TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 27 di Lunedì 16 luglio 2018

 
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MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE AD IMPLEMENTARE IL REDDITO DI INCLUSIONE

   La Camera,

   premesso che:

    negli ultimi anni, i Governi a guida del Partito Democratico hanno perseguito politiche di sviluppo improntate, congiuntamente, alla crescita e all'inclusione sociale, secondo un approccio sistemico e non meramente emergenziale, che ha segnato un cambiamento di paradigma nelle politiche sociali di contrasto alla povertà;

    in particolare, con l'approvazione della legge 15 marzo 2017, n. 33 (legge delega recante norme relative al contrasto della povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali) e della sua disciplina attuativa (decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147, recante disposizioni per l'introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà), l'Italia si è dotata strutturalmente – per la prima volta nella sua storia – di una misura unica nazionale di contrasto alla povertà, intesa come impossibilità di disporre dell'insieme dei beni e dei servizi necessari a condurre un livello di vita dignitoso;

    la nuova misura unica di contrasto alla povertà è il reddito di inclusione, individuato dalla nuova disciplina come livello essenziale delle prestazioni da garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale: una misura che non è solo uno strumento di sostegno al reddito, ma un progetto per l'autonomia, dato che il nucleo familiare, affiancato dai servizi territoriali, è tenuto a condividere un percorso finalizzato all'inclusione sociale e lavorativa, che prevede non solo l'attivazione di specifici sostegni, sulla base dei bisogni manifestati complessivamente dalla famiglia, ma anche l'impegno a svolgere specifiche attività, alle quali è condizionata l'erogazione del beneficio;

    il reddito di inclusione si articola in due componenti: un beneficio economico erogato mensilmente, come da indirizzi europei, e una componente di servizi alla persona, attivata sulla base di un progetto personalizzato di inclusione sociale e lavorativa volto al superamento della condizione di povertà;

    i servizi sociali territoriali sono componente fondamentale della lotta alla povertà, in quanto portatori di competenza e conoscenza sulla tematica, di buone pratiche e servizi innovativi, ma storicamente scontavano gravi carenze in termini di numero di risorse umane ed economiche e la gradualità dell'estensione del reddito di inclusione è derivata dalla necessità del loro rafforzamento, tramite l'utilizzo dei fondi del PON inclusione, dei Fondi sociali europei e una percentuale del Fondo nazionale per il contrasto alla povertà;

    pienamente operativo dal 1° gennaio 2018, dopo appena tre mesi, il reddito di inclusione aveva già raggiunto oltre 110 mila famiglie (317 mila persone), cui si devono aggiungere le 119 mila famiglie ancora coperte dal sostegno per l'inclusione attiva (la misura vigente fino al 2017, destinata ad essere progressivamente sostituita dal reddito di inclusione): in totale – secondo i dati dell'Osservatorio statistico sul reddito di inclusione (Inps e Ministero del lavoro e delle politiche sociali) pubblicati il 29 marzo 2018 – nel primo trimestre 2018 sono risultati coperti dalla misura unica nazionale contro la povertà oltre 230 mila nuclei familiari e circa 870 mila persone;

    dal 1° luglio 2018, grazie alle risorse stanziate nella XVII legislatura, il reddito di inclusione diventerà una misura pienamente universale, raggiungendo la sua vocazione originaria e superando ogni limitazione categoriale del beneficio: in virtù di questo allargamento già previsto della platea, entro la fine del 2018, i nuclei familiari beneficiari del reddito di inclusione arriveranno fino a 700 mila, corrispondenti a quasi 2,5 milioni di persone;

    sul tema del contrasto alla povertà, il contratto (rectius programma) di Governo dedica molto spazio al cosiddetto reddito di cittadinanza, ovvero un sostegno al reddito per i cittadini italiani che versano in condizione di bisogno, per un ammontare fissato in 780 euro mensili per persona, attraverso meccanismi e coperture poche chiare, tanto che in una prima bozza del documento programmatico se ne stimavano gli oneri in 17 miliardi di euro, importo poi scomparso nel testo definitivo. Tuttavia, secondo diversi osservatori ed esperti i costi ammonterebbero a circa 30 miliardi di euro;

    per di più, l'ipotesi che tale istituto possa essere riservato esclusivamente ai «cittadini italiani», si scontrerebbe con l'obbligo di rispettare la normativa europea che obbliga alla parità di trattamento nella fruizione delle prestazioni sociali anche per i cittadini comunitari e quelli extracomunitari in possesso del permesso di soggiorno di lunga durata;

    il reddito di cittadinanza proposto prevede il solo obbligo di iscrizione ai centri per l'impiego – strutture per le quali si propone una significativa e propedeutica implementazione finanziaria ed organizzativa, spostando temporalmente in avanti la reale praticabilità del nuovo strumento di contrasto della povertà – facendo così derivare la condizione di povertà esclusivamente dalla situazione lavorativa, a differenza di quanto invece prevede il reddito di inclusione, il quale appropriatamente considera come fattori determinanti anche la condizione di disagio sociale e la povertà educativa;

    la forte aspettativa che si è diffusa, soprattutto in alcune aree del Paese, vista l'entità della misura economica proposta, potrebbe tradursi in una altrettanto forte frustrazione, stante i tanti profili problematici, soprattutto per quanto concerne la sua praticabilità finanziaria;

    sembrerebbe molto più proficuo indirizzare le risorse per aumentare la platea e il beneficio economico previsto dal reddito di inclusione, un istituto appena partito, introdotto dal Governo pro tempore a guida Partito Democratico e costruito con progettazione partecipata insieme all'Alleanza contro la povertà, di cui fanno parte realtà associative, rappresentanze dei comuni e delle regioni, enti di rappresentanza del terzo settore, sindacati;

    in coerenza con tale impostazione e con le citate novità intervenute a decorrere dal 1° luglio 2018, è stata depositata un'apposita proposta di legge finalizzata a:

