Organo inesistente

XVII LEGISLATURA
 

CAMERA DEI DEPUTATI


   N. 4173


PROPOSTA DI LEGGE
d'iniziativa dei deputati
TURCO, ARTINI, BALDASSARRE, BECHIS, MATARRELLI, SEGONI, BRIGNONE, CIVATI, ANDREA MAESTRI, PASTORINO
Delega al Governo per la riforma dell'istituto dell'enfiteusi
Presentata il 15 dicembre 2016


      

torna su

      Onorevoli Colleghi! — L'istituto dell'enfiteusi, nel volume più famoso della dottrina italiana dell'ottocento del giurista ferrarese Luigi Borsari, viene così definito: «L'enfiteusi è un contratto col quale viene concessa una cosa immobile, in perpetuo o a tempo, verso una pensione o canone che si presta al padrone diretto a ricognizione di dominio». Da questa definizione emergono già gli elementi caratterizzanti dell'istituto: un contratto, un immobile come oggetto del dominio diviso, il canone come corrispettivo del godimento, un obbligo ai miglioramenti: elementi che hanno caratterizzato i lineamenti dell'enfiteusi dalla sua nascita fino a oggi.
      L'istituto, nato nel 368 dopo Cristo dagli imperatori Valentiniano I e Flavio Giulio Valente, al tempo conosciuto come «livello», fu esteso e applicato in tutto l'Impero romano e consisteva nelle antiche concessioni ai coloni o ai veterani di «ager publicus» o «agri vectigales», terreni patrimonio della collettività romana.
      Tale istituto prevedeva che chi disponeva di terre (concedente) poteva concederle «a livello» dietro un canone livellario determinando le condizioni dell'utilizzo.
      Le condizioni venivano scritte in «duo libelli pari tenore conscripti», cioè in due libretti di uguale contenuto (da questa espressione è derivato il nome dell'istituto) e ciascuno dei contraenti ne firmava uno che veniva consegnato all'altra parte.
      L'origine dell'enfiteusi è strettamente legata a una nobile funzione sociale avente l'intento di aiutare la classe povera (dalla quale provenivano gli imperatori romani citati) che attraverso la coltivazione del terreno trovava una fonte di sostentamento per le proprie famiglie.
      Il concedente era incentivato a prestare tali terreni approfittando soprattutto della lunga durata del rapporto, indispensabile per realizzare opere di miglioria su fondi di grande estensione dello Stato.
      Ulteriore vantaggio per l'Impero romano era anche ripopolare territori generalmente incolti o malsani ovvero abbandonati specialmente a causa delle vicissitudini belliche.
      Si rinvengono, inoltre, alcune vicende successive, nel periodo bizantino, che sono fatte risalire a una lex dell'imperatore Zenone e a successive modifiche apportate dall'imperatore Giustiniano, volendo avvicinare la conformazione dell'istituto alle prime prassi del vassallaggio tipico delle popolazioni germaniche.
      L'istituto dell'enfiteusi nasce, con il trascorrere degli anni, nella prassi medievale, quando si rende necessario sperimentare nuovi strumenti che permettano di coltivare le enormi estensioni di terra coltivabile abbandonate durante l'alto medioevo, ormai divenute paludi o boschi, o zone marginali o impervie, da riportare a coltura produttiva.
      Da queste rinnovate esigenze, che pure, fin dall'inizio, avevano caratterizzato la nascita dell'istituto, si sviluppano nuove forme contrattuali, come la «locatio ad longum tempus», la precaria, il (nuovo) livello.
      Si sviluppano quindi varie configurazioni con cui s'indica la realtà del dominio diviso, che vede da una parte un soggetto, il dominus eminens o directus, titolare di sconfinate estensioni di terra ma impossibilitato a coltivarle direttamente, e dall'altra il dominus utile, colui che concretamente fruisce dell'immobile investendo lavoro e risorse nella coltivazione e nella manutenzione.
      Durante il lungo periodo del Medioevo si raffinano le teorie del dominio diviso, che rimane comunque sempre ancorato agli elementi della consuetudine, del lungo tempo e dei miglioramenti. Peraltro l'istituto ebbe un'ulteriore ampia diffusione soprattutto nel Medioevo sulle proprietà della Chiesa, la cosiddetta enfiteusi ecclesiastica.
      La prassi di concedere porzioni, anche di considerevoli dimensioni, di terreni in enfiteusi era, infatti, molto praticata nel Medioevo da parte di abbazie e di monasteri. Questi si trovavano spesso nella difficoltà di non riuscire a gestire la totalità dei terreni di loro proprietà sia per l'estensione che, con il succedersi di innumerevoli lasciti, diventava sempre più ampia, sia per la distanza geografica che taluni fondi avevano dalla sede dell'ente ecclesiastico proprietario.
