Frontespizio Relazione Progetto di Legge
XVII LEGISLATURA
 

CAMERA DEI DEPUTATI


   N. 523


PROPOSTA DI LEGGE
d'iniziativa dei deputati
ANTEZZA, BIONDELLI, SBROLLINI, BENAMATI, CARRA, COSCIA, D'INCECCO, FERRANTI, MANZI, QUARTAPELLE PROCOPIO, TARICCO, VALERIA VALENTE, ZAPPULLA
Istituzione del fondo nazionale per il cofinanziamento delle case e dei centri delle donne
Presentata il 25 marzo 2013


      

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Onorevoli Colleghi! La presente proposta di legge – che riproduce pressoché integralmente il testo del disegno di legge presentato sia nella XV legislatura (atto Senato 658) che nella XVI (atto Senato 809), recante l'istituzione del fondo di cofinanziamento per le case e i centri delle donne – è il frutto della cultura delle case e dei centri stessi, caratterizzata da un'attenzione agli aspetti che precedono, accompagnano e seguono la dimensione penale della violenza.
      Ci pare indispensabile prima di ogni cosa riportare la sintesi di uno studio del 1997, commissionato dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) a Linda Laura Sabbadini, inserito nell'indagine «La sicurezza dei cittadini». Scrive la Sabbadini che «una donna su due nel nostro Paese ha subìto nel corso della vita una violenza fisica, una telefonata oscena o un esibizionismo. 714.000 donne italiane hanno subìto stupri e un'infima parte è stata denunciata. Più di mezzo milione di donne hanno subìto ricatti sul lavoro. Emerge un panorama inquietante di un fenomeno in gran parte ancora sommerso. (...) E tutto ciò proprio in un momento in cui cresce la libertà femminile, cresce il livello culturale delle donne, la volontà di immettersi nel mondo del lavoro (...) Ed è per questo che il contrasto è ancora più stridente. Fin quando la vita delle donne aveva come baricentro della vita la casa, l'impatto era diverso ma, nella nuova fase di protagonismo femminile, i rischi aumentano e gli ostacoli sono maggiori». Fin qui l'indagine dell'ISTAT. Da ulteriori studi si è constatato che metà delle donne uccise lo sono per mano del loro marito o partner e negli ultimi anni si è avuto un aumento preoccupante di omicidi compiuti su donne. Ma questa è ancora violenza rumorosa, eclatante. Come lo è quella legata agli stupri etnici, alla prostituzione coatta, moderna forma di «tratta delle bianche». È purtroppo solo una minima parte delle violenze.
      La gran parte della violenza è però silenziosa e non si lascia rinchiudere, in modo rassicurante, nelle gabbie delle patologie o del mondo esterno cattivo. Le donne toccate dalla violenza, così come gli «autori» della violenza, sono di tutte le classi sociali, di tutte le età, di tutte le professioni e gran parte delle violenze avviene in famiglia.
      Le case e i centri delle donne ci dicono poi che i dati sono sempre in difetto rispetto alle realtà. Infatti nei maltrattamenti e negli abusi intrafamiliari una percentuale molto alta (la gran parte) non viene denunciata all'autorità giudiziaria o la denuncia segue spesso periodi così lunghi di violenza morale che poi (in particolare per violenze non di tipo sessuale) è molto difficile procedere.
      La presente proposta di legge nasce dal lavoro delle case e dei centri delle donne e dall'azione dei maggiori organismi, organizzazioni e istituzioni internazionali ed europei; la violenza contro le donne ed i bambini presenta sempre nuove facce, è necessario prevenirla e curare i suoi danni. Negli ultimi anni, si sono moltiplicate le prese di posizione, le raccomandazioni, le risoluzioni dell'ONU, dell'UNICEF, del Parlamento e del Consiglio europeo nonché del Consiglio d'Europa.
      Con la presente proposta di legge si vogliono sostenere concretamente la libertà di ogni singola donna ed una cultura di non violenza e di rispetto nei rapporti umani sia tra i sessi che tra adulti e bambini. Il nostro tempo offre grandi libertà e ricchezza nelle relazioni ma permangono contraddizioni antiche e ne esplodono di nuovissime. La libertà femminile non ha ancora trovato casa, abita solo delle stanze: questa è oggi la contraddizione moderna. La presente proposta di legge muove dalla consapevolezza che i processi di cambiamento possono essere anche interrotti. La violenza, oltre che un danno alle singole persone, alle donne e alle bambine, è anche un attacco al cambiamento.