     a) incrementare l'ammontare del beneficio economico, prevedendo una serie di interventi il cui combinato disposto porterà l'importo massimo del beneficio per una famiglia di 5 componenti a un ammontare pari a 750 euro;

     b) allargare la platea dei beneficiari al fine di portare il numero di famiglie beneficiarie a circa 1 milione e 400 mila, per poi arrivare a raggiungere tutte le famiglie che secondo le stime Istat si trovano in condizioni di povertà nel nostro Paese, rendendo il reddito di inclusione compiutamente universale non solo nel disegno, ma anche nei suoi effetti generali;

     c) favorire l'occupabilità dei beneficiari del reddito di inclusione, prevedendo che i suoi beneficiari possano accedere all'assegno di ricollocazione previsto dal «Jobs Act», anche in deroga alle condizionalità previste in via ordinaria per l'accesso a quell'istituto (permanenza in Naspi e stato di disoccupazione di durata non inferiore a quattro mesi): inoltre, a titolo di riconoscimento della peculiare condizione di svantaggio dei beneficiari del reddito di inclusione, si dispone che in caso di successo occupazionale, l'importo dell'assegno di ricollocazione per questi soggetti sia riconosciuto in misura raddoppiata, a parità di altre condizioni;

     d) innalzare la quota del Fondo povertà destinata al rafforzamento degli interventi e dei servizi sociali in ossequio al carattere peculiare del reddito di inclusione: una misura che non è solo uno strumento di sostegno al reddito, ma un progetto per l'autonomia, dato che il nucleo familiare, affiancato dai servizi territoriali, è tenuto a condividere un percorso finalizzato all'inclusione sociale e lavorativa, che prevede non solo l'attivazione di specifici sostegni, sulla base dei bisogni manifestati complessivamente dalla famiglia, ma anche l'impegno a svolgere specifiche attività, alle quali è condizionata l'erogazione del beneficio,

impegna il Governo:

1) a dare continuità all'applicazione del reddito di inclusione, potenziandone anziché minandone l'architettura, stante la sua immediata praticabilità ed efficacia, nonché la dichiarata volontà di tutte le forze politiche di contrastare la povertà e l'esclusione sociale;

2) a non disperdere e a non vanificare i risultati richiamati in premessa, sopprimendo una misura che funziona e introducendone un'altra che non è definita nei tempi, nei modi, nei costi, né tantomeno nelle coperture finanziarie;

3) ad assumere le iniziative di competenza per non interrompere ed anzi rafforzare il potenziamento dei servizi sociali territoriali, assicurando stanziamenti adeguati e non sottraendo parte delle risorse ai fondi europei messi a disposizione per tale fine;

4) ad assumere iniziative, per quanto di competenza, per potenziare, anche a tali fini, i centri per l'impiego e la rete nazionale delle politiche attive del lavoro, incrementandone la presenza, l'efficienza e la qualità dei servizi su tutto il territorio nazionale.
(1-00009) (Nuova formulazione) «Carnevali, Gribaudo, Lepri, Viscomi, De Filippo, Serracchiani, Carla Cantone, Lacarra, Romina Mura, Zan, Campana, Ubaldo Pagano, Pini, Rizzo Nervo, Schirò, Siani, Bruno Bossio».

(27 giugno 2018)

   La Camera,

   premesso che:

    le persone che vivono in povertà assoluta in Italia hanno superato nel 2017 il numero di 5 milioni: si tratta del valore più alto registrato dall'Istat dal 2005;

    le famiglie in povertà assoluta sono stimate in 1 milione e 778 mila, ovvero 5 milioni e 58 mila individui. L'incidenza della povertà assoluta è del 6,9 per cento per le famiglie (era il 6,3 per cento nel 2016) e dell'8,4 per cento per gli individui (dal 7,9 per cento nel 2016). Si tratta dei valori più alti dal 2005. In particolare, la situazione più drammatica si registra al Sud, dove 1 abitante su 10 vive in indigenza. Sono 1,2 milioni i bambini e ragazzi in povertà;

    si registra anche un aumento della povertà relativa, con un'incidenza al 15,5 per cento, ovvero 9 milioni e 368 mila persone; in tale categoria rientra chi vive nelle famiglie, stimate in 3 milioni 171 mila, che hanno una spesa al di sotto della soglia di 1.085 euro e 22 centesimi al mese per due persone: una condizione che riguarda 1 italiano su 6;

    l'incidenza di povertà relativa si mantiene elevata per le famiglie di operai e assimilati (19,5 per cento) e per quelle con persona di riferimento in cerca di occupazione (37 per cento): queste ultime in peggioramento rispetto al 31 per cento del 2016. L'Istat conferma le difficoltà per le famiglie di soli stranieri, tra le quali l'incidenza della povertà relativa raggiunge il 34,5 per cento, con forti differenziazioni sul territorio, il 29,3 per cento al Centro, il 59,6 per cento nel Mezzogiorno;

    l'Inps ha diffuso il 28 marzo 2018 i dati relativi al primo trimestre di funzionamento del reddito di inclusione. Dal rapporto dell'Osservatorio statistico si evince che nel primo trimestre 2018 sono stati erogati benefici economici a 110 mila nuclei familiari, raggiungendo 317 mila persone: se a queste si aggiungono le circa 120.000 famiglie beneficiarie del sostegno per l'inclusione attiva si arriva ad un totale di circa 500.000 persone interessate;

    la maggior parte dei benefici vengono erogati nelle regioni del Sud (il 72 per cento): Campania, Calabria e Sicilia sono le regioni con maggiore numero assoluto di nuclei beneficiari; insieme rappresentano il 60 per cento del totale dei nuclei e il 64 per cento del totale delle persone coinvolte;

    l'importo medio mensile del reddito di inclusione risulta variabile a livello territoriale, dai 225 euro per i beneficiari della Valle d'Aosta a 328 euro per la Campania;

