Organo inesistente

XVII LEGISLATURA
 

CAMERA DEI DEPUTATI


   N. 2680-A
N. 2679-bis-A


ALLEGATO 2
RELAZIONI DI MINORANZA DELLE COMMISSIONI PERMANENTI
DISEGNO DI LEGGE
N. 2680
presentato dal ministro dell'economia e delle finanze
(PADOAN)
Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2015 e bilancio pluriennale per il triennio 2015-2017
Presentato il 23 ottobre 2014
e
DISEGNO DI LEGGE
N. 2679-bis
presentato dal ministro dell'economia e delle finanze
(PADOAN)
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)
(Testo risultante dallo stralcio, disposto dal Presidente della Camera, ai sensi dell'articolo 120, comma 2, del Regolamento, e comunicato all'Assemblea il 30 ottobre 2014, dell'articolo 17, commi 11, 20, 22 e 23, dell'articolo 20, comma 2, dell'articolo 21, commi 8 e da 15 a 20, dell'articolo 28, commi 15, da 23 a 27 e 31, dell'articolo 31, commi da 8 a 10 e 20, dell'articolo 32, comma 6, e dell'articolo 41 del disegno di legge n. 2679)
(Relatori per la maggioranza:
TANCREDI, per il disegno di legge n. 2680;
GUERRA, per il disegno di legge n. 2679-bis)

NOTA: Relazioni di minoranza presentate nelle Commissioni permanenti sugli stati di previsione del disegno di legge di bilancio e sulle parti del disegno di legge di stabilità di rispettiva competenza.
ALLEGATO 2
RELAZIONI DI MINORANZA DELLE COMMISSIONI PERMANENTI     
RELAZIONI DI MINORANZA PRESENTATE NELLE COMMISSIONI PERMANENTI AI SENSI DELL'ARTICOLO 120, COMMA 3, DEL REGOLAMENTO, SUGLI STATI DI PREVISIONE DEL DISEGNO DI LEGGE DI BILANCIO E SULLE PARTI DEL DISEGNO DI LEGGE DI STABILITÀ DI RISPETTIVA COMPETENZA
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INDICE

II COMMISSIONE PERMANENTE Pag. 7
(Giustizia)
Tabella n. 5 (Giustizia) Pag. 9
IV COMMISSIONE PERMANENTE Pag. 15
(Difesa)
Tabella n. 11 (Difesa) Pag. 17
VI COMMISSIONE PERMANENTE Pag. 21
(Finanze)
Tabella n. 1 (Entrata) Pag. 23
Tabella n. 2 (Economia e finanze, limitatamente alle parti di competenza) Pag. 23
VII COMMISSIONE PERMANENTE Pag. 31
(Cultura, scienza e istruzione)
Tabella n. 7 (Istruzione, università e ricerca) Pag. 33
VIII COMMISSIONE PERMANENTE Pag. 37
(Ambiente, territorio e lavori pubblici)
Tabella n. 9 (Ambiente e tutela del territorio e del mare) Pag. 39
Tabella n. 9 (Ambiente e tutela del territorio e del mare) Pag. 45
Tabella n. 10 (Infrastrutture e trasporti, limitatamente alle parti di competenza) Pag. 49
IX COMMISSIONE PERMANENTE Pag. 53
(Trasporti, poste e telecomunicazioni)
Tabella n. 3 (Sviluppo economico, limitatamente alle parti di competenza) Pag. 55
Tabella n. 10 (Infrastrutture e trasporti, limitatamente alle parti di competenza) Pag. 55
X COMMISSIONE PERMANENTE Pag. 59
(Attività produttive, commercio e turismo)
Tabella n. 2 (Economia e finanze, limitatamente alle parti di competenza) Pag. 61
XI COMMISSIONE PERMANENTE Pag. 69
(Lavoro pubblico e privato)
Tabella n. 4 (Lavoro e politiche sociali, limitatamente alle parti di competenza) Pag. 71
Tabella n. 4 (Lavoro e politiche sociali, limitatamente alle parti di competenza) Pag. 77
XIII COMMISSIONE PERMANENTE Pag. 83
(Agricoltura)
Tabella n. 12 (Politiche agricole alimentari e forestali) Pag. 85

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II COMMISSIONE PERMANENTE
(Giustizia)
II COMMISSIONE PERMANENTE
(Giustizia)
RELAZIONE    DI    MINORANZA
sui
DISEGNI DI LEGGE
Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017 (2680)
Stato di previsione del Ministero della giustizia per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017
(Tabella n. 5)
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015) (2679-bis)
dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia e Libertà

      La II Commissione,

          esaminato, per le parti di propria competenza, il disegno di legge A.C. 2680 «Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 1015-2017» (Tabella n. 5) e le parti corrispondenti del disegno di legge A.C. 2679 recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)»;
      premesso che:

          la legge di stabilità rappresenta un momento fondamentale del disegno di politica economica che ogni Governo deve realizzare;

          dopo le richieste di chiarimento da parte della Commissione UE il Governo ha ulteriormente accentuato il carattere recessivo della manovra di finanza pubblica accettando nei fatti una correzione del deficit di circa lo 0,4 per cento (0,38 per cento 1,6 miliardi (0,1 per cento) 4,5 miliardi (0,28 per cento) di cui alla lettera di risposta del Ministro Padoan alla Commissione);

          la manovra contiene l'ulteriore rinvio del pareggio di bilancio al 2017 e l'indicazione

di un obiettivo per il deficit attorno al 3 per cento per il 2014 e di circa il 2,5 per cento per il 2015 (dopo le correzioni richieste dalla Commissione UE). La volontà espressa di perseguire una politica di bilancio leggermente meno restrittiva risulterebbe di per sé un elemento positivo, ma ciò che preoccupa fortemente è l'assoluta mancanza di una definizione strategica organica e coerente di rilancio dell'economia italiana, dalle politiche industriali alle politiche del lavoro, al sostegno alla domanda;

          l'Europa ha risposto alla crescente instabilità dei mercati finanziari imboccando la strada dell'austerità. Non può sfuggire il fallimento dell'approccio degli ultimi anni che a partire dalla primavera 2010 ha visto il varo di programmi di riequilibrio dei conti pubblici pesantissimi, simultanei e concentrati in un lasso di tempo relativamente breve. Il riequilibrio dei conti pubblici è avvenuto al prezzo di pesanti ricadute economiche e sociali (catastrofiche, nel caso greco). La finanza speculativa e i settori più ricchi della popolazione ne sono usciti rafforzati a spese dei ceti popolari;

          il 2014 non è stato l'anno della ripresa, come le previsioni stimavano, ma il terzo di recessione per l'economia italiana. Il PIL italiano è sceso di più del 9 per cento rispetto al livello del 2008. Il nostro Paese corre un serio rischio di deflazione e di arrivare ad un quarto anno di recessione. Con questo prolungamento, l'esperienza della crisi per il nostro Paese si conferma peggiore di quella degli anni trenta. Un confronto storico sfavorevole che è condiviso con molte altre economie europee. Oggi come allora, la recessione ha una soia causa: la caduta della domanda aggregata. Su questa avrebbero dovuto intervenire le misure per la ripresa a livello europeo. Al contrario, la politica economica adottata ha sospinto i paesi in una pericolosa trappola di stagnazione e deflazione. Occorre che si cambi lo schema in modo radicale, con l'impostazione di politiche monetarie e fiscali espansive coordinate tra le economie europee: ma le politiche dei singoli Paesi dell'UE, vincolati dai parametri statistici e dalle procedure del Fiscal Compact, appaino come ingessate;

          le misure fin qui adottate dal 2011 ad oggi dai diversi Governi italiani hanno peggiorato notevolmente le finanze pubbliche del nostro Paese, portando la nostra economia alla recessione, deprimendo i consumi delle famiglie e aumentando notevolmente la disoccupazione, in particolare quella dei giovani. Politiche analoghe sono state imposte in quasi tutti i Paesi della UE;

          le conseguenze di questa politica sono sotto gli occhi di tutti: oggi, quasi 27 milioni di persone sono disoccupate nell'Unione Europea. La disoccupazione nell'eurozona è salita dal 7,8 per cento del 2008 al

          12,1 per cento del novembre 2013. In Grecia dal 7.7 per cento al 24,4 per cento e in Spagna dal 11.3 per cento al 26,7 per cento nello stesso periodo. In Europa, i disoccupati con meno di 25 anni sono 4,5 milioni. Nella sola Italia, la disoccupazione giovanile, secondo i recenti dati Istat ha toccato il 44.2 per cento ed i disoccupati sono 6 milioni;

          in Italia nonostante si siano già succeduti tre differenti governi la linea seguita è sempre la stessa: quella impostaci dalla BCE. L'attuale Governo sta per altro cercando di accelerare l'attuazione delle indicazioni contenute nella lettera dell'agosto 2011 della stessa BCE, per il momento solo parzialmente realizzate. Anche se i dati confermano il non funzionamento di quelle politiche imposte dalla UE la nota di aggiornamento del DEF, esso persegue testardamente nell'applicazione di quelle stesse indicazioni;

          lo slittamento al 2017 del pareggio di bilancio non rappresenta una vera sfida alla Commissione europea come lo è la decisione francese di mantenere il deficit sopra il 4 per cento per i prossimi anni;

          la Francia ha infatti dichiarato che non rientrerà nei limiti del deficit del 3

per cento fino al 2017, l'Italia è vicina a sforarlo anche se continua ad affermare che lo rispetterà. La Banca centrale europea è da tempo ben sotto all'obiettivo dell'inflazione al 2 per cento a cui è vincolata dal suo mandato. La Germania è in surplus commerciale eccessivo. Tutte le parti coinvolte sono in evidente difetto rispetto alle regole che si sono collettivamente e consensualmente date. Per una ragione o per l'altra, tutti, alla fine hanno infranto qualche regola: un sistema in cui nessuno riesce a rispettare le regole va ripensato. Le misure da attuare subito per rilanciare la domanda, al livello dell'Unione, sono chiare e se non ci fossero vincoli politici e gli interessi dei centri finanziari da salvaguardare, si andrebbe dritti per quella strada. C’è un largo consenso tra gli studiosi sul fatto che quando un'economia è in pericolo di defrazione e appesantita dal debito bisogna attuare politiche di bilancio espansive (attraverso un taglio delle tasse o tramite un aumento della spesa) finanziate dalla Banca centrale;

          il Trattato di funzionamento della CE (TFUE) all'articolo 126 definisce eccessivo il disavanzo pubblico se il rapporto tra indebitamente e PIL supera il 3 per cento (oltre che se il rapporto debito/PIL supera il 60 per cento). Se tale limite viene superato la sanzione più significativa che l'UE potrebbe comminare al nostro Paese è quella di imporci un deposito infruttifero presso la BCE costituito in due parti. Una fissa dello 0.2 per cento del PIL, e una variabile, pari allo 0,1 per cento del PIL per ogni punto (o frazione di punto) di sfondamento del 3 per cento. Se il deficit è pari al 4 per cento l'Italia dovrà pagare meno di 5 miliardi, rispetto ai 45 miliardi che il 4 per cento di deficit nel triennio 2015-2017 ci renderebbe disponibili;

          il rispetto rigoroso delle regole e del sottostare ai parametri imposti dai trattati deve essere un comportamento seguito da tutti i partners europei, non sono ammesse eccezioni se non unanimemente concordate. Stando a questo principio elementare non si comprende come la Germania possa derogare ampiamente dal rispetto del parametro del surplus commerciale mentre da «bravo scolaretto» il Governo italiano sottolinea in ogni occasione il rispetto del limite del 3 per cento nel rapporto debito/Pil da parte dell'Italia;

          per avviare a soluzione una crisi economico finanziaria dai disastrosi effetti sociali che dura ormai da più di otto anni, un periodo talmente lungo che il sistema capitalistico non ha mai affrontato prima, è necessario adottare misure shock sul piano economico che mal si conciliano con un misero allentamento della stretta di bilancio e il solo slittamento al 2017 del pareggio di bilancio. Ben altre sarebbero le soluzioni che però trovano ostacoli insormontabili nelle troppo rigide regole europee non più al passo con la situazione profondamente cambiata e che richiederebbe una forte e reale flessibilità temporanea concordata, almeno sul rispetto del rapporto deficit/Pil, per un reale rilancio economico e produttivo salvaguardando nel contempo l'occupazione e i diritti fondamentali del lavoro;

          si sarebbero dovuto predisporre una manovra per triennio 2015-2017 – seguendo l'esempio francese – che prevedesse un congruo indebitamento a sostegno di una seria e condivisa programmazione di politiche di sviluppo sostenibile e per il lavoro, attraverso il superamento di un punto percentuale del limite del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil;

          si sarebbe dovuto destinare le risorse che ne risulterebbero, pari a circa 45 miliardi nel triennio considerato, insieme ad altre risorse nazionali, ad un Piano nazionale per il lavoro che prevedesse misure per creare da subito centinaia di migliaia di posti di lavoro. Lo Stato deve diventare datore di lavoro di ultima istanza attraverso la messa in opera di un Programma Nazionale sperimentale triennale di interventi pubblici, un Green New Dea/italiano. L'asse di un Piano per il

lavoro, deve consistere innanzitutto nel favorire la ricerca, l'innovazione e la formazione, nella messa in sicurezza del nostro territorio e degli edifici scolastici. La cura e la valorizzazione del paesaggio e dei beni culturali, il rilancio di un'agricoltura multifunzionale, la riqualificazione delle città, l'efficienza energetica degli immobili, la riforma e il rinnovamento della PA e del welfare, l'innovazione e la sostenibilità delle reti (trasporti, energia, digitalizzazione del Paese...);

          la manovra avrebbe dovuto prevedere, nell'ambito della politica industriale nazionale, modalità per un intervento pubblico al fine di salvaguardare gli asset strategici, stimolare le innovazioni e la ricerca, facilitare la riconversione ecologica dell'apparato produttivo, garantire i livelli occupazionali, traendo ispirazione dal meglio dell'esperienza storica dell'IRI;

          viceversa, la manovra predisposta dal Governo riduce le imposte per le imprese senza avere alcuna garanzia che aumenteranno i loro investimenti, che non delocalizzeranno i loro siti produttivi o che non licenzieranno oppure che si produrranno reali incrementi occupazionali non sostitutivi;

          si interviene riducendo il costo del lavoro e precarizzando i rapporti di lavoro, togliendo diritti basilari ai lavoratori: si cerca dunque di competere sul profilo basso senza cercare di aumentare la produttività di tutti i fattori del nostro sistema produttivo, e ci si rassegna a diventare un Paese di serie B;

          infatti, i dati dimostrano che la deregolazione del mercato del lavoro non crea solo precarietà e perdita di diritti, ma anche perdita di produttività e quindi perdita di capacità di crescita; questa svalutazione del lavoro che andrà aggravandosi quando si dispiegheranno gli effetti nefasti della controriforma del Jobs Act presuppone imprese di basso valore, che invece di innovare scaricano tutti i costi della competizione internazionale sul costo del lavoro; così facendo ci si rassegna al declino industriale del nostro Paese;

          essa non estende i benefici fiscali a pensionati, partite Iva e incapienti, penalizza ancora una volta i dipendenti pubblici, non prevede investimenti pubblici se non per grandi opere per lo più inutili, lascia irrisolto il problema dei cd «esodati», non prevede risorse adeguate per mantenere gli ammortizzatori sociali esistenti per non dire della loro estensione universale, penalizza i giovani professionisti sul piano fiscale;

          la manovra contiene una clausola di salvaguardia ..«monstre» che scatterà dal 2016 e che si aggiunge a quella già prevista dal Governo Letta in termini di aumenti di imposte (la quale prevede, al netto dei 3 miliardi inglobati nei saldi dell'attuale legge di stabilità, 4 miliardi per il 2016 e 7 miliardi a decorrere dal 2017); il Governo si impegna ad assicurare il raggiungimento del saldo strutturale di bilancio in pareggio dal 2017 aumentando le aliquote Iva e le imposte indirette per un ammontare di altri 12,4 miliardi nel 2016, 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. La clausola se esercitata avrebbe però un effetto recessivo pari allo 0,7 per cento del PIL nel triennio 2016-2018 dovuta ad una contrazione complessiva di consumi ed investimenti per 1,3 punti del PIL;

          la manovra avrà comunque effetti recessivi perché prosegue nella politica dei tagli alla spesa pubblica anche per coprire la diminuzione delle imposte, tagli che notoriamente hanno un moltiplicatore superiore in termini di crescita del PIL della riduzione delle tasse;

          i ceti popolari pagheranno in termini di riduzione dei servizi essenziali e di incrementi della tassazione locale i pochi benefici dovuti al bonus da 80 euro;

          considerato che, per quanto riguarda le parti di competenza della II Commissione:

              la dotazione finanziaria del Ministero della Giustizia, per il triennio 2015-2017, prevede una drastica riduzione di

circa 102 milioni di euro, dei quali 36 milioni sottratti all'amministrazione penitenziaria, 64 milioni sottratti alla giustizia civile e penale, 2 milioni sottratti alla giustizia minorile, con tutte le intuibili conseguenze negative rispetto alle esigenze di un settore tanto delicato e inefficiente;

          quanto alle misure per consentire tempi più veloci della Giustizia, oltre ai tagli illustrati, nessuno stanziamento adeguato si prevede in particolare rispetto alla magistratura onoraria che, considerato il livello di produttività, nonché il possibile ampliamento di competenze civili del Giudice di Pace – ai fini di una inversione di tendenza rispetto agli attuali carichi di lavoro che caratterizzano i nostri Tribunali – vivono da tempo un’ ingiusta condizione circa il trattamento economico, nonché la tutela previdenziale ed assistenziale;

          nulla si prevede circa l'innalzamento del tetto reddituale previsto per l'accesso al patrocinio per i non abbienti, ormai inadeguato in riferimento ai 9.000 euro attualmente previsti;

          peraltro non si propone alcuna soluzione alla questione inerente i cd. «precari della giustizia», tirocinanti, cassintegrati, lavoratori in mobilità, disoccupati e inoccupati impiegati sin dal 2010 nelle cancellerie e negli uffici giudiziari anche per porre rimedio alle gravissime carenze d'organico (circa 9.000 unità), e che oggi si vedono riconosciute appena 230 ore di lavoro a semestre, 460 in un anno, per una retribuzione di circa 4.600 euro annui,
      per le ragioni illustrate in premessa,

DELIBERA DI RIFERIRE
IN SENSO CONTRARIO

IV COMMISSIONE PERMANENTE
(Difesa)
IV COMMISSIONE PERMANENTE
(Difesa)
RELAZIONE    DI    MINORANZA
sui
DISEGNI DI LEGGE
Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017 (2680)
Stato di previsione del Ministero della difesa per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017
(Tabella n. 11)
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015) (2679-bis)
dei deputati Frusone, Basilio, Artini, Rizzo, Corda, Tofalo e Paolo Bernini

