Frontespizio Relazione Progetto di Legge
XVII LEGISLATURA
 

CAMERA DEI DEPUTATI


   N. 2728


PROPOSTA DI LEGGE
d'iniziativa del deputato PISICCHIO
Modifica all'articolo 612-bis del codice penale, in materia di perseguibilità d'ufficio del delitto di atti persecutori
Presentata il 18 novembre 2014


      

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Onorevoli Colleghi! La presente proposta di legge recante una modifica all'articolo 612-bis del codice penale al fine di prevedere la perseguibilità d'ufficio del delitto di atti persecutori, di seguito «stalking», nasce da alcuni casi giudiziari seguiti da professionisti che hanno rilevato l'assoluta necessità di tale procedura.
      In particolare un caso è stato determinante per la presentazione di questa iniziativa parlamentare. Si tratta di un caso giudiziario che ha avuto tre protagonisti: un omicida, la vittima e la madre di quest'ultima. In primo grado l'imputato è stato condannato alla pena di trenta anni di reclusione (ergastolo – un terzo per la scelta del rito abbreviato = trenta anni) per il reato previsto dagli articoli 575, 576, primo comma, n. 5.1), del codice penale, ossia omicidio aggravato per aver commesso il delitto nei confronti della vittima di stalking.
      L'imputato veniva riconosciuto responsabile anche del delitto di stalking (sotto la forma della citata aggravante), sebbene la vittima non lo avesse mai denunciato quando era in vita. Infatti, lo stalking (in questo caso post mortem) viene configurato ai sensi dell'articolo 612-bis, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede la procedibilità d'ufficio del reato, qualora il fatto è connesso con un altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio (nella specie il reato per il quale si procede d'ufficio è l'omicidio). Questo comma ha «solo» oggi consentito alla madre della vittima di formalizzare la propria denuncia davanti all'autorità giudiziaria, perché «solo» oggi – e quindi quando la figlia è morta – la normativa vigente consente alla stessa di denunciare un reato che la vittima, quando era in vita, non aveva il coraggio di fare perché psicologicamente condizionata e ricattata dallo stalker a tal punto da subire in silenzio e da non denunciarlo, illusa di controllare la sua ira criminale.
      La madre della vittima, in data 4 maggio 2012, si reca in questura e chiede che sia lei a denunciare lo stalker al posto della figlia, ma ciò non le viene consentito. Le viene chiesto di portare la figlia perché solo quest'ultima è legittimata a formalizzare la querela per stalking. La madre rappresenta il fatto che ciò non è possibile perché la figlia ha paura. Ciò nonostante alla donna non viene consentito di sporgere denuncia. La mattina seguente lo stalker uccide la figlia.
      È indubbio che il fatto rappresenta l'emblema dell'anomalia di questa norma.
      Spesso nelle aule di giustizia, in procedimenti per stalking, la vera difficoltà ai fini dell'accertamento del reato si verifica nella fase di accertamento della sussistenza dei presupposti richiesti dalla norma stessa in riferimento alle condizioni della vittima. Non basta, dunque, che lo stalker abbia posto in essere la condotta tipica punibile dalla norma, ma è necessario che sia accertato anche il «perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita», come previsto dal primo comma dell'articolo 612-bis codice penale.
      Questa parte della norma rappresenta l'aspetto paradossale della stessa quando poi si prevede la querela di parte ai fini della procedibilità. Da una parte, dunque, si chiede, ai fini della configurazione del reato, che la vittima sia talmente intimorita e psicologicamente condizionata da modificare le proprie abitudini di vita e, dall'altra, si chiede esclusivamente alla stessa di trovare il coraggio di denunciare il proprio stalker.
      Il risultato della norma è rappresentato da quel 93 per cento di donne che non trovano il coraggio di presentare una denuncia.
      Chi promuove l'introduzione della perseguibilità d'ufficio per il delitto di stalking si è posto responsabilmente due quesiti: l'eventuale modifica dell'assetto procedimentale della norma potrebbe rappresentare un pregiudizio per la corretta amministrazione della giustizia (denunce strumentali per fatti non veri)? Potrebbe soprattutto rappresentare un pregiudizio per l'indagato o imputato?
      In entrambi i casi, la risposta è negativa per le ragioni che seguono.