    dalla composizione dei nuclei famigliari che hanno percepito il reddito di inclusione, risulta che sono 57 mila i nuclei con minori, che rappresentano il 52 per cento dei nuclei beneficiari; questi coprono il 69 per cento delle persone interessate; sono 21,5 mila i nuclei con disabili, che rappresentano il 20 per cento dei nuclei beneficiari e coprono il 20 per cento delle persone interessate;

    dal 1° giugno 2018 sono stati estesi i requisiti per ottenere il reddito di inclusione; questo consentirà a circa 200 mila famiglie in più di ottenere il beneficio del reddito di inclusione; non sarà, quindi, più necessario che il nucleo familiare abbia al suo interno un minore, un disabile, una donna in stato di gravidanza o un disoccupato over 55. L'eliminazione di questi requisiti consentirà l'allargamento della platea di beneficiari a circa 700 mila famiglie, circa 2,5 milioni di persone, rispetto alle 500.000 famiglie attuali ovvero circa 1,8 milioni di persone coinvolte;

    si afferma da più parti che l'estensione dei requisiti consentirebbe al reddito di inclusione di diventare beneficio universale, ma questo non corrisponde al vero, in quanto oggi, come affermato dall'Istat, le persone in povertà assoluta sono oltre 5 milioni e le persone in povertà relativa sono altre 9 milioni; il reddito di inclusione continua ad essere una misura parziale che si rivolge solo ad una parte delle famiglie in povertà assoluta, a causa delle insufficienti risorse assegnate al fondo nazionale per la lotta e l'esclusione sociale, di cui all'articolo 1, comma 386, della legge 28 dicembre 2015, n. 208;

    l'importo mensile del reddito di inclusione è di 187 euro per famiglie composte da una singola persona, 294 euro per due persone, 382 euro per tre e 461 euro per quattro; questi importi con tutta evidenza non possono rappresentare un efficace affrancamento dalla povertà nel periodo in attesa del progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa finalizzato proprio al definitivo affrancamento della povertà;

    si è in attesa della proposta del reddito di cittadinanza, che il Governo intende avanzare, presente anche nel contratto di Governo, non ancora definita né con riferimento alle modalità, né con riferimento alle risorse disponibili a sostenerlo; ad oggi il reddito di inclusione è l'unico intervento posto in essere e sul quale è necessario intervenire, sia implementando ulteriormente le risorse, sia attivando i percorsi di inclusione sociale e lavorativa indicati chiaramente dalla legge 15 marzo 2017, n. 33, nonché dal decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147;

    la legge 15 marzo 2017, n. 33, e il decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147, prevedono, tra l'altro, che: l'introduzione della misura nazionale di contrasto alla povertà, denominata reddito di inclusione, è individuata come livello essenziale delle prestazioni da garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale; è rafforzato il coordinamento degli interventi in materia di servizi sociali nell'ambito dei principi della legge n. 328 del 2000; la misura unica ha carattere universale; sono attivati progetti personalizzati di inclusione sociale e lavorativa; la misura unica è articolata in un beneficio economico e in una componente di servizi alla persona;

    la lettera c) del comma 2 dell'articolo 1 della legge 15 marzo 2017, n. 33, dispone che la definizione dei beneficiari avvenga nei limiti delle risorse del fondo per la lotta alla povertà e all'esclusione sociale; la lettera d) del medesimo comma del citato articolo prevede la graduale estensione dei beneficiari;

    è fondamentale procedere al rafforzamento dei centri per l'impiego, sia in termini di presenza territoriale che di risorse e di riqualificazione del personale, e a un numero adeguato di nuove assunzioni; i centri per l'impiego, oggi, constano di 550 sportelli, contano meno di 9 mila dipendenti, dei quali 1.300 a tempo determinato (mentre in Germania sono 110 mila), con un sistema di banche dati unificato insufficiente,

impegna il Governo:

1) ad attuare tutti i percorsi sociali e lavorativi recati dalla legge 15 marzo 2017, n. 33, e dal decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147, effettivamente ed uniformemente su tutto il territorio nazionale, al fine di attivare concretamente tutti i progetti personalizzati di affrancamento dalla povertà sia lavorativi che di offerta di servizi sociali alla persona, di cui alla legge n. 328 del 2000;

2) ad assumere iniziative per rendere effettivamente universale la misura unica nazionale di contrasto alla povertà e all'esclusione sociale, implementando le risorse al fine di renderla esigibile almeno a tutte le persone in povertà assoluta, anche prevedendo un aumento degli importi mensili del reddito di inclusione sociale;

3) a garantire, per quanto di competenza, il rafforzamento, il coordinamento e l'attuazione degli interventi in materia di servizi sociali nell'ambito dei principi della legge n. 328 del 2000, come richiamati dalla legge 15 marzo 2017, n. 33, e dal decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147;

4) ad assumere le iniziative di competenza finalizzate al contrasto efficace alla povertà, attraverso il rafforzamento dei centri per l'impiego, prevedendo, tra l'altro: risorse adeguate; un numero congruo di nuove assunzioni; una gestione integrata dei centri per l'impiego; l'adozione uniforme di modelli standard che offrano sul territorio nazionale servizi uguali per tutti; la riqualificazione e la formazione del personale; l'attuazione del sistema informatizzato unico sul lavoro in tempi certi.
(1-00012) «Rostan, Fornaro, Bersani, Boldrini, Conte, Epifani, Fassina, Fratoianni, Muroni, Occhionero, Palazzotto, Pastorino, Speranza, Stumpo».

