Organo inesistente

XVII LEGISLATURA
 

CAMERA DEI DEPUTATI


   N. 3415


PROPOSTA DI LEGGE
d'iniziativa dei deputati
MARCON, SBERNA, COSTANTINO, AIRAUDO, MELILLA, DURANTI, PAGLIA
Norme in materia di incompatibilità tra cariche istituzionali e incarichi interni ai partiti politici
Presentata il 10 novembre 2015


      

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Onorevoli Colleghi! In questi anni abbiamo assistito a una profonda crisi del sistema politico – e in particolare dei partiti politici – che ha avuto come conseguenza anche l'inquinamento del rapporto corretto con le istituzioni e con la pubblica amministrazione. I partiti hanno in questi anni «occupato lo Stato», influenzando e determinando le scelte e le nomine delle cariche pubbliche e hanno prodotto una commistione tra partiti e istituzioni che è alle radici della crisi del nostro sistema democratico.
      In un'intervista del 1981 a Eugenio Scalfari, su La Repubblica, l'allora segretario del Partito comunista italiano ebbe ad affermare: «I partiti di oggi sono soprattutto macchina di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”».
      L'analisi di Berlinguer – a trentacinque anni di distanza – rimane di grande attualità. I partiti hanno accentuato la loro caratterista di «comitati elettorali», di luoghi di occupazione del potere e dello Stato.
      La crisi dei partiti politici ha origini lontane.
      La Costituzione assegna ai partiti politici una funzione centrale (articolo 49) nella determinazione della «volontà generale». Tutte le democrazie moderne – non solo quella italiana – si fondano sul ruolo essenziale dei partiti. Questi hanno avuto nel corso della loro storia diverse funzioni: la selezione del personale politico, la gestione dell'amministrazione pubblica e del governo delle istituzioni (queste due prime funzioni si esercitano attraverso le elezioni e la rappresentanza) e poi la formazione di identità collettive (politiche, sociali, territoriali, eccetera), l'integrazione e l'inclusione della società nelle istituzioni democratiche, un ruolo pedagogico-culturale rivolto alla formazione di spirito pubblico e senso civico. La metamorfosi dei partiti si articola sostanzialmente in quattro stadi. Il primo è quello caratterizzato dalla formazione dei partiti dei notabili (seconda metà dell'ottocento). Il secondo è quello dei partiti di massa (dalla fine dell'ottocento al secondo dopoguerra). Il terzo è quello dei partiti «pigliatutto» (anni settanta-novanta). L'ultimo è quello dei partiti «cartello» (oggi), secondo la definizione dei politologi Katz e Mair. È da qualche anno che siamo nel mare sconosciuto di una transizione in cui si mescolano populismo e tecnocrazia, politica e mercato. L'età eroica dei partiti è per antonomasia quella della loro dimensione di massa, avvenuta grazie all'affermazione del suffragio universale e di grandi ideologie sociali e politiche (il socialismo, innanzitutto) che ne hanno costituito l'identità fortissima. È questa l'unica fase in cui l'identità ideologica e politica è strettamente legata a un forte radicamento sociale: i partiti sono portavoce di classi sociali, nonché di forti interessi economici e materiali ben individuabili. Non è questo il caso della terza fase nella quale invece, facendosi «pigliatutto», la maggior parte dei partiti – con diversi accenti – interpreta interessi sempre più larghi (non più identificabili con un unico blocco sociale di riferimento) e l'intera società – o, meglio, la «corsa al centro», il cosiddetto elettore mediano – diventa terreno di competizione per l'amministrazione della cosa pubblica e con questa per l'accesso alle risorse che le istituzioni in diverse forme veicolano. Nella quarta fase, alla «dimensione pigliatutto» si sostituisce – o, meglio, si affianca – quella del cartello: i partiti (vincenti o perdenti) di fatto si costituiscono come un blocco monopolistico in base a una logica classicamente consociativa o anche corporativa che unisce i diversi competitor (sia che risultino vincenti al Governo che perdenti all'opposizione) nel mantenimento di una rendita: quella dell'accesso alle risorse e agli spazi della politica. Della prima fase (seconda metà dell'ottocento) è inutile parlare: allora i notabili rappresentavano solo se stessi e ristrette cerchie: élite elette (meglio, nominate) da élite. Parlare di rappresentanza è improprio. I notabili si autorappresentavano dentro un processo di formazione di una classe politica totalmente autoreferenziale e antidemocratica, sostanzialmente oligarchica.