      Nessun effetto sfavorevole potrà produrre la perseguibilità d'ufficio del delitto di stalking se sarà applicata a un fatto storico che integra realmente la fattispecie di stalking, sospendendo dunque ogni considerazione circa la strumentalizzazione di questa norma per fini meramente di parte. D'altronde, appare logico sostenere che la modifica opererebbe a vantaggio di quelle vittime che, per le ragioni esposte, non hanno il coraggio di presentare una denuncia. Nulla cambierebbe, invece, per coloro (che destano «preoccupazione») che denunciano un fatto «non» vero. Questo per prendere le distanze da «chi» rappresenta il falso problema che lo stalking perseguibile d'ufficio porterebbe a più denunce strumentali; ovviamente chi vuole strumentalizzare questo reato per altri fini, la denuncia o querela la presenta già ora, ancora prima della modifica. Semmai, le uniche persone che potrebbero trarre vantaggio dallo stalking perseguibile d'ufficio sono proprio quelle che non vogliono strumentalizzare tale fattispecie di reato e che, anzi, subiscono per le ragioni esposte e non denunciano il fatto reato. Da queste brevi considerazioni emerge che lo stalking perseguibile d'ufficio non può produrre alcun effetto indesiderato.
      La modifica introdotta con la riforma sul femminicidio con il decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, avendo portato la pena massima per il delitto di cui all'articolo 612-bis del codice penale da quattro anni a cinque anni di reclusione, esclude la trattazione di questo reato nelle forme previste dall'articolo 550 del codice di procedura penale (casi di citazione diretta in giudizio) e prevede invece l'udienza preliminare, sede in cui il giudice verifica la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza prima di emettere un'eventuale decreto che dispone il giudizio dell'imputato per il delitto di stalking. Con la conseguenza che, qualora il delitto non sussiste, già in quella sede il giudice potrebbe emettere un provvedimento opposto, ossia quello del proscioglimento dell'imputato con sentenza di non luogo a procedere, evitando così di impegnare il tribunale che potrebbe giungere al medesimo esito sostanziale. In questo modo, il giudice dell'udienza preliminare funge da filtro già ora per i casi di stalking perseguibili a querela di parte e ancora più potrà farlo in caso di stalking perseguibile d'ufficio.
      Ma ancora prima, i procedimenti per stalking, qualora il delitto diventasse perseguibile d'ufficio, in assenza di gravi indizi sufficienti per sostenere l'accusa in giudizio, potrebbero essere archiviati dal giudice per le indagini preliminari. Chi scrive, come si è visto in semplici parole, non ravvisa effetti negativi dall'eventuale cambiamento sul piano procedimentale. Già il legislatore, con il citato decreto-legge n. 93 del 2013, aveva coscienza della necessità di modificare la condizione di procedibilità, intervento che, tuttavia – a modesto avviso del sottoscritto – non soddisfa in pieno l'esigenza di tutela della persona offesa ancora in vita: per assurdo, essa è più «tutelata» da morta.
      Si è cercato, infatti, di evitare la remissione della querela a seguito della minaccia dello stalker, filtrando la volontà della persona offesa alla verifica da parte del giudice. Già allora, dunque si percepiva la necessità di un intervento, tralasciando tuttavia l'aspetto più delicato: che trovino tutela davanti al giudice non solo le vittime che hanno avuto il coraggio di denunciare (il 7 per cento), ma anche quelle che non si troveranno mai davanti a un giudice (il 93 per cento) proprio perché, personalmente, non denunceranno mai il fatto reato.
      Non basta nemmeno – come già prima era previsto – che il delitto di stalking diventi perseguibile d'ufficio solo a seguito dell'ammonimento del questore, perché il legislatore chiede sempre alla vittima di stalking di chiedere l'ammonimento ma, per le ragioni esposte, per la vittima l'ammonimento «equivale» a denuncia e per questo essa non si presenta davanti al questore.
      La possibilità che oltre alla vittima – come per qualsiasi reato perseguibile d'ufficio – chiunque possa denunciare lo stalker rappresenterebbe, poi, anche un deterrente affinché quest'ultimo, consapevole di ciò, non ponga in essere condotte che, se viste o conosciute da altri, potrebbero da questi essere portate a conoscenza dell'autorità.
      Non basta nemmeno l'aumento di pena previsto nei casi di cui al secondo comma dell'articolo 612-bis del codice penale, introdotto con l'ultimo intervento legislativo, se di pena non si potrà mai parlare in assenza di denuncia da parte della vittima. Lo stesso vale per l'ipotesi di irrevocabilità della querela nei casi previsti dal comma citato, se la querela non verrà mai proposta.
      In altri termini, si ha dunque la netta sensazione che la norma, allo stato attuale, nonostante i buoni propositi del legislatore, tuteli solo le vittime che hanno deciso di reagire. Ma se di vittime si tratta, nessuna differenziazione si dovrà mai operare tra le due «categorie», ovvero coloro che agiscono e coloro che non lo fanno per i motivi esposti. Se di vittime si tratta, tutte allo stesso modo meritano tutela dall'ordinamento, salvo poi il compito degli operatori di pubblica sicurezza e dell'autorità giudiziaria inquirente e giudicante di esaminare ogni singolo caso (cosa che dovrebbe e che avviene per ogni procedimento penale, a prescindere dal titolo di reato).