(11 luglio 2018)

MOZIONE CONCERNENTE INIZIATIVE VOLTE A FAVORIRE IL RIENTRO DELLE IMPRESE ITALIANE CHE HANNO DELOCALIZZATO LA PRODUZIONE ALL'ESTERO

   La Camera,

   premesso che:

    negli ultimi anni è in crescita e si è imposto all'attenzione degli operatori economici e degli attori politici il fenomeno del ritorno in Italia e nei principali Paesi industrializzati, a livello europeo ed internazionale, di imprese che avevano precedentemente delocalizzato i propri asset organizzativi ed industriali. Il fenomeno è definito dagli studiosi «(back) reshoring», contrapposto alla delocalizzazione (offshoring), e consiste in «una strategia compresa – deliberata e volontaria – orientata alla rilocalizzazione domestica (parziale o totale) di attività svolte all'estero (direttamente o presso fornitori) per fronteggiare la domanda locale, regionale o globale» (gruppo di ricerca inter-Ateneo Uni-Club MoRe Reshoring che raggruppa le Università dell'Aquila, Catania, Udine, Bologna e Reggio Emilia);

    il medesimo gruppo di ricerca ha evidenziato che dal 2000 al 2015, su oltre 700 casi di reshoring osservati, 121 casi riguardano l'Italia, che risulta essere, a quella data, il primo Paese europeo e il secondo al mondo per decisioni di rientro di aziende nel territorio nazionale, dopo gli Stati Uniti, anche se il fenomeno, cresciuto costantemente fino al 2013, si è poi stabilizzato a partire dal 2014;

    la maggior parte delle aziende italiane, che ha fatto rientrare la propria produzione, negli anni passati aveva delocalizzato principalmente in Asia o in Cina (63 per cento). Inoltre, i settori industriali che hanno fatto registrare il numero più alto di casi di reshoring sono quelli del tessile-abbigliamento (24 per cento), della pelletteria (17,4 per cento), dell'elettronica (12,4 per cento) e della fabbricazione di macchine elettriche (12,4 per cento). Il grado di concentrazione dei rientri suddivisi per settore economico (secondo la classificazione statistica delle attività economiche nell'Unione europea o codice Nace) in Italia è assai elevato (66,1 per cento nei primi quattro settori), mentre per il resto dell'Europa e gli Stati Uniti è inferiore al 50 per cento. Tale evidenza può in parte spiegarsi con la maggiore specializzazione produttiva del nostro Paese, dato che oltre il 41,4 per cento del totale delle decisioni è in realtà rappresentato dalla sola filiera del fashion (abbigliamento e lavorazione pelli, codici Nace 14 e 15);

    un ulteriore elemento utile per la caratterizzazione geografica delle decisioni di reshoring riguarda le motivazioni che hanno spinto le imprese a questa decisione. Nella banca dati realizzata dal gruppo di ricerca Uni-Club MoRe reshoring sono state censite 35 differenti motivazioni. Per quanto concerne l'Italia, la motivazione in assoluto più rilevante è quella dell'effetto «made in», indicato dal 34,7 per cento delle imprese rientrate. Questo dato evidenzia un divario con il Nord America (il made in Usa è indicato dal 21 per cento delle imprese rientrate) e una distanza significativa con il resto d'Europa dove il «made in» è indicato solo dal 5,1 per cento delle imprese rientrate (tuttavia l'aggregazione «resto d'Europa» falsa il dato). Seguono come motivazioni il «miglioramento dei rapporti col cliente» e la «scarsa qualità delle produzioni de localizzate». È interessante notare che le motivazioni di maggior peso indicate dagli attori italiani hanno tutte a che fare con il rapporto con il cliente, risultato questo che diverge da quello delle imprese nordamericane, per le quali la motivazione principale è legata, almeno fino all'avvento dell'Amministrazione Trump, ai costi logistici;

    la non omogeneità delle caratteristiche delle decisioni di reshoring manifatturiero implementate dalle imprese italiane rispetto a quelle europee e nordamericane appare foriera di interessanti implicazioni sia per i policy maker che per i manager. Per i primi, si rende necessaria una profonda riflessione circa gli strumenti di politica industriale più idonei per favorire il rimpatrio delle produzioni nel nostro Paese. Peraltro, il dato scientifico che più rileva ai fini del presente atto di indirizzo, consiste nel fatto che la motivazione «incentivi al rimpatrio» è quasi totalmente assente per gli imprenditori italiani rientrati (0,8 per cento), mentre invece è significativamente presente in Usa e in alcuni Paesi europei;

    per quanto riguarda gli Usa, il fenomeno di reshoring è stato oggetto di specifici interventi legislativi, in particolare tramite inclusione nel Blue-print dell'Amministrazione Obama (The White House, 2012), che ha avviato una politica industriale basata sul back to manufacturing, non a caso teorizzato ad Harvard, e alla Reshoring Initiative di Harry Moser (www.reshorenow.org). L'Amministrazione Trump sta utilizzando, in maniera secca ed istantanea, la leva fiscale (i tagli delle aliquote aziendali dal 35 al 21 per cento), affiancata da incentivi al rimpatrio dall'estero di capitali fino a 2.600 miliardi di dollari e da una moral suasion che sconfina quasi nella minaccia. A cagione di ciò nella lista delle imprese intenzionate a tornare ad investire negli Stati Uniti si trovano sia l'America del 1900 sia l'America del 2000: AT&T, Apple, la FCA (un miliardo di dollari in più sulla fabbrica di Warren in Michigan), General Motors e persino aziende straniere come Toyota-Mazda o la cinese Alibaba. Le stime provvisorie degli investimenti annunciati dalle sole multinazionali superano i 70 miliardi di dollari. Gli studi dimostrano il grande potenziale che gli Usa sembrano avere in termini di opportunità di rientro. Basti pensare che dal 2000 al 2017 gli occupati del settore industriale sono scesi da 18,5 milioni a 13,4 milioni. Quanto alle motivazioni, dagli studi emerge che per le imprese americane è prioritaria l'esigenza di assicurare adeguati standard di qualità, mentre a livello di motivazioni aggregate i fattori di costo (del lavoro, di trasporto e totale) sono quelli prominenti. Non si dispone di dati riguardo la motivazione «incentivi al rimpatrio» per l'Amministrazione Trump, ma essa era già al 13,7 per cento con l'Amministrazione Obama;