      In questo contesto, l'età dell'oro dei partiti è connessa con l'allargamento universalistico della democrazia e con il perfezionamento del principio della rappresentanza. I partiti sono stati veicolo di democrazia, uguaglianza e partecipazione. Formavano identità politiche, favorivano l'integrazione delle masse nella democrazia, avevano una funzione pedagogica e formavano comunità solidali. Ma non solo. Questa età dell'oro ha prodotto – o si è fatta accompagnare – dalla professionalizzazione, dalla specializzazione e dalla burocratizzazione della politica. Weber per spiegare i processi avvenuti a partire dagli inizi del novecento nei sistemi amministrativi e di governo ha introdotto la categoria della «politica come professione» mentre il sociologo tedesco Robert Michels ha definito i nuovi partiti di massa – strumenti di lotta per il governo – come dominati dalla «ferrea legge delle oligarchie», élite professionalizzate e specialistiche che godono del consenso di una base sociale ormai espropriata da una democrazia «dall'alto» che chiede alle masse solo di essere strumento delle scelte delle «avanguardie». I partiti diventano cioè strutture oligarchiche con basi di massa. I partiti vivono in funzione dello Stato. I partiti creano apparati e burocrazie, selezionano le classi dirigenti o le avanguardie, diventano dei «moderni principi», dove si ricrea paradossalmente un meccanismo analogo a quello della democrazia cosiddetta borghese: separazione tra governanti e governati, avanguardie (o élite) e popolo, centro e periferia, alto e basso. Sappiamo quanto questo è stato importante per la nascita di movimenti come Podemos e Cinque Stelle. I partiti diventano strumenti di conquista del potere o dello Stato. Cambiano le strategie e gli obiettivi ma l'idea del partito nelle strategie riformiste e rivoluzionarie non è molto dissimile. Organi della società che ambiscono a diventare organi dello Stato. Nel bene, il vizio c'era già allora.
      A un certo punto della nostra storia i partiti di massa deperiscono. Diventano – per usare un'espressione di Ilvo Diamanti e poi sviluppata da Pino Ferraris – «partiti senza società». Deperiscono per motivi esterni e interni. Quelli esterni sono essenzialmente costituiti dal cambiamento della struttura sociale: a una netta differenziazione per classi (che innervava i partiti di massa) subentra una complessità del tessuto sociale che pur senza eliminare le polarizzazioni sociali rende più complesse le identità e quindi le forme di rappresentazione di quelle nei vecchi partiti di massa. Questo processo di omogeneizzazione sociale è particolarmente evidente a partire dagli anni sessanta nella uniformazione dei consumi, dei comportamenti culturali e degli stili di vita. La complessità del tessuto sociale ha determinato la crisi dei partiti come naturali rappresentanti di classi sociali ben identificate a favore di una più generica rappresentanza di istanze sociali progressiste che dovevano unire nel consenso piccoli proprietari di case e affittuari, lavoratori e piccoli imprenditori autonomi, interessi generali e particolari. Il neoliberismo ha poi costruito una narrazione che ha innervato una sorta di consociativismo degli interessi sociali nelle culture politiche e di governo: operai e imprenditori, risparmiatori e finanziari tutti sulla stessa barca. I partiti di massa erano luoghi fordisti che si adattavano a una struttura fordista della società (la fabbrica, la scarsa mobilità sociale, forti e stabili strutture sociali eccetera). Entrata in crisi o trasformatasi radicalmente la struttura economica della società, anche le identità e le forme politiche avrebbero ricevuto i conseguenti contraccolpi. La mobile identità della struttura sociale (che non significa l'inesistenza di disuguaglianze e di polarizzazioni sociali, quanto la loro difficile traducibilità in identità costituenti «universi simbolici» propri) ha portato a una conseguente identità mobile della funzione politica che si è data una dimensione «leggera» fatta di marketing, gestione quotidiana di piccoli interessi, pura capacità di manovra e cinismo. Il just in time, il marketing, il valore del marchio, la velocità di adattamento e di trasformazione interna e l'importanza della dimensione «cognitiva» valgono per le imprese economiche come per quelle politiche. Non si trattava di interpretare nel modo migliore la rappresentanza di una classe o di un blocco sociale, quanto di arrivare il più possibile (secondo un'ottica progressista o conservatrice) a più componenti possibili della società, per ottenere il consenso più largo: determinante per i partiti «pigliatutto» è stata ed è in questo senso la «corsa al centro» e l'elettore mediano. Il peso sempre più preponderante dei media e del mercato sulla politica è stato determinante in questa trasformazione. Ma i partiti di massa sono entrati in crisi anche per motivi interni: sono cioè implosi. La sfera politica per via di questi processi – perdendo molte ancore sociali ed ideologiche – si è ipostatizzata in una dimensione autonoma anche sotto il peso di concreti e quotidiani interessi economici e materiali. Risorse pubbliche sempre maggiori e pressioni private (del mercato) sempre più stringenti