      Non potrà certo sostenersi che in caso di «stalking perseguibile d'ufficio» si verificherebbe una sorta di «ingerenza» nella vita privata della vittima da parte delle istituzioni; come dire, visto che non ho chiesto il Tuo (rivolto allo Stato) aiuto, non dovevi intervenire. Si pensi all'ipotesi di reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi (articolo 572 del codice penale): si tratta di un delitto perseguibile d'ufficio con la conseguenza che chiunque, oltre alla vittima, può segnalarlo all'autorità. Da una parte, nelle aule di giustizia, si nota l'anomalia di questa norma in quei casi in cui la persona offesa viene sentita in aula e tenta di «sminuire» il fatto reato dalla stessa subito e, dall'altra, il tribunale chiamato a giudicare, nonostante l'eventuale atteggiamento remissivo della persona offesa, ad esclusiva tutela della stessa, se sussistono i presupposti di legge, emette un provvedimento di condanna nei confronti dell'imputato. Evidentemente, come nel caso dell'articolo 612-bis del codice penale, si tratta di un reato che desta grave allarme sociale. Indubbiamente i due reati hanno una forte similitudine fisiologica. L'esperienza processuale che riguarda l'ipotesi del reato previsto dall'articolo 572, «nonostante» si tratti di delitto perseguibile d'ufficio, insegna che la condizione di procedibilità rappresenta non un pregiudizio ma una tutela per le vittime del reato. La tutela, dunque, la ricevono anche quelle vittime che, per le condizioni citate, si dimostrano perfino reticenti davanti al giudice e che non hanno mai denunciato il loro aggressore (atteggiamento assolutamente comprensibile visto che la maggior parte dei reati di questa natura si consuma all'interno delle mura domestiche, luogo in cui la vittima «ribelle», dopo avere sporto denuncia, dovrebbe poi ritornare e convivere con il denunciato).
      Il risultato positivo riscontrato nella condizione di procedibilità d'ufficio prevista per il delitto di cui all'articolo 572 dovrebbe fare riflettere anche e soprattutto per il delitto previsto e punito dall'articolo 612-bis.
      La previsione normativa non deve rivestire una funzione meramente punitiva (l'inasprimento della pena da quattro a cinque anni di reclusione), ma soprattutto preventiva: oggi, invece, sembra trattarsi di un reato di danno.
      Com’è noto la Suprema Corte, sezione penale V, con la sentenza n. 17698 del 5 febbraio 2010, ha precisato che: il delitto di atti persecutori è reato ad evento di danno e si distingue sotto tale profilo dal reato di minacce, che è reato di pericolo.
      Tuttavia – a modesto parere di chi scrive che non condivide del tutto l'orientamento della Suprema Corte – l'evoluzione fattuale che può verificarsi al seguito del compimento della condotta dello stalker rappresenta un vero e concreto, nonché attuale pericolo per la persona offesa perché essa può diventare vittima di un reato ben più grave e, addirittura, di omicidio.
      È dunque in quest'ottica che la configurabilità effettuata dalla Suprema Corte non deve essere intesa come censura nei confronti di una diversa interpretazione.
      Si tratta, infatti, di un reato di danno che si verifica qualora l'aggressore venga fermato in tempo e punito per il delitto di stalking.
      Si tratta invece – ed è questa la parte che qui interessa – di un reato di pericolo per la fisiologica possibilità che questa fattispecie di reato rappresenta di sfociare in un delitto molto più grave, perfino in omicidio, qualora il reo non si fermi alla mera condotta prevista e punita dall'articolo 612-bis, superando dunque la soglia del danno ivi previsto. Quel che serve è maggiore consapevolezza della collettività che il delitto è perseguibile d'ufficio (qualora ciò – come si auspica – si verifichi). Serve la consapevolezza che si tratta di un delitto di pericolo per reati ben più gravi, oltre che di danno, e che proprio per questo deve essere oggetto di una grande attenzione. Serve maggiore consapevolezza che chiunque può aiutare la vittima; chiunque – come avviene per ogni reato perseguibile d'ufficio – può chiedere l'intervento delle Forze dell'ordine senza essere «mandato» via perché soggetto diverso dalla vittima e quindi non «legittimato» a denunciare. Serve maggiore consapevolezza del reo che non è sufficiente far soccombere psicologicamente la vittima, perché le persone con le quali la vittima stessa potrebbe confidarsi potrebbero agire per lei. Serve maggiore consapevolezza dello stalker che la vittima non è più sola, perché c’è lo Stato che interviene a sua tutela, anche quando essa non è in grado di presentare la denuncia.
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PROPOSTA DI LEGGE
Art. 1.

      1. Il quarto comma dell'articolo 612-bis del codice penale è abrogato.

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