    in Gran Bretagna (o meglio, nel Regno Unito) la politica di reshoring è stata avviata dall'Amministrazione Cameron dopo l'annuncio fatto al World Economic Forum di Davos nel gennaio 2014. L'obiettivo resta quello di creare 200.000 posti di lavoro nei settori tessile, elettronica e macchinari, con un incremento del prodotto interno lordo da 6 a 12 miliardi di sterline. A partire dal 2014 UK Trade & Investment (UKTIwww.ukyi.gov.uk/investintintheuk) ha unito le forze con il Manufacturing Advisory Service (MAS) per il lancio di Reshore UK – Government advisor Service for a welcoming economy. Sin dal 2011 UK Trade & Investment ha individuato 1.500 produzioni manifatturiere che potenzialmente sarebbero potute tornare nel Regno Unito e un sondaggio del Manufacturing Advisory Service ha evidenziato come le aziende chiedessero in primis la riduzione dei costi per spostare la produzione nel Regno Unito. Le altre principali motivazioni riguardavano la qualità dei prodotti e la riduzione dei tempi di consegna. Di conseguenza, sono stati adottati strumenti di semplificazione legislativa, di flessibilità del mercato del lavoro, di riduzione della tassazione su lavoratori e imprese, di esenzione fiscale per i dividendi realizzati all'estero dalle imprese residenti e di fornitura di energia a basso costo. Manufacturing Advisory Service supporta le imprese che intendono tornare con la consulenza su incentivi ed agevolazioni, con strumenti di supporto per l'approdo sui mercati, con interventi di coordinamento tra imprese rientranti e fornitori locali (supply chains), con la consulenza per la definizione di strategie a breve e lungo termine. Infine, il Dipartimento governativo UK Trade & Investment (una sorta di equivalente di Sace e Simest in Italia), oltre a supportare le imprese del Regno Unito all'estero, si occupa anche di reshoring e degli investimenti di imprese estere nel Regno Unito. I risultati sono che tra il 2014 e il 2017 un sesto delle 300 imprese associate in EEF – The Manufacturers Organisation ha riportato le attività produttive nel Regno Unito, nonostante la «Brexit»;

    la Francia ha una lunga tradizione nell'assistenza attiva agli investitori. Gli obiettivi del Governo sono la creazione di un milione di posti di lavoro nel prossimo decennio per reshoring, rilanciando il «made in» (Origine France Garantie) e ri-orientando la competitività del Paese. La Francia dispone già della migliore detrazione fiscale in Europa per ricerca e innovazione e di un regime fiscale attraente per società finanziarie e per sedi centrali (headquarter) di grandi imprese. Nell'ambito della legge finanziaria 2018 la Francia ha deliberato specifici interventi per l'attrazione delle scelte di rilocalizzazione dei servizi assicurativi e finanziari. L'agenzia AFII (Invest in France agencywww.invest-in-france.org) è collegata con una pluralità capillare di agenzie di promozione e sviluppo a livello regionale, metropolitano e aggregazioni di vario genere (communautè). Tramite il sito «Colbert 2.0» fornisce un piano di azione per la rilocalizzazione, oltre a strumenti di sostegno finanziario e contatti con le realtà locali. Esiste un fondo di rivitalizzazione (Fond de revitalization) per favorire la rilocalizzazione in aree industriali dismesse. La Pipame è un pool interdipartimentale che si occupa di far luce sull'evoluzione dei principali attori e settori economici in un periodo di 5-10 anni, coinvolgendo fortemente gli attori socio-economici;

    in Italia, a livello regionale, si registrano diverse esperienze:

     a) in Piemonte è stato sperimentato il «contratto di insediamento» (legge regionale n. 34 del 2004), dotato di 25,5 milioni di euro e consistente nel favorire l'approdo in Piemonte di investimenti diretti esteri, volti a creare nuovi posti di lavoro, a sviluppare l'indotto e le filiere di fornitura, ad agire da volano per il consolidamento del tessuto imprenditoriale locale. Nel giugno 2017 la regione ha istituito un fondo di attrazione dotato di 33 milioni del POR FESR 2014/2020 e destinato alle piccole e medie imprese non ancora attive e a quelle che hanno delocalizzato la produzione all'estero ma che intendono reinsediarsi, nonché ad aziende già presenti sul territorio regionale che realizzano un nuovo investimento, funzionalmente diverso da quello esistente. È prevista la copertura a tasso zero per ogni progetto fino al 70 per cento della spesa ammissibile, in concorso con finanziamento bancario per la restante quota. Quanto ai risvolti occupazionali sarà possibile ottenere fino a 20.000 euro per ogni nuovo addetto assunto. Esempi di interventi ammissibili riguardano la realizzazione di nuovi impianti, centri direzionali, centri di ricerca e i relativi progetti collegati;

     b) in Lombardia dal 2016 sono operativi gli accordi per l'attrattività – AttrACT, destinati all'attrazione degli investimenti per la crescita dell'economia lombarda. L'iniziativa è rivolta a selezionare 70 comuni lombardi che individueranno opportunità insediative rispetto alle quali assumeranno impegni in termini di semplificazione, incentivazione economica e fiscale. I contributi, a fondo perduto, sono erogati ai comuni nella misura dell'80 per cento delle spese effettivamente sostenute per la realizzazione dei singoli interventi ammessi a finanziamento, nel limite di 100.000 euro per comune;

     c) la regione Emilia-Romagna ha promosso una «Strategia regionale di innovazione per la specializzazione intelligente» (in coerenza con la «Smart Specialization Strategy» della programmazione 2014-2020 della Commissione europea). Tale strategia ha trovato riscontro a livello legislativo nella legge regionale n. 14 del 2014 che – oltre a incentivare l'afflusso di investimenti nazionali e esteri – promuove misure di contrasto delle delocalizzazioni produttive, tra l'altro proponendo alle imprese straniere ed a quelle italiane «di ritorno» la sottoscrizione di un «contratto di localizzazione e sviluppo». Tra gli interventi pro-reshoring sono innanzitutto da ricordare – data la forte rilevanza del comparto fashion e del driver «effetto made in» – gli investimenti che favoriscono il permanere del capitale umano costituito da saperi artigianali tipici di questi business. L'Emilia-Romagna adotta prescrizioni specifiche per non danneggiare le imprese che non hanno delocalizzato;