      La IV Commissione,

          esaminata la Tabella n. 11, stato di previsione del Ministero della difesa per l'anno finanziario 2015, del disegno di legge C. 2680, recante «Bilancio dello Stato per l'anno finanziario 2015 e bilancio pluriennale per il triennio 2015-2017», e le connesse parti del disegno di legge C. 2679, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2015)»;

          considerato che:

              tutta la manovra contraddice gli intenti sui quali il Parlamento ha approvato la legge n. 244 del 2012 che, ponendosi l'obbiettivo di riorganizzare il nostro sistema difensivo, ha stabilito come strategico il conseguimento di un equilibrio tra le tre voci (esercizio, investimento e personale);

              la ripartizione percentuale tra i 3 capitoli di spesa del bilancio della Difesa

che scaturisce dalla manovra in oggetto aggrava questo disequilibrio: il Personale arriva a sfiorare il 72 per cento, l'Esercizio si riduce all'8,6 per cento, mentre l'Investimento si assesta poco sotto il 20 per cento;

              mentre il Personale raggiunge i 9.739,3 milioni di euro, con nuova significativa crescita rispetto ai 9.511,5 milioni del 2014 ( 227,8 milioni), l'Esercizio sprofonda addirittura a 1.170,9 milioni contro i 1.344,7 di quest'anno (-173,8) e, infine, l'Investimento ai attesta a 2.668,7 milioni, in contrazione rispetto ai 3.220,7 previsionali del 2014 (-552 milioni);

              tutto questo senza tener conto dell'incongruità delle voci che afferiscono al bilancio della Difesa essendo ancora incompleto visto che altre voci di spesa che dovrebbero essere ricondotte, seguendo le linee guida della NATO, al Ministero della Difesa sono assegnate in realtà ai bilanci di altri Ministeri, riducendo di molto la percentuale destinata all'investimento;

              la legge di stabilità per il 2015 stanzia al comma 12, dell'articolo 21, 850 milioni di euro sia per il 2015 e il 2016. Si tratta di uno stanziamento sovradimensionato e che preoccupa non poco perché fa pensare che, finita finalmente la negativa la missione ISAF, il Governo italiano voglia impegnare ancora le Forze armate italiane in Afghanistan con un contingente variabile tra le 800 e le 1000 unità ben lontano da quel disimpegno armato in quel teatro, di cui invece ci sarebbe bisogno;

              le norme dell'articolo 21 (pubblico impiego) e dell'articolo 31 (Ministero della Difesa) sono contraddittorie perché alternano misure positive ad altre negative (primo fra tutti il blocco dei contratti, misura vessatoria per tutto il pubblico impiego che vede il proprio potere di acquisto deteriorarsi in quanto bloccato dal 2010);

              oltre che la Proroga del blocco economico dei contratti di lavoro del personale pubblico a tutto il 31 dicembre 2015, si segnalano anche l'estensione al 2018 della norma che prevede il computo dell'Indennità di Vacanza Contrattuale (IVC) in godimento al 31 dicembre 2013, e dunque il conseguente blocco del suo pagamento per il 2015; il blocco degli automatismi stipendiali per il personale non contrattualizzato (dunque, anche quello delle Forze armate) previsti dalla legge n. 448 del 1998, e pertanto il 2015 non sarà utile ai fini della maturazione di classi/scatti; la riduzione (-119 milioni di euro) dell'autorizzazione di spesa relativa al riordino delle carriere del personale non direttivo/dirigente delle Forze armate, con trasferimento al bilancio dello Stato dei residui 2011-2014; la svendita degli immobili del Ministero della Difesa, inclusi quelli a carattere residenziale, i cui proventi verranno integralmente e definitivamente versati all'entrata del bilancio dello Stato, e non più riassegnati al Ministero, intervenendo nuovamente sugli immobili della Difesa nonostante il Parlamento abbia recentemente disciplinato all'articolo 26 del cosiddetto decreto Sblocca Italia le procedure per l'alienazione degli stessi e non si affronta in modo alcuno la grave penuria di alloggi di servizio per il personale delle Forze armate;

              positive ma ancora insufficienti a rompere il circuito di prebende e privilegi acquisiti in questi decenni di spesa allegra sono le misure che stabiliscono:

                  l'abrogazione delle norme che prevedono per il personale delle Forze armate la promozione il giorno precedente la cessazione del servizio;

                  la riduzione dal 70 al 50 per cento dell'indennità di ausiliaria, calcolata quale differenza tra il trattamento di quiescenza e quello del parigrado in servizio. Qui non si ha il coraggio, però, di portare a fondo questa linea prevedendo, come invece sarebbe necessario, un'estinzione dell'istituto dell'ausiliaria compensandolo magari con la possibilità per i militari di ricorrere alla previdenza integrativa complementare;

                  la riduzione del 50 per cento delle indennità per piloti (Ufficiali in SPE)

e di quella per i controllori di volo (Ufficiali e Sottufficiali in SPE);

                  l'abrogazione per i militari pensionati della possibilità di percepire in un'unica soluzione il valore corrispondente alle rafferme biennali non contratte per raggiungimento dei limiti d'età;

                  l'abrogazione dell'indennità di trasferimento in Patria di personale Forze armate, pari a trenta diarie intere di missione per il primo anno e del 30 per cento per il secondo, dopo l'impiego in Enti/organismi internazionali;

                  il prolungamento da tre a quattro anni, con rallentamento degli avvicendamenti (-330 annui), del personale trasferito all'estero e riduzione del 10 per cento degli organici del personale civile;

                  la riduzione del 20 per cento del personale assegnato agli Uffici di diretta collaborazione del Ministro;

                  l'abrogazione dei cosiddetti «stage difesa» nell'ambito delle iniziative di pubblicizzazione delle Forze armate;

                  che le medaglie mauriziane, concesse al personale militare con 10 lustri di servizio, non siano coniate solo in oro;

                  la riduzione del numero di alloggi ASIR (di rappresentanza), dagli attuali 55 a soli 6, che saranno assegnati ai Vertici militari (Capo stato maggiore della Difesa; Capi stato maggiore di Forza armata; Segretario Generale e Comandante Generale dell'Arma dei carabinieri), con contestuale recupero ai fini della loro valorizzazione degli alloggi oggi in uso a Comitati territoriali e altri;

                  l'abrogazione della norma che prevede l'attribuzione del grado di tenente generale o corrispondente, ancorché non organicamente previsto, agli Ufficiali più anziani di vari Corpi (TRAMAT, Commissariato, Sanità, Capitanerie di Porto e ruolo armi dell'Aeronautica militare) se in possesso di un'anzianità minima pari a un anno nel grado di maggiore generale o corrispondente;

              considerato, infine, che l'insieme dei provvedimenti in oggetto proseguano in una politica depressiva e di rigore anacronistico secondo i dettami stabiliti a Bruxelles dai trattati europei, gli stessi dettami che hanno portato l'Italia e l'Europa in una crisi economica sempre più profonda,

DELIBERA DI RIFERIRE
IN SENSO CONTRARIO

VI COMMISSIONE PERMANENTE
(Finanze)
VI COMMISSIONE PERMANENTE
(Finanze)
RELAZIONE    DI    MINORANZA
sui
DISEGNI DI LEGGE
Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017 (2680)
Stato di previsione dell'entrata per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017
(Tabella n. 1)
e
Stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017
(Tabella n. 2, limitatamente alle parti di competenza)
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015) (2679-bis)
del deputato Paglia

      La VI Commissione,

          esaminate, ai sensi dell'articolo 120, comma 3, del Regolamento, per le parti di propria competenza, le Tabelle n. 1 e n. 2 del disegno di legge C. 2680, recante «Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017» e le connesse parti del disegno di legge C 2679-bis, recante «Disposizioni

per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)»;

          premesso che:

              il disegno di legge di stabilità rappresenta un momento fondamentale del disegno di politica economica che ogni Governo deve realizzare;

              dopo le richieste di chiarimento da parte della Commissione UE il Governo ha ulteriormente accentuato il carattere recessivo della manovra di finanza pubblica accettando nei fatti una correzione del deficit di circa lo 0,4 per cento (0,38 per cento = 1,6 miliardi (0,1 per cento) 4,5 miliardi (0,28 per cento) indicata nella lettera di risposta del Ministro Padoan alla Commissione europea);

              la manovra contiene l'ulteriore rinvio del pareggio di bilancio al 2017 e l'indicazione di un obiettivo per il deficit attorno al 3 per cento per il 2014 e di circa il 2,5 per cento per il 2015 (dopo le correzioni richieste dalla Commissione UE); la volontà espressa di perseguire una politica di bilancio leggermente meno restrittiva risulterebbe di per sé un elemento positivo, ma ciò che preoccupa fortemente è l'assoluta mancanza di una definizione strategica organica e coerente di rilancio dell'economia italiana, dalle politiche industriali alle politiche del lavoro, al sostegno alla domanda;

              l'Europa ha risposto alla crescente instabilità dei mercati finanziari imboccando la strada dell'austerità: non può sfuggire il fallimento dell'approccio degli ultimi anni che a partire dalla primavera 2010 ha visto il varo di programmi di riequilibrio dei conti pubblici pesantissimi, simultanei e concentrati in un lasso di tempo relativamente breve; il riequilibrio dei conti pubblici è avvenuto al prezzo di pesanti ricadute economiche e sociali (catastrofiche, nel caso greco) e la finanza speculativa e i settori più ricchi della popolazione ne sono usciti rafforzati, a spese dei ceti popolari;

              il 2014 non è stato l'anno della ripresa, come le previsioni stimavano, ma il terzo di recessione per l'economia italiana: il PIL italiano è sceso di più del 9 per cento rispetto al livello del 2008; il nostro Paese corre un serio rischio di deflazione e di arrivare ad un quarto anno di recessione; con questo prolungamento, l'esperienza della crisi per il nostro Paese si conferma peggiore di quella degli anni trenta: si tratta di un confronto storico sfavorevole che è condiviso con molte altre economie europee; oggi come allora, la recessione ha una sola causa: la caduta della domanda aggregata, su cui avrebbero dovuto intervenire le misure per la ripresa a livello europeo; al contrario, la politica economica adottata ha sospinto i paesi in una pericolosa trappola di stagnazione e deflazione; occorre invece che si cambi tale schema in modo radicale, con l'impostazione di politiche monetarie e fiscali espansive coordinate tra le economie europee;

              le politiche dei singoli Paesi dell'UE, vincolati dai parametri statistici e dalle procedure del Fiscal Compact, appaiono tuttavia come ingessate;

              le misure fin qui adottate dal 2011 ad oggi dai diversi Governi italiani hanno peggiorato notevolmente le finanze pubbliche del nostro Paese, portando la nostra economia alla recessione, deprimendo i consumi delle famiglie e aumentando notevolmente la disoccupazione, in particolare quella dei giovani e politiche analoghe sono state imposte in quasi tutti i Paesi della UE;

              le conseguenze di questa politica sono sotto gli occhi di tutti: oggi, quasi 27 milioni di persone sono disoccupate nell'Unione Europea; la disoccupazione nell'eurozona è salita dal 7,8 per cento del 2008 al 12,1 per cento del novembre 2013; in Grecia, dal 7,7 per cento al 24,4 per cento e in Spagna dal 11,3 per cento al 26,7 per cento nello stesso periodo; in Europa, i disoccupati con meno di 25 anni sono 4,5 milioni e nella sola Italia, la disoccupazione giovanile, secondo i recenti

dati Istat, ha toccato il 44,2 per cento, con 6 milioni di disoccupati;

              in Italia, nonostante si siano già succeduti negli ultimi anni tre differenti governi, la linea seguita è sempre la stessa: quella impostaci dalla BCE: l'attuale Governo sta per altro cercando di accelerare l'attuazione delle indicazioni contenute nella lettera dell'agosto 2011 della stessa BCE, per il momento solo parzialmente realizzate; anche se i dati confermano il non funzionamento di quelle politiche imposte dalla UE la nota di aggiornamento del DEF, esso persegue testardamente nell'applicazione di quelle stesse indicazioni;

              lo slittamento al 2017 del pareggio di bilancio non rappresenta una vera sfida alla Commissione europea come lo è la decisione francese di mantenere il deficit sopra il 4 per cento per i prossimi anni;

              la Francia ha infatti dichiarato che non rientrerà nei limiti del deficit del 3 per cento fino al 2017, l'Italia è vicina a sforarlo anche se continua ad affermare che lo rispetterà; la Banca centrale europea è da tempo ben sotto all'obiettivo dell'inflazione al 2 per cento a cui è vincolata dal suo mandato; la Germania è in surplus commerciale eccessivo; tutte le parti coinvolte sono in evidente difetto rispetto alle regole che si sono collettivamente e consensualmente date: per una ragione o per l'altra, tutti, alla fine, hanno infranto qualche regola;

              un sistema in cui nessuno riesce a rispettare le regole va ripensato; le misure da attuare subito per rilanciare la domanda, al livello dell'Unione, sono chiare e se non ci fossero vincoli politici e gli interessi dei centri finanziari da salvaguardare, si andrebbe dritti per quella strada; c’è un largo consenso tra gli studiosi sul fatto che quando un'economia è in pericolo di deflazione e appesantita dal debito bisogna attuare politiche di bilancio espansive (attraverso un taglio delle tasse o tramite un aumento della spesa) finanziate dalla Banca centrale;

              il Trattato sul funzionamento della UE (TFUE) all'articolo 126 definisce eccessivo il disavanzo pubblico se il rapporto tra indebitamento e PIL supera il 3 per cento (oltre che se il rapporto debito/PIL supera il 60 per cento): se tale limite viene superato la sanzione più significativa che l'UE potrebbe comminare al nostro Paese è quella di imporci un deposito infruttifero presso la BCE costituito in due parti: una, fissa, dello 0,2 per cento del PIL, e una, variabile, pari allo 0,1 per cento del PIL per ogni punto (o frazione di punto) di sfondamento del 3 per cento; se il deficit è pari al 4 per cento, l'Italia dovrà pagare meno di 5 miliardi, rispetto ai 45 miliardi che il 4 per cento di deficit nel triennio 2015-2017 ci renderebbe disponibili;

              il rispetto rigoroso delle regole e dei parametri imposti dai trattati europei deve essere un comportamento seguito da tutti i partners europei, non sono ammesse eccezioni se non unanimemente concordate: stando a questo principio elementare non si comprende come la Germania possa derogare ampiamente dal rispetto del parametro del surplus commerciale mentre da «bravo scolaretto» il Governo italiano sottolinea in ogni occasione il rispetto del limite del 3 per cento nel rapporto debito/PIL da parte dell'Italia;

              per avviare a soluzione una crisi economico – finanziaria dai disastrosi effetti sociali che dura ormai da più di otto anni, un periodo tanto lungo che il sistema capitalistico non ha mai affrontato prima, è necessario adottare misure shock sul piano economico che mal si conciliano con un misero allentamento della stretta di bilancio e il solo slittamento al 2017 del pareggio di bilancio; ben altre sarebbero le soluzioni che però trovano ostacoli insormontabili nelle troppo rigide regole europee non più al passo con la situazione profondamente cambiata e che richiederebbe una forte e reale flessibilità temporanea concordata, almeno sul rispetto del rapporto deficit/PIL, per un reale rilancio economico e produttivo salvaguardando

nel contempo l'occupazione e i diritti fondamentali del lavoro;

              si sarebbero dovuto predisporre una manovra per triennio 2015-2017 – seguendo l'esempio francese – che prevedesse un congruo indebitamento a sostegno di una seria e condivisa programmazione di politiche di sviluppo sostenibile e per il lavoro, attraverso il superamento di un punto percentuale del limite del 3 per cento nel rapporto deficit/PIL;

              si sarebbe dovuto destinare le risorse che ne risulterebbero, pari a circa 45 miliardi nel triennio considerato, insieme ad altre risorse nazionali, ad un Piano nazionale per il lavoro che prevedesse misure per creare da subito centinaia di migliaia di posti di lavoro; lo Stato deve diventare datore di lavoro di ultima istanza, attraverso la messa in opera di un Programma Nazionale sperimentale triennale di interventi pubblici, un Green New Deal italiano; l'asse di un Piano per il lavoro deve consistere innanzitutto nel favorire la ricerca, l'innovazione e la formazione, nella messa in sicurezza del nostro territorio e degli edifici scolastici, la cura e la valorizzazione del paesaggio e dei beni culturali, il rilancio di un'agricoltura multifunzionale, la riqualificazione delle città, l'efficienza energetica degli immobili, la riforma e il rinnovamento della PA e del welfare, l'innovazione e la sostenibilità delle reti (trasporti, energia, digitalizzazione del Paese);

              la manovra avrebbe dovuto prevedere, nell'ambito della politica industriale nazionale, modalità per un intervento pubblico al fine di salvaguardare gli asset strategici, stimolare le innovazioni e la ricerca, facilitare la riconversione ecologica dell'apparato produttivo, garantire i livelli occupazionali, traendo ispirazione dal meglio dell'esperienza storica dell'IRI;

              viceversa, la manovra predisposta dal Governo riduce le imposte per le imprese senza avere alcuna garanzia che aumenteranno i loro investimenti, che esse non delocalizzeranno i loro siti produttivi o non licenzieranno, oppure che si produrranno reali incrementi occupazionali non sostitutivi;

              si interviene riducendo il costo del lavoro e precarizzando i rapporti di lavoro, togliendo diritti basilari ai lavoratori: si cerca dunque di competere sul profilo basso, senza cercare di aumentare la produttività di tutti i fattori del nostro sistema produttivo, e ci si rassegna a diventare un Paese di serie B;

              infatti, i dati dimostrano che la deregolazione del mercato del lavoro non crea solo precarietà e perdita di diritti, ma anche perdita di produttività e quindi perdita di capacità di crescita; questa svalutazione del lavoro, che andrà aggravandosi quando si dispiegheranno gli effetti nefasti della controriforma del Jobs Act, presuppone imprese di basso valore, che invece di innovare scaricano tutti i costi della competizione internazionale sul costo del lavoro; così facendo ci si rassegna al declino industriale del nostro Paese;

              la manovra del Governo non estende i benefici fiscali a pensionati, partite IVA e incapienti, penalizza ancora una volta i dipendenti pubblici, non prevede investimenti pubblici se non per grandi opere per lo più inutili, lascia irrisolto il problema dei cosiddetti «esodati», non stanzia risorse adeguate per mantenere gli ammortizzatori sociali esistenti, per non dire della loro estensione universale, oltre a penalizzare i giovani professionisti sul piano fiscale;

              la manovra inoltre contiene una clausola di salvaguardia «monstre» che scatterà dal 2016 e che si aggiunge a quella già prevista dal Governo Letta in termini di aumenti di imposte (la quale prevede, al netto dei 3 miliardi inglobati nei saldi dell'attuale legge di stabilità, 4 miliardi per il 2016 e 7 miliardi a decorrere dal 2017); il Governo si impegna ad assicurare il raggiungimento del saldo strutturale di bilancio in pareggio dal 2017, aumentando le aliquote IVA e le imposte indirette per un ammontare di altri 12,4 miliardi nel 2016, 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018: tale clausola, se esercitata,

avrebbe un effetto recessivo pari allo 0,7 percento del PIL nel triennio 2016-2018, dovuto a una contrazione complessiva di consumi e investimenti per 1,3 punti del PIL;

              la manovra avrà comunque effetti recessivi, perché prosegue nella politica dei tagli alla spesa pubblica, anche per coprire la diminuzione delle imposte, tagli che notoriamente hanno un moltiplicatore superiore in termini di crescita del PIL della riduzione delle tasse;

              i ceti popolari pagheranno in termini di riduzione dei servizi essenziali e di incrementi della tassazione locale i pochi benefici dovuti al bonus degli 80 euro;

              considerato che, per quanto riguarda aspetti di competenza della VI Commissione;

              la risposta che in questi anni è stata data alle esigenze di cassa del Bilancio dello Stato, cioè aumentare le imposte, specie indirette, è stata realizzata soprattutto a carico dei lavoratori e dei pensionati, deprimendo ulteriormente l'economia e peggiorando i conti pubblici; inoltre l'impostazione del disegno di legge di stabilità, in materia fiscale, riflette assolutamente una visione secondo la quale il problema italiano sarebbe l'alto costo del lavoro, ed il cosiddetto cuneo fiscale: ci sono infatti diverse disposizioni all'interno del disegno di legge che incidono sul trattamento fiscale sia per il lavoratore sia per l'azienda;

              la manovra prevede la stabilizzazione del cosiddetto bonus degli 80 euro, ma continuando ad escludere dal suo benefico proprio quella platea di cittadini costituita da pensionati ed incapienti che più sta subendo gli effetti recessivi della crisi, dimostra che il Governo confida in una ripresa, grazie ad una modesta spinta dei consumi, che, secondo quanto affermato dal presidente dell'Ufficio parlamentare di Bilancio, si rifletterebbe, come la microsimulazione effettuata su un targeting modesto rispetto alle famiglie in condizioni economiche più difficili, in un incremento della domanda interna di circa appena 0,2 punti di PIL;

              nonostante il numero dei beneficiari del bonus sia elevato, resta comunque esclusa una platea di 29 milioni di contribuenti tra i quali 15 milioni di pensionati, 4 milioni di dipendenti incapienti e di 6 milioni di cosiddette piccole partite IVA, 400.000 esodati e circa 3 milioni di disoccupati; un primo segnale tangibile di giustizia redistributiva suggerirebbe di ricomprendere nel perimetro dei beneficiari anche queste categorie di contribuenti, operazione che però non può rinviare l'esigenza di una radicale riforma del prelievo fiscale: ormai è rimasta solo l'IRPEF ad assicurare la progressività prescritta dall'articolo 53 della Costituzione, imposta pagata per oltre l'80 per cento dai redditi fissi: per tale ragione è necessario un cambiamento dell'architettura delle imposte, il cui prelievo deve essere il più possibile progressivo, deve insistere anche su successioni e patrimonio (anch'essi da tassare proporzionalmente), penalizzare la rendita improduttiva e orientare risorse verso il lavoro, la creazione di ricchezza produttiva, lo sviluppo e l'innovazione;

              la suddetta misura stride anche se affiancata all'ulteriore innalzamento della tassazione indiretta, in particolare dell'IVA, indotto dall'attivazione della clausola di salvaguardia di cui all'articolo 45, commi 3 e 4, che comporterà effetti deleteri sui consumi delle famiglie oltre a non garantire il gettito atteso stante il drastico e repentino incremento di imposizione che determinerà, come conseguenza, l'ulteriore crollo dei consumi;

              le misure introdotte per potenziare il contrasto all'evasione fiscale, come l'adempimento volontario o il ravvedimento operoso, ed il cosiddetto reverse charge, quest'ultimo ancora ampliabile ad altri settori come il commercio, sono condivisibili e si muovono nella direzione da noi auspicata, anche se una vera svolta nella lotta all'evasione non dovrebbe prescindere da un ampliamento del contrasto di interessi, da un potenziamento del ruolo

