, è stato inevitabile il ricorso alla procedura di dissesto finanziario, 4 casi da sempre, ma solo 3 nell'ultimo quadriennio. Più significativo il ricorso alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale previsto dall'articolo 243-bis del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000, a cui sono ricorse nel quinquennio trascorso ben 14 province. Pertanto quasi il 20 per cento degli enti è ricorso a misure straordinarie, percentuale che spinge a riflettere sulla grave situazione che vivono tali enti locali»;
    i presidenti delle province, riuniti in assemblea generale alla presenza dei parlamentari della Repubblica nella giornata del 16 febbraio 2017, hanno denunciato a gran voce di trovarsi nella concreta impossibilità di erogare servizi fondamentali per la collettività, legati alle funzioni individuate dalla legge n. 56 del 2014 per province e città metropolitane;
    i presidenti delle province, nella medesima giornata, sono stati ricevuti dal Presidente della Repubblica, a cui hanno chiesto sostegno affinché il Governo agisca con tempestività e senza esitazioni e affronti e risolva le questioni di estrema emergenza che riguardano i territori, mettendo queste istituzioni nelle condizioni di garantire la sicurezza dei 130.000 chilometri di strade provinciali, delle 5.100 scuole superiori italiane in cui studiano 2.500.000 ragazzi, di realizzare gli interventi necessari a contrastare il dissesto idrogeologico;
    alcuni presidenti delle province si sono sentiti costretti, per la prima volta nella storia, a rivolgersi alla procura della Repubblica con un esposto cautelativo, affinché si accerti di chi è la vera responsabilità di eventuali disservizi delle province,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative urgenti, anche normative, necessarie per garantire alle province italiane, enti costitutivi della Repubblica, di far fronte alle proprie funzioni istituzionali, e in particolare volte:
  a) ad individuare le risorse adeguate a copertura delle funzioni assegnate in base all'analisi reale dei fabbisogni standard, nel rispetto dell'articolo 119 della Costituzione;
  b) ad assegnare alle province almeno 250 milioni di euro aggiuntivi per l'esercizio delle funzioni fondamentali, necessari per garantire la sicurezza e i servizi adeguati ai cittadini;
  c) ad assegnare alle province almeno 300 milioni di euro del fondo Anas per la manutenzione straordinaria delle strade provinciali, così da aprire le opere necessarie per riportare in sicurezza questa rete viaria strategica;
  d) a lasciare nei bilanci delle province i risparmi dei costi della politica determinati dalla gratuità totale dei presidenti e dei consiglieri provinciali, considerato che nelle province la politica ha costo zero, unico caso tra le istituzioni della Repubblica: questi risparmi devono essere messi a disposizione delle comunità locali;
  e) a ripristinare l'autonomia organizzativa degli enti, attraverso la soppressione del comma 420 dell'articolo 1 della legge n. 190 del 2014, con la possibilità di avere in organico quelle professionalità indispensabili per svolgere le funzioni che rimangono loro assegnate;
  f) a cancellare le sanzioni per le province che hanno mancato gli impegni del patto di stabilità 2016, in quanto lo «sforamento» è stato indotto dai tagli ai bilanci e dall'uso degli strumenti straordinari che il Governo ha obbligato ad usare pur di chiudere i bilanci;
  g) a consentire alle province in via straordinaria anche per il 2017 di utilizzare gli avanzi di amministrazione per assicurare gli equilibri dei bilanci;
  h) in una prospettiva temporale più lunga, a promuovere una revisione della legge n. 56 del 2014 per disegnare un ordinamento locale delle province stabile e coerente con la Costituzione, considerato che a tal fine è necessario:
   1) consolidare le funzioni fondamentali previste dalla legge n. 56 del 2014, ampliare le funzioni amministrative territoriali e valorizzare con le funzioni di assistenza e di supporto ai comuni, le stazioni uniche appaltanti e i servizi pubblici locali previsti dai commi 88 e 90 dell'articolo 1, in modo da fornire indirizzi chiari anche per il riordino della legislazione regionale;
   2) semplificare la forma di governo degli enti, attraverso una revisione della disciplina relativa agli organi, alla loro durata, al sistema di elezione;
   3) conferire una delega per la revisione del testo unico degli enti locali, per adeguarlo alle novità in materia di comuni, province e città metropolitane.
(1-01560)
«Brunetta, Gelmini, Occhiuto, Russo, Sisto, Fabrizio Di Stefano».
(27 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    la Repubblica italiana «è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato», ai sensi dell'articolo 114 della Costituzione; tale articolo, riformulato con legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, conferisce evidentemente un particolare rilievo, addirittura letteralmente «costitutivo», a tutti i livelli di governo territoriale, per quanto la Corte costituzionale, sin dalla sentenza n. 274 del 2003 abbia precisato che ciò «non comporta affatto una totale equiparazione fra tali enti, con poteri profondamente diversi tra loro: basti considerare che solo allo Stato spetta il potere di revisione costituzionale e che Comuni e Province non hanno potestà legislativa;
    l'appena evidenziata complessità dei livelli di governo e soprattutto il disegno territoriale degli stessi sono, almeno nelle loro linee fondamentali, frutto di scelte ormai risalenti nel tempo, ponendo il Paese sostanzialmente di fronte a un'organizzazione amministrativa disegnata secondo i parametri di efficienza dettati nei tempi in cui i trasporti erano misurati dal tragitto quotidiano di un cavallo, risultando così incapaci di rispondere alle attuali esigenze di prestazioni di servizi e di svolgimento delle attività professionali e lavorative in generale;
    è necessario tornare a governare efficacemente il Paese, rifondando le basi di cittadinanza e ridisegnando pertanto, con coraggio e ambizione, il tessuto complesso del governo locale;
    è necessario che ciò avvenga secondo un processo che lo Stato e il Governo in particolare devono legittimare, facilitare e seguire, ma che deve realizzarsi comunque attraverso modalità bottom up, sulla base di dinamiche moderne di cooperazione tra enti su strategie di sviluppo condivise, individuando livelli di efficienza scalare a geometria variabile nell'offerta dei servizi, senza dirigismo, bensì assecondando e favorendo lo sviluppo più generalizzato di quanto in molti luoghi del Paese si sta già muovendo in questa direzione, a legislazione vigente;
    si tratta, in sostanza, di procedere con modalità profondamente diverse rispetto a quelle seguite dai Governi che si sono succeduti negli ultimi anni, che hanno operato «dall'alto», con norme astruse e contraddittorie, latrici di soluzioni spesso irrealizzabili, senza mai offrire una lettura empiricamente fondata del Paese;
    se certamente sono mancate scelte di riorganizzazione del livello regionale, rispetto al quale l'unico intervento era stato rimesso a una riforma costituzionale (bocciata dagli elettori il 4 dicembre 2016) con l'unico obiettivo di ricentralizzare (peraltro secondo modalità capaci di ingenerare ulteriore incertezza nei rapporti giuridici e di non riso vere certamente – ma anzi forse di aggravare – la conflittualità tra lo Stato e le regioni rimessa alla giurisdizione costituzionale), trascurando, invece l'attivazione di dinamiche di cooperazione macroregionale per pervenire, in un medio periodo, a una semplificazione del tessuto regionale attraverso processi condivisi di ridisegno secondo l'articolo n. 132 della Costituzione e non superando – ma anzi amplificando – il doppio regionalismo (ordinario e speciale); è soprattutto a livello locale che a parere dei firmatari del presente atto si sono realizzati gli interventi più miopi, inadeguati e inefficaci, privi di qualunque visione della riorganizzazione dell'assetto territoriale e condotti, invece, sempre e soltanto per la necessità di fare cassa;
    in quest'ambito è soprattutto l'ente intermedio, la provincia, ad avere ottenuto il trattamento peggiore. Considerata, con notevole superficialità, alla stregua di un «ente inutile», dal 2011 si è solo pensato ad una sua grossolana soppressione, a tessuto di governo territoriale invariato;
    così la «eliminazione delle Province» e divenuto uno dei primi obiettivi del Governo Monti, insediatosi in presenza di un'emergenza finanziaria, sembrando rispondere in merito al contenuto di una lettera inviata dalla Banca centrale europea precedente al precedente Governo il 5 agosto 2011, che in effetti risulta sul punto piuttosto atipica, per quanto scendeva nel dettaglio, sottolineando «l'esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province)»;
    se la «eliminazione» delle province non era realizzabile in tempi brevi, essendo queste – come abbiamo detto – previste dalla Costituzione, addirittura come «enti costitutivi» della Repubblica (tanto che, a prendere alla lettera la formulazione dell'articolo n. 114 della Costituzione ci si potrebbe chiedere se possa esistere una Repubblica senza province), il Governo Monti è comunque intervenuto addirittura con decreto-legge a svuotare l'ente intermedio di funzioni, sopprimendone gli organi elettivi, per sostituirli con altri di secondo grado (espressi, in sostanza, dai comuni appartenenti alla provincia stessa);
    la eliminazione di organi eletti a suffragio universale diretto ha anzitutto rappresentato un vulnus nella possibilità per i cittadini di influire (direttamente) nella determinazione dell'indirizzo politico provinciale, costringendoli a subire scelte politiche (e non di mera gestione, come talvolta si è provato a sostenere) degli organi di secondo livello (peraltro non del tutto adeguatamente rappresentativi dell'intero territorio provinciale), rischiando di compromettere almeno in parte, considerato il mantenimento della capacità impositiva, il principio cardine del costituzionalismo del no taxation without representation;
    la prima riforma delle province, realizzata dal Governo Monti con il decreto-legge n. 201 del 2011, convertito dalla legge n. 214 del 2011, con il dichiarato esclusivo (e sembrerebbe esclusivo) obiettivo di riduzione dei costi (la rubrica dell'articolo n. 23 reca «Riduzione dei costi di funzionamento delle Autorità di Governo, del CNEL, delle Autorità indipendenti e delle Province»), con una nuova disciplina di organizzazione (che li rende enti di secondo livello dal punto di vista degli organi) e una drastica riduzione delle funzioni attribuite è stata oggetto di ricorso di fronte alla Corte costituzionale che, con sentenza n. 220 del 2013, l'ha giudicata incostituzionale, in quanto «la trasformazione per decreto-legge dell'intera disciplina ordinamentale di un ente locale territoriale, è incompatibile, sul piano logico e giuridico, con il dettato costituzionale, trattandosi di una trasformazione radicate dell'intero sistema»;