     d) in Puglia e Veneto è stato adottato il «progetto reshoring» portato avanti dal 2015 da Sistema moda Italia in collaborazione col Ministero dello sviluppo economico, per spingere il reshoring nei distretti di Puglia e Veneto, anche attraverso misure governative e regionali che riducessero il gap di costo tra il «made in Italy» e l’«out of Italy», anch'esso finanziato con risorse comunitarie. Il progetto intende promuovere interventi di assistenza alle imprese e di riqualificazione e formazione del personale attraverso la costituzione di un'accademia. Dal 2008 al 2014 il sistema moda italiano ha perso 97.000 addetti e 8.000 imprese, con un fatturato che è passato da 54,7 a 52,3 miliardi di euro. Le imprese hanno delocalizzato prima in Cina, poi Turchia, Nord Africa ed Est Europa che consentono di avvicinare la produzione all'Italia e ridurre i costi di trasporto. Anche perché il fattore time-to-market sta diventando sempre più determinante per le aziende. Tuttavia dalle rilevazioni di Sistema moda Italia risulta che l'89 per cento delle aziende italiane osservate, se ci fossero le condizioni giuste, sarebbe disponibile a fare rientrare le produzioni in Italia;

     e) nelle Marche grazie all'accordo-quadro firmato nel gennaio 2016 tra Confindustria Marche e Banca Monte dei Paschi di Siena, con l'avallo dell'assessorato regionale all'industria, è stato messo a disposizione un plafond di 200 milioni di euro per riportare in regione le produzioni delocalizzate all'estero e corroborare i primi sintomi di ripresa per occupazione e prodotto interno lordo emersi sul finire del 2015. L'accordo è stato «replicato» anche in Umbria, nonché da tre associazioni Confindustriali venete (Confindustria Padova; Confindustria Vicenza; Unindustria Treviso);

     f) in Abruzzo, la regione ha inserito la decisione di effettuare strategie di rilocalizzazione delle attività produttive tra i criteri abilitanti all'iscrizione delle imprese alla Carta di Pescara, un documento programmatorio che recepisce gli indirizzi delle politiche europee sul tema della sostenibilità ambientale applicata all'industria, approvato con delibera di giunta 21 luglio 2016, n. 502. Tramite l'adesione alla Carta le imprese che perseguono decisioni, atte ad incrementare la sostenibilità ambientale, sociale ed economica, accedono a incentivi specifici;

    le politiche poste in essere dal Governo nel quinquennio 2013-2018 per favorire le imprese italiane o l'insediamento produttivo sul territorio nazionale si sono concentrate sul contrasto alla delocalizzazione, sul sostegno alle imprese, ivi compreso il sostegno all'internazionalizzazione, sulla promozione del made in Italy e sull'attrazione degli investimenti in Italia. Di rilievo, anche se non ha ancora esplicato appieno la sua potenzialità, sono gli effetti sul reshoring che sta avendo e potrà avere piano Industria 4.0, avviato con la legge di bilancio per il 2017;

    quanto alla delocalizzazione, il comma 60 dell'articolo 1 della legge di stabilità per il 2014 ha disposto che le imprese operanti nel territorio nazionale che abbiano beneficiato di contributi pubblici in conto capitale, qualora delocalizzino la propria produzione dal sito incentivato a uno Stato non appartenente all'Unione europea, con conseguente riduzione del personale di almeno il 50 per cento, decadono dal beneficio stesso e hanno l'obbligo di restituire i contributi in conto capitale ricevuti. Diverse regioni hanno ripreso la norma con riferimento ai contributi regionali. Inoltre, nella riunione del 28 febbraio 2018 il Cipe ha approvato ulteriori assegnazioni di risorse finanziarie a valere sul Fondo per lo sviluppo e la coesione (Fsc) 2014-2020, creando il Fondo per la reindustrializzazione, dotato di 200 milioni di euro, con la finalità di contrastare le delocalizzazioni e l'obiettivo di sostenere gli investimenti e l'occupazione di complessi industriali manifatturieri, di rilevanti dimensioni, con particolare riferimento a quelli che fanno parte di multinazionali, caratterizzati da una situazione di crisi. Il Fondo opererà, tramite la società di gestione del risparmio di Invitalia, a condizioni di mercato mediante acquisizione di partecipazioni azionarie, di rami di azienda, finanziamento di asset materiali e immateriali. Altri 850 milioni di euro sono stati appostati per gestire i processi di reindustrializzazione. Si tratta di appostazioni non perfettamente definite, che devono essere pertanto opportunamente orientate dal Governo che sarà in carica nel 2018;

    quanto alle politiche di sostegno all'internazionalizzazione, esse sono gestite da un insieme di Ministeri e di agenzie tecniche specializzate nei diversi tipi di intervento, che operano all'interno della cabina di regia per l'Italia internazionale, nella quale vengono elaborate le strategie programmatiche, attraverso un processo di consultazione delle organizzazioni imprenditoriali e di coordinamento tra i diversi soggetti. Per sostenere l'internazionalizzazione delle imprese italiane è stato poi adottato il piano di promozione straordinaria del made in Italy e per l'attrazione degli investimenti in Italia (decreto-legge n. 133 del 2014). Il piano, inizialmente previsto per il triennio 2015-2017, è finalizzato ad ampliare il numero delle imprese, in particolare piccole e medie imprese che operano nel mercato globale, ad espandere le quote italiane del commercio internazionale, a valorizzare l'immagine del made in Italy nel mondo e a sostenere le iniziative di attrazione degli investimenti esteri in Italia. Per tale piano, la legge di stabilità per il 2015 ha inizialmente stanziato complessivi 130 milioni di euro per il 2015, 50 milioni per il 2016 e 40 milioni per il 2017. Le risorse sono state successivamente implementate con 110 milioni di euro per l'anno 2017, nonché dalla legge di bilancio di quest'anno con 130 milioni per il 2018 e 50 milioni per ciascuno degli anni 2019-2020;