degli enti locali nell'attività di contrasto e da una riorganizzazione dell'apparato statale attraverso la creazione di una vera e propria struttura per l'accertamento, dedicata esclusivamente ai controlli; inoltre, occorre porsi obiettivi ambiziosi, pianificando la drastica e definitiva riduzione di tutta l'evasione fiscale, incentivando l'utilizzo della moneta elettronica e garantendo la tracciabilità dei pagamenti e del giro d'affari attraverso il conto dedicato per i professionisti, la trasmissione telematica dei corrispettivi per i commercianti al minuto ed il rafforzamento del nuovo elenco clienti fornitori, oltre al semplicissimo e già sperimentato tracciamento degli incassi dei distributori automatici;

              anche la riduzione generalizzata dell'IRAP, che rappresenta la maggiore entrata fiscale degli enti territoriali, e stimata in 5.600 milioni annui, avrà un impatto pressoché nullo sul PIL nel 2015, come del resto certificato dallo stesso Ufficio parlamentare di Bilancio, senza peraltro essere compensata, a garanzia del finanziamento dei livelli essenziali di assistenza sanitaria; non si deve infatti dimenticare che l'imposta sulle attività produttive, nasce per riunificare, diminuendone, tra l'altro, il peso complessivo, varie imposte e contributi – primo fra tutti quello per il SSN – che erano pagati sulla retribuzione di ogni singolo lavoratore;

              quest'ultima considerazione non esclude che si possa attribuire una funzione di politica economica alla modulazione dell'imposta: pur essendo pertanto condivisibile la scelta di incentivare le aziende che assumono stabilmente dipendenti, la soluzione individuata dal Governo non effettua distinzioni tra aziende che vogliono investire ed aziende che sono in smobilitazione, tra aziende che assumono innovando ed aziende che invece puntano solo alla svalutazione del lavoro: crediamo quindi che questo ingente sgravio avrebbe potuto essere più selettivo ed orientato, dentro una politica di sostegno alla domanda, agli investimenti, all'uscita dalla crisi, anziché essere la continuazione di una pratica di diminuzione del costo del lavoro quale unica ricetta, di dubbia efficacia, per sostenere l'occupazione la cui carenza è figlia di una crisi di domanda che può essere superata solo attraverso politiche di creazione di lavoro e di sviluppo non convenzionali;

              anche la previsione della corresponsione in busta paga, ad integrazione della retribuzione, delle maturande quote del TFR, al fine di innalzare la liquidità spendibile del lavoratore, rappresentano una misura improvvisata e priva di lungimiranza, o meglio un modalità affatto trasparente per aumentare il gettito attraverso l'anticipo della tassazione IRPEF, operata con l'aliquota marginale del relativo scaglione di reddito, che comporterà inevitabili ripercussioni sugli accantonamenti di milioni di lavoratori iscritti alla previdenza complementare; la disposizione avrà inoltre scarsi risultati sulla domanda poiché i lavoratori opteranno per l'anticipazione in busta paga soprattutto per far fronte ad evenienze critiche, ad indebitamenti che rendano necessaria questa liquidità, e, per questo, è meno probabile che utilizzino il TFR liberato allo scopo di aumentare i propri consumi;

              l'aumento esponenziale dall'11 per cento al 17 per cento della tassazione applicata ai rendimenti dei fondi pensione, di cui all'articolo 44, commi da 1 a 5, penalizzerà i lavoratori con un aggravio di tassazione, oltre a lanciare ennesimo segnale di incertezza, rischia di allontanare gli iscritti attuali e potenziali dal c.d. secondo pilastro che andrebbe invece maggiormente diffuso;

              quest'ultimo intervento normativo testimonia di una sorta di schizofrenia del Governo che, mentre concede la possibilità di percepire il TFR in busta paga al prezzo di una tassazione superiore, allo stesso tempo innalza la pressione fiscale sulle forme in cui tale retribuzione differita è attualmente accumulata: TFR in azienda e previdenza complementare; risulta davvero intollerabile che si siano prodotte in questi anni politiche previdenziali che, riducendo la tutela pensionistica pubblica,

hanno riversato sui lavoratori il carico di una integrazione attraverso i Fondi contrattuali e che ora il Governo rimetta in discussione uno dei patti fondativi di quel percorso, cioè quel sostegno fiscale che, in ragione della valenza generale della pensione integrativa, veniva riconosciuto al risparmio previdenziale del lavoratore;

              la disposizione di cui all'articolo 9 introduce un nuovo regime agevolato per gli autonomi stabilendo dei tetti di reddito sui quali si pagherà una tassa onnicomprensiva del 15 per cento, determinati applicando un «coefficiente di redditività» ai propri ricavi o compensi lordi e stabilito per legge a seconda dell'attività svolta; le tabelle di riferimento finora pubblicate sembrano fare diventare questo regime dei minimi utile più per artigiani, commercianti, ristoratori e piccoli servizi di alloggio che per i professionisti con partita IVA individuale che svolgono professioni non ordinistiche, e che sono la gran parte delle partite IVA iscritte in gestione separata che, vere o false che siano, sono comunque fiscalmente sofferenti, tra i quali molti giovani professionisti; i primi, infatti, oltre a potersi assestare su tetti di ricavi maggiori e di una redditività inferiore, possono approfittare della sospensione dei minimali INPS; i secondi invece, dato il basso tetto per rientrare tra i contribuenti minimi potrebbero addirittura avere convenienza a non aderirvi, poiché con 15.000 euro di ricavo già attualmente le imposte calcolate con regime ordinario sarebbero molto basse, specie se vi sono spese da dedurre;

              di fatto, per come è organizzato, questo nuovo sistema rischia di non essere conveniente per le partite IVA, se non per quelle false (con un solo committente, senza spese, senza investimenti, neanche minimi, per la propria attività di lavoro) e per i commercianti e i piccoli artigiani;

DELIBERA DI RIFERIRE
IN SENSO CONTRARIO

VII COMMISSIONE PERMANENTE
(Cultura, scienza e istruzione)
VII COMMISSIONE PERMANENTE
(Cultura, scienza e istruzione)
RELAZIONE    DI    MINORANZA
sui
DISEGNI DI LEGGE
Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017 (2680)
Stato di previsione del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017
(Tabella n. 7)
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015) (2679-bis)
dei deputati Simone Valente, Luigi Gallo, Brescia, Vacca, Marzana, D'Uva e Di Benedetto

      La VII Commissione,

          esaminate, per le parti di competenza, la Tabella n. 7, recante lo stato di previsione per l'anno finanziario 2015, del disegno di legge C. 2680, recante «Bilancio dello Stato per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017», e le connesse parti del disegno di legge C. 2679-bis, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2015)»;

          per quanto concerne le materie di competenza della Commissione,

          premesso che:

              lo stato di previsione del MIUR, a legislazione vigente, reca, per lo stesso

esercizio finanziario 2015, spese in conto competenza per 51.484,9 milioni di euro;

              rispetto alle previsioni assestate per l'esercizio finanziario 2014 – quali riportate nel disegno di legge di bilancio 2015 – si registra, all'esito di variazioni di segno opposto, una riduzione di euro 567,4 milioni;

              in particolare, lo stanziamento complessivo per la missione Istruzione universitaria – articolata in 3 programmi – pari, come si è visto, a euro 7.639,2 milioni, corrisponde al 14,8 per cento dello stanziamento del Ministero (-euro 232,1 milioni, pari a -2,9 per cento, rispetto all'assestamento 2014);

              inoltre, si segnala che lo stanziamento complessivo per la missione Ricerca e innovazione – ora articolata in unico programma – pari, come si è visto, a euro 2.038,7 milioni, (-euro 121,7 milioni, pari a -5,6 per cento, rispetto all'assestamento 2014);

              l'Italia conferma di essere dunque ancor molto lontana dalla media europea e dagli obiettivi indicati dagli organismi dell'Unione Europea in quanto a spesa pubblica per istruzione e ricerca;

          considerato che:

              l'articolo 3 del disegno di legge di stabilità istituisce nello stato di previsione del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca il Fondo per la realizzazione del Piano «La Buona Scuola», con la dotazione di 1 miliardo di euro per il 2015 e di 3 miliardi di euro dal 2016. Il Fondo è finalizzato, in via prioritaria, alla realizzazione di un piano straordinario di assunzione di docenti e al potenziamento dell'alternanza scuola-lavoro;

              gli articoli 17, comma 10, e 28, comma 16, dispongono, rispettivamente, dal 2015, un aumento delle risorse da destinare al Fondo per il finanziamento ordinario delle università (FFO, capitolo 1694) al fine di incrementare la quota premiale e una riduzione di risorse da destinare al medesimo Fondo in considerazione della razionalizzazione della spesa per acquisto di beni e servizi che le università dovranno conseguire;

              pertanto, a seguito del combinato disposto di tutte le previsioni normative citate, lo stanziamento per il 2015 – pari ad euro 6.815,2 milioni nel disegno di legge di bilancio, a legislazione vigente, – passerebbe ad euro 6.927,7, quindi senza variazioni significative;

              il comma 16 dell'articolo 28 prevede la riduzione del Fondo per il finanziamento ordinario (FFO) delle università per 34 milioni di euro nel 2015 e per 32 milioni di euro dal 2016;

              l'articolo 20, al comma 1, dispone la riduzione dei trasferimenti dal bilancio dello Stato in favore di enti e organismi pubblici indicati nell'allegato 6 al disegno di legge in esame, che per quanto riguarda il MIUR comporta un taglio di oltre 2 milioni di euro;

              le disposizioni di cui all'articolo 21, relative al blocco degli incrementi stipendiali nel pubblico impiego, penalizzano il personale del comparto scuola per oltre 350 milioni di euro;

              l'articolo 24 dispone la riduzione delle dotazioni di bilancio, sia in termini di competenza che di cassa, degli stati di previsione dei singoli Ministeri, in particolare per il MIUR si prevede una riduzione di 148,6 milioni per il 2015, 136,2 milioni per il 2016 e 136,2 milioni per il 2017;

              il comma 3 dell'articolo 27 opera riduzioni degli stanziamenti per le indennità di servizio all'estero del personale docente delle scuole italiane all'estero, infatti, l'autorizzazione di spesa per il personale in servizio nelle istituzioni scolastiche e culturali all'estero – è ridotta nella misura di 3,7 milioni per il 2015, e di 5,1 milioni a decorrere dal 2016;

              l'articolo 28 dispone in materia di tagli penalizzando il MIUR con una riduzione che si aggira intorno i 300 milioni di euro;

              i tagli di 180 milioni complessivi al FIS, agli organici ATA di oltre 2000 unità, l'abolizione degli esoneri e dei semiesoneri per i collaboratori dei dirigenti scolastici, l'eliminazione delle supplenze brevi pregiudicano il funzionamento degli istituti scolastici, già fortemente penalizzati dalle politiche degli ultimi governi;

          considerato che:

              le risorse stanziate dall'articolo 3 sono destinate alla realizzazione del progetto «La Buona Scuola» piuttosto evanescente, trattandosi di semplici dichiarazioni d'intenti, ancora oggetto di consultazione online e quindi per definizione suscettibile di modificazioni. Deve pertanto rilevarsi che il riferimento in legge di stabilità appare del tutto privo di portata normativa;

              le succitate risorse sono ben lontane dal rappresentare l'inversione di tendenza pubblicizzata dal Governo, poiché altro non sono che una compensazione dei forti tagli presenti anche in questa manovra finanziaria e che non portano al settore alcuna risorsa aggiuntiva;

              non si intravedono in legge di stabilità interventi capaci di rilanciare il settore e tantomeno di risolvere gli innumerevoli problemi che attanagliano il mondo dell'istruzione, dell'università e della ricerca;

          rilevato che:

              risulta evidente la mancanza di volontà di superare i limiti di scelte politiche risultate fallimentari, come ad esempio la quota premiale prevista per le università. La legge di stabilità incrementa di 150 milioni le risorse destinate a questo scopo ma non interviene su un meccanismo di premialità basato su criteri che inevitabilmente penalizzano le università più deboli;

              si maschera ancora una volta l'intervento a sostegno delle scuole paritarie; il comma 9 dell'articolo 17 stanzia 200 milioni per un programma di interventi in materia di istruzione da definirsi con un decreto ministeriale da adottarsi previa intesa in Conferenza unificata ma la stessa relazione tecnica fa riferimento al finanziamento delle scuole non statali. Si tratta di una palese elusione del giudicato costituzionale, com’è noto nella sentenza n. 50 del 2008 la Consulta giudicò lesiva dell'autonomia legislativa e finanziaria delle Regioni la norma che attribuiva risorse vincolate; questo atteggiamento in linea con il recente decreto sblocca Italia che all'articolo 42 ha reso vano l'accordo, non ancora raggiunto, in sede di Conferenza di fatto confermando una scarsa attenzione al rispetto della competenze costituzionalmente stabilite;

          considerato infine che:

              tenuto conto che la legge di stabilità e di bilancio avrebbe dovuto altresì:

                  prevedere interventi mirati a risolvere le problematiche relative al personale, all'edilizia scolastica, all'incremento del tempo pieno, alla lotta alla dispersione scolastica, all'innovazione tecnologica della didattica e degli ambienti di apprendimento, al potenziamento degli interventi per il diritto allo studio; nella consapevolezza che la scuola dovrebbe rappresentare uno dei più importanti fattori di crescita sociale e culturale del Paese;

                  adottare iniziative concrete per rilanciare, anche economicamente, il sistema universitario italiano, modernizzando le università italiane con la digitalizzazione dell'offerta didattica, introducendo forme sistematiche di valutazione efficace dell'utilizzo di risorse, incentivi e disincentivi con fondi premiali aggiuntivi e non sostitutivi, nella consapevolezza che l'università deve essere un motore essenziale della mobilità sociale e della crescita sociale e culturale del Paese, nonché interventi finalizzati a ridurre la contribuzione universitaria che pesa come un macigno sugli studenti;

                  reperire i fondi necessari al fine di favorire e di non penalizzare il comparto della ricerca, a partire da quella di base, con l'obiettivo di creare una nuova leva di giovani ricercatori e di investire su di essi come risorsa per modernizzare tanto il funzionamento delle istituzioni di ricerca quanto l'università, rendendola un motore essenziale della mobilità sociale e della crescita, e che rispetto a tali obiettivi il Governo dimostra di rimanere lontano da qualsiasi iniziativa concreta;

              per le ragioni illustrate in premessa,

DELIBERA DI RIFERIRE
IN SENSO CONTRARIO

VIII COMMISSIONE PERMANENTE
(Ambiente, territorio e lavori pubblici)
VIII COMMISSIONE PERMANENTE
(Ambiente, territorio e lavori pubblici)
RELAZIONE    DI    MINORANZA
sui
DISEGNI DI LEGGE
Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017 (2680)
Stato di previsione del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017
(Tabella n. 9)
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015) (2679-bis)
dei deputati Pellegrino e Zaratti

      La VIII Commissione,

          esaminato il disegno di legge di stabilità 2015 C 2679-bis, premesso che:

              la legge di stabilità rappresenta un momento fondamentale del disegno di politica economica che ogni Governo deve realizzare;

              dopo le richieste di chiarimento da parte della Commissione UE il Governo ha ulteriormente accentuato il carattere recessivo della manovra di finanza pubblica accettando nei fatti una correzione del deficit di circa lo 0,4 per cento (0,38 per cento = 1,6 miliardi (0,1 per cento) 4,5 miliardi (0,28 per cento) di cui alla lettera di risposta del Ministro Padoan alla Commissione);

              la manovra contiene l'ulteriore rinvio del pareggio di bilancio al 2017 e

l'indicazione di un obiettivo per il deficit attorno al 3 per cento per il 2014 e di circa il 2,5 per cento per il 2015 (dopo le correzioni richieste dalla Commissione UE). La volontà espressa di perseguire una politica di bilancio leggermente meno restrittiva risulterebbe di per sé un elemento positivo, ma ciò che preoccupa fortemente è l'assoluta mancanza di una definizione strategica organica e coerente di rilancio dell'economia italiana, dalle politiche industriali alle politiche del lavoro, al sostegno alla domanda;

              l'Europa ha risposto alla crescente instabilità dei mercati finanziari imboccando la strada dell'austerità. Non può sfuggire il fallimento dell'approccio degli ultimi anni che a partire dalla primavera 2010 ha visto il varo di programmi di riequilibrio dei conti pubblici pesantissimi, simultanei e concentrati in un lasso di tempo relativamente breve. Il riequilibrio dei conti pubblici è avvenuto al prezzo di pesanti ricadute economiche e sociali (catastrofiche, nel caso greco). La finanza speculativa e i settori più ricchi della popolazione ne sono usciti rafforzati a spese dei ceti popolari;

              il 2014 non è stato l'anno della ripresa, come le previsioni stimavano, ma il terzo di recessione per l'economia italiana. Il PIL italiano è sceso di più del 9 per cento rispetto al livello del 2008. Il nostro Paese corre un serio rischio di deflazione e di arrivare ad un quarto anno di recessione. Con questo prolungamento, l'esperienza della crisi per il nostro Paese si conferma peggiore di quella degli anni trenta. Un confronto storico sfavorevole che è condiviso con molte altre economie europee. Oggi come allora, la recessione ha una sola causa: la caduta della domanda aggregata. Su questa avrebbero dovuto intervenire le misure per la ripresa a livello europeo. Al contrario, la politica economica adottata ha sospinto i paesi in una pericolosa trappola di stagnazione e deflazione. Occorre che si cambi lo schema in modo radicale, con l'impostazione di politiche monetarie e fiscali espansive coordinate tra le economie europee;

              ma le politiche dei singoli Paesi dell'UE, vincolati dai parametri statistici e dalle procedure del Fiscal Compact, appaino come ingessate;

              le misure fin qui adottate dal 2011 ad oggi dai diversi Governi italiani hanno peggiorato notevolmente le finanze pubbliche del nostro Paese, portando la nostra economia alla recessione, deprimendo i consumi delle famiglie e aumentando notevolmente la disoccupazione, in particolare quella dei giovani. Politiche analoghe sono state imposte in quasi tutti i Paesi della UE;

              le conseguenze di questa politica sono sotto gli occhi di tutti: oggi, quasi 27 milioni di persone sono disoccupate nell'Unione Europea. La disoccupazione nell'eurozona è salita dal 7,8 per cento del 2008 al 12,1 per cento del novembre 2013. In Grecia, dal 7,7 per cento al 24,4 per cento e in Spagna dal 11,3 per cento al 26,7 per cento nello stesso periodo. In Europa, i disoccupati con meno di 25 anni sono 4,5 milioni. Nella sola Italia, la disoccupazione giovanile, secondo i recenti dati Istat ha toccato il 44,2 per cento ed i disoccupati sono 6 milioni;

              in Italia nonostante si siano già succeduti tre differenti governi la linea seguita è sempre la stessa: quella impostaci dalla BCE. L'attuale Governo sta per altro cercando di accelerare l'attuazione delle indicazioni contenute nella lettera dell'agosto 2011 della stessa BCE, per il momento solo parzialmente realizzate. Anche se i dati confermano il non funzionamento di quelle politiche imposte dalla UE la nota di aggiornamento del DEF, esso persegue testardamente nell'applicazione di quelle stesse indicazioni;

              lo slittamento al 2017 del pareggio di bilancio non rappresenta una vera sfida alla Commissione europea come lo è la decisione francese di mantenere il deficit sopra il 4 per cento per i prossimi anni;

              la Francia ha infatti dichiarato che non rientrerà nei limiti del deficit del 3 per cento fino al 2017, l'Italia è vicina a

sforarlo anche se continua ad affermare che lo rispetterà. La Banca centrale europea è da tempo ben sotto all'obiettivo dell'inflazione al 2 per cento a cui è vincolata dal suo mandato. La Germania è in surplus commerciale eccessivo. Tutte le parti coinvolte sono in evidente difetto rispetto alle regole che si sono collettivamente e consensualmente date. Per una ragione o per l'altra, tutti, alla fine, hanno infranto qualche regola;

              un sistema in cui nessuno riesce a rispettare le regole va ripensato. Le misure da attuare subito per rilanciare la domanda, al livello dell'Unione, sono chiare e se non ci fossero vincoli politici e gli interessi dei centri finanziari da salvaguardare, si andrebbe dritti per quella strada. C’è un largo consenso tra gli studiosi sul fatto che quando un'economia è in pericolo di deflazione e appesantita dal debito bisogna attuare politiche di bilancio espansive (attraverso un taglio delle tasse o tramite un aumento della spesa) finanziate dalla Banca centrale;

              il Trattato di funzionamento della UE (TFUE) all'articolo 126 definisce eccessivo il disavanzo pubblico se il rapporto tra indebitamento e PIL supera il 3 per cento (oltre che se il rapporto debito/PIL supera il 60 per cento). Se tale limite viene superato la sanzione più significativa che l'UE potrebbe comminare al nostro Paese è quella di imporci un deposito infruttifero presso la BCE costituito in due parti. Una fissa dello 0,2 per cento del PIL, e una variabile, pari allo 0,1 per cento del PIL per ogni punto (o frazione di punto) di sfondamento del 3 per cento. Se il deficit è pari al 4 per cento l'Italia dovrà pagare meno di 5 miliardi, rispetto ai 45 miliardi che il 4 per cento di deficit nel triennio 2015-2017 ci renderebbe disponibili;