Come i diritti delle donne e dei bambini diventano diritti umani.
      Dalla Quarta Conferenza internazionale sulle donne tenutasi a Pechino nel 1995 alla Conferenza mondiale di Stoccolma contro lo sfruttamento sessuale dei minori del 1996, dalle ultime iniziative dell'ONU a quelle europee, emergono una più matura elaborazione del fenomeno della violenza e una più forte assunzione di responsabilità. Il filo conduttore è dato dall'innestarsi di una nuova cultura dei diritti umani, inclusiva di quelli delle donne e delle bambine e bambini. Lo sguardo alla violenza diviene, allora, sempre più lo sguardo alla violazione dei loro diritti. La stessa concreta solidarietà a chi incontra la violenza, perché non rimanga – anche se è importante in sé – fenomeno momentaneo ed isolato, sollecita una più moderna concezione dei rapporti tra donne e uomini, una più elevata visione dell'infanzia e dell'adolescenza.
      Mehr Khan, direttore dell’International Child Development Centre ICDC dell'UNICEF, comunemente noto come «Centro di ricerca Innocenti», nell'editoriale di presentazione della ricerca che ha per titolo: «Violenza intrafamiliare contro le donne e le bambine», scrive: «Le donne ed i bambini spesso corrono grandi pericoli proprio nel luogo in cui dovrebbero essere più al sicuro: nelle loro famiglie. Per molte e molti di loro, la casa è dominata da un regime di terrore e violenza per mano di qualcuno che è loro molto vicino, qualcuno nel quale dovrebbero poter aver fiducia. Le vittime soffrono fisicamente e psicologicamente. Non sono in grado di prendere le decisioni che le riguardano, dar voce alle loro opinioni o proteggere loro stesse e i loro bambini per paura delle ulteriori ripercussioni. I loro diritti umani vengono calpestati, e le loro vite vengono

annientate dalla costante minaccia della violenza». Queste considerazioni non paiono estremizzazioni di tesi radicali bensì, piuttosto, coerente svolgimento del lavoro intrapreso dall'insieme delle organizzazioni dell'ONU. Il tema della violenza, la sua stessa definizione non si sono presentati sempre allo stesso modo; ad esempio la Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW), adottata dall'ONU il 18 dicembre 1979 e ratificata dall'Italia ai sensi della legge 14 marzo 1985, n. 132, non citava i maltrattamenti contro il sesso femminile quale delitto specifico.
      Successivamente, già il Comitato di verifica dell'attuazione della Convenzione – come ricorda il citato studio dell'UNICEF – «adotta la Raccomandazione Generale n. 19, che afferma che la violenza contro le donne è una forma di discriminazione che inibisce la capacità di una donna di godere dei propri diritti e delle proprie libertà a pari titolo degli uomini, chiede che i governi tengano conto di questo aspetto nella revisione delle loro leggi e politiche».
      Ci sono poi negli anni immediatamente a seguire altri momenti significativi nei quali la comunità internazionale produce atti che modificano l'approccio alla violenza. Il primo atto è costituito dalla Conferenza mondiale sui diritti dell'uomo di Vienna del 1993. In quella sede si riconoscono i diritti delle donne e delle bambine come «parte inalienabile, integrale e inscindibile dei diritti umani universali». Il secondo atto, sempre nell'adozione delle dichiarazioni sulla eliminazione delle violenze contro le donne del 1993, è racchiuso nel documento approvato dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite. In questo documento si analizzano sia gli ambiti della violenza contro le donne, sia il tipo di violenza e, per la prima volta, in modo compiuto, la si definisce: la violenza contro le donne è «qualunque atto di violenza in base al sesso, o la minaccia di tali atti, che produca, o possa produrre, danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che privata delle donne». Ancora: «la violenza contro le donne è uno dei principali meccanismi sociali tramite i quali le donne vengono costrette in una posizione subordinata dagli uomini».