      Con la caduta dell'Impero romano d'occidente tutti gli Stati venutisi a formare nel corso del Medioevo dovettero adattare il fenomeno della frantumazione del latifondo, dando una duplice risposta alle esigenze sia del feudatario che della servitù della gleba che lavorava le terre.
      Se da un lato si cercava di rendere produttive le immense distese di terre lasciate all'incuria e alle paludi, dall'altro si voleva dare la possibilità ai propri sudditi di avere un lavoro con il quale generare un certo sostentamento per la loro già misera esistenza.
      Ed è ancora questa la configurazione dell'enfiteusi che vediamo descritta nel Trattato del contratto di enfiteusi di Pothier del 1821.
      La Rivoluzione francese non vide di buon occhio l'istituto, nel quale i giacobini ravvisavano pericolose vestigia dell'odiato regime feudale.
      Nel 1790 viene promulgata una legge sul riscatto delle rendite perpetue, che consentiva il riscatto di tutte le rendite fondiarie, permettendo così agli «utilisti» di consolidare il proprio dominio, redimendo il terreno che fino ad allora avevano coltivato.
      Il Code Napoléon del 1804, in linea con quanto appena occorso, non comprende, infatti, l'istituto dell'enfiteusi, senza, tuttavia, vietarlo espressamente.
      L'articolo 530 tratta di rendite perpetue prevedendone la redimibilità, come già espresso nella legge del 1790. La mancata inclusione dell'enfiteusi nel Code Napoléon, come per molti altri istituti dell'antico regime, sembrava lasciar presagire una condanna inappellabile. Ma non fu così.
      Alcune rilevanti novità in materia vennero dal Regno delle Due Sicilie.
      In questi territori uno dei problemi più annosi era quello del latifondo e delle enormi estensioni di terra poco produttive.
      Il legislatore borbonico si orientò, perciò, verso l'introduzione dell'enfiteusi nelle leggi civili, parte seconda, del codice del Regno delle Due Sicilie del 1819.
      Il Regno delle Due Sicilie riconosceva una notevole importanza economica all'istituto per la colonizzazione del latifondo.
      Se per l'ex Regno di Napoli l'istituto era rilevante in ragione delle grandi estensioni di terra, per l'ex Regno di Sicilia, dopo aver conosciuto in pochi anni l'abolizione della feudalità con la Costituzione del 1812, il nuovo ordinamento amministrativo del 1817 e il nuovo codice del 1819, che aveva vissuto lo smembramento degli antichi Stati feudali e la contestuale emersione di un nuovo ceto che potremmo anche definire «borghese», l'enfiteusi, così come descritta nel codice del Regno delle Due Sicilie, ebbe una notevole importanza sociale ed economica, costituendo uno strumento molto efficace per la frammentazione dei latifondi risultati dall'abolizione dei feudi.
      Possiamo perciò dire che i codici pre-unitari nati in Italia a seguito della Restaurazione inclusero quasi tutti l'enfiteusi nelle loro produzioni codicistiche, con l'eccezione del «Codice Albertino», il codice civile del regno di Sardegna, pedissequo seguace del codice napoleonico, nel quale tuttavia l'articolo 1740 consentiva una locazione fino a 100 anni relativamente a terreni incolti da migliorare.
      Nel 1861, un primo progetto di codice civile del nuovo regno, di Cassinis, non contempla l'enfiteusi.
      Il successivo progetto di Miglietti (ex-Cassinis) del 1862 trova, invece, la previsione dell'istituto, ma non tra i contratti, quanto piuttosto nel libro II – Della proprietà.
      Si giunse poi nel 1865 ai lavori della Commissione per la promulgazione del codice civile, nei quali il Pisanelli svolse una strenua difesa dell'istituto, promuovendone il ruolo nella piccola e media proprietà, nonché evidenziandone i vantaggi di frantumazione del latifondo meridionale, tale da provocare il reinserimento dell'enfiteusi nel codice civile.
      L'ultima codificazione, vigente a tutt'oggi, contempla, quindi, ancora l'enfiteusi.
      Le norme relative, inserite nel codice civile del 1942, ebbero una breve gestazione: il 12 febbraio 1940 fu predisposto un primo schema di disposizioni e già Vassalli aveva individuato un relatore del progetto di codice civile per enfiteusi e comunione. Paradossalmente fu proprio il codice civile del 1942 che restituì nuovo vigore all'enfiteusi, inserendola a pieno titolo tra i diritti reali.