    negli anni 2013-2018 gli interventi adottati a sostegno delle imprese sono stati prevalentemente orientati alla ripresa degli investimenti e allo sviluppo della produttività del sistema imprenditoriale o a garantire la funzionalità degli strumenti di accesso al credito, in particolare attraverso il fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, oggetto di riforma e di rifinanziamento. La legge di bilancio per il 2018 ha disposto inoltre il rifinanziamento (330 milioni di euro nel periodo 2018-2023) della cosiddetta «nuova Sabatini», misura di sostegno volta alla concessione alle micro, piccole e medie imprese di finanziamenti agevolati per investimenti in nuovi macchinari, impianti e attrezzature, compresi i cosiddetti investimenti «Industria 4.0»;

    la riduzione del carico fiscale sull'attività d'impresa, in particolare quella orientata alla ricerca, all'innovazione tecnologica e alla digitalizzazione dei processi, ha visto un suo programma organico di sviluppo con il piano Industria 4.0, avviato a partire dalla legge di bilancio per il 2017, che ha assunto poi la denominazione «piano nazionale Impresa 4.0» nell'ottica di includere tra i destinatari non più soltanto il settore manifatturiero, ma anche agli altri settori dell'economia. Industria 4.0 identifica un'organizzazione dei processi produttivi basata sull'automazione e sulla digitalizzazione di tutte le fasi degli stessi: un modello di «smart factory» (fabbrica intelligente) nel quale l'utilizzo delle tecnologie digitali permette di monitorare i processi fisici e assumere decisioni decentralizzate, che generano fruttuose sinergie tra produzione e servizi, orientate alla gestione efficiente delle risorse, alla flessibilità, alla produttività e alla competitività del prodotto;

    sono di rilievo, per le finalità del presente atto di indirizzo, il finanziamento previsto dal piano di un credito d'imposta per le spese di formazione 4.0 del personale dipendente nel settore delle tecnologie previste dal piano nazionale Impresa 4.0, dotato di 250 milioni di euro, nonché le risorse destinate al rafforzamento delle competenze digitali degli istituti tecnici superiori (10 milioni di euro nel 2018, 35 milioni nel 2019, 50 milioni nel 2020 e 35 milioni a decorrere dal 2021). Tuttavia, va chiarito che il credito per la formazione 4.0 è limitato al solo 2018 e divenuto operativo solo nel mese di luglio 2018 (decreto del Ministero dello sviluppo economico e del Ministro dell'economia e delle finanze del 4 maggio 2018, Gazzetta Ufficiale n. 143 del 22 giugno 2018);

    il piano nazionale Impresa 4.0 è dotato di 9,8 miliardi di euro per il periodo 2018-2028 (di cui 7,8 per iperammortamento e superammortamento), tuttavia la gran parte delle risorse sono destinate a misure che si esauriscono tra il 2018 e 2019 con effetti di cassa negli anni successivi. Le associazioni imprenditoriali hanno fatto presente che la legge di bilancio per il 2019, in considerazione delle elevate richieste di accesso, dovrebbe rifinanziare sia iperammortamento che superammortamento, se non si vuole rischiare una frenata degli investimenti all'inizio del 2019, nonché la «nuova Sabatini» per 500 milioni di euro e il fondo di garanzia per le piccole e medie imprese per ulteriori 500 milioni. Inoltre, si dovrebbe rendere permanente il credito per la formazione 4.0;

    nel documento di Verona redatto al termine delle assise generali di Confindustria il 6 febbraio 2018, si rileva che la metà delle imprese industriali ha utilizzato il superammortamento per i beni strumentali, mentre una su tre ha beneficiato dell'iperammortamento per i beni digitali. Le misure messe in campo tra Industria 4.0 e «nuova Sabatini» hanno favorito investimenti fissi lordi per 80 miliardi di euro, di questi il 53 per cento sulla meccanica, ma l'impatto sulla manifattura è stato generale. In forte crescita le start up (+11,3 per cento). Tuttavia si rileva che la quota di imprese manifatturiere attive nell'esportazione è solo il 23 per cento del totale (rispetto al 34 per cento della Germania) e che ancora un 60 per cento di imprese attendono di fare il salto di qualità sui mercati internazionali. Pertanto il documento rileva quindi che occorre stabilizzare le misure del «Piano nazionale Impresa 4.0», ampliandone la portata nel senso di prevedere:

     a) l'accesso semplificato ad una serie di agevolazioni per le imprese che cambiano il proprio modello di business in chiave 4.0;

     b) l'accelerazione del piano banda ultralarga, avviando la diffusione della fibra ottica anche nelle «aree grigie» a più alta densità industriale;

     c) un apprendistato riservato ai giovani assunti da imprese impegnate nella conversione digitale (i profili tecnici di difficile reperibilità sono tra i 60.000 e i 70.000), nel quadro di una filiera formativa che parte dall'alternanza scuola lavoro nella quale sono azzerati gli oneri fiscali e contributivi;

     d) la trasformazione degli istituti tecnici superiori (che hanno già un indice di occupabilità dell'80 per cento) in «smart academy», adeguando la loro offerta formativa alle possibilità offerte delle nuove tecnologie;

     e) la trasformazione 4.0 della pubblica amministrazione mediante l'avvio di un processo di semplificazione burocratica ed un cambio generazionale negli uffici pubblici, che preveda l'assunzione di giovani specialisti in informatica ed ingegneria;

     f) la riduzione del costo dell'energia, in considerazione del fatto che il gap tra Italia e media dell'Unione europea è del 25 per cento;