    il radicale vizio d'incostituzionalità riscontrato ha, secondo i presentatori del presente atto, di fatto impedito alla Corte di affrontare i profili più specifici e ha aperto la strada ad un'ulteriore riforma, realizzata con la legge 7 aprile 2014, n. 56 (cosiddetta «legge Delrio» dal nome del Ministro per gli affari regionali e le autonomie del Governo Letta al quale si deve l'iniziativa);
    questa legge, pur con alcune modifiche, mantiene due aspetti della precedente riforma: un forte ridimensionamento delle funzioni delle province e la eliminazione del suffragio universale diretto per la scelta degli organi politici, ancora consegnati a una rappresentanza di secondo livello, con i limiti già evidenziati;
    nel frattempo, il Governo Renzi, insediatosi dopo il Governo Letta, presentava una proposta di legge costituzionale recante un'ampia revisione della Parte seconda della Costituzione, prevedendo, tra l'altro, la soppressione delle province dal testo costituzionale, con ciò potendo porre i presupposti per la totale eliminazione dell'ente intermedio (che, in caso di approvazione della riforma, poi invece respinta dagli elettori con il referendum del 4 dicembre 2016, sarebbe comunque stato privato di riconoscimento costituzionale);
    intanto anche la cosiddetta «legge Delrio» è stata in effetti impugnata di fronte alla Corte costituzionale, la quale, con sentenza n. 50 del 2015, ha rigettato – come noto – tutte le censure formulate, ancorché con particolare riferimento a quelle ordinamentali abbia precisato che «è in corso l'approvazione di un progetto – da realizzarsi nelle forme di legge costituzionale – che ne prevede la futura soppressione, con la loro conseguente eliminazione dal novero degli enti autonomi riportati nell'articolo 114 Cost., come, del resto, chiaramente evincibile dall’incipit contenuto nel comma 51 dell'articolo 1 della legge in esame». Si tratta di una motivazione, a giudizio dei presentatori del presente atto, del tutto singolare nell'ambito della giurisprudenza costituzionale (probabilmente non solo italiana);
    in effetti, quella revisione costituzionale – come già ricordato – è stata sonoramente bocciata dagli elettori nel referendum del 4 dicembre 2016, con la conseguenza che da più parti è stata sottolineata la necessità – anche da un punto di vista del rispetto della Costituzione – di reintrodurre un sistema di elezione diretta degli organi della provincia, non potendosi in proposito che sottolineare come – anche in base a quanto poco sopra ricordato –, anche al di là di un diretto vincolo costituzionale, ciò risulterebbe certamente più coerente con il fondamento democratico della Repubblica e quindi dei suoi enti costitutivi; ciò sarebbe anche più rispondente alla necessità che, a tutti i livelli di governo, sia data diretta espressione alla sovranità popolare, in proposito sembrando anzi da valorizzare una maggiore partecipazione dei cittadini, anche potenziando la presenza degli istituti di democrazia diretta negli statuti degli enti locali;
    la tendenza alla soppressione (o almeno al fortissimo e inadeguato ridimensionamento) delle province, pur in assenza di un più generale intervento sull'assetto del governo locale del Paese, è stata peraltro accompagnata da pesantissimi tagli di risorse, o meglio – come è stato evidenziato dall'Unione delle province italiane – un vero e proprio prelievo. In proposito basti ricordare che la legge 23 dicembre 2014, n. 190 (legge di stabilità 2015) ha previsto, all'articolo 1, comma 418, che le province e le Città metropolitane «concorrono al contenimento della spesa pubblica attraverso una riduzione della spesa corrente di 1.000 milioni di euro per l'anno 2015, di 2.000 milioni di euro per l'anno 2016 e di 3.000 milioni di euro a decorrere dall'anno 2017. In considerazione delle riduzioni di spesa di cui al periodo precedente, ripartite nelle misure del 90 per cento fra gli enti appartenenti alle regioni a statuto ordinario e del restante 10 per cento fra gli enti della regione siciliana e della regione Sardegna, ciascuna provincia e città metropolitana versa ad apposito capitolo di entrata del bilancio dello Stato un ammontare di risorse pari ai predetti risparmi di spesa». Tali pesanti tagli si aggiungono a quelli realizzati con decreto-legge n. 201 del 2011, con decreto-legge n. 95 del 2012 e con decreto-legge n. 66 del 2014, giungendo, nel 2017, a sommare una riduzione di risorse pari a 5.250 milioni di euro;
    è stato calcolato che alle province resta appena il 3 per cento degli introiti raccolti sul territorio per poter coprire le spese delle loro funzioni fondamentali, destando preoccupazione, in particolare il mantenimento di 130 mila chilometri di strade provinciali, nonché di 5.100 scuole superiori, tanto che era stato evidenziato dalla stessa società soluzioni per il sistema economico pubblico e privato (Sose) società costituita dal Ministero dell'economia, con il compito, tra l'altro, di determinare i fabbisogni standard in attuazione del federalismo fiscale, la necessità di prevedere 650 milioni di euro aggiuntivi per la spesa corrente delle province;
    le preoccupazioni per la suddetta situazione non sono state superate in sede di approvazione della cosiddetta recente «manovrina», cioè la legge di conversione del decreto-legge n. 50 del 2017, tanto che l'Unione provinciale italiana, a mezzo del suo presidente, si era rivolta anche al Presidente della Repubblica, con lettera 1o giugno 2017, evidenziando la suddetta situazione. Tuttavia, la definitiva conversione in legge del decreto-legge sopra menzionato da parte del Senato in data 15 giugno 2017, senza la previsione delle risorse ritenute strettamente necessarie, ha portato il presidente dell'Unione provinciale italiana a concludere che «è mancata la volontà di risolvere la grave emergenza per i servizi assicurati dalle province: una emergenza causata da tagli irragionevoli e ingiustificati di cui evidentemente ancora non si vuole ammettere l'errore. Saranno i mancati servizi che inevitabilmente ne deriveranno, i diritti allo studio, alla mobilità, alla sicurezza, negati in questo modo ai cittadini, a mettere Governo e Parlamento di fronte alle loro responsabilità»;
    tutto questo rende, oggi, le province enti deboli (anche dal punto di vista della legittimazione) e sempre meno capaci di svolgere anche le funzioni loro mantenute, con conseguenze negative sui servizi e quindi sulla vita dei cittadini,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative volte a:
  a) riorganizzare l'assetto del governo locale attraverso procedimenti condivisi con i territori;
  b) prevedere, nell'ambito di una riforma dell'intero quadro normativo degli enti locali, una razionalizzazione delle funzioni amministrative dei diversi livelli di governo e, in particolare, in relazione all'ente intermedio, il ritorno a un'organizzazione fondata sul suffragio universale diretto nella scelta degli organi rappresentativi, favorendo altresì forme di partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche, anche contemplando l'obbligo per i comuni e le province di prevedere nei loro statuti il referendum;
  c) individuare le risorse adeguate a copertura delle funzioni assegnate in base all'analisi reale dei fabbisogni standard nel rispetto di quanto previsto all'articolo 119 della Costituzione;
  d) prioritariamente, assegnare alle province le ulteriori risorse necessarie a garantire lo svolgimento delle funzioni fondamentali assegnate, a partire dal mantenimento e dalla messa in sicurezza delle strade di competenza e degli istituti scolastici, anche sulla base delle valutazioni formulate dalla società soluzioni per il sistema economico pubblico e privato (Sose).
(1-01646)
«Civati, Marcon, Airaudo, Brignone, Costantino, Daniele Farina, Fassina, Fratoianni, Giancarlo Giordano, Gregori, Andrea Maestri, Palazzotto, Pannarale, Paglia, Pastorino, Pellegrino, Placido».
(19 giugno 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    le decisioni e le misure che hanno interessato negli ultimi sei anni la sorte delle province è l'ulteriore prova che «La distanza più breve tra due punti è la retta. In Italia è l'arabesco», in quanto la soluzione più lineare, semplice, funzionale e veloce sarebbe stata, naturalmente, quella di sopprimere le province, mediante una legge costituzionale;
    dal primo tentativo di riduzione delle funzioni delle province, di cui al cosiddetto «decreto-legge Monti», poi dichiarato illegittimo, passando per la cosiddetta «legge Delrio», sono trascorsi sei anni e mezzo;
    si segnala che il riordino introdotto dalla stessa legge Delrio fu definito espressamente «provvisorio», nell'attesa dell'abolizione per via costituzionale, nonché privo di oneri per la finanza pubblica;
    non è peregrino pensare che, evidentemente, nonostante le buone parole e i lodevoli intenti, nessun Governo abbia mai voluto davvero abolire le province;
    si segnala che, in occasione dell'esame della cosiddetta «legge Delrio», la Corte dei conti aveva evidenziato la probabilità che il riordino prospettato avrebbe potuto comportare «aggravi di spesa, confusione ordinamentale e moltiplicazione di oneri» e sottolineato che «le procedure indicate mal si concilierebbero, per la durata e la complessità, con la provvisorietà del disegno organizzativo perseguito dal provvedimento»;
    la cosiddetta «legge Delrio» ha soppresso, delle province, solo la modalità di elezione degli amministratori, mantenendo loro le funzioni originarie, anzi, incrementandole, salvo prevedere un percorso successivo di trasferimento delle funzioni e del relativo personale per il tramite dell'intervento delle regioni;
    tale percorso non è stato e non è privo di «buche», in alcuni casi voragini: per molte delle province le cui funzioni non sono state trasferite le risorse finanziarie sono insufficienti, i bilanci sono sostanzialmente al collasso, soffocati dai mutui e, anche nel caso in cui siano trasferite risorse statali per il tramite del fondo di riequilibrio, queste sono trattenute dalle banche e ben poco o nulla rimane a disposizione per il pagamento degli stipendi del personale, per lo svolgimento delle funzioni proprie e dei connessi servizi ai cittadini – in particolare quelli riguardanti le scuole e le strade;
    la Costituzione italiana contiene una serie di disposizioni inerenti alle province, in particolare con riguardo all'autonomia e all'ambito economico, in quanto le risorse finanziarie devono consentire di finanziare integralmente le funzioni attribuite;
    con tale quadro mal si concilia, anzi, secondo i firmatari del presente atto, trattasi di vera e propria violazione di principi ordinamentali e costituzionali, il limbo giuridico nel quale le province versano e i tagli subìti, in forza, anche, della previsione, evidentemente troppo azzardata, della loro soppressione, «caduta» insieme all'intero progetto di revisione della Costituzione, respinto a seguito del referendum del dicembre 2016,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative per dotare le province che non sono in grado di provvedervi delle risorse necessarie a garantire, in primis, il pagamento della retribuzioni al personale, anche considerandolo creditore privilegiato e lo svolgimento delle funzioni proprie, in particolare quelle dedicate alle scuole e alle strade;