Mondo «normale»/mondi «particolari»: dimensione sociale della violenza e gerarchia dei rapporti.
      La violenza di cui ci si occupa non appartiene ad un mondo residuale, ad un mondo, quindi, posto ai margini di rapporti quotidiani improntati normalmente al rispetto reciproco in famiglia e nel lavoro o esclusivamente a mondi che esplodono in guerre o in crisi drammatiche. Certamente una parte di violenza è legata a questi mondi «particolari» ed essa ha toccato negli ultimi anni in modo terribile molte donne: pensiamo soltanto a ciò che è accaduto vicino a noi, ad esempio, nell’ex Jugoslavia, o alle molte ragazze, giovani, bambine, costrette da gruppi criminali a prostituirsi o a cadere nelle maglie terribili della tratta. La legge contro la prostituzione minorile, quale nuova forma di riduzione in schiavitù, prendeva le mosse proprio da questi nuovi drammatici fenomeni. Le case e i centri delle donne sempre più hanno sviluppato nuovi progetti per aiutare concretamente cittadine dell’ex Jugoslavia e di altre aree del mondo a fronteggiare sia in Italia sia nei loro Paesi le conseguenze degli stupri etnici, della guerra, o ragazze che vogliono uscire dalla prostituzione coatta o ragazze che si vogliono sottrarre all'infibulazione.
      Vivere in una realtà multietnica significa anche confrontarsi in modo complesso con tutte le sfaccettature della violenza: dalla libertà femminile alla cultura dell'infanzia.
      Ma, come dicevamo, c’è una connessione tra mondi particolari e mondo normale, sì che il filo che unisce insieme i tipi di violenza compiuti, nell'uno e nell'altro mondo, va a costruire una robusta trama in cui si cerca di impigliare l'identità individuale e collettiva delle donne e di congelare ruoli sociali e culturali.


      La violenza alle donne non è allora solo il frutto di un'aggressione individuale. Esiste una dimensione sociale della violenza alle donne. E il fatto che gran parte delle violenze si svolga in famiglia significa che la dimensione sociale attraversa la sfera relazionale familiare, includendo i rapporti coniugali e genitoriali.
      Se solo una infinitesima parte degli aggressori, tra mariti o partner, è affetta da alterazione più o meno momentanea (alcolisti, dissociati psichici, pregiudicati, tossicodipendenti) perché cittadini ritenuti assolutamente normali, di ogni professione e livello culturale, provano ad attaccare l'identità delle loro mogli o compagne? Perché provano, e spesso riescono, ad umiliarle e distruggerle?
      Molti studi dicono che la violenza sulle donne non è mai reazione ad un torto, e non è neanche soltanto lo sfogo maschile a proprie insoddisfazioni o frustrazioni. È molto di più e richiama un livello qualitativamente diverso. Attiene a profonde motivazioni culturali: ai modelli del rapporto tra i generi, tra le persone. Per questo la violenza oggi non è, purtroppo, frutto di arcaismi. La violenza, sia quella morale, psicologica, sia quella fisica, economica, sessuale, da parte del partner è piuttosto un modo per riappropriarsi di un ruolo a cui sono connessi privilegi e soprattutto di un ruolo gerarchicamente dominante.
      La violenza diventa quindi uno strumento usato contro la donna che non vuole riconoscere questo potere, questa gerarchia nei rapporti, così come ci è stata consegnata dal passato. Forse per questo la violenza non si ferma neanche di fronte alla gravidanza. Le donne che subiscono violenza, e spesso i loro figli, in virtù degli attacchi subìti, appaiono deboli, svuotati, «senza sogni» come è scritto in un bel documento del centro antiviolenza di Udine. Chi non ha maturato culturalmente e metodologicamente le cause e le conseguenze della violenza, come hanno fatto le case e i centri delle donne, sviluppando metodologie raffinate nella stessa accoglienza, potrebbe ritenere che la debolezza momentanea di chi ha subìto la violenza sia la causa della violenza stessa, e potrebbe essere indotto a puro pietismo. All'opposto la debolezza va considerata uno stato momentaneo provocato da un attacco subìto. Questa competenza è stata maturata attraverso l'accoglienza concreta di tantissime donne e il lavoro e le competenze di prim'ordine di psicologhe, assistenti sociali, psicoanaliste, avvocate, insegnanti e magistrate.
      Proprio per questo la presente proposta di legge mira ad attuare i princìpi dell'inviolabilità, della dignità e della libertà della persona di cui agli articoli 2, 3 e 13 della Costituzione.