      Dalla nuova codificazione a oggi, nel corso dei decenni sono diventate sempre meno apparenti e definibili le figure del concedente e del livellario: il proprietario non provvedeva a riscuotere il canone dovutogli, spesso anche perché riteneva troppo gravosa l'esazione, e l'enfiteuta o livellario non pagava il canone dovuto poiché non gli veniva più richiesto o perché non seguivano sanzioni (devoluzione) al mancato pagamento di quanto richiesto.
      Di fatto si venne a creare un pacifico e reciproco inadempimento: da una parte l'enfiteuta o livellario, che non provvedeva a pagare il canone, pur provvedendo a migliorare il fondo anche con notevoli innovazioni nella coltura e nella morfologia, e dall'altra l'ente proprietario che, spesso per inerzia, non azionava le sanzioni codicistiche previste, quali la devoluzione, in caso di mancato pagamento del canone.
      Il trascorrere del tempo portò quindi a ulteriori effetti: l'enfiteuta, sentendosi talmente radicato nel possesso del fondo e non avendo mai subìto un controllo o un atto di dominio da parte del proprietario per verificare se l'enfiteuta o livellario stesso provvedesse effettivamente al miglioramento del fondo, non si riteneva più obbligato a pagare il canone, in quanto ritenuto ormai superato.
      In evoluzione a questo pensiero, spesse volte, l'enfiteuta, attuando una vera interversio possessionis, ritenendosi di fatto il vero dominus, si permetteva di trasferire il fondo a un terzo che, considerando l'alienante (enfiteuta) il vero proprietario, ne riceveva il possesso a titolo di proprietà, in buona fede.
      Dopo diversi, parecchi, decenni e vari passaggi di possesso in forza di titoli idonei, debitamente trascritti ma dai quali non si evince quasi mai l'esistenza di enfiteusi, livelli o canoni, il latifondista inerte, l'ente pubblico territoriale o ecclesiastico concedente, chiede oggi agli odierni possessori, ignari enfiteuti o livellari o, meglio, che tali risultano essere solamente dalle mappe catastali, il pagamento di canoni e di livelli che, moltiplicati per tutti gli anni in cui non sono stati pagati (ma nemmeno richiesti) e unilateralmente rivalutati, risultano oggi esorbitanti e irreali, quasi sempre con valori complessivi di molto superiori al valore commerciale della proprietà dei fondi interessati.
      Chiaramente, queste situazioni si verificano più frequentemente quando il proprietario concedente è un ente pubblico, spesso territoriale quale il comune o la regione, oppure un ente religioso o ecclesiastico, che per vari motivi e difficoltà nell'individuazione di un responsabile interno della gestione di questi fondi rustici si è disinteressato per lungo tempo della proprietà concessa in enfiteusi.
      Tali enti pretendono oggi l'adempimento di quanto non è stato richiesto per decenni, adducendo a fondamento della richiesta che si tratta di enfiteusi perpetua e che pertanto il diritto del concedente non sarebbe soggetto a prescrizione alcuna: di conseguenza il diritto del concedente non può essere usucapito, non lasciando molte scappatoie all'ignaro enfiteuta, che si presumeva pieno proprietario.
      In realtà, la più recente e ormai consolidata politica legislativa in tema di enfiteusi segue la via dell'abbandono di tale antichissimo istituto.
      Dagli inizi degli anni ottanta, si è manifestata chiaramente la tendenza all'inclusione delle enfiteusi rustiche nella disciplina dei contratti agrari.
      L'applicazione di tali contratti comporta l'esaurimento delle funzioni economiche dell'istituto dell'enfiteusi, così come disciplinata dal codice civile, anche se ai sensi del codice civile l'enfiteuta esercita un diritto reale di utilizzazione del fondo, del terreno e anche del sottosuolo identico a quello del proprietario, senza tuttavia imporgli il diritto-dovere di esercizio dell'impresa. Ciò comporta che l'enfiteuta non solo può cedere il suo diritto (articolo 965 del codice civile) ma può anche locare il fondo a terzi (articolo 980 del codice civile).
      La legge 14 giugno 1974, n. 270, riprendendo il cammino tracciato dalla legge 18 dicembre 1970, n. 1138, ha ribadito la tesi largamente diffusa nella dottrina giuridica fondata sul ruolo dell'impresa nel contratto agrario e quindi sulla sua autonomia rispetto ad altri tipi di contratto. Si spiega così il generale sfavore per ogni contratto agrario associativo in cui si realizzi la presenza di portatori di interessi contrastanti: quelli della proprietà e quelli del lavoro. In questo senso va interpretata l'inclusione delle enfiteusi rustiche e dei livelli veneti nel «Progetto di testo unico dei contratti agrari», preparato nel 1984 per iniziativa dell'Istituto giuridico italiano.