hanno fatto della politica un terreno di scontro molto importante in cui si è giocata una partita pesante in termini finanziari e materiali. Di fronte a questi interessi colossali, nello scontro tra partiti opposti, la scelta del «cartello» in chiave consociativa (con la complicità tra «vincenti» e «perdenti») e corporativa si è presentata come naturale e obbligata. Hanno affermato Katz e Mair: «Lo Stato che è invaso dai partiti, e le sue regole, che sono determinate dai partiti, diventano una fonte di risorse attraverso cui i partiti non solo contribuiscono ad assicurarsi la sopravvivenza, ma possono anche rafforzare la loro capacità di far fronte alle nuove minacce di nuove alternative apparse sulla scena. Lo Stato, in questo senso, diventa una struttura istituzionalizzata di sostegno, che agisce a favore di chi è dentro ed esclude chi è fuori. Non più semplicemente mediatori tra la società civile e lo Stato, i partiti vengono assorbiti dallo Stato. Dopo aver avuto dapprima il ruolo di fiduciari, poi di delegati, poi di imprenditori, all'epoca dei partiti pigliatutto, i partiti diventano agenzie parastatali».
      In questo contesto la riforma dei partiti deve passare inevitabilmente dalla rottura di questa commistione con le istituzioni, come preda e terreno di caccia di risorse e di sostegni di vario genere, fermando la deriva della trasformazione dei partiti in agenzie parastatali, per farli tornare a essere organizzazioni autonome della partecipazione popolare e sociale alla cosa pubblica.
      Recentemente il professor Luigi Ferrajoli, nella sua relazione «Per la separazione dei partiti dallo Stato» al seminario del 18 maggio promosso dalla Fondazione Basso, dedicato precisamente al tema della separazione dei partiti dalle istituzioni pubbliche, ha ricordato: «L'attuale diaframma tra partiti e società può essere infatti superato solo se i partiti saranno restituiti, grazie all'eteronomia della legge, al loro ruolo di organi della società, anziché dello Stato, quali soggetti rappresentati anziché rappresentanti, e quindi come istituzioni di garanzia del diritto dei cittadini, previsto dall'articolo 49 della Costituzione, di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. I partiti dovrebbero, in breve, essere separati dallo Stato, non solo dagli apparati della pubblica amministrazione ma anche dalle istituzioni politiche elettive, e deputati alla elaborazione dei programmi di governo, alla scelta dei candidati e alla responsabilizzazione degli eletti, ma non anche alla diretta gestione della cosa pubblica. Per molteplici ragioni: in primo luogo perché siano favoriti il loro radicamento sociale e soprattutto, grazie all'alterità tra rappresentanti e rappresentati, il loro ruolo di mediazione rappresentativa tra istituzioni pubbliche elettive ed elettorato attivo; in secondo luogo per evitare i conflitti di interesse che si manifestano nelle auto-candidature dei dirigenti e nelle varie forme di cooptazione dei candidati sulla base della loro fedeltà a quanti li hanno, di fatto, designati; in terzo luogo per impedire la confusione dei poteri tra controllori e controllati e consentire la responsabilità dei secondi rispetto ai primi; in quarto luogo per determinare un più rapido e fisiologico ricambio dei gruppi dirigenti e del ceto politico».
      La separazione dei poteri, del resto, rappresenta la prima e ovvia garanzia contro le loro naturali concentrazione e accumulazione, che nel caso della rappresentanza politica si risolvono nella sua vanificazione e nell'inevitabile involuzione autoritaria del sistema politico.
      Ecco perché le norme sulla separazione tra cariche di partito e cariche istituzionali della presente proposta di legge possono contribuire alla riforma dei partiti e delle istituzioni, limitando i fenomeni di clientelismo e di «occupazione del potere», limitando quella degenerazione del sistema politico, sottolineata da Berlinguer nella citata intervista a La Repubblica nel 1981.
      Questa proposta di legge è composta da quattro articoli.
      Nell'articolo 1 è sancito il principio generale dell'incompatibilità tra cariche di partito e cariche istituzionali, fornendo un elenco delle cariche istituzionali incompatibili con le cariche di partito.
      Nell'articolo 2 il principio dell'incompatibilità è esteso anche agli incarichi dirigenziali e burocratici nella pubblica amministrazione e nei consigli di amministrazione delle società pubbliche.
      Nell'articolo 3 si stabilisce il limite entro il quale, una volta nominato per una carica istituzionale, l'interessato deve lasciare ogni incarico rivestito nel partito o nel movimento politico di appartenenza.
      Nell'articolo 4 si fa riferimento al regolamento di attuazione da emanare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge.
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PROPOSTA DI LEGGE
Art. 1.