Violenza diretta e indiretta: dall'indifferenza ai diritti.
      Ogni tipo ed ogni grado di violenza sessuale, psicologica, fisica, economica viene ritenuto dalla presente proposta di legge un attacco all'inviolabilità della persona e quindi alla sua libertà.
      Conseguentemente, si afferma con nettezza che chiunque subisce tale attacco ha diritto ad un sostegno temporaneo al fine di ripristinare la propria inviolabilità e di riconquistare la propria libertà, nel pieno rispetto della riservatezza e dell'anonimato.
      Alle donne che, nell'affermazione della loro libertà, identità individuale e di genere incontrano l'ostacolo della violenza, nelle sue diverse forme, sia nella loro vita affettiva e familiare che nella vita sociale e lavorativa è assicurato dalla presente proposta di legge il diritto, eventualmente con i propri figli, all'accoglienza, alla solidarietà, al sostegno e alle competenze offerte dalle case e dai centri delle donne.
      Il diritto è assicurato in modo gratuito ad ogni donna, cittadina italiana o cittadina straniera, quale sia la sua razza, etnia, religione o luogo di provenienza e di residenza.
      In questi ultimi decenni non solo sono stati compiuti atti decisivi nel riconoscere la violenza come intollerabile attacco alla persona – in Italia è stato veramente un momento alto della storia delle donne del nostro Paese e di una moderna cultura sull'infanzia l'approvazione della legge

contro la violenza sessuale e contro la prostituzione minorile concepita come nuova forma di riduzione in schiavitù – ma si sono compiuti passi in avanti anche nella consapevolezza di una precisa responsabilità della comunità, sia della società civile che dello Stato, nel prevenire e curare i danni della violenza contro le donne ed i bambini.
      In effetti come si evince da uno studio del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (CNEL) il primo grado di comprensione del fenomeno parte da una presa di distanza dall'indifferenza, definita da Robustelli dell'istituto di psicologia del Consiglio nazionale delle ricerche, come violenza indiretta «perché l'indifferenza, in quanto permette la violenza diretta, non la contrasta, non la combatte, non tenta di eliminare o diminuire le sofferenze di coloro su cui essa è esercitata» e quindi «non può non essere considerata a sua volta una forma di autentica violenza».
      Sono questi i concetti che si ritrovano in un significativo articolo di Radhika Coomaraswamy, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne: «In base alla normativa internazionale dei diritti dell'uomo, gli Stati hanno un duplice dovere: non solo devono astenersi dal commettere violazioni dei diritti dell'uomo, ma hanno anche l'obbligo di prevenire e dare una risposta efficace alle violenze. In passato la tutela dei diritti dell'uomo era interpretata in senso restrittivo, e la mancanza di iniziativa da parte di uno Stato nel prevenire e punire le violazioni non veniva considerata come una omissione del suo dovere di tutela. Oggi il concetto di responsabilità dello Stato ha subìto una evoluzione: si ritiene che sugli Stati incomba anche l'obbligo di adottare misure preventive e punitive a fronte di violazioni dei diritti ad opere dei privati cittadini».
      Anche l'Unione europea e il Consiglio d'Europa hanno assunto maggiori responsabilità, sviluppando un'azione più decisa nella prevenzione e cura dei danni della violenza. Esempio significativo di questo lavoro è la decisione 293/2000/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 24 gennaio 2000, relativa ad un programma d'azione comunitaria sulle misure preventive intese a combattere la violenza contro i bambini, i giovani e le donne (2000-2003) (programma DAPHNE).
      Le prime due considerazioni sono importanti sia per la definizione della violenza che per le conseguenze che ne fa derivare: la violenza fisica, sessuale e psicologica contro i bambini, i poveri e le donne, lede il loro diritto alla vita, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità e all'integrazione fisica ed emotiva e costituisce una minaccia grave alla salute fisica e psichica della vittima; gli effetti della violenza sono così diffusi nella comunità da rappresentare un grande flagello sanitario. 2) È importante riconoscere le gravi conseguenze immediate e a lungo termine, che la violenza reca ai singoli, alle famiglie e alla collettività in termini di salute, di sviluppo psicologico e morale e di pari opportunità per le persone coinvolte, nonché gli elevati costi morali ed economici che essa comporta per la società nel suo complesso».