      Il crescente e determinante rilievo dell'impresa ha da tempo ispirato una complessa legislazione (legge 25 febbraio 1963, n. 327, e legge 22 luglio 1966, n. 607) che assimila all'enfiteusi tutti i contratti agrari di tipo enfiteutico. L'assimilazione, infatti, ha avuto essenzialmente il fine di rendere applicabile a tali contratti la disciplina relativa all'affrancazione del fondo. Evidentemente l'enfiteusi, che si può definire classica, non può essere trasformata in contratto agrario, ma ormai i diritti dell'enfiteuta rustico hanno subìto una tale trasformazione che si può affermare che essi costituiscono un presupposto dell'impresa agricola, anche se, in via puramente teorica, si possono avere enfiteuti non coltivatori o addirittura locatari. In effetti, com'è stato diffusamente notato in dottrina, l'indirizzo legislativo e giurisprudenziale afferma la prevalenza assoluta dell'affrancazione sulla devoluzione, fatta salva l'ipotesi di devoluzione in favore del coltivatore diretto. Su ciò va sottolineato che l'articolo 9 della legge n. 1138 del 1970 («L'affrancazione del fondo si opera in ogni caso, anche quando si tratti di enfiteusi urbane, mediante il pagamento di una somma pari a 15 volte l'ammontare del canone») è rimasto indenne dalla sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte costituzionale n. 53 del 6 marzo 1974 (che pure aveva colpito gli articoli 3, 4, 5, 6, 7, 8 della stessa legge), e che tale indirizzo è confermato dall'articolo 2 della legge n. 270 del 1974: «L'enfiteuta può detrarre dal capitale di affranco le somme liquide versate al concedente in relazione alla costituzione dell'enfiteusi, anche se non risultino dal contratto. Può, altresì, conteggiare le differenze tra il canone determinato ai sensi della presente legge e quello effettivamente pagato, relativamente alle annualità non ancora definite». In tale contesto vanno collocate e interpretate le norme che hanno assimilato all'enfiteusi e dichiarati perpetui i rapporti ad meliorandum (che impongono un miglioramento del fondo) in uso nel Lazio (leggi n. 327 del 1963 e n. 607 del 1966), in conseguenza e a testimonianza di un processo di modificazione profonda dell'attività agricola rispetto a regole secolari.
      Tutto ciò ha inciso anche sul punto basilare, ai fini dell'affrancazione, della determinazione del canone. Bisogna tuttavia distinguere. Per i rapporti costituiti precedentemente alla data del 28 ottobre 1941 bisogna riferirsi a quanto disposto dalla citata legge n. 607 del 1966. Per quelli costituiti successivamente va notato che, secondo le leggi n. 1138 del 1970 e n. 270 del 1974, in ogni caso il canone non può risultare inferiore alla quindicesima parte dell'indennità di espropriazione. Rimane peraltro pienamente in vigore quanto disposto in materia di pagamento del canone e dall'articolo 963 del codice civile in materia di perimento totale o parziale del fondo con la possibilità, in questo secondo caso, di applicare una congrua riduzione del canone. L'orientamento del legislatore è evidente: il diritto dell'enfiteuta all'affrancazione prevale anche quando si siano verificate le condizioni previste dal codice in favore del concedente per chiedere la devoluzione del fondo. Infatti il secondo comma dell'articolo 972 del codice civile deve ritenersi abrogato nella parte in cui subordina l'esercizio del diritto di affrancazione alle condizioni previste dall'articolo 971, essendo stati il primo, il secondo e il terzo comma dell'articolo 971 abrogati dall'articolo 10 della legge n. 1138 del 1970.
      La disciplina relativa al canone e all'affrancazione, qual è stata progressivamente e radicalmente riformata rispetto all'antico schema dell'istituto, ha trovato nella sostanza appoggio nella Corte costituzionale che pure ha censurato su molti punti l'operato del legislatore. Ciò appare chiaro prendendo le mosse dalla sentenza n. 37 del 21 marzo 1969. Il legislatore, in effetti, proprio su tale base ha potuto perseguire il processo tendente a uniformare, intervenendo prima di tutto sul canone e sull'affrancazione, tutti i rapporti agrari ad meliorandum. Le sentenze della Corte costituzionale n. 145 del 18 luglio 1973 e n. 53 del 6 marzo 1974 hanno mostrato di condividere la politica legislativa, limitandosi a suggerire