      1. È stabilita l'incompatibilità tra le cariche di partito o movimento politico e le cariche istituzionali, individuate dal comma 3.
      2. Per cariche di partito o movimento politico, si intendono quelle previste dagli atti costitutivi e agli statuti dei partiti o movimenti politici di appartenenza.
      3. Le cariche istituzionali di cui al comma 1 sono le seguenti: Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio dei ministri, Ministri, Sottosegretari di Stato, sindaci, presidenti di regione, di provincia e di municipio, assessori comunali, provinciali e regionali, deputati, senatori, consiglieri di regioni, comuni e province, consiglieri e presidenti degli organi costituzionali.
      4. Nell'elenco delle cariche istituzionali di cui al comma 3 del presente articolo possono altresì essere inserite le eventuali cariche che, a ogni livello e articolazione dell'ordinamento pubblico, hanno tale natura e sono individuate nel regolamento di attuazione di cui all'articolo 4.

Art. 2.

      1. L'incompatibilità di cui all'articolo 1 si applica anche ai consiglieri e ai presidenti delle autorità indipendenti, ai consiglieri di amministrazione di società pubbliche e a ogni soggetto con funzioni dirigenziali esercitate nella pubblica amministrazione, a livello locale e centrale, nonché ai soggetti che esercitano altre eventuali funzioni individuate dal regolamento di attuazione di cui all'articolo 4.

Art. 3.

      1. Qualora al momento della nomina a una carica istituzionale di cui agli articoli

1 e 2 il soggetto rivesta una carica in un partito o movimento politico, l'interessato deve, entro trenta giorni dall'assunzione della carica istituzionale, dimettersi dalla carica nel partito o movimento politico di appartenenza.
      2. In caso di inadempienza all'obbligo di cui al comma 1 entro il termine ivi previsto, il soggetto decade dalla carica istituzionale.
Art. 4.

      1. Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, è emanato, ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, il relativo regolamento di attuazione.

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