2)  in ordine alla ricollocazione del personale delle province in mobilità, conseguente al disposto trasferimento di funzioni delle province, a provvedere, ferma restando la vigente disciplina in materia, alla massima ottimizzazione delle assegnazioni del personale medesimo, tenendo nel debito conto le amministrazioni, centrali e periferiche, che risultino in carenza di organico, tra le quali, ad avviso dei firmatari del presente atto, sono da considerarsi le amministrazioni della giustizia, in particolare penitenziaria e dei tribunali;

3)  ad adottare iniziative per introdurre misure sanzionatorie nei confronti delle regioni, a valere sui trasferimenti statali, fatti salvi il settore sanitario e dei trasporti, nel caso di loro inadempienza in ordine al trasferimento di funzioni delle province e nel caso di mancata erogazione delle risorse dovute a ciascuna provincia per l'esercizio delle funzioni alle stesse trasferite;

4)  ad assumere iniziative per dare la possibilità agli enti provinciali di apportare le necessarie correzioni al proprio bilancio – in ottemperanza ai princìpi della veridicità, attendibilità, correttezza, e comprensibilità – nei casi in cui, anche per difficoltà di comprensione della complessa normativa sulla nuova contabilità, il riaccertamento straordinario del 2015 si sia rivelato incompleto o impreciso;

5)  ad assumere iniziative per estendere alle province la disciplina della ristrutturazione del debito delle regioni di cui all'articolo 45 del decreto-legge n. 66 del 2014 convertito dalla legge n. 89 del 2014.
(1-01647)
«Nesci, Dieni, Dadone, Cecconi, Cozzolino, D'Ambrosio, Toninelli, Lorefice».
(19 giugno 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    la legge 7 aprile 2014, n. 56, in prospettiva di una riforma costituzionale del titolo V della Costituzione italiana che, tra l'altro, avrebbe dovuto prevedere l'abrogazione delle provincie, ha disposto una radicale riforma della struttura istituzionale, organizzativa, nonché delle funzioni svolte, dall'ente provincia trasformandolo in un ente di area vasta al quale in via transitoria sono comunque state demandate una serie di funzioni fondamentali quali: la manutenzione, la messa in sicurezza, la gestione ordinaria e straordinaria delle strade provinciali; la gestione ordinaria, manutenzione e messa in sicurezza, nonché spese di gestione utenze, per più di 5.000 istituti scolastici secondari di secondo grado; la predisposizione di interventi e opere a difesa dell'ambiente e per il contrasto al dissesto idrogeologico; infine, la pianificazione territoriale e dei trasporti;
    nelle more dell'abrogazione delle province la legge di stabilità per il 2015 (legge n. 94 del 2014) ha operato un taglio anticipato di quasi tre miliardi di euro di risorse ai bilanci delle province e delle città metropolitane;
    la mancata attuazione della riforma costituzionale e la conseguente mancata abrogazione delle province a seguito della «bocciatura» del referendum confermativo del 4 dicembre 2016 insieme alle ulteriori riduzioni di risorse operate nel corso degli anni 2015 e 2016 nei confronti delle stesse, ha lasciato queste amministrazioni in una situazione di estrema gravità dal punto di vista amministrativo rendendo impossibile in molti casi svolgere le funzioni, anche di natura fondamentale, che la legge attribuisce loro;
    la condizione di grave difficoltà amministrativa delle province italiane è stata più volte richiamata dalla Corte dei Conti, anche nel corso di relazioni rivolte al Parlamento italiano. Nella relazione al Parlamento del 30 aprile 2015 la magistratura contabile denunciava come, a seguito dei ritardi dei trasferimenti erariali e regionali, delle reiterate manovre sul fondo sperimentale di riequilibri e, in conseguenza di una costante tensione sulle entrate, determinata dalla progressiva contrazione di quelle derivate, non sufficientemente compensata dal potenziamento delle entrate proprie, le province fossero state di fatto poste in una condizione tale da annullare qualsiasi capacità programmatoria;
    più recentemente, il 23 febbraio 2017, la Corte dei Conti, nel rapporto alle Camere sulla situazione dei bilanci delle province, ha denunciato la manifesta irragionevolezza della forte riduzione delle risorse destinate a funzioni esercitate con carattere di continuità ed in settori di notevole rilevanza sociale, denunciando inoltre il grave deterioramento delle condizioni di equilibrio strutturale dei bilanci delle province, nonché il fatto che gli interventi emergenziali previsti non hanno prodotto un rimedio organico;
    la politica di costante riduzione delle risorse in favore delle province, oltre al dissesto di tre di esse e alla condizione di pre-dissesto di altre dieci amministrazioni provinciali, ha prodotto una situazione che, nell'anno in corso, registra una carenza di risorse necessarie a garantire l'esercizio delle funzioni fondamentali e dei bisogni standard pari a 650 milioni di euro totali per tutte le province italiane;
    per l'anno 2017 a fronte di oltre 2 milioni di euro di entrate prodotte dal gettito di tributi di spettanza provinciale, circa 1 miliardo e 600 milioni di euro verrà sottratto ai territori e utilizzato dallo Stato centrale, dando vita ad una sottrazione pari al 78,4 per cento del gettito totale dei tributi propri delle province;
    la preoccupante ristrettezza di risorse con la quale le province si trovano a fare conti oltre ad impedire non solo una minima programmazione della gestione, ma anche l'impossibilità concreta di approvare il bilancio di previsione per il 2017, produce una lunga serie di conseguenze ulteriori ed effetti collaterali tutti di segno negativo;
    risorse insufficienti producono effetti sullo sviluppo del territorio con piccole e medie imprese che, nell'ultimo triennio, si sono viste quasi azzerate le commesse pubbliche. Inoltre, l'insufficienza di investimenti locali produce il progressivo deterioramento del patrimonio pubblico;
    nello specifico caso delle province, quanto precede significa mancati interventi sulle scuole, sulle strade di competenza provinciale e sulle opere di contrasto al fenomeno del dissesto idrogeologico, con conseguente aumento del rischio per la incolumità delle persone;
    le norme contenute nel recente decreto-legge n. 50 del 2017 riguardanti le province hanno previsto misure e stanziamenti di risorse del tutto insufficienti a fronte dei fabbisogni reali. Per la gestione delle strade di competenza provinciale, pari a 130 mila chilometri totali di rete viaria sono stati stanziati solo 100 milioni di euro per il 2017. A fronte di uno sbilancio di risorse pari a 650 milioni di euro per la gestione delle funzioni fondamentali sono stati stanziati 110 milioni di euro per l'anno 2017 e 80 per l'anno 2018. Anche sul fronte del personale le aperture registrate sono state minime rispetto alle esigenze più volte manifestate dalle province in merito al ripristino delle ordinarie condizioni di autonomia organizzativa in materia di personale;
    nel corso dell'esame parlamentare del disegno di legge di conversione del predetto decreto-legge n. 50 del 2017, il gruppo parlamentare Articolo 1-MDP ha sostenuto numerose proposte avanzate dall'Upi in occasione del ciclo di audizioni, come quella relativa allo stanziamento in loro favore di 650 milioni di euro e, successivamente, a seguito dell'approvazione di proposte emendative di iniziativa parlamentare si è riusciti o a migliorare in parte le disposizioni già presenti nel decreto o ad introdurne delle nuove e aggiuntive rispetto al testo originario;
    in particolare, le risorse per lo svolgimento delle funzioni fondamentali sono state aumentate a 180 milioni di euro per ciascuno degli anni 2017 e 2018. I fondi per la manutenzione ordinaria delle strade sono stati elevati a 170 milioni di euro per l'anno 2017 ed in aggiunta potranno essere destinati i proventi delle contravvenzioni elevate negli anni 2017 e 2018. Sono state incrementate di 15 milioni, sempre per il 2017, le risorse da destinare agli interventi di edilizia scolastica;
    tali modifiche devono considerarsi uno sforzo sicuramente utile ma, purtroppo, ancora non sufficiente per porre rimedio alla grave condizione di difficoltà finanziaria in cui versano le province per consentire loro di svolgere pienamente le funzioni previste per legge,

impegna il Governo:

1) ad individuare ulteriori risorse da destinare alla spesa corrente delle province al fine di consentire loro il pieno esercizio delle funzioni fondamentali e l'erogazione dei servizi essenziali;

2) ad assumere iniziative per incrementare ulteriormente le risorse da destinare alla spesa in conto capitale per la manutenzione delle strade nonché per l'edilizia scolastica, al fine di avviare un piano di investimenti volto a maggiormente tutelare la sicurezza dei cittadini;

3) a individuare gli strumenti attraverso i quali consentire alle province una vera ristrutturazione del debito, non limitandosi alla semplice rinegoziazione, come già avvenuto per le regioni;

4) ad attivarsi per consentire l'istituzione di un fondo straordinario in grado di agevolare le province in dissesto finanziario e quelle in condizione di pre-dissesto nel tornare in una condizione di maggiore stabilità finanziaria;

5) al fine di sostenere la ripresa delle province colpite dal terremoto, ad assumere iniziative per prevedere che queste siano dispensate dal pagamento del contributo alla finanza pubblica per il 2017, di cui all'articolo 1, comma 418, della legge n. 190 del 2014, ed esentate dal rispetto del saldo di finanza pubblica per gli anni 2016 e 2017, nelle medesime modalità già previsti per le amministrazioni comunali;

6) a valutare una progressiva eliminazione dei vincoli che impediscono una efficiente gestione delle risorse umane fatti salvi i vincoli di natura finanziaria di cui all'articolo 1, comma 420, della legge n. 190 del 2014.
(1-01648)
«Melilla, Albini, Capodicasa, Laforgia, Ricciatti, Mognato, Fossati, Zappulla, D'Attorre, Scotto, Roberta Agostini».
(20 giugno 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    la Costituzione, all'articolo 114, stabilisce che la Repubblica è costituita da comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato e che comuni, province, città metropolitane e regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione;
    gli articoli 117 e 118 della Costituzione attribuiscono alle province funzioni amministrative, mentre l'articolo 119 attribuisce loro autonomia finanziaria di entrata e di spesa e risorse autonome con cui finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite;
    la legge n. 56 del 2014, recante «Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni», non potendosi con legge ordinaria abolire le province, le ha trasformate in enti di secondo livello, in attesa di una loro soppressione attraverso una riforma del titolo V della Costituzione;
    la cosiddetta «legge Delrio» ha mantenuto in capo alle province, quali enti con funzioni di area vasta, alcune funzioni fondamentali, come la pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché la tutela e valorizzazione dell'ambiente, per gli aspetti di competenza; la pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, l'autorizzazione e il controllo in materia di trasporto privato, nonché la costruzione e gestione delle strade provinciali e la regolazione della circolazione stradale; la programmazione provinciale della rete scolastica; la raccolta ed elaborazione di dati, la assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali; la gestione dell'edilizia scolastica; il controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale e promozione delle pari opportunità sul territorio provinciale;
    il testo della riforma costituzionale approvato dal Parlamento non ha affrontato nel suo complesso il tema di una revisione organica dei diversi livelli di governo, a partire dalle regioni, limitandosi alla soppressione delle provincie e alla loro trasformazione in «enti di area vasta», con l'attribuzione a comuni e regioni delle funzioni fondamentali che la «legge Delrio» aveva mantenuto in capo alle province, lasciando agli enti di area vasta e alle città metropolitane le competenze residuali;
    l'esito negativo del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, lasciando inalterato il testo della carta costituzionale, ha quindi avuto come conseguenza quella di mantenere l'autonomia istituzionale, finanziaria e organizzativa delle province. Ne consegue che diviene necessario un intervento normativo che adegui cospicue parti della citata legge n. 56 del 2014, alla filosofia di fondo del dettato costituzionale, voluto dai Costituenti o, quantomeno, ponga chiarezza nelle modalità con cui è avvenuto – e sta avvenendo – il trasferimento alle regioni e ai comuni delle competenze sottratte alle province;
    la mancata attuazione della riforma costituzionale e la conseguente mancata abrogazione delle province a seguito della «bocciatura» del referendum confermativo del 4 dicembre 2016 insieme alle ulteriori riduzioni di risorse operate nel corso degli anni 2015 e 2016 nei confronti delle stesse, ha lasciato queste amministrazioni in una situazione di estrema gravità dal punto di vista amministrativo rendendo impossibile in molti casi svolgere le funzioni, anche di natura fondamentale, che la legge attribuisce loro;
    la «bocciatura» della riforma costituzionale, pone anche un ulteriore problema: la «riforma Delrio» ha previsto l'eliminazione del suffragio universale diretto per la scelta degli organi politici, che sono stati affidati a una rappresentanza di secondo livello. Tale scelta, motivata da logiche «anti-casta» e da deboli argomentazioni di ordine economico, pare ora, con il mantenimento della capacità impositiva, ex articolo 119 Costituzione, ledere uno dei principi cardine del costituzionalismo, quello del no taxation without representation e quindi negare la possibilità per i cittadini di influire direttamente nella determinazione dell'indirizzo politico provinciale, valutando, conseguentemente, l'operato dei propri rappresentanti;
    non è in nessun caso in discussione la necessità che a tutti i livelli istituzionali siano perseguite serie e credibili politiche di revisione e razionalizzazione della spesa ed è lo stesso dettato costituzionale a prevedere che le province «concorrono ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea». Tuttavia, ancor prima della conclusione dell’iter ex articolo 138 della Costituzione e del successivo svolgimento del referendum confermativo, il Governo ha operato drastici tagli ai bilanci provinciali che hanno posto tali enti in una condizione di grave difficoltà amministrativa;
    la logica del Governo di operare come se alle province fossero già state tolte funzioni fondamentali in materia di trasporti, strade, rete scolastica e tutela ambientale ha portato un intero comparto istituzionale a non essere in grado non solo di approvare i bilanci, ma, fatto ancora più grave, all'impossibilità di erogare i servizi;
    la Corte dei conti ha ripetutamente messo in guardia parlamento ed Esecutivo su questo modo di intervenire: già durante i lavori preparatori della «legge Delrio» aveva evidenziato come il riordino prospettato avrebbe potuto comportare «aggravi di spesa, confusione ordinamentale e moltiplicazione di oneri»; nell'aprile 2015 la magistratura contabile denunciava come le province fossero state di fatto poste in una condizione tale da annullare qualsiasi capacità programmatoria; infine, nel febbraio 2017, nel rapporto alle Camere sulla situazione dei bilanci delle province, evidenziava la manifesta irragionevolezza della forte riduzione delle risorse destinate a funzioni esercitate con carattere di continuità ed in settori di notevole rilevanza sociale, con grave deterioramento delle condizioni di equilibrio strutturale dei bilanci delle province;
    i presidenti delle province nel febbraio 2017 hanno denunciato l'impossibilità di poter erogare servizi fondamentali per la collettività, quali la manutenzione degli edifici scolastici di competenza e la manutenzione dei 130 mila chilometri di strade provinciali;
    neppure in sede di conversione del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, si è previsto di allocare almeno le risorse strettamente necessarie per risolvere questa situazione paradossale, tanto che il presidente dell'Unione provinciale italiana ha dovuto constatare come sia «mancata la volontà di risolvere la grave emergenza per i servizi assicurati dalle province: una emergenza causata da tagli irragionevoli e ingiustificati di cui evidentemente ancora non si vuole ammettere l'errore»,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative, anche normative, necessarie per garantire alle province italiane di poter far fronte alle proprie funzioni istituzionali, in base all'analisi reale dei fabbisogni standard, e nel rispetto dell'articolo 119 della Costituzione, con particolare attenzione alla manutenzione delle strade e all'edilizia scolastica;

2) ad aprire un confronto in ogni opportuna sede parlamentare al fine di:
  a) rivalutare la distribuzione delle funzioni attribuite alle province dalla legge n. 56 del 2014, anche alla luce del voto referendario del 4 dicembre 2016;
  b) rivedere la disciplina relativa agli organi provinciali e alla loro durata, ripristinandone l'elezione a suffragio diretto degli organi rappresentativi;
  c) valutare la possibilità di procedere ad un'organica revisione del testo unico degli enti locali, per adeguarlo alle novità in materia di comuni, province e città metropolitane;

3) ad assumere iniziative per ripristinare l'autonomia organizzativa degli enti, attraverso la soppressione del comma 420 dell'articolo 1 della legge n. 190 del 2014;