La cultura del cambiamento delle case e dei centri delle donne.
      Nella proposta di legge che presentiamo non si propone un'azione di sostegno indifferenziata, bensì si afferma, in modo inequivocabile, che ogni donna che lo richieda – con i propri figli se questa è la sua volontà – ha diritto ad essere accolta da altre donne che, costituitesi in associazione a tale fine, sono in grado di fornirle l'aiuto di cui ha bisogno e che privilegia il lavoro delle case e dei centri antiviolenza.
      Questa scelta – che non si oppone ad altre forme di intervento sociale e pubblico, ed anzi ha come propria premessa un coordinamento a rete con esse – esprime in modo più congruo la rottura con le complicità verso una violenza in base al sesso e quindi offre una più efficace risposta alle donne colpite da tale violenza.
      È una risposta più efficace proprio perché l'azione delle case e dei centri ha

come propri fini quelli di ripristinare l'autostima, la dignità e la libertà colpite da atti di violenza di genere. Altre forme di sostegno sono necessarie ma non possono includere un lavoro così particolare intessuto, come deve per forza esserlo, di solidarietà, di cultura e della libertà femminile e di competenze specifiche lungamente maturate proprio a partire da quella spinta storica che induce molte donne a negare complicità alla violenza di genere, a rifiutarla, a combatterla sino alle sue più concrete conseguenze sulla vita di tante donne.
      Questa concezione è ormai fatta propria dagli organismi internazionali. Dalla citata Conferenza di Pechino alle più recenti risoluzioni si invitano i governi nazionali e locali non solo a predisporre piani lungimiranti per contrastare le forme della violenza, dalla tratta – moderna forma di schiavismo – alle più sottili violenze in famiglia ma anche a prevedere, in questi piani di azione a lungo raggio, forme di sostegno al lavoro volontario delle case e dei centri delle donne. Ad esempio la raccomandazione del Consiglio d'Europa n. 1450 (2000) al punto 9 recita: «L'assemblea riconosce il ruolo considerevole delle organizzazioni non governative (ONG) nella difesa dei diritti delle donne e nelle lotte contro le diverse forme di violenza che esse subiscono e chiede agli Stati membri di sostenere pienamente la loro azione a livello nazionale e internazionale». E al punto 9 invita a «realizzare centri di accoglienza per le donne vittime di violenza». Del resto già la risoluzione del Parlamento europeo (16 settembre 1997) chiedeva espressamente la «creazione di centri per le persone vittime della violenza».
      Esemplare, come sintesi di ciò che gli organismi internazionali pensano del rapporto tra intervento pubblico e lavoro volontario al fine di prevenire e curare i danni della violenza, è lo studio, già citato, dell'UNICEF. Scrive il direttore del Centro di ricerca Innocenti, Mehr Khan: «Per quasi un quarto di secolo, le organizzazioni delle donne hanno guidato il processo di visibilità della violenza contro le donne; dando alle vittime la possibilità di far sentire la propria voce attraverso i tribunali e le testimonianze personali; mettendo a disposizione forme innovative di sostegno per le vittime della violenza; e obbligando i governi e la comunità internazionale a riconoscere il loro fallimento nel proteggere le donne. Da un'azione a carattere locale, le donne sono riuscite a trasformare la loro lotta contro la violenza in una campagna di portata globale. La difesa degli interessi delle donne ha spinto i settori formali (sistema legale e giudiziario, e il settore della sanità) a iniziare a dare una risposta ai bisogni delle donne che subiscono violenze. Le donne hanno fatto pressione per ottenere cambiamenti delle politiche e la creazione di meccanismi istituzionali, riforme della legislazione, formazione di forze di polizia, disponibilità di strutture di accoglienza per le donne ed i loro bambini. Cercando di affrontare le cause strutturali della violenza, le organizzazioni femminili hanno lavorato per mettere in grado le donne di difendere i propri interessi tramite l'educazione sui diritti umani, i programmi di facilitazione del credito, e i rapporti con reti di contatti più grandi. È essenziale che siano le organizzazioni che difendono i diritti delle donne a continuare a condurre il processo, svolgendo soprattutto un ruolo di controllo e di responsabilizzazione, e che i governi incrementino le collaborazioni con esse».
      Questa ricerca dell'UNICEF esprime molto bene un approccio diffuso in molti studiosi.
      Secondo questo modo di vedere, la violenza, per essere realmente combattuta ha bisogno di un cambiamento culturale, e nessuna legge, anche la più rigorosa dal punto di vista penale, può arginare la violenza se non è accompagnata da una volontà di cambiamento nel rapporto tra i sessi e le persone. È significativo in tale modo che laddove esistono forti centri antiviolenza, le denunce di violenza aumentino. Si allenta la paura, si rafforza la volontà di rompere la complicità con la violenza anche perché c’è chi può aiutare nella volontà di tornare libere dalla violenza. Gli stessi processi cambiano segno se a sostenere le donne ci sono le case ed i centri delle donne, e se si formano pool antiviolenza.
      C’è chi può aiutare intanto ad essere accolte, poi ascoltate, poi aiutate a trovare un percorso di uscita fisica, psicologica e sociale dalla violenza, poi accompagnate nel reinserimento «fuori». Tutto dalla parte di lei, dei suoi figli. Scrive Maria Virgilio in un saggio contenuto nel bel libro a cura di Patrizia Romito Violenza alle donne e risposte delle istituzioni. Prospettive internazionali: va cercato il nuovo, e non solo contro la violenza sessuale, ma – più ampiamente – contro la violenza alle donne ed ai minori. Qui è possibile oggi cogliere un processo dinamico che stimola nuove risposte delle istituzioni. Da qui, da queste realtà e dalle relazioni instaurate tra donne, volte a promuovere non rapporti di tutela o dipendenza, ma percorsi di autonomia e libertà femminile, è partito un consolidarsi di collegamenti con gli enti locali, la magistratura, la polizia giudiziaria, la polizia municipale, i servizi sociali delle Aziende sanitarie e degli enti locali, gli uffici di medicina legale, i pronto soccorso, i medici di base, che in talune zone hanno costruito e promosso pratiche di accoglienza e di intervento efficaci e rispettose della dignità personale.