i criteri che la Corte giudicava equi per l'affrancazione delle enfiteusi agrarie, ribadendo nello stesso tempo la differenziazione da quelle urbane ed edificatorie. Anzi l'argomentazione centrale sviluppata dalla Corte finiva per rafforzare il processo tendenzialmente distruttivo dell'enfiteusi. Prendendo le mosse dal principio della libertà dell'iniziativa economica privata, la Corte rilevava la radicale differenza esistente tra la scelta del proprietario che abbia ritenuto di concedere un fondo in enfiteusi, costituendo un diritto reale di godimento in favore del concessionario, e la scelta del proprietario che abbia invece inteso costituire un rapporto puramente obbligatorio, tanto di scambio che associativo, concludendo un contratto di affitto o di colonia parziaria. Per completare il quadro normativo è necessario ricordare, infine, alcune ulteriori disposizioni, fino a quelle fissate dall'articolo 54 della legge 3 maggio 1982, n. 203. Ricordato che la legge n. 270 del 1974 aveva fissato la misura minima del canone dei rapporti enfiteutici costituiti dopo l'entrata in vigore del libro terzo del codice civile, una questione controversa è stata risolta dalla legge 22 maggio 1980, n. 233 (interpretazione autentica degli articoli 1 e 6 della legge 25 febbraio 1963, n. 327). Di notevole importanza, infine, è la norma contenuta nell'articolo 54 della citata legge n. 203 del 1982 applicabile ai rapporti costituiti in base ai contratti agrari e in cui siano prevalenti gli elementi del rapporto enfiteutico, categoria presa in considerazione dall'articolo 13 della legge 607 del 1966. Si tratta di un testo largamente insufficiente – com'è stato da più parti rilevato – per genericità e incompletezza, che va tuttavia interpretato alla luce di un più che consolidato orientamento legislativo in favore dell'attività coltivatrice, nella direttiva cioè che porta dall'enfiteusi verso la proprietà. Tale orientamento non può essere considerato scalfito dalla sentenza (n. 406 del 1988) della Corte costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 1 della legge n. 270 del 1974 nella parte in cui non prevede che il valore di riferimento prescelto per la determinazione del canone enfiteutico «sia aggiornato periodicamente mediante l'applicazione di coefficienti di maggiorazione idonei a mantenere adeguata con una ragionevole approssimazione la corrispondenza con l'effettiva realtà economica». In realtà la Corte ha voluto, nel mantenere fermi i poteri amplissimi dell'enfiteuta, riconoscere che il concedente ha diritto a una giusta ed equa valutazione del suo diritto, che pur attenuato va concretamente riconosciuto. La norma dichiarata incostituzionale aveva ancorato il canone enfiteutico a un valore monetario che, con il passare degli anni, non corrispondeva più ai valori attuali. Pur non essendo ragguagliabile al valore di mercato la somma pagata al proprietario per l'affrancazione, tale somma non può essere meramente simbolica. Rimane pertanto ben salda la linea legislativa di fondo che ha considerato e considera l'enfiteuta come la parte socialmente più meritevole di tutela.
      Allo stato la norma di riferimento per la quantificazione del prezzo di affrancazione è l'articolo 9 della legge n. 1138 del 1970. Affrancazione che il più delle volte risulta di difficile praticabilità sia per l'oggettiva quantificazione del prezzo di affrancamento sia per la difficoltà da parte del concedente e dell'enfiteuta di fornire la titolarità dei loro diritti attraverso una serie ininterrotta di trasferimenti.
      In una situazione siffatta si rende quanto mai necessario un intervento legislativo dello Stato che sia volto a unificare le molteplici situazioni riscontrabili nel territorio, attuando un effettivo bilanciamento degli interessi in gioco, il valore del diritto di proprietà del dominus originario e il valore della funzione sociale ed economica che ricopre il coltivatore del fondo per mezzo di una progressiva assimilazione dell'istituto dell'enfiteusi, del livello ovvero del canone ai contratti agrari che ben potranno avvicinarsi nei rapporti obbligatori a un tipo di rapporto enfiteutico abbandonando, tuttavia, l'idea che possano costituire veri e propri diritti reali di godimento sul modello enfiteutico, con le ovvie e drammaticamente attuali incognite sui valori di affrancazione o sulle esorbitanti richieste di pagamento di imprescrittibili canoni enfiteutici.
torna su
PROPOSTA DI LEGGE
Art. 1.