              il rispetto rigoroso delle regole e del sottostare ai parametri imposti dai trattati deve essere un comportamento seguito da tutti i partners europei, non sono ammesse eccezioni se non unanimemente concordate. Stando a questo principio elementare non si comprende come la Germania possa derogare ampiamente dal rispetto del parametro del surplus commerciale mentre da «bravo scolaretto» il Governo italiano sottolinea in ogni occasione il rispetto del limite del 3 per cento nel rapporto debito/Pil da parte dell'Italia;

              per avviare a soluzione una crisi economico finanziaria dai disastrosi effetti sociali che dura ormai da più di otto anni, un periodo talmente lungo che il sistema capitalistico non ha mai affrontato prima, è necessario adottare misure shock sul piano economico che mal si conciliano con un misero allentamento della stretta di bilancio e il solo slittamento al 2017 del pareggio di bilancio. Ben altre sarebbero le soluzioni che però trovano ostacoli insormontabili nelle troppo rigide regole europee non più al passo con la situazione profondamente cambiata e che richiederebbe una forte e reale flessibilità temporanea concordata, almeno sul rispetto del rapporto deficit/Pil, per un reale rilancio economico e produttivo salvaguardando nel contempo l'occupazione e i diritti fondamentali del lavoro;

              si sarebbero dovuto predisporre una manovra per triennio 2015-2017 – seguendo l'esempio francese – che prevedesse un congruo indebitamento a sostegno di una seria e condivisa programmazione di politiche di sviluppo sostenibile e per il lavoro, attraverso il superamento di un punto percentuale del limite del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil;

              si sarebbe dovuto destinare le risorse che ne risulterebbero, pari a circa 45 miliardi nel triennio considerato, insieme ad altre risorse nazionali, ad un Piano nazionale per il lavoro che prevedesse misure per creare da subito centinaia di migliaia di posti di lavoro. Lo Stato deve diventare datore di lavoro di ultima istanza attraverso la messa in opera di un Programma Nazionale sperimentale triennale di interventi pubblici, un Green New Deal italiano. L'asse di un Piano per il lavoro, deve consistere innanzitutto nel favorire la ricerca, l'innovazione e la formazione,

nella messa in sicurezza del nostro territorio e degli edifici scolastici, la cura e la valorizzazione del paesaggio e dei beni culturali, il rilancio di un'agricoltura multifunzionale, la riqualificazione delle città, l'efficienza energetica degli immobili, la riforma e il rinnovamento della PA e del welfare, l'innovazione e la sostenibilità delle reti (trasporti, energia, digitalizzazione del Paese,...);

              la manovra avrebbe dovuto prevedere, nell'ambito della politica industriale nazionale, modalità per un intervento pubblico al fine di salvaguardare gli asset strategici, stimolare le innovazioni e la ricerca, facilitare la riconversione ecologica dell'apparato produttivo, garantire i livelli occupazionali, traendo ispirazione dal meglio dell'esperienza storica dell'IRI;

              viceversa, la manovra predisposta dal Governo riduce le imposte per le imprese senza avere alcuna garanzia che aumenteranno i loro investimenti, che non delocalizzeranno i loro siti produttivi o che non licenzieranno oppure che si produrranno reali incrementi occupazionali non sostitutivi;

              si interviene riducendo il costo del lavoro e precarizzando i rapporti di lavoro, togliendo diritti basilari ai lavoratori: si cerca dunque di competere sul profilo basso senza cercare di aumentare la produttività di tutti i fattori del nostro sistema produttivo, e ci si rassegna a diventare un Paese di serie B;

              infatti, i dati dimostrano che la deregolazione del mercato del lavoro non crea solo precarietà e perdita di diritti, ma anche perdita di produttività e quindi perdita di capacità di crescita; questa svalutazione del lavoro che andrà aggravandosi quando si dispiegheranno gli effetti nefasti della controriforma del Jobs Act presuppone imprese di basso valore, che invece di innovare scaricano tutti i costi della competizione internazionale sul costo del lavoro; così facendo ci si rassegna al declino industriale del nostro Paese;

              essa non estende i benefici fiscali a pensionati, partite Iva e incapienti, penalizza ancora una volta i dipendenti pubblici, non prevede investimenti pubblici se non per grandi opere per lo più inutili, lascia irrisolto il problema dei cd. «esodati», non prevede risorse adeguate per mantenere gli ammortizzatori sociali esistenti per non dire della loro estensione universale, penalizza i giovani professionisti sul piano fiscale;

              la manovra contiene una clausola di salvaguardia «monstre» che scatterà dal 2016 e che si aggiunge a quella già prevista dal Governo Letta in termini di aumenti di imposte (la quale prevede, al netto dei 3 miliardi inglobati nei saldi dell'attuale legge di stabilità, 4 miliardi per il 2016 e 7 miliardi a decorrere dal 2017); il Governo si impegna ad assicurare il raggiungimento del saldo strutturale di bilancio in pareggio dal 2017 aumentando le aliquote Iva e le imposte indirette per un ammontare di altri 12,4 miliardi nel 2016, 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. La clausola se esercitata avrebbe però un effetto recessivo pari allo 0,7 per cento del PIL nel triennio 2016-2018 dovuta ad una contrazione complessiva di consumi ed investimenti per 1,3 punti del PIL;

              la manovra avrà comunque effetti recessivi perché prosegue nella politica dei tagli alla spesa pubblica anche per coprire la diminuzione delle imposte, tagli che notoriamente hanno un moltiplicatore superiore in termini di crescita del PIL della riduzione delle tasse;

              i ceti popolari pagheranno in termini di riduzione dei servizi essenziali e di incrementi della tassazione locale i pochi benefici dovuti al bonus da 80 euro;

          considerato inoltre, per quanto riguarda le parti di competenza della Commissione Ambiente:

              a fronte di ingentissime risorse previste per le grandi opere, e la rimodulazione di quasi 4 miliardi di euro decisa con il decreto legge Sblocca Italia per le medesime finalità, per gli interventi di messa in sicurezza del nostro territorio si

continuano a mettere in campo stanziamenti ridicoli laddove, in tabella E, vengono stanziati per il 2015 e 2016 rispettivamente solo 50 e 100 milioni di euro;

              e queste risorse, a fronte di uno stanziamento per la TAV di 242,7 milioni di euro nel 2015, 140, 5 milioni di euro nel 2016, 102,540 milioni di euro nel 2017, 1 miliardo e 972 milioni di euro a decorrere dal 2018; e per il MOSE di 261,5 milioni di euro nel 2015 e 333,2 milioni di euro nel 2016 a cui si sommano altre risorse pari a ulteriori 122, 7 milioni di euro nel 2015, 116,6 milioni di euro nel 2016 e 131,3 milioni di euro nel 2017;

              ancora una volta si perde l'occasione, con questa legge di stabilità, di predisporre e avviare un vero programma pluriennale di contrasto al dissesto idrogeologico del nostro Paese quale vera e prioritaria «grande opera» infrastrutturale in grado non solamente di mettere in sicurezza il nostro fragile territorio, ma di attivare migliaia di cantieri distribuiti sul territorio, con evidenti e importanti ricadute dal punto di vista anche economico e occupazionale;

              i sempre più frequenti fenomeni alluvionali e calamitosi che colpiscono il nostro Paese – come le alluvioni di questi ultimi mesi stanno ancora una volta a dimostrare – mettono infatti in luce drammaticamente l'estrema fragilità del nostro territorio e la necessità di una sua ormai improcrastinabile messa in sicurezza complessiva;

              le risorse complessivamente assegnate al Ministero dell'Ambiente e più in generale alle politiche ambientali, vengono anche quest'anno sensibilmente ridotte;

              il provvedimento in esame taglia un milione di euro per ciascun anno del triennio 2015-2017 le risorse a favore della flotta aerea del Corpo forestale dello Stato da usare per la «Terra dei fuochi», per il monitoraggio del territorio rurale e la lotta alla combustione dei rifiuti in aree a vocazione agricola;

              vengono ridotte di 4,8 milioni per il 2015, 7 milioni per il 2016, 6,5 milioni per il 2017, le risorse per la Convenzione sui cambiamenti climatici (Protocollo di Kyoto);

              l'articolo 24 riduce le dotazioni finanziarie del Ministero dell'Ambiente di 6,58 milioni di euro per il 2015; 6,4 milioni per il 2016; 6,9 milioni dal 2017. I tagli imposti quindi non sono solo per il triennio ma si prevedono anche per gli anni successivi al 2017;

              l'articolo 29 taglia di 1 milione di euro a partire dal 2015, le risorse assegnate per l'attuazione della Convenzione sulla biodiversità, fatta a Rio de Janeiro il 5 giugno 1992 (ratificata con legge 124/1994), un trattato vincolante per il nostro Paese finalizzato a finanziarie politiche per la conservazione della biodiversità, per l'uso sostenibile della biodiversità, per la giusta ed equa ripartizione dei benefici derivanti dall'utilizzo delle risorse genetiche;

              rispetto a quanto stanziato per il 2014 dalla precedente legge di stabilità, il disegno di legge in esame, seppur aumenta le dotazioni del Fondo emergenze nazionali, riduce complessivamente le risorse destinate alla Protezione civile. Vengono altresì tagliate le risorse a favore dell'Enea, dell'Ispra e per il funzionamento delle aree protette;

              seppur a fronte di una condivisibile proroga delle vigenti detrazioni fiscali per le spese finalizzate al risparmio ed efficientamento energetico, nonché per le ristrutturazioni edilizie; non si provvede a rifinanziare la vigente detrazione del 65 per cento relativa alle spese per l'adeguamento antisismico e la messa in sicurezza statica su edifici ricadenti nelle zone sismiche ad alta pericolosità (zone 1 e 2);

      per le ragioni illustrate in premessa,

DELIBERA DI RIFERIRE
IN SENSO CONTRARIO

VIII COMMISSIONE PERMANENTE
(Ambiente, territorio e lavori pubblici)
RELAZIONE    DI    MINORANZA
sui
DISEGNI DI LEGGE
Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017 (2680)
Stato di previsione del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017
(Tabella n. 9)
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015) (2679-bis)
dei deputati Terzoni, Segoni, Busto, Daga, De Rosa, Mannino, Micillo e Zolezzi

      La VIII Commissione,

          premesso che:

              la manovra del Governo Renzi si attesta su un valore complessivo di 36 miliardi, dei quali ben 15 miliardi dalla spending review, promossa come un taglio agli sprechi, ma che potrebbe tradursi nella riduzione dei servizi ai cittadini, 11 miliardi dall'aumento del deficit, ossia la decisione di procrastinare interventi strutturali sui conti pubblici, 3,8 miliardi dovrebbero arrivare dalla lotta all'evasione, 3,6 mld dalla tassazione delle rendite finanziarie, 1 mld dalle slot machine e 1 mld dalla riprogrammazione dei fondi europei;

              la parte «espansiva» della manovra, ossia quella che punta ad impegnare risorse con l'obiettivo di rilanciare l'economia, si basa prevalentemente sul mantenimento del bonus 80 euro, per un

importo di circa 10 miliardi di euro, e su un consistente taglio all'IRAP per le imprese, pari a circa 5 mld di euro); a queste misure si aggiungono alcune voci, tra le quali le cosiddette «spese a legislazione vigente» – ossia spese considerate indifferibili e che incidono per quasi 7 mld di euro sull'importo complessivo della manovra –, la totale decontribuzione per le nuove assunzioni a tempo indeterminato (1,9 mld di euro), gli 80 euro per i nuovi nati (0,2 mld di euro nel 2015, che diventeranno 1 mld nel 2017), gli interventi per la scuola (1 mld di euro), l'allentamento del patto di stabilità per i comuni (1 mld di euro), nuovi ammortizzatori sociali (1,5 mld di euro), il cofinanziamento di progetti comunitari (1,2 mld di euro);

              l'articolo 8 proroga per tutto il 2015 le attuali condizioni per usufruire dell'Ecobonus. Con le modifiche apportate al d.l. 63 del 2013 viene estesa a tutto il 2015 la detrazione del 65 per cento, da suddividere in 10 quote annuali di pari importo, per le spese sostenute nel 2015 per interventi di riqualificazione energetica degli edifici, fino ad un ammontare di 96 mila euro per unità immobiliare; la norma estende al 2015 anche la detrazione fiscale del 50 per cento per gli interventi di ristrutturazione fino ad un tetto di spesa di 96 mila euro e l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici; la norma appare condivisibile e sarebbe opportuno prolungarne gli effetti anche al 2016, con l'obiettivo di rendere la misura strutturale per gli anni successivi;

              l'articolo 17 ha la classica struttura dell'articolo finalizzato a distribuire risorse senza particolari criteri di programmazione; tra gli stanziamenti previsti dall'articolo si segnalano: 250 milioni in favore del settore dell'autotrasporto; 1700 milioni di euro nel biennio 2015-2016 per le cosiddette «missioni di pace», una proroga dell'obbligo di tracciabilità di vendita e rese dei giornali che beneficiano di sovvenzioni statali (la relazione tecnica stima un costo per la collettività di 8,5 milioni di euro); per alcune di queste norme – tra cui la proroga di tre anni degli interventi delle forze armate nel controllo della cosiddetta «Terra dei Fuochi – è stato disposto lo stralcio ai sensi dell'articolo 120, comma 2, del Regolamento, in quanto estranee al contenuto proprio della legge di stabilità, come definito dall'articolo 11 della legge 31 dicembre 2009, n. 196;

              anche l'articolo 19 ha una struttura piuttosto eterogenea e contiene interventi nei settori più disparati. Si va dai tagli agli aiuti per le imprese previsti da alcune norme di settore, all'eliminazione delle agevolazioni per l'acquisto di autoveicoli previste per il 2015 (bonus rottamazione), alla revisione dei criteri per l'acquisto di mezzi per il trasporto pubblico locale (sia su gomma sia su rotaia). Abbastanza singolare l'inserimento di criteri per la strategia di sviluppo della rete ferroviaria, così come l'individuazione di specifiche opere con indicazioni sulle modalità di intervento del CIPE per la loro realizzazione (tratta AV Brescia-Verona-Padova, tratta terzo valico dei Giovi, tratta tunnel ferroviario del Brennero). Ancora una volta non solo si abbandona la logica della programmazione – come avvenuto irrimediabilmente con la legge obiettivo, che ha depotenziato il piano nazionale dei trasporti e della logistica per affidarsi alla mera elencazione di opere prioritarie allegate al Documento di Economia e Finanza – ma si disperdono in mille rivoli gli interventi normativi riguardanti gli interventi infrastrutturali;

              l'articolo 20 prevede una serie di misure di risparmio che non risparmiano il ministero dell'ambiente; in particolare sono previste la decurtazione di 600 mila euro all'ISPRA a decorrere dal 2015 e un ulteriore taglio di un milione agli enti parco, i cui bilanci hanno visto una costante e progressiva riduzione negli ultimi anni;

              l'articolo 22 contiene due disposizioni finalizzate ad agevolare l'alienazione degli immobili; la prima è quella di consentire, oltre alla trattativa privata, anche l'avvio di una procedura ristretta con

invito a partecipare, in modo da ampliare la platea dei soggetti potenzialmente interessati e da creare un regime minimo di concorrenza che consenta di mantenere un prezzo di vendita adeguato; la seconda è l'istituzione di un fondo di rotazione – pari a 20 milioni di euro – per permettere la realizzazione di interventi sugli immobili da dismettere, con il presumibile obiettivo di renderli più appetibili per gli eventuali acquirenti;

              l'articolo 24, attraverso il rinvio ad una tabella, prevede, per il Ministero dell'ambiente, un ulteriore taglio pari a 6,5 milioni di euro, di cui 3,5 relativi all'unità previsionale di base 18.1 «Sviluppo sostenibile e tutela del territorio e dell'ambiente» e 3 milioni di euro relativi a fondi da ripartire;

              la tutela dell'ambiente è oggetto di un'altra significativa riduzione, a decorrere dall'esercizio finanziario 2015, con riferimento alla legge 14 febbraio 1994, n. 124, «Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla biodiversità, con annessi, fatta a Rio de Janeiro il 5 giugno 1992», per le cui finalità è previsto un taglio di milione di euro, pari al 25 per cento dell'importo originariamente previsto per il 2015;

              la norma contenuta all'articolo 43 prevede una correzione della disciplina dell'organizzazione delle gestioni dei servizi pubblici locali a rilevanza economica e a rete, con la specifica modificazione dell'articolo 3 bis del d.l. 138/2011; l'obiettivo della norma è la riduzione del numero delle partecipate, da effettuare con diversi strumenti; l'attività deve essere attuata attraverso un piano operativo di razionalizzazione che deve contenere le modalità e i tempi di attuazione, nonché il dettaglio dei risparmi da conseguire; sembra evidente come questa legge di stabilità, in maniera più esplicita del decreto «Sblocca Italia», indichi la direzione della privatizzazione dei servizi pubblici, incentivando esplicitamente le dismissioni di quote dei comuni e favorendo economicamente i soggetti privati e i processi di aggregazione;

              in sostanza l'Italia, proprio nel momento in cui è alla guida del semestre europeo, sembra voler rinunciare all'opportunità di promuovere la trasformazione dell'Europa in una società e in un'economia sostenibile, attraverso la riduzione dell'uso delle fonti energetiche e delle risorse non rinnovabili, attraverso misure finalizzate alla tutela del suolo, degli ecosistemi e del paesaggio, così come sancito dalla nostra carta costituzionale, riducendo le emissioni di gas climalteranti, in linea con gli impegni assunti nelle sedi internazionali, avviando, finalmente, una seria azione di riduzione della produzione dei rifiuti e portando l'intero territorio nazionale ad elevate percentuali di raccolta differenziata e di riciclo, promuovendo meccanismi di incentivi e disincentivi che stimolino domanda e offerta di beni e servizi ecosostenibili;

              è ancora una volta assente una concreta ipotesi di revisione della politica infrastrutturale ed energetica, ancora stabilmente legata ad una visione espansiva non più compatibile con le risorse del paese e del pianeta, come dimostrano i documenti programmatici del Governo e gli interventi normativi degli ultimi mesi, che continuano ad allocare risorse su opere come la Torino-Lione, sottraendo liquidità a famiglie ed imprese e contribuendo ad alimentare la spirale recessiva e una sempre più iniqua distribuzione dei redditi;

              le risorse a disposizione del ministero dell'ambiente sembrano del tutto insufficienti ad affrontare le grandi sfide che il nostro Paese si trova ad affrontare e sono ben lontane dal correggere il devastante trend negativo che ha visto il bilancio del dicastero passare da 1469 milioni di euro del 2009, a 1265 nel 2010, fino ad arrivare ai 632,8 milioni dell'esercizio finanziario corrente;

              anche le misure contenute nell'articolato del provvedimento in materia di dissesto idrogeologico appaiono decisamente insufficienti a far fronte a quelle che continuano ad essere definite «emergenze»,

quando sono, purtroppo, la più che prevedibile conseguenza del combinato disposto delle politiche infrastrutturali e di governo del territorio, a cui bisogna aggiungere le preoccupanti conseguenze che avrà il decreto sblocca Italia, unite all'assoluta mancanza di risorse e di pianificazione di interventi destinati alla prevenzione e alla messa in sicurezza del territorio;

              strettamente connesso alle tematiche sulla difesa del suolo è il tema dei cambiamenti climatici, la cui importanza non può essere brandita sul piano mediatico, come ha fatto il presidente del Consiglio Renzi che, al Climate Summit tenutosi a New York lo scorso settembre, ha definito i cambiamenti climatici «la sfida del nostro tempo», affermando la necessita’ di che a Parigi 2015 si pervenga ad un accordo efficace ma allo stesso tempo il più possibile globale, salvo proseguire una politica ambientale – sempre con lo sblocca Italia – che investe ancora sui combustibili fossili e su infrastrutture ad alto impatto energetico e di consumo di suolo;

DELIBERA DI RIFERIRE
IN SENSO CONTRARIO
VIII COMMISSIONE PERMANENTE
(Ambiente, territorio e lavori pubblici)
RELAZIONE    DI    MINORANZA
sui
DISEGNI DI LEGGE
Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017 (2680)
Stato di previsione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017
(Tabella n. 10, limitatamente alle parti di competenza)
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015) (2679-bis)
dei deputati Terzoni, Segoni, Busto, Daga, De Rosa, Mannino, Micillo e Zolezzi