Linee guida della proposta di legge.
      La proposta di legge che proponiamo asseconda questo impianto. Volutamente è un testo «leggero»: non dice quali devono essere i metodi che le case ed i centri scelgono per aiutare le donne, non dice nemmeno che tipo di relazioni le case ed i centri devono mantenere con la rete dei servizi pubblici e privati. E neanche trasforma la case ed i centri in strutture interamente pagate dallo Stato. In questo senso la proposta di legge è «leggera».
      Ma è un testo «denso» per la chiarezza dei riferimenti costituzionali, per il rapporto rigoroso che intercorre tra investimento dello Stato, delle autonomie locali e investimento nel lavoro volontario di tante donne e soprattutto perché colloca il nostro Paese tra quei Paesi che ritengono che la propria civiltà dipenda anche da come si onora la libertà femminile.
      La proposta di legge è composta di quattro articoli.
      L'articolo 1 definisce le finalità delle case e dei centri della donna e stabilisce, secondo tali finalità, i tratti della loro azione. Nel comma 1 si afferma che la loro finalità è di assicurare in assoluta autonomia di metodo e gestione e senza fini di lucro, sostegno, solidarietà e competenza ad ogni singola donna, sia essa italiana o straniera, quale sia la sua razza, etnia, religione o luogo di provenienza e di residenza.
      Nel comma 2 si stabilisce che le case ed i centri si avvalgono di competenze formate e strutturate proprio nelle pratiche e nell'esperienza dell'accoglienza. Tale comma è importante poiché riconosce una professionalità inedita: la professionalità acquisita specificatamente tramite l'accoglienza.
      Il comma 3 dell'articolo 1 tratta, invece, attraverso le lettere a), b), c) e d), gli obiettivi dell'azione delle case e dei centri. I punti più importanti riguardano le modalità dei progetti di fuoriuscita dalla violenza, i molteplici aspetti delle loro attività, compresa quella che consente di stabilire una rete con l'insieme delle istituzioni, associazioni pubbliche o private. Riguardo la modalità, di primaria importanza risulta essere il fatto che i progetti di fuoriuscita dalla violenza devono essere predisposti mediante una relazione tra donne che renda ogni singola donna coinvolta nel progetto e protagonista di un percorso autonomo. È escluso in tale modo qualsiasi rapporto gerarchico e di tutela. Rispetto invece ai vari livelli di attività è da mettere in evidenza il loro articolarsi su più piani, dalla prevenzione attraverso un'educazione alla non violenza, alla formazione di operatrici e operatori interni ed esterni (ad esempio corsi tenuti dalle Forze di polizia) alla promozione di interventi di rete, al fine di offrire rapporti diversificati in merito alle diverse tipologie di