      1. Al fine di garantire alle persone fisiche o giuridiche, alle imprese anche agricole nonché agli enti, anche territoriali o ecclesiastici proprietari, concedenti, enfiteuti o livellari, che siano comunque parti di rapporti enfiteutici, di contratti di livello o di canoni, ovvero di contratti assimilabili che conferiscano diritti reali di godimento o diritti obbligatori, un equo bilanciamento delle posizioni formali e sostanziali acquisite o risultanti dalle planimetrie catastali, o da atti di trasferimento immobiliare notarili o da scritture private autenticate aventi data certa antecedente alla data di entrata in vigore della presente legge, anche nel caso che risultino in contrasto tra loro e indipendentemente dal fatto che per le stesse posizioni giuridiche siano già stati azionati i rimedi tipici estintivi dei diritti in essere, purché non si siano ancora conclusi i relativi eventuali procedimenti giudiziali con il passaggio in giudicato delle decisioni, il Governo è delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, avvalendosi delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, un decreto legislativo volto a coordinare, modificare e integrare, anche disponendone la delegificazione ovvero l'abrogazione totale o parziale, la normativa relativa all'istituto dell'enfiteusi, del livello o del canone agrario, nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) individuare strumenti normativi per definire la situazione dei contratti in essere attraverso un livello minimo di certezza per l'identificazione dei soggetti attualmente titolari di tali diritti reali di godimento ovvero obbligatori, anche ponendoli in relazione con i soggetti originariamente titolari degli stessi diritti al fine di stabilire criteri omogenei per la risoluzione delle controversie relativamente ai titoli di possesso