      La VIII Commissione,

          premesso che:

              la manovra del Governo Renzi si attesta su un valore complessivo di 36 miliardi, dei quali ben 15 miliardi dalla spending review, promossa come un taglio agli sprechi, ma che potrebbe tradursi nella riduzione dei servizi ai cittadini, 11 miliardi dall'aumento del deficit, ossia la decisione di procrastinare interventi strutturali sui conti pubblici, 3,8 miliardi dovrebbero arrivare dalla lotta all'evasione, 3,6 mld dalla tassazione delle rendite finanziarie, 1 mld dalle slot machine e 1 mld dalla riprogrammazione dei fondi europei;

              la parte «espansiva» della manovra, ossia quella che punta ad impegnare risorse con l'obiettivo di rilanciare l'economia, si basa prevalentemente sul mantenimento del bonus 80 euro, per un importo di circa 10 miliardi di euro, e su un consistente taglio all'IRAP per le imprese, pari a circa 5 mld di euro); a queste misure si aggiungono alcune voci, tra le quali le cosiddette «spese a legislazione

vigente» – ossia spese considerate indifferibili e che incidono per quasi 7 mld di euro sull'importo complessivo della manovra –, la totale decontribuzione per le nuove assunzioni a tempo indeterminato (1,9 mld di euro), gli 80 euro per i nuovi nati (0,2 mld di euro nel 2015, che diventeranno 1 mld nel 2017), gli interventi per la scuola (1 mld di euro), l'allentamento del patto di stabilità per i comuni (1 mld di euro), nuovi ammortizzatori sociali (1,5 mld di euro), il cofinanziamento di progetti comunitari (1,2 mld di euro);

              l'articolo 8 proroga per tutto il 2015 le attuali condizioni per usufruire dell'Ecobonus. Con le modifiche apportate al d.l. 63 del 2013 viene estesa a tutto il 2015 la detrazione del 65 per cento, da suddividere in 10 quote annuali di pari importo, per le spese sostenute nel 2015 per interventi di riqualificazione energetica degli edifici, fino ad un ammontare di 96 mila euro per unità immobiliare; la norma estende al 2015 anche la detrazione fiscale del 50 per cento per gli interventi di ristrutturazione fino ad un tetto di spesa di 96 mila euro e l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici; la norma appare condivisibile e sarebbe opportuno prolungarne gli effetti anche al 2016, con l'obiettivo di rendere la misura strutturale per gli anni successivi;

              l'articolo 17 ha la classica struttura dell'articolo finalizzato a distribuire risorse senza particolari criteri di programmazione; tra gli stanziamenti previsti dall'articolo si segnalano: 250 milioni in favore del settore dell'autotrasporto; 1700 milioni di euro nel biennio 2015-2016 per le cosiddette «missioni di pace», una proroga dell'obbligo di tracciabilità di vendita e rese dei giornali che beneficiano di sovvenzioni statali (la relazione tecnica stima un costo per la collettività di 8,5 milioni di euro); per alcune di queste norme – tra cui la proroga di tre anni degli interventi delle forze armate nel controllo della cosiddetta «Terra dei Fuochi – è stato disposto lo stralcio ai sensi dell'articolo 120, comma 2, del Regolamento, in quanto estranee al contenuto proprio della legge di stabilità, come definito dall'articolo 11 della legge 31 dicembre 2009, n. 196;

              anche l'articolo 19 ha una struttura piuttosto eterogenea e contiene interventi nei settori più disparati. Si va dai tagli agli aiuti per le imprese previsti da alcune norme di settore, all'eliminazione delle agevolazioni per l'acquisto di autoveicoli previste per il 2015 (bonus rottamazione), alla revisione dei criteri per l'acquisto di mezzi per il trasporto pubblico locale (sia su gomma sia su rotaia). Abbastanza singolare l'inserimento di criteri per la strategia di sviluppo della rete ferroviaria, così come l'individuazione di specifiche opere con indicazioni sulle modalità di intervento del CIPE per la loro realizzazione (tratta AV Brescia-Verona-Padova, tratta terzo valico dei Giovi, tratta tunnel ferroviario del Brennero). Ancora una volta non solo si abbandona la logica della programmazione – come avvenuto irrimediabilmente con la legge obiettivo, che ha depotenziato il piano nazionale dei trasporti e della logistica per affidarsi alla mera elencazione di opere prioritarie allegate al Documento di Economia e Finanza – ma si disperdono in mille rivoli gli interventi normativi riguardanti gli interventi infrastrutturali;

              l'articolo 20 prevede una serie di misure di risparmio che non risparmiano il ministero dell'ambiente; in particolare sono previste la decurtazione di 600 mila euro all'ISPRA a decorrere dal 2015 e un ulteriore taglio di un milione agli enti parco, i cui bilanci hanno visto una costante e progressiva riduzione negli ultimi anni;

              l'articolo 22 contiene due disposizioni finalizzate ad agevolare l'alienazione degli immobili; la prima è quella di consentire, oltre alla trattativa privata, anche l'avvio di una procedura ristretta con invito a partecipare, in modo da ampliare la platea dei soggetti potenzialmente interessati e da creare un regime minimo di concorrenza che consenta di mantenere un prezzo di vendita adeguato; la seconda

è l'istituzione di un fondo di rotazione – pari a 20 milioni di euro – per permettere la realizzazione di interventi sugli immobili da dismettere, con il presumibile obiettivo di renderli più appetibili per gli eventuali acquirenti;

              l'articolo 24, attraverso il rinvio ad una tabella, prevede, per il Ministero dell'ambiente, un ulteriore taglio pari a 6,5 milioni di euro, di cui 3,5 relativi all'unità previsionale di base 18.1 «Sviluppo sostenibile e tutela del territorio e dell'ambiente» e 3 milioni di euro relativi a fondi da ripartire;

              la tutela dell'ambiente è oggetto di un'altra significativa riduzione, a decorrere dall'esercizio finanziario 2015, con riferimento alla legge 14 febbraio 1994, n. 124, «Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla biodiversità, con annessi, fatta a Rio de Janeiro il 5 giugno 1992», per le cui finalità è previsto un taglio di milione di euro, pari al 25 per cento dell'importo originariamente previsto per il 2015;

              la norma contenuta all'articolo 43 prevede una correzione della disciplina dell'organizzazione delle gestioni dei servizi pubblici locali a rilevanza economica e a rete, con la specifica modificazione dell'articolo 3 bis del d.l. 138/2011; l'obiettivo della norma è la riduzione del numero delle partecipate, da effettuare con diversi strumenti; l'attività deve essere attuata attraverso un piano operativo di razionalizzazione che deve contenere le modalità e i tempi di attuazione, nonché il dettaglio dei risparmi da conseguire; sembra evidente come questa legge di stabilità, in maniera più esplicita del decreto «Sblocca Italia», indichi la direzione della privatizzazione dei servizi pubblici, incentivando esplicitamente le dismissioni di quote dei comuni e favorendo economicamente i soggetti privati e i processi di aggregazione;

              in sostanza l'Italia, proprio nel momento in cui è alla guida del semestre europeo, sembra voler rinunciare all'opportunità di promuovere la trasformazione dell'Europa in una società e in un'economia sostenibile, attraverso la riduzione dell'uso delle fonti energetiche e delle risorse non rinnovabili, attraverso misure finalizzate alla tutela del suolo, degli ecosistemi e del paesaggio, così come sancito dalla nostra carta costituzionale, riducendo le emissioni di gas climalteranti, in linea con gli impegni assunti nelle sedi internazionali, avviando, finalmente, una seria azione di riduzione della produzione dei rifiuti e portando l'intero territorio nazionale ad elevate percentuali di raccolta differenziata e di riciclo, promuovendo meccanismi di incentivi e disincentivi che stimolino domanda e offerta di beni e servizi ecosostenibili;

              è ancora una volta assente una concreta ipotesi di revisione della politica infrastrutturale ed energetica, ancora stabilmente legata ad una visione espansiva non più compatibile con le risorse del paese e del pianeta, come dimostrano i documenti programmatici del Governo e gli interventi normativi degli ultimi mesi, che continuano ad allocare risorse su opere come la Torino-Lione, sottraendo liquidità a famiglie ed imprese e contribuendo ad alimentare la spirale recessiva e una sempre più iniqua distribuzione dei redditi;

              le risorse a disposizione del ministero dell'ambiente sembrano del tutto insufficienti ad affrontare le grandi sfide che il nostro Paese si trova ad affrontare e sono ben lontane dal correggere il devastante trend negativo che ha visto il bilancio del dicastero passare da 1469 milioni di euro del 2009, a 1265 nel 2010, fino ad arrivare ai 632,8 milioni dell'esercizio finanziario corrente;

              anche le misure contenute nell'articolato del provvedimento in materia di dissesto idrogeologico appaiono decisamente insufficienti a far fronte a quelle che continuano ad essere definite «emergenze», quando sono, purtroppo, la più che prevedibile conseguenza del combinato disposto delle politiche infrastrutturali e di governo del territorio, a cui bisogna aggiungere le preoccupanti conseguenze che avrà il decreto sblocca Italia,

unite all'assoluta mancanza di risorse e di pianificazione di interventi destinati alla prevenzione e alla messa in sicurezza del territorio;

              strettamente connesso alle tematiche sulla difesa del suolo è il tema dei cambiamenti climatici, la cui importanza non può essere brandita sul piano mediatico, come ha fatto il presidente del Consiglio Renzi che, al Climate Summit tenutosi a New York lo scorso settembre, ha definito i cambiamenti climatici «la sfida del nostro tempo», affermando la necessita’ di che a Parigi 2015 si pervenga ad un accordo efficace ma allo stesso tempo il più possibile globale, salvo proseguire una politica ambientale – sempre con lo sblocca Italia – che investe ancora sui combustibili fossili e su infrastrutture ad alto impatto energetico e di consumo di suolo;

              la chiave di lettura sostanziale di un'impostazione rigidamente ancorata ad un modello di sviluppo non più sostenibile è quella legata alle politiche infrastrutturali e trasportistiche;

              come correttamente rilevato dalla nota elaborata dal WWF Italia sulla legge di stabilità, le grandi opere (infrastrutture strategiche, autostrade e linee ad AV) pesano ancora oggi per una quota del 10,5 per cento (3,255.701 miliardi di euro) dell'ammontare complessivo della manovra, mentre alla rete tradizionale si destina poco più di un miliardo (ferrovie, 767 milioni, e strade, 241 milioni); in sostanza il Governo mantiene – e, se possibile, implementa – con incomprensibile pervicacia l'impostazione fallimentare del Primo Programma delle infrastrutture strategiche, del tutto privo di una visione organica e strategica e che costituisce, come sottolineato nella citata nota del WWF, «non uno strumento per individuare gli interventi prioritari di rilevanza nazionale, ma la più imponente operazione per soddisfare gli appetiti speculativi delle grandi imprese e le clientele politiche locali, mai tentata in Italia»;

              negli ultimi 14 anni il numero delle opere e i costi relativi del Programma sono continuati a lievitare: dalle 115 opere del 2001 per un costo complessivo di 125,8 miliardi di euro, alle attuali 403 infrastrutture per un valore complessivo di oltre 375,3 miliardi di euro (con un costo triplicato al gennaio 2014 rispetto a quanto previsto nel 2001), come calcolato nell'VIII Rapporto sulle infrastrutture strategiche, elaborato dal Servizio Studi della Camera dei Deputati, in collaborazione con l'Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori Servizi e Forniture e con il supporto tecnico di CRESME e ISTITUTO NOVA; la legge di Stabilità destina, solo nel 2015, 384 milioni di euro al MoSE, anche dopo che sono emerse dalle inchieste della magistratura per fenomeni di corruzione e/o concussione rilevanti dubbi sul costo reale delle opere;

              in sostanza la manovra prevede una serie di interventi finalizzati al risparmio e che, presumibilmente, comporteranno una progressiva riduzione dei servizi ai cittadini, senza tenere conto che una delle principali cause del dissesto economico del sistema Paese è imputabile al Programma delle infrastrutture strategiche, la cui inefficienza è documentata sempre dallo stesso VIII Rapporto del Servizio Studi della Camera, il quale ha rilevato che, dal 2001 al gennaio 2014, sono state ultimate solo 43 opere per un costo complessivo di 9,4 miliardi di euro, equivalenti ad un modestissimo 2,5 per cento del valore complessivo attuale del Programma;

              anche in materia energetica la linea governativa non si discosta dagli obiettivi fossili della Strategia Energetica Nazionale, la quale non fornisce indicazioni chiare sullo sviluppo delle fonti rinnovabili, sul risparmio e l'efficienza energetica e sull'abbandono delle centrali termoelettriche a carbone e rilancia la ricerca e coltivazione di idrocarburi a terra e a mare, dando carta bianca – ancora una volta con una norma contenuta nel decreto «sblocca Italia» alle industrie petrolifere nostrane e straniere nel colonizzare la Penisola.

DELIBERA DI RIFERIRE
IN SENSO CONTRARIO

IX COMMISSIONE PERMANENTE
(Trasporti, poste e telecomunicazioni)
IX COMMISSIONE PERMANENTE
(Trasporti, poste e telecomunicazioni)
RELAZIONE    DI    MINORANZA
sui
DISEGNI DI LEGGE
Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017 (2680)
Stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017
(Tabella n. 3, limitatamente alle parti di competenza)
e
Stato di previsione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017
(Tabella n. 10, limitatamente alle parti di competenza)
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015) (2679-bis)
dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle

      La IX Commissione,

          esaminato lo stato di previsione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017, nonché le parti corrispondenti del disegno di legge di stabilità,

          premesso che:

              i documenti di cui in parola testimoniano da un lato la difficile congiuntura economica che interessa il Paese e dall'altro la evidente incapacità da parte dell'esecutivo di razionalizzare proficuamente le risorse;

              settori fondamentali di questo paese continuano ad essere sacrificati a favore di interventi dal rilevante impatto ambientale nonché economico e dalla ridotta utilità sociale quali, ad esempio, le tratte Brescia-Verona-Padova della linea

ferroviaria AV/AC Milano-Venezia, la tratta Terzo Valico di Giovi della Linea AV/AC Milano-Genova e il nuovo tunnel ferroviario del Brennero;

              di fronte ad evidenti situazioni di indisponibilità delle risorse, piuttosto che provvedere ad una riflessione sulla reale utilità dell'opera, anche eventualmente attraverso l'elaborazione di una nova e aggiornata analisi costi-benefici, il comma 9 dell'articolo 19 dell'A.C. 2679-bis autorizza il CIPE ad approvare i progetti preliminari delle opere anche nelle more del finanziamento della fase realizzativa ed i relativi progetti definitivi a condizione semplicemente che sussistano disponibilità sufficienti a finanziare un primo lotto costruttivo dal valore non inferiore al 10 per cento;

              nel testo viene nuovamente confermata la scelta di procedere, nella realizzazione delle grandi infrastrutture, per «lotti costruttivi» piuttosto che per «lotti funzionali» in grado di garantire, di fronte ad evidenti difficoltà economiche, la realizzazione di parti di infrastrutture autonome e quindi fruibili anche ove non completata l'intera opera;

              il trasporto merci su ferro viene nuovamente mortificato in favore dell'autotrasporto, senza nemmeno l'introduzione di incentivi che favoriscano un trasporto a basso impatto ambientale, ad eccezion fatta per quanto concerne l'aggregazione;

              il comma 2 dell'articolo 19 e l'articolo 23 dell'A.C. 2679-bis confermano l'incapacità del governo di adoperare una seria politica mirante all'abbattimento del debito pubblico, obiettivo, quest'ultimo, perseguito attraverso dannosi interventi di c.d. privatizzazione, soprattutto di aziende produttive e strategiche come Poste S.p.a. ed Enav

              il comma 2 dell'articolo 19, in particolare, seppur garantendo nell'immediato minori oneri per il bilancio dello Stato per 16,357 milioni di euro a decorrere dall'anno 2015 – sopprimendo di fatto la copertura a carico dello Stato degli oneri indicati al comma 8 dell'articolo 5 del DL 77/1989 e ponendoli integralmente a carico di ENAV s.p.a. – rischia di non produrre effetti positivi a lungo termine e di incidere negativamente, L'ente, infatti, per far fronte alle minori entrate potrebbe decidere di incrementare le tariffe causando una consequenziale ed ulteriore diminuzione del gettito;

              quanto disposto dall'articolo 23, ovvero la proroga dell'efficacia del contratto di programma tra Ministero dello Sviluppo economico e Poste italiane Spa fino al 31 marzo 2015, sembra non tenere conto del programma di privatizzazione predisposto dal Governo. Per le stesse motivazioni, altrettanto inconcepibile risulta essere la previsione che obbliga nel 2015 alla sottoscrizione di un nuovo contratto di programma non più dalla durata triennale, come attualmente previsto, bensì quinquennale. Le modifiche ai criteri riguardanti la deroga agli obblighi di servizio universale sembrano spianare la strada alla chiusura di numerosi sportelli, così come chiesto dallo stesso amministratore delegato di Poste italiane Spa, dott. Caio, qualche giorno fa ad AGCOM. Con tali misure il Governo riconosce la supremazia del concetto di sostenibilità economica sul principio territoriale ed universale del servizio. Si segnala, inoltre, come a fronte di queste misure non venga programmata, né tantomeno incentivata, alcuna forma di digitalizzazione dei servizi resi dalla società in parola;

              oltre ad una riduzione degli stanziamenti relativi agli obblighi di servizio pubblico per il trasporto merci su ferro, nei documenti oggetto di esame non risultano essere contenute misure che favoriscano una mobilità sostenibile sia di beni che di persone. Oltre ad una revoca degli stanziamenti destinati a finanziare gli incentivi per la rottamazione dei veicoli meno inquinanti per l'anno 2015 e dei contributi ventennali per gli investimenti delle imprese marittime per il rinnovo e l'ammodernamento della flotta,

risultano del tutto assenti stanziamenti in favore del trasporto pubblico locale;

              per quanto concerne l'articolo 16, l'iniziativa del Governo non presenta particolari criticità e si pone in conformità con quanto previsto a livello internazionale dall'Electronic Communication Committee nel novembre 2013 con la decisione n.13 sull'armonizzazione a livello europeo dell'uso di tali frequenze e con iniziative simili avviate di recente in altri Paesi europei. Riteniamo, tuttavia, opportuno da un lato assicurare che la procedura competitiva di assegnazione delle risorse frequenziali in parola consenta allo Stato di incamerare il maggior numero possibile di risorse, risultato che si potrà conseguire solo assicurando un'equa suddivisione in lotti delle risorse stesse. Riteniamo, altresì, opportuno in un'ottica concorrenziale prevedere che la procedura di assegnazione sia la più aperta possibile, non limitata quindi ai soli operatori di servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico. Da ultimo, riteniamo opportuno che le risorse aggiuntive che dovessero essere conseguite all'esito dell'assegnazione delle frequenze vengano destinate alla realizzazione dei progetti relativi al piano strategico banda ultralarga piuttosto che ad interventi tesi a ripianare il debito pubblico, come previsto nella formulazione attuale della norma in parola,

DELIBERA DI RIFERIRE
IN SENSO CONTRARIO
X COMMISSIONE PERMANENTE
(Attività produttive, commercio e turismo)
X COMMISSIONE PERMANENTE
(Attività produttive, commercio e turismo)
RELAZIONE    DI    MINORANZA
sui
DISEGNI DI LEGGE
Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017 (2680)
Stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017
(Tabella n. 2, limitatamente alle parti di competenza)
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015) (2679-bis)
dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia e Libertà