4) ad assumere iniziative per consentire alle province in via straordinaria, anche per il 2017, di utilizzare gli avanzi di amministrazione per assicurare gli equilibri dei bilanci.
(1-01649)
«Altieri, Bianconi, Capezzone, Chiarelli, Ciracì, Corsaro, Distaso, Fucci, Latronico, Marti».
(22 giugno 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    in base al dettato costituzionale le province sono enti essenziali dello Stato, «titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze», e dotate di autonomia finanziaria di entrata e di spesa al fine di consentire alle stesse «di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite»;
    in base al Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000. n. 267, alla provincia spettavano le funzioni, amministrative che riguardavano vaste zone intercomunali o l'intero territorio provinciale nei seguenti settori: la difesa, del suolo, la tutela e valorizzazione dell'ambiente e la prevenzione delle calamità; la tutela e valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche; la valorizzazione dei beni culturali; viabilità e trasporti; la protezione della flora e della fauna; la caccia e la pesca nelle acque interne; la gestione dei rifiuti e dell'inquinamento; servizi sanitari, di igiene e profilassi pubblica; compiti connessi all'istruzione, compresa l'edilizia scolastica;
    nel 2014, con l'approvazione della legge 7 aprile 2014, n. 56, cosiddetta legge Delrio, è stata operata una profonda riforma dell'assetto istituzionale delle province, che sono state trasformate in enti amministrativi di secondo livello, con elezione dei propri organi a suffragio ristretto, sono state ridotte le funzioni ad esse spettanti e, infine, è stata prevista la trasformazione di dieci province in città metropolitane;
    in particolare, la legge ha abolito la giunta provinciale, redistribuendo le deleghe di governo all'interno del consiglio provinciale, molto ridimensionato nel numero dei suoi membri, e ha previsto che un nuovo organo, assemblea dei sindaci, assuma il compito di deliberare il bilancio ed eventuali modifiche statutarie;
    delle funzioni rimaste in capo alle province dopo l'intervento del 2014 alcune sono essenziali per garantire l'erogazione dei servizi ai cittadini; tra queste figurano, in primissimo luogo, la cognizione e gestione delle strade provinciali, il trasporto pubblico e privato, la programmazione provinciale della rete scolastica, la gestione dell'edilizia scolastica, la polizia provinciale;
    la «legge Delrio», quindi, non ha affatto previsto una cancellazione delle province, che sarebbe dovuta avvenire in una fase successiva con il varo definitivo della legge di revisione costituzionale, e, di fatto, mai, realizzata a causa della «bocciatura» del relativo referendum popolare, ma è intervenuta in modo confuso su un riordino delle loro competenze, creando una situazione molto può caotica di quella preesistente, con risparmi illusori, che prevede un processo di attuazione decisamente lungo e complesso, e che ha privato i cittadini della libertà di scegliere da chi desiderano essere amministrati;
    l'errore di intervenire «a valle» e non «a monte» sull'assetto istituzionale dello Stato, vale a dire con una legge ordinaria invece di una legge di rango costituzionale, e i rischi che ne derivavano erano già emersi durante l'esame della «legge Delrio» in Parlamento, quando autorevoli giuristi e professori di diritto costituzionale avevano ribadito come non fosse possibile con legge ordinaria sformare gli organi di Governo da direttamente a indirettamente elettivi, e avevano sottolineato l'esigenza di procedere, invece, ad una «riforma razionale del sistema delle autonomie locali»;
    in quella fase erano stati numerosi, altresì, i dubbi sull'utilità economica della paventata riforma «mascherata» da abolizione, rispetto alla quale la Corte dei conti nella sua relazione aveva affermato che «I risparmi effettivamente quantificabili sono di entità contenuta, mentre è difficile ritenere che una riorganizzazione di così complessa portata sia improduttiva di costi»;
    stando ai dati relativi ai costi delle province prima che il Governo Renzi intervenisse sulle stesse contenuti nell'aggiornamento al documento di economia e finanza di settembre 2013 e nel sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici raccolti dalla Unione delle province italiane aggiornati a marzo 2014, queste costavano meno di tutti gli altri enti, vale a dire l'1,27 per cento della spesa pubblica contro l'8 per cento dei comuni, il 20 per cento delle regioni, il 60 per cento delle amministrazioni centrali e l'11 per cento degli interessi sul debito pubblico, equivalenti, in termini assoluti, in 10 miliardi di euro spesi dalle province a fronte di 67 miliardi spesi dai comuni e 164 spesi dalle regioni;
    dei 10,2 miliardi di euro di spese la quasi totalità era destinata all'erogazione di servizi essenziali alla popolazione, servizi necessari la cui prestazione a legislazione vigente non è certo scomparsa, a meno di non voler abbandonare le strade provinciali a sé stesse più di quanto non lo siano al momento o bloccare la costruzione di istituti superiori e licei, o fermare il funzionamento degli istituti scolastici provinciali;
    quello che sta accadendo, invece, in seguito ai maldestri interventi di riforma da parte del Governo è proprio questo, posto che dal 2013 al 2016 le entrate delle province sono scese del 43 per cento e la spesa complessiva si è quasi dimezzata, con una diminuzione del 47 per cento;
    inoltre, l'82 per cento delle entrate proprie vengono sottratte dai territori e trattenute nel bilancio dello Stato, in palese violazione del dettato costituzionale, che all'articolo 119 prevede che tali entrate siano destinate a finanziare i servizi locali;
    nell'ottica della riduzione delle funzioni attribuite alle province, già con la legge di stabilità per il 2015, a carico delle province è stato disposto un contributo alla finanza pubblica di 1 miliardo nel 2015, 1 miliardo nel 2016 e 1 miliardo nel 2017, cui si è aggiunta l'estensione al 2018 del contributo già previsto dal decreto-legge n. 66 del 2014 di 585,7 milioni di euro;
    tali contributi si configurano come un vero e proprio prelievo di risorse dai bilanci delle province, una sottrazione di risorse proprie derivanti dalle entrate dai tributi locali, incoerente rispetto all'articolo 199 che prevede che le stesse siano destinate alla copertura integrale delle funzioni attribuite;
    il presidente dell'Unione delle province ha affermato in proposito che si tratta di «un quadro scoraggiante, che oltre a rappresentare chiaramente lo stato di crisi finanziaria delle province dimostra come da tre anni a questa parte ci sia stato impedito di fare programmazione. La nostra capacità di investimento è crollata del 62 per cento e il patrimonio pubblico che gestiamo, 130 mila chilometri di strade e tutte le 5.100 scuole superiori italiane, si sta deteriorando in maniera pericolosa»;
    il Comitato direttivo dell'Unione delle province d'Italia, riunitosi a Roma il 1o giugno 2017, ha stigmatizzato come il decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, recante disposizioni urgenti in materia finanziaria, e iniziative a favore degli enti territoriali, che avrebbe dovuto destinare finanziamenti aggirativi alle province per assicurarne lo svolgimento delle funzioni fondamentali e i servizi alle popolazioni residenti abbia «previsto risorse assolutamente insufficienti a garantire la sicurezza della viabilità, dell'edilizia scolastica e della tutela ambientale»;
    la carenza di risorse che grava sulle province sta impedendo lo svolgimento delle funzioni fondamentali ad esse spettanti,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative per destinare alle province le risorse sufficienti ad assicurare la piena erogazione dei servizi a favore delle comunità, secondo parametri che identifichino i fabbisogni finanziari reali e consentire l'avvio dei cantieri per le opere di messa in sicurezza delle scuole, delle strade e del territorio, promuovendo lo sviluppo dell'economia locale;

2) ad adottare le iniziative opportune affinché le province siano dotate della necessaria autonomia organizzativa e siano messe in condizioni di predisporre un bilancio triennale che consenta la programmazione dell'attività amministrativa;

3) ad assumere iniziative per lasciare nei bilanci delle province le entrate derivanti dalla riscossione dei tributi locali e dai risparmi conseguiti nell'esercizio delle proprie attività, affinché le stesse possano reimpiegarle nei servizi alla collettività, nel rispetto del dettato costituzionale.
(1-01650)
«Rampelli, Cirielli, La Russa, Giorgia Meloni, Murgia, Nastri, Petrenga, Rizzetto, Taglialatela, Totaro».
(22 giugno 2017)

INTERROGAZIONI A RISPOSTA IMMEDIATA

  FRANCO BORDO, FOLINO, MOGNATO, LAFORGIA, SPERANZA, SCOTTO, ROBERTA AGOSTINI, ALBINI, BERSANI, BOSSA, CAPODICASA, CIMBRO, D'ATTORRE, DURANTI, EPIFANI, FAVA, FERRARA, FONTANELLI, FORMISANO, FOSSATI, CARLO GALLI, KRONBICHLER, LEVA, MARTELLI, MATARRELLI, MELILLA, MURER, NICCHI, GIORGIO PICCOLO, PIRAS, QUARANTA, RAGOSTA, RICCIATTI, ROSTAN, SANNICANDRO, STUMPO, ZACCAGNINI, ZAPPULLA, ZARATTI e ZOGGIA. – Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. – Per sapere – premesso che:
   i vertici del gruppo Ferrovie dello Stato S.p.a, società a partecipazione pubblica chiamata a garantire il diritto alla mobilità, hanno da qualche tempo spostato il campo delle attività dell'azienda dalle reti ferroviarie ai mezzi di trasporto su gomma;
   in particolare, Ferrovie dello Stato S.p.a, attraverso la controllata Busitalia, è già in controllo dei mezzi pubblici di città come Firenze e Padova e gestisce i trasporti lacuali, come quelli del lago Trasimeno;
   ancora di recente, Ferrovie dello Stato S.p.a ha rilevato il 36,7 per cento di M5 S.p.a, diventando l'azionista di maggioranza. La società ha, infatti, acquistato la quasi totalità della quota di Astaldi, il costruttore dell'opera, che ha mantenuto il 2 per cento;
   si tratta di operazioni che hanno richiesto, nonostante gli ingenti contributi pubblici che Ferrovie dello Stato S.p.a riceve dallo Stato, l'attivazione di strumenti finanziari a debito, come la recente emissione obbligazionaria da 1 miliardo di euro;
   il diritto alla mobilità ferroviaria, ad avviso dei firmatari del presente atto, e in particolare quella a carattere pendolare, subisce di giorno in giorno un progressivo deterioramento, come peraltro denunciato da alcune forze sindacali (Fit-Cisl Toscana e Lombardia) che lamentano condizioni sempre più critiche come ad esempio treni senza aria condizionata a 40 gradi centigradi e ritardi continui –:
   se ritenga coerenti con gli obiettivi della politica nazionale dei trasporti, in particolare con il sistema nazionale delle infrastrutture di trasporto per il potenziamento della mobilità ferroviaria a carattere pendolare, nonché con una sana e prudente gestione finanziaria di una società partecipata dallo Stato, i recenti orientamenti strategici assunti dai vertici del gruppo Ferrovie dello Stato italiano nello spostare il campo delle attività dell'azienda dalle reti ferroviarie ai mezzi di trasporto su gomma. (3-03109)
(27 giugno 2017)