relativi agli immobili interessati dai diritti in oggetto;

          b) coordinare e razionalizzare le disposizioni di legge vigenti in materia di enfiteusi, di livello o di canone agrario al fine di poterle ricondurre in due principali schemi normativi che attribuiscano alle parti diritti reali di godimento ovvero obbligatori;

          c) prevedere idonei modalità e strumenti giuridici da attuare in tempi non inferiori a cinque anni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo di cui all'alinea, per consentire la transizione dei rapporti giuridici in essere da rapporti fondati su diritti reali di godimento a rapporti fondati su diritti obbligatori con particolare riguardo all'eliminazione del carattere di perpetuità da tali rapporti giuridici;

          d) ridefinire e semplificare le disposizioni normative relative ai processi relativi all'affrancamento ovvero alla devoluzione del fondo enfiteutico in ragione dell'evoluzione legislativa e giurisprudenziale in materia, avendo particolare riguardo al valore del diritto di proprietà del proprietario originario e al valore della funzione sociale ed economica da riconoscere al coltivatore attuale del fondo per il miglioramento dell'immobile;

          e) adeguare il testo delle disposizioni di legge vigenti in materia di enfiteusi, di livello o di canone agrario alle disposizioni adottate a livello statale in materia di locazione di immobili urbani e di contratti agrari pluriannuali, anche trascrivibili nei pubblici registri immobiliari, al fine di garantirne la coerenza, e coordinare formalmente e sostanzialmente il testo delle disposizioni vigenti, anche contenute in provvedimenti di natura regolamentare, apportando le modifiche necessarie per garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa e per adeguare, aggiornare e semplificare il linguaggio normativo e coordinare le eventuali discipline speciali di dettaglio con i princìpi della nuova normativa statale al fine di garantirne la piena attuazione.

      2. Il decreto legislativo di cui al comma 1 è adottato su proposta del Ministro dello

sviluppo economico, di concerto con il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali e con il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. Lo schema del decreto legislativo è trasmesso alle Camere per l'espressione dei pareri delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili finanziari, che si pronunciano nel termine di sessanta giorni dalla data di trasmissione, decorso il quale il decreto legislativo può essere comunque adottato. Se il termine previsto per il parere cade nei trenta giorni che precedono la scadenza del termine previsto dal comma 1 o successivamente, la scadenza medesima è prorogata di sessanta giorni. Il Governo, qualora non intenda conformarsi ai pareri parlamentari, trasmette nuovamente il testo alle Camere con le sue osservazioni e con eventuali modificazioni, corredate dei necessari elementi integrativi d'informazione e di motivazione. Le Commissioni competenti per materia possono esprimersi sulle osservazioni del Governo entro il termine di trenta giorni dalla data della nuova trasmissione. Decorso tale termine, il decreto legislativo può comunque essere adottato.
      3. Entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo di cui al comma 1, il Governo può adottare, nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi e della procedura di cui al presente articolo, uno o più decreti legislativi recanti disposizioni integrative e correttive.
Per tornare alla pagina di provenienza azionare il tasto BACK del browser