violenza, ai danni inferti ed a come essi vengono vissuti dalle singole donne.
      L'articolo 2 è formato da quattro commi, che trattano delle convenzioni, della gestione e delle erogazioni liberali.
      Nel comma 1 si afferma che la gestione è assicurata attraverso convenzioni tra gli enti locali e associazioni o cooperative di donne e che nelle convenzioni, proprio al fine di assicurare – tramite la regolarità delle erogazioni – una continuità dell'azione delle case e dei centri, può essere previsto l'apporto di un soggetto bancario. Nel comma 2 si stabilisce che le associazioni e le cooperative assicurano la gestione delle case e dei centri attraverso proprio personale, opportunamente formato e redigono per gli enti locali ogni anno una relazione sulla loro attività. Nei commi 3 e 4 si dispone l'applicabilità alle case ed i centri delle disposizioni che riguardano le erogazioni liberali e l'azione delle fondazioni. L'azione antiviolenza delle case e dei centri viene così ricompresa nelle alte finalità proprie delle fondazioni e nelle scelte insite nelle erogazioni liberali.
      L'articolo 3 ha ad oggetto l'istituzione di un fondo nazionale di cofinanziamento dell'attività delle case e dei centri delle donne ed è formato da otto commi che ne stabiliscono le finalità e le modalità di erogazione. Le finalità (comma 1) sono il finanziamento dei programmi regionali a favore delle case e dei centri, delle attività in corso delle case e dei centri e la promozione di nuovi interventi. È da sottolineare che il fondo non è di assistenza ma di sostegno ad una attività volontaria di donne; esso promuove l'azione delle autonomie locali senza venire meno alle proprie responsabilità, infatti se le autonomie locali non finanziano progetti a favore delle case e dei centri, il fondo non solo non può essere rivolto ad altre attività ma, all'opposto, al termine del primo triennio di attuazione della legge le eventuali somme assegnate e non utilizzate sono aggiunte alle somme del fondo disponibili nel successivo triennio di attuazione.
      In fine, nell'articolo 4, è prevista la copertura finanziaria pari a 50 milioni di euro a decorrere dall'anno 2013.
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PROPOSTA DI LEGGE
Art. 1.
(Case e centri delle donne).

      1. Le case e i centri destinati all'accoglienza, all'ospitalità o alla residenza temporanea, i centri d'ascolto, di accoglienza, di consulenza legale e psicologica, di raccolta dati, di informazione e di ricerca, di seguito denominati «case e centri delle donne», che agiscono senza fini di lucro e sono autonomi nelle metodologie, nei progetti, nella gestione e nelle modalità di rapporto con le istituzioni pubbliche o private, assicurano sostegno e solidarietà ad ogni donna, cittadina italiana o straniera, quali siano la sua razza, etnia, religione o luogo di provenienza e di residenza.
      2. Le case e i centri delle donne di cui al comma 1 si avvalgono di competenze appositamente acquisite e maturate nelle pratiche e nell'esperienza dell'accoglienza.
      3. L'attività delle case e centri delle donne persegue i seguenti obiettivi:

          a) offrire solidarietà ed accoglienza ad ogni donna che a essi si rivolga e, su sua richiesta, ricorrendo le condizioni previste dalla legge, ai suoi figli minori;

          b) predisporre progetti di uscita dalla violenza mediante una relazione tra donne che renda ogni singola donna protagonista di un percorso autonomo;

          c) sperimentare, studiare ed affinare le pratiche e le competenze al fine di prevenire la violenza e superarne i danni, favorire un'educazione alla non violenza, formare consulenti d'accoglienza per le case e i centri delle donne nonché operatrici ed operatori sociali esterni;

          d) favorire e promuovere interventi di rete, sia con l'insieme delle istituzioni, associazioni, organizzazioni, enti pubblici e privati, sia con l'insieme delle competenze e delle figure professionali, al fine di offrire le

differenti risposte, in merito alle diverse tipologie di violenza, ai danni inferti e a come essi agiscono sulle singole donne, siano esse cittadine italiane o straniere.
Art. 2.
(Gestione delle case e dei centri delle donne).