      La X Commissione,

          esaminato, per le parti di propria competenza, il disegno di legge A.C 2679-bis recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)»;

          premesso che:

              la legge di stabilità rappresenta un momento fondamentale del disegno di politica economica che ogni Governo deve realizzare;

              dopo le richieste di chiarimento da parte della Commissione UE il Governo ha ulteriormente accentuato il carattere recessivo della manovra di finanza pubblica accettando nei fatti una correzione del deficit di circa lo 0,4 per cento (0,38 per cento = 1,6 miliardi (0,1 per cento) 4,5 miliardi (0,28 per cento) di cui alla lettera di risposta del Ministro Padoan alla Commissione);

              la manovra contiene l'ulteriore rinvio del pareggio di bilancio al 2017 e l'indicazione di un obiettivo per il deficit attorno al 3 per cento per il 2014 e di circa il 2,5 per cento per il 2015 (dopo le correzioni richieste dalla Commissione UE). La volontà espressa di perseguire una

politica di bilancio leggermente meno restrittiva risulterebbe di per sé un elemento positivo, ma ciò che preoccupa fortemente è l'assoluta mancanza di una definizione strategica organica e coerente di rilancio dell'economia italiana, dalle politiche industriali alle politiche del lavoro, al sostegno alla domanda;

              l'Europa ha risposto alla crescente instabilità dei mercati finanziari imboccando la strada dell'austerità. Non può sfuggire il fallimento dell'approccio degli ultimi anni che a partire dalla primavera 2010 ha visto il varo di programmi di riequilibrio dei conti pubblici pesantissimi, simultanei e concentrati in un lasso di tempo relativamente breve. Il riequilibrio dei conti pubblici è avvenuto al prezzo di pesanti ricadute economiche e sociali (catastrofiche, nel caso greco). La finanza speculativa e i settori più ricchi della popolazione ne sono usciti rafforzati a spese dei ceti popolari;

              il 2014 non è stato l'anno della ripresa, come le previsioni stimavano, ma il terzo di recessione per l'economia italiana. Il PIL italiano è sceso di più del 9 per cento rispetto al livello del 2008. Il nostro Paese corre un serio rischio di deflazione e di arrivare ad un quarto anno di recessione. Con questo prolungamento, l'esperienza della crisi per il nostro Paese si conferma peggiore di quella degli anni trenta. Un confronto storico sfavorevole che è condiviso con molte altre economie europee. Oggi come allora, la recessione ha una sola causa: la caduta della domanda aggregata. Su questa avrebbero dovuto intervenire le misure per la ripresa a livello europeo. Al contrario, la politica economica adottata ha sospinto i paesi in una pericolosa trappola di stagnazione e deflazione. Occorre che si cambi lo schema in modo radicale, con l'impostazione di politiche monetarie e fiscali espansive coordinate tra le economie europee;

              ma le politiche dei singoli Paesi dell'UE, vincolati dai parametri statistici e dalle procedure del Fiscal Compact, appaino come ingessate;

              le misure fin qui adottate dal 2011 ad oggi dai diversi Governi italiani hanno peggiorato notevolmente le finanze pubbliche del nostro Paese, portando la nostra economia alla recessione, deprimendo i consumi delle famiglie e aumentando notevolmente la disoccupazione, in particolare quella dei giovani. Politiche analoghe sono state imposte in quasi tutti i Paesi della UE;

              le conseguenze di questa politica sono sotto gli occhi di tutti: oggi, quasi 27 milioni di persone sono disoccupate nell'Unione Europea. La disoccupazione nell'eurozona è salita dal 7,8 per cento del 2008 al 12,1 per cento del novembre 2013. In Grecia, dal 7,7 per cento al 24,4 per cento e in Spagna dal 11,3 per cento al 26,7 per cento nello stesso periodo. In Europa, i disoccupati con meno di 25 anni sono 4,5 milioni. Nella sola Italia, la disoccupazione giovanile, secondo i recenti dati Istat ha toccato il 44,2 per cento ed i disoccupati sono 6 milioni;

              in Italia nonostante si siano già succeduti tre differenti governi la linea seguita è sempre la stessa: quella impostaci dalla BCE. L'attuale Governo sta per altro cercando di accelerare l'attuazione delle indicazioni contenute nella lettera dell'agosto 2011 della stessa BCE, per il momento solo parzialmente realizzate. Anche se i dati confermano il non funzionamento di quelle politiche imposte dalla UE la nota di aggiornamento del DEF, esso persegue testardamente nell'applicazione di quelle stesse indicazioni;

              lo slittamento al 2017 del pareggio di bilancio non rappresenta una vera sfida alla Commissione europea come lo è la decisione francese di mantenere il deficit sopra il 4 per cento per i prossimi anni;

              la Francia ha infatti dichiarato che non rientrerà nei limiti del deficit del 3 per cento fino al 2017, l'Italia è vicina a sforarlo anche se continua ad affermare che lo rispetterà. La Banca centrale europea è da tempo ben sotto all'obiettivo dell'inflazione al 2 per cento a cui è vincolata dal suo mandato. La Germania è

in surplus commerciale eccessivo. Tutte le parti coinvolte sono in evidente difetto rispetto alle regole che si sono collettivamente e consensualmente date. Per una ragione o per l'altra, tutti, alla fine, hanno infranto qualche regola;

              un sistema in cui nessuno riesce a rispettare le regole va ripensato. Le misure da attuare subito per rilanciare la domanda, al livello dell'Unione, sono chiare e se non ci fossero vincoli politici e gli interessi dei centri finanziari da salvaguardare, si andrebbe dritti per quella strada. C’è un largo consenso tra gli studiosi sul fatto che quando un'economia è in pericolo di deflazione e appesantita dal debito bisogna attuare politiche di bilancio espansive (attraverso un taglio delle tasse o tramite un aumento della spesa) finanziate dalla Banca centrale;

              il Trattato di funzionamento della UE (TFUE) all'articolo 126 definisce eccessivo il disavanzo pubblico se il rapporto tra indebitamento e PIL supera il 3 per cento (oltre che se il rapporto debito/PIL supera il 60 per cento). Se tale limite viene superato la sanzione più significativa che l'UE potrebbe comminare al nostro Paese è quella di imporci un deposito infruttifero presso la BCE costituito in due parti. Una fissa dello 0,2 per cento del PIL, e una variabile, pari allo 0,1 per cento del PIL per ogni punto (o frazione di punto) di sfondamento del 3 per cento. Se il deficit è pari al 4 per cento l'Italia dovrà pagare meno di 5 miliardi, rispetto ai 45 miliardi che il 4 per cento di deficit nel triennio 2015-2017 ci renderebbe disponibili;

              il rispetto rigoroso delle regole e del sottostare ai parametri imposti dai trattati deve essere un comportamento seguito da tutti i partners europei, non sono ammesse eccezioni se non unanimemente concordate. Stando a questo principio elementare non si comprende come la Germania possa derogare ampiamente dal rispetto del parametro del surplus commerciale mentre da «bravo scolaretto» il Governo italiano sottolinea in ogni occasione il rispetto del limite del 3 per cento nel rapporto debito/Pil da parte dell'Italia;

              per avviare a soluzione una crisi economico finanziaria dai disastrosi effetti sociali che dura ormai da più di otto anni, un periodo talmente lungo che il sistema capitalistico non ha mai affrontato prima, è necessario adottare misure shock sul piano economico che mal si conciliano con un misero allentamento della stretta di bilancio e il solo slittamento al 2017 del pareggio di bilancio. Ben altre sarebbero le soluzioni che però trovano ostacoli insormontabili nelle troppo rigide regole europee non più al passo con la situazione profondamente cambiata e che richiederebbe una forte e reale flessibilità temporanea concordata, almeno sul rispetto del rapporto deficit/Pil, per un reale rilancio economico e produttivo salvaguardando nel contempo l'occupazione e i diritti fondamentali del lavoro;

              si sarebbero dovuto predisporre una manovra per triennio 2015-2017 – seguendo l'esempio francese – che prevedesse un congruo indebitamento a sostegno di una seria e condivisa programmazione di politiche di sviluppo sostenibile e per il lavoro, attraverso il superamento di un punto percentuale del limite del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil;

              si sarebbe dovuto destinare le risorse che ne risulterebbero, pari a circa 45 miliardi nel triennio considerato, insieme ad altre risorse nazionali, ad un Piano nazionale per il lavoro che prevedesse misure per creare da subito centinaia di migliaia di posti di lavoro. Lo Stato deve diventare datore di lavoro di ultima istanza attraverso la messa in opera di un Programma Nazionale sperimentale triennale di interventi pubblici, un Green New Deal italiano. L'asse di un Piano per il lavoro, deve consistere innanzitutto nel favorire la ricerca, l'innovazione e la formazione, nella messa in sicurezza del nostro territorio e degli edifici scolastici, la cura e la valorizzazione del paesaggio e dei beni culturali, il rilancio di un'agricoltura multifunzionale, la riqualificazione delle

città, l'efficienza energetica degli immobili, la riforma e il rinnovamento della PA e del welfare, l'innovazione e la sostenibilità delle reti (trasporti, energia, digitalizzazione del Paese,...);

              la manovra avrebbe dovuto prevedere, nell'ambito della politica industriale nazionale, modalità per un intervento pubblico al fine di salvaguardare gli asset strategici, stimolare le innovazioni e la ricerca, facilitare la riconversione ecologica dell'apparato produttivo, garantire i livelli occupazionali, traendo ispirazione dal meglio dell'esperienza storica dell'IRI;

              viceversa, la manovra predisposta dal Governo riduce le imposte per le imprese senza avere alcuna garanzia che aumenteranno i loro investimenti, che non delocalizzeranno i loro siti produttivi o che non licenzieranno oppure che si produrranno reali incrementi occupazionali non sostitutivi;

              si interviene riducendo il costo del lavoro e precarizzando i rapporti di lavoro, togliendo diritti basilari ai lavoratori: si cerca dunque di competere sul profilo basso senza cercare di aumentare la produttività di tutti i fattori del nostro sistema produttivo, e ci si rassegna a diventare un Paese di serie B;

              infatti, i dati dimostrano che la deregolazione del mercato del lavoro non crea solo precarietà e perdita di diritti, ma anche perdita di produttività e quindi perdita di capacità di crescita; questa svalutazione del lavoro che andrà aggravandosi quando si dispiegheranno gli effetti nefasti della controriforma del Jobs Act presuppone imprese di basso valore, che invece di innovare scaricano tutti i costi della competizione internazionale sul costo del lavoro; così facendo ci si rassegna al declino industriale del nostro Paese;

              essa non estende i benefici fiscali a pensionati, partite Iva e incapienti, penalizza ancora una volta i dipendenti pubblici, non prevede investimenti pubblici se non per grandi opere per lo più inutili, lascia irrisolto il problema dei cd. «esodati», non prevede risorse adeguate per mantenere gli ammortizzatori sociali esistenti per non dire della loro estensione universale, penalizza i giovani professionisti sul piano fiscale;

              la manovra contiene una clausola di salvaguardia «monstre» che scatterà dal 2016 e che si aggiunge a quella già prevista dal Governo Letta in termini di aumenti di imposte (la quale prevede, al netto dei 3 miliardi inglobati nei saldi dell'attuale legge di stabilità, 4 miliardi per il 2016 e 7 miliardi a decorrere dal 2017); il Governo si impegna ad assicurare il raggiungimento del saldo strutturale di bilancio in pareggio dal 2017 aumentando le aliquote Iva e le imposte indirette per un ammontare di altri 12,4 miliardi nel 2016, 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. La clausola se esercitata avrebbe però un effetto recessivo pari allo 0,7 per cento del PIL nel triennio 2016-2018 dovuta ad una contrazione complessiva di consumi ed investimenti per 1,3 punti del PIL;

              la manovra avrà comunque effetti recessivi perché prosegue nella politica dei tagli alla spesa pubblica anche per coprire la diminuzione delle imposte, tagli che notoriamente hanno un moltiplicatore superiore in termini di crescita del PIL della riduzione delle tasse;

              i ceti popolari pagheranno in termini di riduzione dei servizi essenziali e di incrementi della tassazione locale i pochi benefici dovuti al bonus da 80 euro;

          considerato che, per quanto riguarda le parti di competenza della X Commissione:

              con riferimento all'articolo 17 recante disposizioni in materia di credito di imposta per attività di ricerca e sviluppo e regime opzionale si rileva come, dopo tanti annunci e tante promesse, il provvedimento in esame abbia partorito una misura veramente misera. Il Governo Renzi è tornato indietro perfino rispetto a quanto prodotto dall'esecutivo Letta in materia di credito di imposta per la ricerca.

Così da un biennio l'Italia, in piena crisi da mancanza di investimenti privati e da competitività dell'offerta, si ritrova con un bonus che incentiva gli investimenti in ricerca ed in innovazione dimezzato dal 50 al 25 per cento;

              si ricorda che persino con il Governo Berlusconi era stato introdotto un credito di imposta pari al 90 per cento degli investimenti fatti nel biennio 2011-2012 con università o enti di ricerca, recuperabile per quote paritetiche in tre anni. I 155 milioni di euro a suo tempo stanziati in bilancio non sono stati neppure tutti utilizzati dal mondo produttivo, a riprova che i timori della Ragioneria Generale dello Stato spesso cozzano con la realtà della recessione. Prima il bonus fiscale, sempre deciso dal Governo Berlusconi, era stato commisurato al valore complessivo degli investimenti fatti dalle imprese: il 10 per cento;

              a fine 2013 il Governo Letta ha vara un credito di imposta pari al 50 per cento delle spese incrementali in ricerca a partire dall'esercizio 2014. La burocrazia ha lasciato la norma inattuata e così le imprese che hanno creduto nella serietà della Repubblica italiana e hanno fatto nel corso del 2014 investimenti in ricerca confidando nel credito di imposta si ritrovano oggi con un deficit di cash flow da dover finanziare ed un credito di imposta di gran lunga depauperato del suo potenziale iniziale;

              in pieno credit crunch non è un gap facile da chiudere attingendo al credito bancario e a poco vale che la relazione illustrativa dell'articolo in esame preveda che ove sussistano soggetti beneficiari della normativa che cessa alla data del 31 dicembre 2014, le relative posizioni giuridiche soggettive saranno tenute in considerazione fino a poter costituire criterio preferenziale nel decreto del Ministero dell'economia e delle finanze con cui sono dettate le misure applicative della norma (il c.d. Bonus Letta ex articolo 3 del decreto-legge 145/2013), perché il testo del disegno di legge non fa alcun riferimento a questo criterio di preferenzialità;

              ora il provvedimento in esame cambia nuovamente le carte in tavola con un credito di imposta i cui effetti si produrranno, ragionevolmente, solo a partire dalla seconda parte del 2016 quando i bilanci saranno stati depositati;

              sarebbe stato molto più serio, onde evitare di impattare nuovamente sulle aspettative delle imprese, lasciare la norma Letta invariata. In questo modo si potevano premiare pienamente in pochi mesi le imprese che, nel corso del 2014, hanno avuto il coraggio di investire mentre il PIL crollava e la deflazione prendeva il largo;

              in Francia per il triennio 2013-2015 il Cir, il credito di imposta per la ricerca francese, varato nel 1983, è stato dotato di un fondo annuo di 5 miliardi di euro perché raddoppiato dal Presidente Francois Hollande;

              suscita, inoltre, perplessità l'impostazione eccessivamente universalista della norma in commento applicabile a tutte le imprese indipendentemente dal settore economico in cui operano e indipendentemente dal tipo di ricerca svolta. Nell'ambito di questa norma, infatti, potrebbe rientrare anche la ricerca nel settore dell'industria militare. Si ritiene, quindi, incredibile come questo Governo invece di varare norme con un minimo di universalismo nei settori in cui dovrebbe farlo come quello della redistribuzione del reddito (vedi bonus 80 euro, piuttosto che il neo-bonus per le neomamme), nei settori in cui, invece, dovrebbe individuare gli asset strategici su cui investire concretamente non lo fa adottando principi di un generalismo quasi imbarazzante;

          la prima delle modifiche apportate rispetto al testo originario riguarda il periodo di applicazione della misura. Nella nuova versione, l'agevolazione decorrerà dal 2015 (anziché dal 2014) e resterà operativa per 5 anni (anziché 3). Del beneficio potranno fruire tutte le imprese senza limiti di fatturato decade quindi il vincolo che escludeva le aziende con fatturato superiore a 500.000 euro, né vincoli relativi alla forma giuridica o al settore

economico di appartenenza. L'investimento minimo annuale in ricerca e sviluppo richiesto per poter accedere all'incentivo è di 30.000 euro, a fronte dei 50.000 euro della versione precedente, mentre il limite annuo di credito di imposta fruibile viene innalzato a 5 milioni di euro rispetto ai 2,5 milioni precedenti. La misura del bonus è pari al 25 per cento dell'incremento della spesa per ricerca e sviluppo sostenuta in ciascuno dei cinque anni di imposta successivi a quello in corso al 31 dicembre 2014, rispetto alla media della spesa sostenuta nei tre esercizi antecedenti al periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2015. Non più quindi una media mobile come nella precedente versione, che raffrontava le spese di ricerca e sviluppo dell'esercizio per il quale si intendeva calcolare il credito di imposta con la media delle spese sostenute nei tre esercizi immediatamente precedenti ad esso, bensì un media di rendimento «fissa». Per le sole voci a) e c) (ovverosia spese per personale altamente qualificato e contratti di ricerca stipulati con università eccetera) si prevede che il credito di imposta venga riconosciuto nella misura del 50 per cento della spesa sostenuta, senza però fare riferimento al criterio incrementale rispetto ad una media di riferimento;

              per quanto attiene al costo dell'intervento, la relazione tecnica quantifica gli effetti finanziari netti recati dall'articolo in esame in 218, 95 milioni di euro nel 2015, 392, 15 milioni di euro nel 2016, 483, 15 milioni di euro nel 2017, 510,45 milioni di euro nel 2018, 510, 45 milioni di euro nel 2019, 127, 45 milioni di euro nel 2020.... praticamente nulla rispetto a quanto investe la Francia annualmente su questa misura. Chissà poi quanto reggerà la copertura finanziaria di riferimento;

              anche le disposizioni relative al regime opzionale per marchi e brevetti suscitano perplessità. A guardar bene la legge di stabilità 2015 prevede che potranno esercitare l'opzione prevista dalla norma le società e gli enti di ogni tipo, compresi i trust, con o senza personalità giuridica, non residenti nel territorio dello Stato, a condizione di essere residenti in Paesi nei quali è in vigore un accordo per evitare la doppia imposizione e con i quali lo scambio di informazioni sia effettivo. Ma come sarà esercitato il controllo, soprattutto con riferimento ai trust, non appare chiaro. L'unica cosa certa è che, in caso di utilizzo diretto e solo in caso di utilizzo diretto, il contributo economico di tali beni alla produzione del reddito complessivo beneficia dell'esclusione a condizione che lo stesso sia determinato sulla base di un apposito accordo con l'amministrazione finanziaria;

              si apre quindi un particolare tipo di procedura, meglio conosciuta come «procedura di ruling» che consiste, in buona sostanza nella determinazione in via preventiva ed in contraddittorio con l'Agenzia delle Entrate dell'ammontare dei componenti positivi di reddito impliciti e dei criteri per l'individuazione dei componenti negativi riferibili ai predetti componenti positivi;

              detta procedura è attualmente disciplinata dall'articolo 8 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, che ha previsto, per le imprese con attività internazionale, la possibilità di poterla utilizzare, secondo disposizioni ben precise meglio definite con il recentissimo provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle entrate del 23 luglio 2004, che individua i requisiti soggettivi ed oggettivi per l'accesso al ruling e stabilisce le modalità operative per l'avvio della procedura da parte del contribuente. Ma in base a questo provvedimento direttoriale, è ammessa al ruling qualunque impresa con attività internazionale residente nel territorio dello Stato, qualificabile come tale ai sensi delle disposizioni vigenti in materia di imposte sui redditi, che, in alternativa o congiuntamente: 1)si trovi, rispetto a società non residenti, in una o più delle condizioni indicate nel comma 7 dell'articolo 110 del TUIR, ovvero in rapporto di controllo diretto o indiretto; 2) il cui patrimonio, fondo o capitale sia partecipato da soggetti non residenti ovvero partecipi al patrimonio,

fondo o capitale di soggetti non residenti; 2) abbia corrisposto a o percepito da soggetti non residenti, dividendi, interessi o royalties. Sono, inoltre, ammesse le imprese non residenti che esercitano la propria attività nel territorio dello Stato attraverso una stabile organizzazione, qualificabile come tale ai sensi delle disposizioni vigenti in materia di imposte sui redditi;

              la legge di stabilità 2015 ora, cambia di nuovo il quadro normativo di riferimento, prevedendo che l'accordo possa avere luogo nel caso in cui i redditi siano realizzati nell'ambito di operazioni intercorse con società che direttamente o indirettamente controllano l'impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l'impresa, disponendo quindi un'estensione dell'ambito applicativo soggettivo ed oggettivo dell'istituto del ruling ed includendo anche soggetti diversi da imprese che hanno attività internazionale. Ma, in ogni caso, l'applicabilità del credito di imposta per la ricerca e lo sviluppo disciplinato dallo stesso articolo della legge di stabilità 2015 non trova applicazione per le spese relative alla creazione di nuovi marchi o brevetti;

              inoltre, le disposizioni in materia di marchi e brevetti rischiano di essere troppo vaghe e discrezionali, nonché destinate e prestarsi a favoritismi nei confronti di grandi gruppi come la Fiat che hanno delocalizzato all'estero gran parte della loro attività produttiva oltre che la sede legale e fiscale, come peraltro evidenziato dalla stampa nazionale e locale;

              anche se non di diretta pertinenza della Commissione X, ma comunque legata alla strategia seguita dal Governo in materia di privatizzazioni, appare di dubbia portata la norma contenuta nell'articolo 23 con riferimento alla privatizzazione di Poste Italiane Spa. Nel complesso, si tratta di una norma particolarmente critica perché, ad oggi, non è dato sapere se il processo di privatizzazione che il Governo sta definendo con riferimento a Poste italiane Spa riuscirà ad assicurare concretamente la tutela e la protezione sociale di tutti i lavoratori attualmente impiegati presso l'ente, con particolare riferimento a quelli operanti nel settore del recapito postale. Sotto tale profilo si evidenzia che solo lo scorso 20 ottobre, Mario Petitto, segretario della Cisl Slp, «le voci, quelle vere» sul nuovo piano industriale di Poste Italiane che l'amministratore delegato Francesco Caio sta preparando indicano «17-20 mila esuberi», su un organico di circa 143 mila persone. La Cisl rappresenta il 52 per cento dei dipendenti del Gruppo;

              si evidenziano inoltre, con riferimento alle dotazioni di bilancio del Ministero dello sviluppo economico, ai sensi dell'articolo 24 della legge di stabilità 2015, importanti riduzioni delle dotazioni finanziarie delle spese del Ministero dello sviluppo economico per il triennio 2015-2017 che ammontano complessivamente a quasi 11,7 milioni nel 2015, 9 milioni nel 2016 e 10 milioni di euro nel 2017. Le principali diminuzioni gravano sulla missione «Competitività e sviluppo e delle imprese» ed in particolare sui programmi «Incentivazione del sistema produttivo»(con una riduzione di 5, 2 milioni di euro nel 2015 e 2, 4 milioni di euro nel 2016 e nel 2017), ma soprattutto sui programmi di «Lotta alla contraffazione» (con una riduzione pari a 5 milioni di euro per ciascun anno del triennio 2015-2017);