  RABINO. – Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. – Per sapere – premesso che:
   pensata decenni fa e intrapresa su iniziativa dell'Anas, l'autostrada A33, Asti-Cuneo, successivamente affidata ad una società concessionaria compartecipata è rimasta incompiuta per la mancata realizzazione di due lotti centrali, 2.5 e 2.6, ed è concretamente inutilizzabile;
   con le conferenze dei servizi, svoltesi il 14 marzo e il 19 aprile 2012, venne concordata tra enti locali, concessionario ed Anas una sostanziale modifica al lotto 2.5, che riduceva sensibilmente il costo dell'opera, ma da allora nessun atto concreto è stato compiuto;
   quella che lo stesso Ministro interrogato ha definito «l'ennesima incompiuta», attende la costruzione dei due lotti mancanti in corrispondenza della città di Alba che la renderebbero totalmente percorribile e fruibile da un numero di veicoli certamente superiore a quello attuale e che oggi risulta ovviamente scarso rispetto alle attese del concessionario, proprio a causa dell'incompiutezza dell'infrastruttura;
   allo studio ci sono state tre ipotesi di completamento, quello con galleria a due canne, quello ad una canna sola e quello senza galleria, quest'ultima, secondo quanto affermato dal Ministro interrogato in quest'aula il 18 gennaio 2017, dovrebbe essere la soluzione prescelta, per il minor costo – circa 300 milioni di euro – e per i tempi di realizzazione stimati in 37 mesi;
   a quanto si apprende da fonti di stampa, nei giorni scorsi è stato raggiunto un accordo di massima per la proroga di 4 anni, quindi fino al 2028, della concessione della Torino-Milano al gruppo Gavio. Con gli utili derivanti dovrebbe essere finanziato il completamento dell'Asti-Cuneo, senza toccare la voce pedaggi –:
   se l'accordo relativo al completamento della Asti-Cuneo con le istituzioni europee e il concessionario è stato definito e quando avranno inizio i lavori, specificando quale soluzione progettuale verrà adottata. (3-03110)
(27 giugno 2017)

  GRIBAUDO, TARICCO, CINZIA MARIA FONTANA e BINI. – Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. – Per sapere – premesso che:
   l'autostrada A33 Asti-Cuneo rappresenta un'infrastruttura fondamentale per il collegamento e lo sviluppo dei due capoluoghi piemontesi;
   essa è gestita dall'Autostrada Asti-Cuneo SpA, controllata dal gruppo Gavio, costituita il 23 marzo 2006, in qualità di concessionaria del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e per effetto della convenzione di concessione approvata con decreto interministeriale del 21 novembre 2007;
   il primo finanziamento per la costruzione dell'opera risale a 17 anni fa per il tramite della legge n. 295 del 1998;
   la costruzione dell'Asti-Cuneo è ferma da anni nel tratto Roddi-Cherasco e nell'area di Verduno a causa della mancanza di accordo sul progetto definitivo, per il quale sono state previste negli anni tre soluzioni alternative con costi molto diversi fra loro;
   il Ministro Graziano Delrio il giorno lunedì 6 marzo 2017 durante la sua visita a Cuneo ha dichiarato possibile terminare l'infrastruttura in tre anni nel caso di accordo con il concessionario, ipotizzando come maggiormente plausibile, visti i minori costi, la soluzione esterna alla collina di Verduno; ha affermato inoltre che un'ipotesi di accordo con la concessionaria sarebbe stata possibile entro giugno 2017;
   recentemente, la società concessionaria ha comunicato ai privati interessati la sospensione degli espropri nel lotto 2.6;
   in base a quanto riportato dai media il giorno 19 giugno 2017, il Ministero avrebbe trovato la disponibilità della Commissione Europea alla proroga delle concessioni autostradali a Satap, controllata del gruppo Gavio, che consentirebbe il finanziamento della costruzione del tratto mancante dell'Asti-Cuneo –:
   quali siano, alla luce dell'incontro con la Commissione Europea e di quanto riportato dai media, le novità in merito al finanziamento e ai tempi previsti per la costruzione del tratto mancante dell'autostrada A33 Asti-Cuneo da tempo atteso dalla comunità piemontese e fondamentale per lo sviluppo del Nord-Ovest. (3-03111)
(27 giugno 2017)

  PRESTIGIACOMO. – Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. – Per sapere – premesso che:
   l'articolo 11 del decreto legislativo 4 agosto 2016, n. 169 prevede che i comitati di gestione siano composti dal Presidente dell'Autorità di sistema portuale; da un componente designato dalla regione o da ciascuna regione il cui territorio è incluso, anche parzialmente, nel sistema portuale; da un componente designato dal sindaco delle città metropolitane ove presente; da un componente designato dal sindaco dei comuni ex sede di autorità portuale inclusi nell'AdSP e da un rappresentante dell'autorità marittima designato dalle direzioni marittime competenti per territorio;
   allo stato attuale non si è ancora provveduto alla pubblicazione del decreto ministeriale 25 gennaio 2017 che fissa la sede dell'autorità portuale del Mar di Sicilia Orientale nel porto di Catania provocando in questo modo uno stallo di tutta l'attività dell'intero sistema portuale della regione siciliana;
   nell'Autorità di sistema portuale del mar di Sicilia orientale non si è ancora provveduto alla costituzione del comitato di gestione e, secondo quanto consta all'interrogante, sembra che si voglia procedere alla nomina del sindaco di Catania in rappresentanza del proprio ente pur non avendo, ad avviso dell'interrogante, i requisiti necessari per rivestire un ruolo all'interno del medesimo comitati;
   l'auto-designazione dei sindaci, come riportato dalle maggiori agenzie di stampa, è già avvenuta in altre autorità portuali in contrasto a quanto stabilito dalla circolare del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti nella quale si evince chiaramente che «nel comitato di gestione dovranno far parte soggetti aventi competenza professionale omogenea a quella del Presidente dell'AdSP, con la conseguenza che vanno escluse esperienze legate esclusivamente a incarichi politici e/o istituzionali e comunque quelle non riferite ai settori dell'economia dei trasporti e portuale»;
   la situazione di completo immobilismo che sta coinvolgendo l'autorità portuale citata è aggravata dal fatto che nella riforma delle autorità portuali, la nomina del segretario generale, figura essenziale per lo svolgimento delle attività delle stesse autorità, è legata all'insediamento del comitato di gestione ai sensi dell'articolo 11, comma 5, lettera m) del decreto legislativo n. 169 del 2016 –:
   quali iniziative di sua competenza il Ministro interrogato intenda intraprendere al fine di garantire il regolare svolgimento dell'attività dell'autorità portuale del Mar di Sicilia orientale attraverso la pubblicazione del decreto ministeriale 25 gennaio 2017 e l'insediamento del comitato di gestione. (3-03112)
(27 giugno 2017)

  GAROFALO. – Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. – Per sapere – premesso che:
   nel mese di giugno l'Istat ha rivisto in netto rialzo la crescita del primo trimestre del 2017, con un PIL in aumento dell'1,2 per cento su base annua, il rialzo più forte da ben sette anni. Anche le stime della Banca d'Italia, basate su fonti di tipo diverso, convergono sulle medesime valutazioni;
   è necessario tuttavia guardare più da vicino ai dati macroeconomici, per ricavare un quadro più chiaro dei punti di forza e dei punti di debolezza dell'azione di governo e trarne indicazioni sull'apporto che il governo del Paese deve ancora dare al rilancio dell'economia;
   se è da salutare senz'altro favorevolmente la recente decisione governativa di destinare 47 miliardi ad investimenti infrastrutturali, tuttavia rimangono vischiosità che impediscono l'effettiva traduzione di queste decisioni di spesa in spesa reale;
   i più recenti dati sui bandi di gara per investimenti infrastrutturali (ANCE, maggio 2017) ci dicono che ad un anno dall'entrata in vigore del nuovo codice degli appalti, si registra una frenata sia nel numero (-4,7 per cento) che nel valore posto in gara (-10,8 per cento) rispetto ad aprile 2016;
   se si scompone questo dato, risulta che a fronte di un andamento positivo per Ferrovie, si ha una performance negativa nei bandi di gara pubblicati da ANAS. In particolare su quest'ultima si stanno scaricando gli effetti di gravi ritardi negli adempimenti istituzionali, a partire dalla mancata approvazione del contratto di programma;
   alla luce di importanti studi sugli impatti macroeconomici connessi alla realizzazione di infrastrutture (fra gli altri, Banca d'Italia, 2012, Deloitte-LUISS, 2015), ci si domanda quale effetto sul PIL si registrerebbe oggi se anche in questo fondamentale comparto economico si potesse osservare quella ripresa che invece ancora non sembra esserci;
   secondo il Fondo Monetario Internazionale un aumento permanente dell'1 per cento degli investimenti in infrastrutture produrrebbe un aumento del Pil a breve dello 0,4 per cento –:
   quali azioni – al di là degli scenari delineati nell'Allegato infrastrutture al DEF – intenda intraprendere per la ripresa delle gare, per la effettiva cantierizzazione di opere infrastrutturali, per la garanzia di una efficiente regìa del Ministero, soprattutto nelle principali opere trasportistiche essenziali allo sviluppo del Paese, favorendo una razionale individuazione delle priorità, aumentando l'informazione a disposizione degli investitori privati sui progetti infrastrutturali e sulla loro potenziale profittabilità e valorizzando l'effetto leva dei fondi pubblici, europei e nazionali. (3-03113)
(27 giugno 2017)