      1. La gestione delle case e dei centri delle donne è assicurata attraverso convenzioni tra gli enti locali e i loro consorzi ed una o più associazioni o cooperative di donne, che perseguono, esclusivamente o in prevalenza, le finalità di cui all'articolo 1. Nelle convenzioni può essere previsto l'apporto di idoneo soggetto bancario, anche già convenzionato con l'ente locale, al fine di garantire la regolarità delle erogazioni e la continuità del servizio.
      2. Le associazioni e le cooperative di cui al comma 1 assicurano la gestione delle case e dei centri delle donne attraverso proprio personale opportunamente formato e redigono annualmente una relazione sull'attività svolta da presentare agli enti locali e ai loro consorzi.
      3. Alle erogazioni liberali a favore delle case e dei centri delle donne si applicano le disposizioni di cui all'articolo 15, comma 1-bis, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni.
      4. Per le finalità di cui all'articolo 2, comma 2, del decreto legislativo 17 maggio 1999, n. 153, e successive modificazioni, nell'ambito dei settori rilevanti, e in particolare nel settore dell'assistenza alle categorie sociali deboli le case e i centri delle donne possono esercitare, con contabilità separate, imprese direttamente strumentali ai propri fini.

Art. 3.
(Fondo nazionale di cofinanziamento).

      1. È istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, un apposito fondo

destinato al cofinanziamento degli interventi di cui alla presente legge, con le seguenti finalità:

          a) finanziamento della programmazione regionale a favore degli interventi di cui alla presente legge;

          b) finanziamento degli interventi in corso alla data di entrata in vigore della presente legge;

          c) promozione di nuovi interventi.

      2. Al fondo di cui al comma 1 affluisce, secondo modalità definite con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da emanare entro due mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, il 10 per cento delle disponibilità del Fondo unico di cui all'articolo 61, comma 23, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazione, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133.
      3. A favore delle regioni, anche a statuto speciale, e delle province autonome di Trento e di Bolzano che redigono entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge un programma triennale per favorire l'attività delle case e dei centri delle donne, che preveda finanziamenti o conferimenti di beni o di strutture, possono essere disposti trasferimenti a carico del fondo di cui al comma 1.
      4. Alle province, ai comuni e ai loro consorzi che stipulano o hanno già stipulato alla data di entrata in vigore della presente legge le convenzioni di cui all'articolo 2, è riservato, a titolo di cofinanziamento dello Stato, almeno il 50 per cento delle disponibilità annuali del fondo di cui al comma 1. I presidenti delle province e i sindaci dei comuni destinatari dei cofinanziamenti sono tenuti ad iscrivere nei rispettivi bilanci triennali, con distinte specificazioni, lo stanziamento di spesa per il finanziamento delle convenzioni derivante dal trasferimento e quello di cofinanziamento provinciale o comunale.


      5. Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, i presidenti delle province e i sindaci delle aree metropolitane e dei comuni con popolazione superiore a 50.000 abitanti presentano al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, anche ai fini del cofinanziamento, un programma per la promozione di nuove case e centri delle donne ai sensi della presente legge, con i relativi schemi di convenzione.
      6. Entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sentito il parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, dell'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI) e dell'Unione delle province d'Italia (UPI), il Ministro del lavoro e delle politiche sociali approva, con proprio decreto, la ripartizione del fondo di cui al comma 1 per il primo triennio di attuazione della presente legge, sulla base della popolazione delle regioni, della distribuzione territoriale del servizio come definito dalla presente legge, dei progetti di sviluppo delle case e dei centri delle donne su base territoriale. Sono escluse dalla ripartizione le regioni che non hanno provveduto agli adempimenti di cui al comma 3, nei termini ivi indicati. Le regioni possono disporre, con legge regionale, anche al fine di attivare il cofinanziamento del fondo di cui al comma 1, finanziamenti, incentivi ed agevolazioni nonché l'utilizzo di disponibilità per investimenti presso conti correnti di Tesoreria.
      7. Al termine di ogni esercizio finanziario, le eventuali somme assegnate agli enti locali e territoriali e non utilizzate possono essere riassegnate, con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, alla realizzazione di programmi regionali o di specifici progetti locali rientranti nelle finalità di cui alla presente legge.
      8. Al termine del primo triennio di attuazione della presente legge, le eventuali somme assegnate e non utilizzate sono computate in aggiunta alle somme del fondo di cui al comma 1 disponibili nel successivo triennio di attuazione.
Art. 4.
(Copertura finanziaria).

      1. Agli oneri derivanti dall'attuazione della presente legge, pari a 50 milioni di euro a decorrere dall'anno 2013, si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2013-2015, nell'ambito del programma «Fondi di riserva e speciali» della missione «Fondi da ripartire» dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2013, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento relativo al medesimo Ministero.
      2. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.

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