          considerato, inoltre, che:

              il provvedimento al nostro esame non contiene neanche una disposizione sul gravissimo problema delle delocalizzazioni delle attività produttive e sulle crisi industriali in generale;

              con riferimento alle disposizioni concernenti l'IRAP, articolo 5 del provvedimento in esame, non si escludono dall'applicazione della norma le imprese che hanno delocalizzato all'estero la propria attività produttiva o, con conseguente messa in mobilità e licenziamento del personale. Inoltre, si dovrebbe intervenire affinché le aziende che hanno messo in

mobilità più di 100 addetti in zone la cui disoccupazione supera la media nazionale, come nel Mezzogiorno, vengano esentate dal pagamento dell'IRAP per almeno tre anni, purché presentino un piano industriale concordato con il Governo e le parti sociali e, previo mantenimento della tutela e della protezione sociale dei relativi livelli occupazionali;

              non vengono previste misure tese a rafforzare il funzionamento dei Confidi nel Mezzogiorno e, soprattutto, non compaiono norme volte a sostenere il turismo nelle zone territoriali a maggiore vocazione turistica;

              occorrerebbe, invece, istituire una vera e propria Green BanK, autorizzando la CDP ad assolvere ai compiti di istituzione finanziaria per lo sviluppo della «green economy», stipulando un apposita convenzione con la società Cassa depositi e prestiti Spa al fine di avvalersi della medesima e delle società da essa partecipate per l'istruttoria e la gestione dei profili finanziari delle iniziative di investimenti relativi ad operazioni ed interventi di sostegno finanziario diretto ed indiretto e dei quali deve essere garantita una redditività adeguata del capitale investito, a favore delle imprese di piccole e medie dimensioni, nonché degli enti locali, ivi comprese le società da essi controllate e/o partecipate, per investimenti nel campo della «green economy», con particolare riferimento a quelli interessanti i territori montani e rurali italiani, e con peculiare riguardo per il sostegno agli investimenti nel campo dell'innovazione, della ricerca e dello sviluppo nei territori a cosiddetto «fallimento di mercato» al fine di ammortizzare e annullare i deficit strutturali permanenti di tali territori;

              e ancora, a prendere le opportune iniziative, anche normative, per la costituzione di un'Agenzia nazionale sul modello «Fraunhofer» al fine di incrementare l'innovazione di processi e prodotti ed incrementare la competitività del nostro apparato produttivo, ed a autorizzare la CDP a finanziarla attraverso il Fondo strategico italiano adeguandone opportunamente la mission;

          per queste e altre ragioni illustrate in premessa,

DELIBERA DI RIFERIRE
IN SENSO CONTRARIO
XI COMMISSIONE PERMANENTE
(Lavoro pubblico e privato)
XI COMMISSIONE PERMANENTE
(Lavoro pubblico e privato)
RELAZIONE    DI    MINORANZA
sui
DISEGNI DI LEGGE
Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017 (2680)
Stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017
(Tabella n. 4, limitatamente alle parti di competenza)
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015) (2679-bis)
dei deputati Tripiedi, Rizzetto, Cominardi, Ciprini, Chimienti, Bechis, Rostellato e Baldassarre

      La XI Commissione,

          premesso che:

              in sede di esame del disegno di legge recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)» (C. 2679-bis) in più punti del testo del provvedimento sono presenti norme aventi impatto in materia di competenza della su intestata Commissione;

              a detta dei vari annunci del Governo, la manovra avrebbe un obiettivo ambizioso: rilanciare l'economia italiana, con un impatto tangibile su cittadini e imprese, cercando di rompere il circolo vizioso della recessione e di creare lavoro;

              tuttavia, pur avendo come obiettivo la crescita dell'economia, la manovra non emerge come tecnicamente espansiva e ne è prova il fatto che le uscite hanno la stessa entità delle entrate;

              la direzione complessiva giusta sarebbe invece stata quella di stimolare la crescita, con ragionevoli tagli delle tasse, prevedendo sgravi e semplificazioni per le imprese;

              la sostanza delle misure appare debole e con specifico riferimento alle parti di competenza della presente commissione sussistono alcuni provvedimenti che lasciano assai perplessi i sottoscrittori del presente parere;

              invero, ad una prima analisi, le coperture appaiono piuttosto aleatorie, così come poco credibile il quadro economico di riferimento: si pensi all'articolo 11 (Disposizioni in materia di ammortizzatori sociali, servizi per il lavoro e politiche attive), che, infatti, stanzia risorse per la copertura degli oneri derivanti dall'attuazione del disegno di legge delega in materia di lavoro all'esame del Parlamento (AC 2660), istituendo a tal fine un apposito fondo presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con una dotazione di 2 miliardi di euro a decorrere dal 2015;

              il disegno di legge delega in materia di lavoro (C. 2660), approvato dal Senato in prima lettura, è attualmente all'esame della XI Commissione della Camera: il provvedimento reca cinque deleghe al Governo, da esercitare entro 6 mesi dall'approvazione della legge;

              di fatto, dunque, il Parlamento davanti alla legge di stabilità, non viene messo nella condizione di esprimere un parere in relazione alle coperture finanziarie che verrebbero utilizzate, peraltro nella misura di 2000 milioni; pertanto, oltre al merito, emergono gravi criticità anche sul piano della forma con cui le misure in esame vengono adottate;

              non minori perplessità suscita, all'articolo 6, la disposizione che prevede il conferimento del «TFR in busta paga», prevedendo che i lavoratori potranno richiedere l'anticipazione di parte del loro TFR;

              ad avviso dei sottoscrittori del presente parere, si tratta di un'idea insensata nelle forme in cui viene proposta, tanto alla luce della situazione previdenziale italiana quanto rispetto al fatto che l'anticipazione verrà tassata secondo l'aliquota marginale IRPEF;

              nella prospettiva di più lungo periodo, si osserva, con disagio, che nel disegno di legge di stabilità per il 2015, che appare una manovra proposta come orientata al taglio delle tasse, ci sono purtroppo previsioni di incrementi netti d'imposta che andranno evidentemente ad influenzare il cuneo fiscale, con evidenti ripercussioni sul mercato del lavoro;

              infatti, a partire dal 2016, è stabilito un generalizzato aumento delle aliquote Iva, sia di quella ridotta del 10 per cento sia di quella ordinaria del 22 per cento;

              le percentuali di incremento – che decorreranno dal 1 gennaio 2016 e dal 1 gennaio 2017 – non sono ancora indicate; si ricorda che tale misura sostituisce il dispositivo della precedente legge di stabilità che prevedeva la razionalizzazione delle cosiddette «spese fiscali» tale da assicurare maggiori entrate pari a 3 miliardi nel 2015, 7 miliardi nel 2016 e 10 miliardi a decorrere dal 2017; con la modifica introdotta, tali importi verranno garantiti, esclusivamente, dall'incremento delle aliquote Iva e dall'incremento dell'aliquota dell'accisa sulla benzina (salvo per il 2015, anno per il quale il meccanismo è stato sterilizzato da altre coperture);

              è opportuno sottolineare che l'incremento dell'IVA, spalmato tra il 2016 e il 2018, porterebbe le aliquote dal 10 al 13 per cento e dal 22 al 25,5 per cento, consegnando all'Italia il podio anche nella graduatoria internazionale delle aliquote delle imposte sui consumi;

              approssimativamente, questo innalzamento delle aliquote legali produrrebbe un maggior gettito complessivo di circa 19 miliardi nel 2018 rispetto al 2015, con un impulso superiore ai sei miliardi già nel 2016;

              al di là degli effetti negativi su PIL e consumi, come già accaduto in passato, questi incrementi d'imposta deprimeranno anche il gettito atteso ex ante, attraverso

una verosimile accelerazione dei processi di evasione ed elusione;

              se si tiene conto anche dei conseguenti incrementi della pressione fiscale, tanto apparente quanto legale, nel medio termine, risulta fortemente depotenziato – se non annullato – il portato espansivo della presente legge di stabilità, come anche il suo effetto in termini di riduzione delle imposte e delle tasse;

              inoltre, guardando al solo 2015, se da un lato viene introdotta la deduzione totale del costo del lavoro dipendente a tempo indeterminato dalla base imponibile IRAP, che comporterebbe, secondo le previsioni del Governo, un risparmio di imposta per le imprese con dipendenti, dall'altro, gli effetti positivi di tale misura vengono ridotti dall'aggravio d'imposta sulle altre componenti della base imponibile IRAP (utili, interessi passivi): infatti, dal 2015 l'aliquota IRAP torna al 3,9 per cento, dopo essere stata ridotta, nel 2014, al 3,5 per cento;

              per le imprese senza dipendenti, dal 2015, si verificherà, dunque, un incremento netto di IRAP: queste imprese non usufruiranno della deduzione del costo del lavoro dalla base imponibile IRAP mentre pagheranno l'aggravio dell'IRAP;

              tenuto conto che in Italia manca un meccanismo di efficace coordinamento dell'imposizione fiscale tra diversi livelli di governo, è lecito avere dubbi sugli effetti dei presunti tagli fiscali: presunti perché, già di modesta entità, potrebbero essere neutralizzati non solo dai previsti incrementi dell'IVA e delle accise ma, addirittura, e da subito, da eventuali incrementi di tributi stabiliti dalle regioni e dagli altri enti locali;

              non minori perplessità suscitano, all'articolo 6, le disposizioni inerenti ai fondi pensione – comunque doverosamente vincolati a forme di investimento cautelative – che dovranno subire extracosti imponenti in ragione del rilevante incremento della tassazione: extracosti che – con ogni evidenza – si riverbereranno in una riduzione degli importi erogabili a titolo di pensione integrativa o complementare, con ulteriore penalizzazione dei lavoratori dipendenti del settore privato;

              ciò dopo che – per quasi 10 anni – tutti i Governi ed i Parlamenti hanno recitato il mantra della necessità di incentivare l'adesione ai Fondi pensione quale unica possibilità di sopravvivere alla necessità di diminuire l'importo delle pensioni di primo pilastro;

              infine, a fronte del contentino sulle partite IVA, i liberi professionisti, che si pagano la pensione in via esclusiva con i propri contributi ed i connessi investimenti di tipo cautelativo, dopo anni di iniqua sovra tassazione rispetto ai fondi pensione ed un improvviso aumento dell'aliquota dal luglio scorso (mitigato da un farraginoso meccanismo di credito di imposta a termine), si vedranno – l'anno prossimo – «armonizzare il regime fiscale» al rialzo, invece di avvicinarsi all'11,5 per cento oggi vigente per i Fondi e le Casse;

              all'articolo 12, l'intenzione del Governo è quella di introdurre l'esonero totale dei contributi: si ritiene che la previsione debba essere letta con la finalità di evitare che la riduzione del versamento non riverberi effetti negativi sulle prestazioni pensionistiche e, dunque, che verranno comunque accreditati i contributi calcolati sull'aliquota di computo, che la legge n. 335 del 1995 per i lavoratori dipendenti fissa in misura pari al 33 per cento;

              se così non fosse, se fossero esclusi dallo sgravio i contributi destinati allo scopo, significherebbe che la parte di contributi a carico del datore di lavoro destinata al fondo pensioni dei lavoratori dipendenti, e quindi per finanziare la prestazione, verrebbe del tutto ridimensionata, così come l'entità dell'incentivo;

              la norma specifica quanto segue:

                  1) lo sgravio spetta nel caso di nuove assunzioni di soggetti che risultino inoccupati a tempo indeterminato presso qualsiasi altro datore di lavoro;

                  2) il datore di lavoro non deve comunque aver occupato con contratto a tempo indeterminato nei tre mesi antecedenti l'entrata in vigore della legge, i soggetti per i quali intende usufruire dello sgravio;

                  3) ipotizzando l'entrata in vigore all'inizio dell'anno 2015, il periodo in cui opera tale condizione sarà da ottobre a dicembre 2014;

                  4) ogni lavoratore potrà essere portatore dell'incentivo una sola volta; è previsto infatti che se un soggetto è già stato assunto con lo sgravio, nel caso un altro datore di lavoro lo riassumesse, anche se il requisito fosse soddisfatto, non potrà usufruirne; una previsione secca senza alcuna ipotesi di deroga; così come prevista, rischia di penalizzare quei lavoratori che siamo ad esempio stati licenziati ovvero non abbiano superato il periodo di prova;

                  5) per la compatibilità con altre agevolazioni, è previsto espressamente che lo sgravio non è cumulabile con altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente;

              se tali incentivi possono essere salutati con favore in quanto finalizzati a rendere più appetibile il contratto a tempo indeterminato, l'entusiasmo viene subito smorzato sia dal fatto che la misura risulta una tantum in quanto limitata al 2015, sia per le previsioni contenute ai commi 2 e 3 del medesimo articolo 12;

              bastano infatti poche righe per eliminare due incentivi operativi da più di vent'anni: il primo riguarda la soppressione dei benefici contributivi di cui all'articolo 8, comma 9 della legge 29 dicembre 1990, n. 407 dal 2015; si tratta della venticinquennale agevolazione prevista in caso di assunzioni con contratto a tempo indeterminato di lavoratori disoccupati da almeno ventiquattro mesi o sospesi dal lavoro e beneficiari di trattamento straordinario di integrazione salariale da un analogo periodo;

              probabilmente la principale tra le misure a favore delle fasce deboli di lavoratori;

              la seconda soppressione riguarda invece l'incentivo per la stabilizzazione degli apprendisti;

              tutti gli sforzi compiuti, da ultimo anche con il decreto-legge n. 34 del 2014, per promuovere l'utilizzo dell'apprendistato e soprattutto per stabilizzare i contratti, in quanto considerati il principale canale di accesso dei giovani, rischiano pertanto di essere vanificati con l'eliminazione di tale incentivo;

              quanto all'articolo 21 del provvedimento in esame vi è da dire che le buste paga dei 3,3 milioni di dipendenti pubblici sono ferme da quando un decreto del quarto governo Berlusconi ne ha imposto il blocco coattivo per il 2011, 2012 e 2013; con un risparmio per le casse pubbliche stimato in oltre 11 miliardi di euro; la legge di stabilità dell'Esecutivo Letta ha poi rinnovato il congelamento fino alla fine del 2014, disponendo anche una moratoria del turn over, ovvero il ricambio generazionale, fino al 2017. È il caso di dire che la storia si ripete;

              l'attuazione dell'articolo 9, comma 21, del decreto-legge n. 78 del 2010, in merito al blocco amministrativo delle progressioni di carriera, (su cui sono state emanate diverse sentenze dei competenti TAR che hanno accolto favorevolmente i ricorsi presentati) ha creato un'ingiustizia nei confronti del personale del comparto sicurezza, ancorché discriminato dalla sentenza n. 223 del 2012 della Corte costituzionale, con cui è stata riconosciuta l'esclusione dall'applicazione della norma in parola, per il solo personale della magistratura; pur nel rispetto dell'indipendenza della magistratura, tale sentenza avrebbe dovuto tenere nella giusta considerazione le peculiarità di un settore di particolare rilevanza per il benessere e la sicurezza del territorio;

              entrando nel merito, il blocco contrattuale previsto dalla sopra citata norma,

prevede che le progressioni di carriera del personale del comparto sicurezza, intervenute negli ultimi quattro anni, siano utili esclusivamente ai fini giuridici e non anche economici; in particolare, se l'agente di Polizia matura l'avanzamento al grado superiore con decorrenza giuridica ricadente tra il 1 gennaio 2011 e il 31 dicembre 2014, avrà il riconoscimento del grado superiore, assumendosi gli oneri e le responsabilità che tale nuovo ruolo presuppone, ma non avrà diritto ad alcun aumento retributivo;

              la norma in questione viola di fatto l'articolo 36 della Costituzione, poiché non tiene conto della proporzionalità, qualità e quantità del lavoro prestato in ambito della sicurezza pubblica; gli aumenti retributivi sono finalizzati a compensare non solo l'inflazione ma soprattutto a remunerare il lavoro svolto: ordine pubblico, servizi esterni, mobilità ultraregionale, servizi operativi «su strada»; si tratta di servizi che richiederebbero peraltro un incentivo meritocratico;

              l'applicazione della norma non ha tenuto conto del blocco del turn over che non ha consentito di coprire con altro personale i vuoti dell'organico, derivante dai pensionamenti;

              alla luce di tutte le predette considerazioni,

DELIBERA DI RIFERIRE
IN SENSO CONTRARIO
XI COMMISSIONE PERMANENTE
(Lavoro pubblico e privato)
RELAZIONE    DI    MINORANZA
sui
DISEGNI DI LEGGE
Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017 (2680)
Stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017
(Tabella n. 4, limitatamente alle parti di competenza)
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015) (2679-bis)
dei deputati Airaudo e Placido

      La XI Commissione,

          esaminati, per le parti di propria competenza, il disegno di legge C. 2680 recante «Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017» (Tabella n.4) e le parti corrispondenti del disegno di legge C. 2679-bis recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)»;
      premesso che:

          la legge di stabilità rappresenta un momento fondamentale del disegno di politica economica che ogni Governo deve realizzare;

          dopo le richieste di chiarimento da parte della Commissione europea il Governo ha ulteriormente accentuato il carattere recessivo della manovra di finanza pubblica accettando nei fatti una correzione del deficit di circa lo 0,4 per cento (0,38 per cento, derivanti dalla somma di 1,6 miliardi di euro (0,1 per cento) e di 4,5 miliardi di euro (0,28 per cento) di cui alla lettera di risposta del Ministro Padoan alla Commissione);

          la manovra contiene l'ulteriore rinvio del pareggio di bilancio al 2017 e l'indicazione

di un obiettivo per il deficit attorno al 3 per cento per il 2014 e di circa il 2,5 per cento per il 2015, dopo le correzioni richieste dalla Commissione europea; la volontà espressa di perseguire una politica di bilancio leggermente meno restrittiva risulterebbe di per sé un elemento positivo, ma ciò che preoccupa fortemente è l'assoluta mancanza di una definizione strategica organica e coerente di rilancio dell'economia italiana, dalle politiche industriali alle politiche del lavoro, al sostegno alla domanda;

          l'Europa ha risposto alla crescente instabilità dei mercati finanziari imboccando la strada dell'austerità; non può sfuggire il fallimento dell'approccio degli ultimi anni che a partire dalla primavera 2010 ha visto il varo di programmi di riequilibrio dei conti pubblici pesantissimi, simultanei e concentrati in un lasso di tempo relativamente breve; il riequilibrio dei conti pubblici è avvenuto al prezzo di pesanti ricadute economiche e sociali (catastrofiche, nel caso greco); la finanza speculativa e i settori più ricchi della popolazione ne sono usciti rafforzati a spese dei ceti popolari;

          il 2014 non è stato l'anno della ripresa, come le previsioni stimavano, ma il terzo di recessione per l'economia italiana; il PIL italiano è sceso di più del 9 per cento rispetto al livello del 2008; il nostro Paese corre un serio rischio di deflazione e di arrivare ad un quarto anno di recessione; con questo prolungamento, l'esperienza della crisi per il nostro Paese si conferma peggiore di quella degli anni trenta; un confronto storico sfavorevole che è condiviso con molte altre economie europee; oggi come allora, la recessione ha una sola causa: la caduta della domanda aggregata; su questa avrebbero dovuto intervenire le misure per la ripresa a livello europeo; al contrario, la politica economica adottata ha sospinto i paesi in una pericolosa trappola di stagnazione e deflazione; occorre che si cambi lo schema in modo radicale, con l'impostazione di politiche monetarie e fiscali espansive coordinate tra le economie europee;

          ma le politiche dei singoli Paesi dell'UE, vincolati dai parametri statistici e dalle procedure del Fiscal Compact, appaino come ingessate;

          le misure fin qui adottate dal 2011 ad oggi dai diversi Governi italiani hanno peggiorato notevolmente le finanze pubbliche del nostro Paese, portando la nostra economia alla recessione, deprimendo i consumi delle famiglie e aumentando notevolmente la disoccupazione, in particolare quella dei giovani; politiche analoghe sono state imposte in quasi tutti i Paesi dell'Unione europea;

          le conseguenze di questa politica sono sotto gli occhi di tutti: oggi, quasi 27 milioni di persone sono disoccupate nell'Unione europea; La disoccupazione nell'eurozona è salita dal 7,8 per cento del 2008 al 12,1 per cento del novembre 2013; in Grecia, dal 7,7 per cento al 24,4 per cento e in Spagna dal 11,3 per cento al 26,7 per cento nello stesso periodo; in Europa, i disoccupati con meno di 25 anni sono 4,5 milioni; nella sola Italia, la disoccupazione giovanile, secondo i recenti dati ISTAT ha toccato il 44,2 per cento ed i disoccupati sono 6 milioni;