  GUIDESI, FEDRIGA, ALLASIA, ATTAGUILE, BORGHESI, BOSSI, BUSIN, CAPARINI, CASTIELLO, GIANCARLO GIORGETTI, GRIMOLDI, INVERNIZZI, MOLTENI, PAGANO, PICCHI, GIANLUCA PINI, RONDINI, SALTAMARTINI e SIMONETTI. – Al Ministro per lo sport. – Per sapere – premesso che:
   è notizia pubblicata su diversi quotidiani quella dell'apertura di un'inchiesta per danno erariale da parte della Corte dei Conti nei confronti del Comitato a sostegno della candidatura di Roma ai giochi olimpici 2024;
   anche al Coni, alla cui presidenza è stato appena riconfermato per il secondo quadriennio Giovanni Malagò, i conti sembrano non tornare; si parla di cifre folli, undici milioni di euro la crescita dei debiti dal 2015 al 2016, 18 milioni per sole forniture, metà da parte dei Comitati territoriali;
   già con diversi atti di sindacato ispettivo il gruppo della Lega Nord e Autonomie ha chiesto delucidazioni in merito alle suddette spese, con un elenco dettagliato degli interventi che con le medesime somme potrebbero essere realizzati per l'impiantistica sportiva di base quali maggiori e migliori servizi ai cittadini –:
   se il Ministro interrogato non ritenga doveroso verificare quanto pubblicato a mezzo stampa e nella fattispecie su dove e per cosa siano state spesi i soldi pubblici, nonché assumere elementi, per quanto di competenza, in ordine alla regolarità delle procedure di affidamento di gara o dirette.
(3-03114)
(27 giugno 2017)

  GIGLI. – Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. – Per sapere – premesso che:
   il 13 giugno 2017, il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, congiuntamente con il Ministero della salute, ha pubblicato il decreto interministeriale con il quale si identificano i requisiti e gli standard per ogni tipologia di Scuola di Specializzazione medica, nonché gli indicatori di attività formativa ed assistenziale necessari per le singole strutture di sede e per la rete formativa di ognuna di esse, prevedendo l'aggiornamento annuale della relativa Banca Dati, quale riferimento ai fini della istituzione, accreditamento e attivazione delle Scuole di specializzazione;
   prende avvio una opportuna e complessa fase adeguamento e riordino delle Scuole, in modo da meglio assolvere alla loro mission formativa;
   gli standard, i requisiti e gli indicatori di performance previsti nel decreto trovano immediata applicazione;
   tutte le scuole dovranno sottoporsi alla procedura di accreditamento, con possibilità che lo stesso venga negato con esclusione dal prossimo bando per i contratti di formazione medica specialistica, oppure con la concessione di un termine massimo di due anni per l'adeguamento;
   in tutti gli atenei italiani e in molte aziende sanitarie si è messa in moto una complessa macchina, per la quale il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca dal 22 giugno ha aperto la Banca dati sull'offerta formativa delle Scuole di specializzazione, disponibile per la compilazione da parte degli atenei fino al 3 luglio;
   appare evidente la volontà di allineare alla procedura di accreditamento il prossimo bando per i contratti, del quale è prevista la pubblicazione in settembre, completando le selezioni del concorso nazionale in tempo per l'inizio del prossimo anno accademico;
   a parere dell'interrogante non mancano errori, incongruenze, contraddizioni, che ignorano la situazione di prolungata sofferenza degli Atenei Italiani;
   appare assurda la presunzione di contare su un attendibile flusso informativo nell'arco di soli 10 giorni, facendo temere la paralisi del sistema oppure il mancato controllo delle dichiarazioni eventualmente erronee o mendaci;
   alcuni dei dati richiesti sono ancora codificati a mano dalle Aziende sanitarie o comunque non sono estraibili dai programmi gestionali delle aziende sanitarie se non a seguito di procedure farraginose;
   apparirebbe, quindi, necessario uno slittamento di almeno tre mesi per l'immissione dei dati, sganciando la procedura di accreditamento dal prossimo bando per i contratti di formazione 2017-2018, prevedendone fin d'ora l'applicazione al concorso per l'anno accademico 2018-2019 –:
   quali iniziative di competenza intenda intraprendere il Ministro interrogato, per evitare quanto su esposto, evitando situazioni che non potrebbero che essere caotiche e foriere di gravi errori.
(3-03115)
(27 giugno 2017)

  AIRAUDO, PANNARALE e MARCON. – Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. – Per sapere – premesso che:
   il dipartimento di Agraria dell'Università di Torino non avrebbe rinnovato il contratto di una sua ricercatrice, Barbara Dal Bello, in ragione del suo stato di gravidanza;
   ufficialmente il mancato rinnovo non è legato alla maternità, ma la ricercatrice ha dichiarato che il Dipartimento pur avendo messo in previsione un fondo per rinnovarle la collaborazione, dopo aver appreso che era incinta l'ha liquidata dicendole: «Le cose cambiano»;
   la ricercatrice ha raccontato che, come gestante, non poteva più lavorare nei laboratori dove svolge di solito i suoi studi a causa dei solventi organici che vengono utilizzati, ma poteva essere applicata per molte altre attività;
   per oltre 15 anni, la sua carriera presso l'Ateneo torinese è stata fatta di collaborazioni continuative: dopo il dottorato ha avuto per quattro anni assegni di ricerca, mentre negli ultimi due borse di studio, da 1.100 euro netti al mese, che non le danno diritto alla maternità e all'indennità di disoccupazione;
   la ricercatrice ha denunciato il suo caso allo «Sportello precari» dell'Università di Torino, voluto dal Coordinamento Ricercatori Non Strutturati (CRNSU-TO) e dalla Flc Cgil, ed è uno dei tanti di cui si è discusso il 16 giugno all'assemblea nazionale dei precari della ricerca convocata a Torino;
   infatti i ricercatori precari sono una realtà molto diffusa: hanno titoli e grande competenza professionale, ma sono precari, non fanno carriera, guadagnano poco rispetto alle loro qualifiche e, quando sono donne, sono discriminate se fanno un figlio;
   il rettore dell'Ateneo, professor Gian Maria Ajani, ha dichiarato che più volte è stato denunciato un vuoto normativo: «Uno dei problemi della precarietà negli atenei è che c’è una vera giungla di contratti, ma sono pochi quelli dove ci sono diritti e garanzie». Sulla vicenda della ricercatrice spiega: «Al termine del suo contratto non è previsto nessun tipo di tutela, diverso sarebbe se avesse avuto un assegno di ricerca, ma purtroppo lei aveva già usufruito per il numero massimo di anni di questo tipo di contratto. Come atenei abbiamo le mani legate, è necessario un intervento del governo e del legislatore che abbiamo già chiesto in tante occasioni» –:
   quali iniziative intenda assumere, anche di concerto con gli altri soggetti istituzionali coinvolti, in relazione a casi come quello della ricercatrice Dal Bello, per porre un limite alla precarietà e alla discriminazione nel settore della conoscenza, attraverso un piano di stabilizzazione e di riconoscimento delle competenze dei giovani ricercatori. (3-03116)
(27 giugno 2017)