          in Italia nonostante si siano già succeduti tre differenti Governi la linea seguita è sempre la stessa: quella impostaci dalla BCE. L'attuale Governo sta per altro cercando di accelerare l'attuazione delle indicazioni contenute nella lettera dell'agosto 2011 della stessa BCE, per il momento solo parzialmente realizzate. Anche se i dati confermano il non funzionamento di quelle politiche imposte dall'Unione europea la nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza, esso persegue testardamente nell'applicazione di quelle stesse indicazioni;

          lo slittamento al 2017 del pareggio di bilancio non rappresenta una vera sfida alla Commissione europea come lo è la decisione francese di mantenere il deficit sopra il 4 per cento per i prossimi anni; la Francia ha infatti dichiarato che non rientrerà nei limiti del deficit del 3 per cento fino al 2017, l'Italia è vicina a sforarlo

anche se continua ad affermare che lo rispetterà; la Banca centrale europea è da tempo ben sotto all'obiettivo dell'inflazione al 2 per cento a cui è vincolata dal suo mandato; la Germania è in surplus commerciale eccessivo; tutte le parti coinvolte sono in evidente difetto rispetto alle regole che si sono collettivamente e consensualmente date; per una ragione o per l'altra, tutti, alla fine, hanno infranto qualche regola; un sistema in cui nessuno riesce a rispettare le regole va ripensato. Le misure da attuare subito per rilanciare la domanda, al livello dell'Unione, sono chiare e se non ci fossero vincoli politici e gli interessi dei centri finanziari da salvaguardare, si andrebbe dritti per quella strada; c’è un largo consenso tra gli studiosi sul fatto che quando un'economia è in pericolo di deflazione e appesantita dal debito bisogna attuare politiche di bilancio espansive, attraverso un taglio delle tasse o tramite un aumento della spesa, finanziate dalla Banca centrale;

          il Trattato di funzionamento dell'Unione europea, all'articolo 126 definisce eccessivo il disavanzo pubblico se il rapporto tra indebitamento e PIL supera il 3 per cento (oltre che se il rapporto debito/PIL supera il 60 per cento); se tale limite viene superato la sanzione più significativa che l'UE potrebbe comminare al nostro Paese è quella di imporci un deposito infruttifero presso la BCE costituito in due parti; una fissa dello 0,2 per cento del PIL, e una variabile, pari allo 0,1 per cento del PIL per ogni punto (o frazione di punto) di sfondamento del 3 per cento; se il deficit è pari al 4 per cento l'Italia dovrà pagare meno di 5 miliardi, rispetto ai 45 miliardi che il 4 per cento di deficit nel triennio 2015-2017 ci renderebbe disponibili;

          il rispetto rigoroso delle regole e del sottostare ai parametri imposti dai trattati deve essere un comportamento seguito da tutti i partner europei, non sono ammesse eccezioni se non unanimemente concordate. Stando a questo principio elementare non si comprende come la Germania possa derogare ampiamente dal rispetto del parametro del surplus commerciale mentre da «bravo scolaretto» il Governo italiano sottolinea in ogni occasione il rispetto del limite del 3 per cento nel rapporto debito/PIL da parte dell'Italia;

          per avviare a soluzione una crisi economico finanziaria dai disastrosi effetti sociali che dura ormai da più di otto anni, un periodo talmente lungo che il sistema capitalistico non ha mai affrontato prima, è necessario adottare misure shock sul piano economico che mal si conciliano con un misero allentamento della stretta di bilancio e il solo slittamento al 2017 del pareggio di bilancio. Ben altre sarebbero le soluzioni che però trovano ostacoli insormontabili nelle troppo rigide regole europee non più al passo con la situazione profondamente cambiata e che richiederebbe una forte e reale flessibilità temporanea concordata, almeno sul rispetto del rapporto deficit/PIL, per un reale rilancio economico e produttivo salvaguardando nel contempo l'occupazione e i diritti fondamentali del lavoro;

          si sarebbero dovuto predisporre una manovra per triennio 2015-2017, seguendo l'esempio francese, che prevedesse un congruo indebitamento a sostegno di una seria e condivisa programmazione di politiche di sviluppo sostenibile e per il lavoro, attraverso il superamento di un punto percentuale del limite del 3 per cento nel rapporto deficit/PIL;

          si sarebbe dovuto destinare le risorse che ne risulterebbero, pari a circa 45 miliardi nel triennio considerato, insieme ad altre risorse nazionali, ad un Piano nazionale per il lavoro che prevedesse misure per creare da subito centinaia di migliaia di posti di lavoro. Lo Stato deve diventare datore di lavoro di ultima istanza attraverso la messa in opera di un Programma nazionale sperimentale triennale di interventi pubblici, un Green New Deal italiano. L'asse di un Piano per il lavoro, deve consistere innanzitutto nel favorire la ricerca, l'innovazione e la formazione, nella messa in sicurezza del nostro territorio e degli edifici scolastici, la cura e la valorizzazione del paesaggio e dei

beni culturali, il rilancio di un'agricoltura multifunzionale, la riqualificazione delle città, l'efficienza energetica degli immobili, la riforma e il rinnovamento della Pubblica amministrazione e del welfare, l'innovazione e la sostenibilità delle reti (trasporti, energia, digitalizzazione del Paese);

          la manovra avrebbe dovuto prevedere, nell'ambito della politica industriale nazionale, modalità per un intervento pubblico al fine di salvaguardare gli asset strategici, stimolare le innovazioni e la ricerca, facilitare la riconversione ecologica dell'apparato produttivo, garantire i livelli occupazionali, traendo ispirazione dal meglio dell'esperienza storica dell'IRI; viceversa, la manovra predisposta dal Governo riduce le imposte per le imprese senza avere alcuna garanzia che aumenteranno i loro investimenti, che non delocalizzeranno i loro siti produttivi o che non licenzieranno oppure che si produrranno reali incrementi occupazionali non sostitutivi; si interviene riducendo il costo del lavoro e precarizzando i rapporti di lavoro, togliendo diritti basilari ai lavoratori: si cerca dunque di competere sul profilo basso senza cercare di aumentare la produttività di tutti i fattori del nostro sistema produttivo, e ci si rassegna a diventare un Paese di serie B; infatti, i dati dimostrano che la deregolamentazione del mercato del lavoro non crea solo precarietà e perdita di diritti, ma anche perdita di produttività e quindi perdita di capacità di crescita; questa svalutazione del lavoro che andrà aggravandosi quando si dispiegheranno gli effetti nefasti della controriforma del Jobs Act presuppone imprese di basso valore, che invece di innovare scaricano tutti i costi della competizione internazionale sul costo del lavoro; così facendo ci si rassegna al declino industriale del nostro Paese; essa non estende i benefici fiscali a pensionati, partite Iva e incapienti, penalizza ancora una volta i dipendenti pubblici, non prevede investimenti pubblici se non per grandi opere per lo più inutili, lascia irrisolto il problema dei cd. «esodati», non prevede risorse adeguate per mantenere gli ammortizzatori sociali esistenti per non dire della loro estensione universale, penalizza i giovani professionisti sul piano fiscale;

          la manovra contiene una clausola di salvaguardia «monstre» che scatterà dal 2016 e che si aggiunge a quella già prevista dal Governo Letta in termini di aumenti di imposte (la quale prevede, al netto dei 3 miliardi inglobati nei saldi dell'attuale legge di stabilità, 4 miliardi per il 2016 e 7 miliardi a decorrere dal 2017); il Governo si impegna ad assicurare il raggiungimento del saldo strutturale di bilancio in pareggio dal 2017 aumentando le aliquote IVA e le imposte indirette per un ammontare di altri 12,4 miliardi nel 2016, 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. La clausola se esercitata avrebbe però un effetto recessivo pari allo 0,7 per cento del PIL nel triennio 2016-2018 dovuta a una contrazione complessiva di consumi ed investimenti per 1,3 punti del PIL; la manovra avrà comunque effetti recessivi perché prosegue nella politica dei tagli alla spesa pubblica anche per coprire la diminuzione delle imposte, tagli che notoriamente hanno un moltiplicatore superiore in termini di crescita del PIL della riduzione delle tasse; i ceti popolari pagheranno in termini di riduzione dei servizi essenziali e di incrementi della tassazione locale i pochi benefici dovuti al bonus da 80 euro; considerato che, per quanto riguarda le parti di competenza della XI Commissione:

          l'istituzione di un fondo con dotazione pari a circa 2 miliardi di euro, di cui 500 milioni per aumenti di spesa per contribuzione figurativa per far fronte agli oneri derivanti dall'attuazione dei provvedimenti normativi di riforma degli ammortizzatori sociali ivi inclusi gli ammortizzatori sociali in deroga, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, di quelli in materia di riordino dei rapporti di lavoro e dell'attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, nonché per fare fronte agli oneri derivanti dall'attuazione dei provvedimenti normativi volti a favorire la stipula di contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti, risulta inadeguato ed insufficiente

a realizzare gli obiettivi istitutivi del fondo stesso; se, poi, dovesse verificarsi alternativo alle previsioni di bilancio per la spesa ordinaria su politiche attive, passive, di conciliazione di vita e lavoro e di incentivazione per l'occupazione, rappresenterebbe un taglio considerevole alle risorse necessarie alla realizzazione dei livelli di copertura delle prestazioni attuali e occorrerebbe definire uno stanziamento molto più congruo per gli oneri derivanti dal cosiddetto Jobs Act;

          la relazione tecnica, con riferimento alla disposizione di cui all'articolo 12, che prevede l'azzeramento per tre anni dei contributi previdenziali per i nuovi assunti, stima che grazie alla norma si realizzeranno un milione di nuovi posti di lavoro, stima definita dall'Ufficio parlamentare di bilancio del tutto virtuale che prevede, tra l'altro, un impatto sull'occupazione pari a zero, poiché è molto probabile che le aziende, in virtù del beneficio, sfruttino lo sgravio per stabilizzare lavoratori che avrebbero assunto comunque, semplicemente potranno farlo spendendo molto meno;

          la previsione della corresponsione in busta paga, ad integrazione della retribuzione, delle maturande quote del TFR, rappresenta una misura improvvisata e priva di lungimiranza, o meglio un modalità affatto trasparente per aumentare il gettito attraverso l'anticipo della tassazione IRPEF, operata con l'aliquota marginale del relativo scaglione di reddito ordinaria piuttosto che alla tassazione separata propria del trattamento di fine rapporto, che comporterà inevitabili ripercussioni sugli accantonamenti di milioni di lavoratori iscritti alla previdenza complementare. La disposizione avrà inoltre scarsi risultati sulla domanda poiché i lavoratori opteranno per l'anticipazione in busta paga soprattutto per far fronte ad evenienze critiche, ad indebitamenti che rendano necessaria questa liquidità, e, per questo, è meno probabile che utilizzino il TFR liberato allo scopo di aumentare i propri consumi;

          anche la riduzione generalizzata dell'IRAP, attraverso la completa deduzione del costo di quei lavoratori assunti a tempo indeterminato, che rappresenta la maggiore entrata fiscale degli enti territoriali, e stimata in 5.600 milioni in ragione annua, avrà un impatto praticamente nullo sul PIL nel 2015, come del resto certificato dallo stesso Ufficio parlamentare di bilancio, senza peraltro essere compensata, a garanzia del finanziamento dei livelli essenziali di assistenza sanitaria, non si deve infatti dimenticare che l'imposta sulle attività produttive, nasce per riunificare, diminuendone, tra l'altro, il peso complessivo, varie imposte e contributi, primo fra tutti quello per il Servizio sanitario nazionale, che erano versati sulla retribuzione di ogni singolo lavoratore;

          quest'ultima considerazione non esclude che si possa attribuire una funzione di politica economica alla modulazione dell'imposta. Pur essendo pertanto condivisibile la scelta di incentivare le aziende che assumono stabilmente dipendenti, la scelta individuata dal governo non effettua distinzioni tra aziende che vogliono investire ed aziende che sono in smobilitazione, tra aziende che assumono innovando ed aziende che invece puntano solo alla svalutazione del lavoro. Crediamo quindi che questo ingente sgravio avrebbe potuto essere più selettivo e orientato, dentro una politica di sostegno alla domanda, agli investimenti, all'uscita dalla crisi, anziché essere la continuazione di una pratica di diminuzione del costo del lavoro quale unica ricetta, di dubbia efficacia, per sostenere l'occupazione la cui carenza è figlia di una crisi di domanda che può essere superata solo attraverso politiche di creazione di lavoro e di sviluppo non convenzionali;

          l'aumento esponenziale dall'11 per cento al 17 per cento della tassazione applicata ai rendimenti dei fondi pensione, di cui all'articolo 44, commi da 1 a 5, penalizzerà i lavoratori con un aggravio di tassazione, oltre a lanciare ennesimo segnale di incertezza, rischia di allontanare gli iscritti attuali e potenziali dal cosiddetto

secondo pilastro, che andrebbe invece maggiormente diffuso;

          quest'ultimo intervento normativo testimonia una sorta di schizofrenia del Governo che, mentre concede la possibilità di percepire il TFR in busta paga al prezzo di una tassazione superiore, allo stesso tempo innalza la pressione fiscale sulle forme in cui tale retribuzione differita è attualmente accumulata: TFR in azienda e previdenza complementare; risulta davvero intollerabile che si siano prodotte in questi anni politiche previdenziali che, riducendo la tutela pensionistica pubblica, hanno riversato sui lavoratori il carico di una integrazione attraverso i Fondi contrattuali e che ora il Governo rimetta in discussione uno dei patti fondativi di quel percorso, cioè quel sostegno fiscale che, in ragione della valenza generale della pensione integrativa, veniva riconosciuto al risparmio previdenziale del lavoratore;

          un'altra disposizione a riprova che il sistema previdenziale è fin troppo spesso finalizzato a fare cassa, è quella di cui all'articolo 26, comma 3, che stabilisce l'unificazione dei pagamenti delle pensioni al giorno 10 del mese e che rischia di danneggiare migliaia di pensionati che proprio in quei giorni devono fronteggiare pagamenti e scadenze;

          il pesante intervento previsto nei confronti dei Patronati, con una riduzione del Fondo Patronati di 150 milioni di euro nel 2015 e la contestuale riduzione dell'aliquota di prelievo dei contributi previdenziali obbligatori, già a partire dall'anno in corso, allo 0,148 per cento, unito al fatto che l'acconto da corrispondere, nel 2016, ai Patronati sarà ridotto dall'80 per cento al 45 per cento, pregiudicheranno l'attività di assistenza e di tutela che i Patronati svolgono in maniera gratuita nei confronti di milioni di cittadini e di cittadine privandole, in tal modo, del diritto di avere accesso ai loro servizi;

          la manovra risulta totalmente evasiva rispetto ai problemi del personale viaggiante delle ferrovie ed alla condizione dei circa 4.000 dipendenti scolastici (cosiddetta «quota 96») che da oltre due anni chiedono di vedersi riconosciuto l'accesso al trattamento pensionistico sia di vecchiaia che di anzianità, loro precluso dalla riforma Fornero, ed in merito ai quali la risoluzione n. 8-00042 approvata dalle Commissioni riunite V e XI della Camera impegnava il Governo a reperire, nell'ambito della manovra finanziaria le risorse necessarie alla definitiva soluzione dei problemi;

          per le ragioni illustrate in premessa,

DELIBERA DI RIFERIRE
IN SENSO CONTRARIO
XIII COMMISSIONE PERMANENTE
(Agricoltura)
XIII COMMISSIONE PERMANENTE
(Agricoltura)
RELAZIONE    DI    MINORANZA
sui
DISEGNI DI LEGGE
Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017 (2680)
Stato di previsione del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017
(Tabella n. 12)
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015) (2679-bis)
dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle

      La XIII Commissione,

          esaminato il bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2015 e per il triennio 2015-2017 (C. 2680 Governo), con riferimento allo stato di previsione del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali (Tabella n. 12) e le connesse parti del disegno di legge di stabilità per il 2015 (C. 2679-bis Governo);

          premesso che:

              il settore primario, grazie alle sue peculiarità strutturali, rileva un andamento differente rispetto agli altri settori produttivi e nonostante la gravissima crisi economica in atto ormai da tempo mantiene una buona produttività, con effetti considerevoli sul PIL nazionale;

              i buoni livelli di produttività registrati sono dovuti tuttavia ad una riduzione delle aziende agricole e dell'occupazione e pertanto la congiuntura agricola nazionale mostra una fase di debolezza le cui cause si riscontrano negli elevati costi di produzione e nella generalizzata crisi dei consumi che non permette l'incremento dei prezzi di vendita in grado di

compensare gli aumenti dei fattori di produzione;

              i danni causati sempre più frequentemente dall'andamento climatico e gli effetti imprevisti delle note crisi internazionali, prima fra tutte quella Russia-Ucraina, colpiscono duramente l'agricoltura nazionale, determinando consistenti cali di reddito per gli agricoltori che, unitamente alle difficoltà di accesso al credito, sono sempre più esposti al rischio di cessare la propria attività;

              gli ultimi dati ufficiali sull'occupazione, sulla nati-mortalità delle imprese agricole, sul rapporto prezzi all'origine- costi di produzione e sui consumi agroalimentari sono piuttosto preoccupanti e delineano un settore in sofferenza le cui conseguenze sarebbero ancora più decisive sulla diminuzione del PIL nazionale se non fosse per la crescita della domanda estera, in particolare intracomunitaria, atteso che le esportazioni italiane crescono maggiormente in Ue che nei Paesi terzi;

              in tale contesto economico-finanziario e nell'ambito di uno scenario internazionale in continua evoluzione, è prioritaria anche per il triennio 2015-2017 l'esigenza di coniugare gli interventi di razionalizzazione della spesa pubblica con gli obiettivi di crescita e rilancio del settore primario, in linea con quanto disposto dalla politica agricola comunitaria, dalla politica comune della pesca e dagli obiettivi della strategia» Europa 2020»;

              il provvedimento in esame non contiene alcuna previsione utile al rilancio dell'agricoltura e della pesca nazionali e anzi richiede al comparto primario uno sforzo di razionalizzazione a fronte di un impegno di risorse esiguo ed inadeguato per il conseguimento di qualsiasi obiettivo programmatico;

              lo stralcio dei commi 22 e 23 del provvedimento iniziale, relativi alle misure per lo sviluppo dell'imprenditorialità agricola e quelle per la promozione dei contratti di filiera, evidenzia un orientamento politico di totale disinteresse per il comparto primario, anche in considerazione dell'esiguità delle risorse originariamente stanziate per il triennio;

              l'accorpamento tra CRA ed INEA, in considerazione delle difficoltà finanziarie in cui versa l'Istituto, così come evidenziato anche dalla Corte dei Conti, rischia di compromettere lo svolgimento dell'attività istituzionale del CRA anche alla luce dei numerosi progetti comunitari a cui il Centro partecipa soprattutto in questa fase di avvio della nuova programmazione 2014-2020;

              il cambio di denominazione espone il Centro ad un considerevole danno in termini di riconoscibilità, posto che l'eccellente lavoro svolto negli anni gli ha conferito prestigio e autorevolezza a livello unionale ed internazionale;

              l'aumento dell'accisa sul gasolio agricolo, cresciuto costantemente nel corso degli ultimi anni, appare una ulteriore vessazione nei confronti di un settore in cui i costi di produzione rendono spesso antieconomica la produzione stessa, anche in considerazione della debolezza dei soggetti a monte della filiera;

              l'esclusione del settore agricolo dall'agevolazione relativa agli sgravi contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato penalizza il rilancio dell'occupazione agricola, soprattutto giovanile, in disaccordo con quanto previsto dalla normativa comunitaria che invece mira a promuovere ed incentivare il lavoro in agricoltura anche al fine di recuperare e salvaguardare le aree rurali.

DELIBERA DI RIFERIRE
FAVOREVOLMENTE

      con le seguenti condizioni, riferite al disegno di legge di stabilità 2015:

          che non si proceda all'aumento dell'accisa sul gasolio per impiego agricolo anche alla luce di quanto recentemente disposto dalla legge di delegazione europea 2013 bis, legge 154 del 2014;

          che si reintroducano le norme relative allo sviluppo dell'imprenditorialità agricola e quelle per la promozione dei contratti di filiera, assicurando a tali interventi una adeguata copertura finanziaria;

          che si proceda all'accorpamento del CRA-INEA solo dopo aver operato il risanamento dell'Istituto nazionale di economia agraria, che la denominazione sia Consiglio per la ricerca in agricoltura e dell'economia agraria, che venga garantita la continuità dell'attività istituzionale, che tutte le risorse finanziarie e strumentali dell'INEA vengano trasferite al Consiglio per la ricerca in agricoltura e dell'economia agraria, che le graduatorie concorsuali attive ai sensi delle leggi vigenti restino valide e siano utilizzabili, anche durante e successivamente il periodo di commissariamento, per le procedure di reclutamento che saranno autorizzate dal Dipartimento della funzione pubblica in base ai percorsi per il reclutamento ordinario nei due enti, che entro 180 giorni dalla data di costituzione del consiglio sia data facoltà ai dipendenti con contratto a tempo indeterminato e a quelli con contratto a tempo determinato di esercitare il diritto di optare per il mantenimento della cassa previdenziale di provenienza;

          che si estenda al settore agricolo l'agevolazione relativa agli sgravi contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato.

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