  SEGONI, ARTINI, BALDASSARRE, BECHIS e TURCO. – Al Ministro dello sviluppo economico. – Per sapere – premesso che:
   nell'anno 2016, la bolletta elettrica è risultata più cara per gli italiani anche a causa dell'importante aumento di una sua componente: il cosiddetto «uplift» e i costi per il sistema, riconducibili solo a questa voce, sono stati pari a due miliardi e duecento milioni di euro, a fronte di un importo per il 2015 di un miliardo e due, quasi un raddoppio da un anno all'altro;
   a partire dal mese di marzo 2016 si è assistito ad una progressiva impennata dei prezzi nel mercato dei servizi di dispacciamento nell'area Sud, dovuti essenzialmente alle offerte accettate da Terna sugli impianti di Brindisi Sud (Enel) e di Modugno Palo del Colle (Sorgenia): il costo complessivo dei primi 5 mesi del mercato dei servizi di dispacciamento (msd) 2016 arrivava a circa 600 milioni di euro contro i circa 150 milioni di euro del 2015;
   Enel e Sorgenia hanno spento le centrali in Puglia, perché consapevoli che Terna avrebbe dovuto comunque fare appello alla loro produzione nell'area, che avrebbero potuto offrire a prezzi altissimi. Solo per gli impianti Enel di Brindisi, nel 2016 gli extra costi per il sistema sono stati pari a 400 milioni di euro in bolletta e proprio questi presunti fenomeni speculativi su MSD rientrano fra le cause dell'aumento del 4,3 per cento della bolletta per il trimestre luglio-settembre; tale vicenda è stata illustrata sulla stampa, di settore e generalista, con numerosi articoli, per ultimo sul quotidiano nazionale La Notizia del 12 maggio 2017;
   ora, l'Autorità ha avviato una serie di procedimenti per recuperare quelli che ritiene i sovracosti per il sistema, ma solo dai trader e non anche dai produttori, reali responsabili, per i quali si è limitata nella sola segnalazione all'Antitrust senza alcun recupero di risorse per l'anno 2016;
   l'analisi storica del periodo 2012-2016 dimostra che gli sbilanciamenti di tutti i trader hanno rappresentato il 6 per cento del totale, a fronte del 94 per cento dei costi indotti dai soli produttori. Ma i colpevoli per l'Autorità per l'energia elettrica, il gas e il sistema idrico a cui chiedere la restituzione delle risorse sono solo i trader e non anche i produttori;
   l'Autorità, ad avviso degli interroganti, ha sostanzialmente «assolto» Enel, chiudendo il procedimento n. 342 del 2016 in data 5 maggio 2017;
   la strategia dell'ex monopolista, peraltro controllato dal Governo, che ne nomina i vertici, ha portato a un aggravio di quasi un miliardo di euro sulle bollette di tutti i cittadini italiani, ma vengono sanzionati solo i trader –:
   quali iniziative di competenza, anche normative, il Governo intenda assumere per cercare di sanare questa ingiusta situazione e trovare un modo per restituire agli italiani quanto speso ingiustamente, incamerato principalmente dai produttori nell'anno 2016. (3-03117)
(27 giugno 2017)

  MUCCI. – Al Ministro dello sviluppo economico. – Per sapere – premesso che:
   l'articolo 6, comma 1, del decreto-legge n. 145 del 23 dicembre 2013, cosiddetto «Destinazione Italia» prevede l'adozione di interventi per il finanziamento a fondo perduto alle PMI, tramite voucher di importo non superiore a 10.000 euro, per l'acquisto di software, hardware o servizi per il miglioramento dell'efficienza aziendale, la modernizzazione dell'organizzazione del lavoro, la connettività a banda larga e ultralarga, la formazione qualificata del personale;
   il comma 2 rimette a un decreto del Ministero dell'economia e delle finanze la determinazione dell'ammontare dell'intervento nella misura massima di 100 milioni di euro, a valere sulle risorse della programmazione 2014-2020 o della collegata pianificazione dei fondi strutturali comunitari. La somma è ripartita dal Cipe tra le regioni in misura proporzionale al numero delle imprese registrate presso le camere di commercio di ciascuna regione;
   il successivo comma 3 prevede che, con decreto del Ministero dello sviluppo economico di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze, siano stabiliti lo schema standard di bando e le modalità di erogazione dei suddetti contributi;
   con decreto ministeriale 23 settembre 2014 sono stabilite le modalità di attuazione relative al contributo di cui all'articolo 6 del decreto-legge «Destinazione Italia». L'articolo 8 di tale decreto ministeriale rinvia ad un decreto del direttore generale per gli incentivi alle imprese del Ministero dello sviluppo economico la definizione dei moduli per la domanda di accesso al contributo e dei termini di apertura dello sportello telematico, oltre all'indicazione del riparto su base regionale delle risorse finanziarie disponibili;
   con decreto ministeriale 7 luglio 2016 è determinato in circa 32 milioni di euro l'ammontare delle risorse per la digitalizzazione dei processi aziendali e l'ammodernamento tecnologiche delle PMI a carico della programmazione 2014-2020, ripartite dal Cipe tra le regioni «meno sviluppate» e «in transizione». L'individuazione delle restanti risorse per le altre regioni, a valere sul fondo sviluppo e coesione, è demandata ad apposita delibera Cipe che ne definisce anche le modalità di ripartizione;
   l'ufficio investimenti per l'ambiente, le imprese e le aree urbane del Cipe ha reso noto che la delibera attesa da parte del Cipe era prevista all'ordine del giorno del 3 marzo 2017, dal quale però è stata espunta –:
   quali iniziative si intendano adottare affinché venga al più presto emanata la delibera Cipe per determinare l'ammontare delle risorse per favorire la digitalizzazione dei processi aziendali e l'ammodernamento delle PMI nelle restanti regioni italiane, rendendo finalmente operativi i suddetti finanziamenti non solo nel Mezzogiorno ma anche nelle regioni del centro-nord. (3-03118)
(27 giugno 2017)

  TAGLIALATELA, RAMPELLI, CIRIELLI, LA RUSSA, GIORGIA MELONI, MURGIA, NASTRI, PETRENGA, RIZZETTO e TOTARO. – Al Ministro dello sviluppo economico. – Per sapere – premesso che:
   in Campania il comparto aeronautico ha storicamente una presenza industriale significativa, soprattutto per effetto della presenza sul territorio di numerosi stabilimenti facenti parte del gruppo Alenia Finmeccanica;
   nella primavera del 2015, dopo una lunga trattativa che ha visto coinvolti sindacati e parti imprenditoriali, si è pervenuti alla cessione della Alenia Aermacchi in favore di una nuova società, la Atitech Manufacturing srl, partecipata da Finmeccanica, con il passaggio dei circa centottanta dipendenti a tempo indeterminato e dei capannoni industriali realizzati nell'aria aeroportuale di Capodichino;
   tale cessione era stata decisa anche per effetto di un accordo tra le parti datoriali e sindacali nel quale la nuova proprietà si impegnava entro dicembre 2015 al passaggio dei dipendenti ed alla incorporazione della Atitech Manufacturing srl in Atitech spa, anche essa partecipata Finmeccanica;
   tale accordo prevedeva uno sviluppo industriale che doveva garantire non solo il mantenimento, ma anche l'aumento dei livelli occupazionali, soprattutto grazie a nuove commesse esterne ad Alenia Aermacchi;
   alla data odierna alcuno dei due impegni sottoscritti ha avuto effettiva concretizzazione e, anzi, lo scorso 19 giugno l'azienda ha ufficialmente comunicato che «tutto il personale sarà interessato dalla CIGS e pertanto verrà sospeso e posto in regime di cassa integrazione straordinaria a partire da giovedì 22 giugno»;
   la crisi della Atitech Manufacturing e della stessa Atitech SpA sarebbe da ricondurre alla mancata assegnazione di alcune commesse promesse da Alitalia –:
   quali iniziative intenda assumere al fine di salvaguardare i livelli occupazionali dell'azienda e per preservare l'eccellenza nella manutenzione aeronautica realizzata in Campania. (3-03119)
(27 giugno 2017)

  DIENI, DADONE, PARENTELA, NESCI, COZZOLINO, CECCONI, D'AMBROSIO e TONINELLI. – Al Ministro dell'interno. – Per sapere – premesso che:
   l'articolo 11, comma 1 del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 prevede che «sono sospesi di diritto dalle cariche indicate al comma 1 dell'articolo 10: a) coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all'articolo 10, comma 1, lettera a), b) e c)» tra cui rientrano quelli commessi ai sensi dell'articolo 323 del codice penale;
   la Corte di Cassazione civile sezioni unite con ordinanza, 28 maggio 2015, n. 11131 ha precisato che in tema di enti pubblici locali, la sospensione dalla carica elettiva, a norma dell'articolo 11 del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, consegue direttamente ed esclusivamente alla condanna penale dell'eletto, in quanto il decreto prefettizio che accerta la sussistenza della causa di sospensione è provvedimento non discrezionale, ma vincolato che si limita ad accertare l'effetto di sospensione prodotto ope legis e non ha, dunque, efficacia costitutiva;
   nella città Villa San Giovanni (RC), a seguito delle elezioni dell'11 giugno 2017 Giovanni Siclari otteneva più voti rispetto agli altri candidati sindaco e in data 12 giugno alle ore 21,00 circa, il presidente della prima sezione elettorale lo proclamava vincitore;
   Siclari nominava immediatamente Maria Grazia Richichi vicesindaco;
   Giovanni Siclari il 10 novembre 2016, ricoprendo la carica di assessore, era tuttavia stato condannato in primo grado dal Collegio del Tribunale Penale di Reggio Calabria, per abuso di ufficio in concorso con il sindaco di allora ed altri membri dell'amministrazione;
   in conseguenza di tale condanna già il 12 novembre 2016, il prefetto comunicava la «sussistenza della causa di sospensione» nei suoi confronti;
   in data 13 giugno 2017, secondo quanto comunica la prefettura, dopo la proclamazione, è stato tempestivamente adottato il provvedimento di sospensione dalla carica del neo eletto sindaco di Villa San Giovanni;
   come ricordato, la sospensione dalla carica elettiva, secondo l'articolo 11 del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, consegue alla condanna penale dell'eletto e non al provvedimento del prefetto e dunque il decreto di nomina del vicesindaco adottato da un sindaco già sospeso ope legis, peraltro già precedentemente sospeso da altra carica, andrebbe considerato nullo per difetto assoluto di attribuzione –:
   se sia a conoscenza dei fatti esposti in premessa e se non intenda adottare ogni iniziativa di competenza volta a chiarire in maniera univoca gli effetti di situazioni quali quella segnalata in premessa.
(3-03120)
(27 giugno 2017)

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