    se si insiste in particolare sulla trasformazione 4.0 dell'economia italiana è perché i motivi che hanno portato al ritorno in patria di un numero significativo di produzioni sono oggi amplificati esponenzialmente dall'avvento della fabbrica 4.0. Il consumatore odierno, sempre più «consum-attore» che interagisce con la produzione, richiede un prodotto su misura, di alta qualità e con consegna immediata. Ciò impone lavorazioni di prossimità, con flessibilità estrema e lotti minimi. Sono sempre dinamiche competitive complesse a determinare le decisioni di localizzare le lavorazioni dentro o fuori i confini, più che le politiche protezionistiche e le incertezze geopolitiche mondiali. Saranno le esigenze della produzione 4.0 a dare una forte accelerazione al fenomeno reshoring nei prossimi anni;

    tra gli esperti di settore si sta affermando l'assioma che «il “cloud” rottama la delocalizzazione». Lo stesso vale per l'introduzione dei robot. I processi digitali rendono meno conveniente trasferire funzioni all'estero. Col rientro di alcune attività nasceranno nel nostro Paese posti di lavoro per chi sviluppa ed amministra software intelligenti. In realtà il 4.0 non è solo una questione di ammodernamento dell'azienda. È pervasivo e supera i confini dell'impresa: da internet delle cose si passa a «internet del tutto». Un'azienda non è fatta solo di macchine che devono essere connesse. È fatta soprattutto di persone, di processi di business, di contatti e di servizi. Un sistema complesso che deve essere connesso in maniera fluida, orizzontale e pervasiva, attraverso una condivisione consapevole delle informazioni. Il corretto uso dei dati e delle informazioni può diventare un fattore differenziale di competitività. Dalla delocalizzazione si passa al reshoring 4.0. Le tecnologie digitali hanno sostanzialmente un costo omogeneo in tutto il mondo. La loro adozione può consentire alle imprese italiane di ridurre lo svantaggio competitivo;

    tuttavia occorre tener conto che i posti di lavoro che ritornano sono diversi da quelli persi in precedenza: le passate decisioni di delocalizzazione hanno portato alla riduzione di occupati manuali, ma le attuali scelte di reshoring, fatta eccezione per i saperi artigianali tipici del fashion, creano spesso posti ad elevato contenuto tecnico-tecnologico. Va evidenziato che bisogna anche ricostruire un'idea non negativa del lavoro in fabbrica: i posti che si creano con Industria 4.0 sono ad altissimo livello di tecnologia e nulla hanno a che vedere con l'operatore alla catena di montaggio di fordiana memoria. Ovviamente tutto questo impone anche un ripensamento della formazione – professionale ed universitaria – ed un rilancio della cultura industriale delle nuove generazioni. Ecco perché si ritiene basilare insistere sul tema «formazione 4.0», sull'apprendistato e sulla trasformazione degli istituti tecnici superiori in «smart academy»;

    nel 2016, peraltro, è stato sottoscritto il primo contratto collettivo nazionale di lavoro in cui si fa esplicito riferimento al reshoring manifatturiero. Si tratta dell'accordo tra Confapi Federtessile e le sigle sindacali Ugl, Cisl, Uil e Cgil. In tale accordo specifica attenzione viene data ai processi di riqualificazione del personale ed alla possibilità di adottare forme di flessibilizzazione dell'organizzazione del lavoro (ad esempio, turni lavorativi in più) senza necessità di ulteriori trattative con le rappresentanze sindacali;

    l'industria manifatturiera dell'Unione europea contribuisce al 16,15 per cento del prodotto interno lordo dell'Unione europea, assicura 32 milioni di posti di lavoro diretti e 20 milioni indiretti e rappresenta il 68 per cento delle esportazioni europee (dati 2016 della Commissione europea). Nell'Unione europea l'attività manifatturiera, il cui valore aggiunto complessivo nel 2016 è stato di 2.383 miliardi di dollari, è concentrata prevalentemente in Germania, Italia e Francia. Nel 2016 il contributo dell'industria manifatturiera al prodotto interno lordo è stato del 22,9 per cento, in Germania del 16,2 per cento in Italia e dell'11,3 per cento in Francia (fonte Banca mondiale e Ocse). Tuttavia, negli ultimi decenni l'economia europea ha perso circa un terzo della sua base industriale e dal 2008 al 2013 ha perso circa 3,8 milioni di posti di lavoro, solo parzialmente rimpiazzati negli ultimi anni da oltre 1,5 milioni di nuovi posti di lavoro;

    nel settembre 2017 la Commissione europea ha presentato la nuova Strategia di politica industriale dell'Unione europea (COM(2017)479) che mira a rafforzare la competitività del settore manifatturiero europeo, ribadendo l'obiettivo, già fissato nel 2012, di riportare il contributo dall'industria manifatturiera al prodotto interno lordo dell'Unione europea al 20 per cento entro il 2020, attraverso la trasformazione e la modernizzazione dell'industria europea. In tale ambito la Commissione europea ha confermato l'impegno per la digitalizzazione dell'industria europea (COM(2016)180). Peraltro, la Commissione europea ha attenzionato il tema del reshoring fondando un osservatorio sul fenomeno (https://reshoring.eurofound.europa.eu/) che raccoglie informazioni sulle decisioni di rimpatrio in Europa non solo delle attività produttive ma anche di altre attività (ad esempio, centri di ricerca e sviluppo, call center e altro);

    né infine va sottovalutata la sostenibilità ambientale e sociale delle politiche che favoriscono il reshoring. Quanto al primo aspetto, il rientro delle produzioni nei Paesi occidentali ha un impatto anche in termini di anidride carbonica risparmiata, dato che si riducono gli spostamenti di materiali a livello mondiale. Con riferimento alla sostenibilità sociale, va tenuto conto che spesso le produzioni delocalizzate sono svolte in ambienti di lavoro degradati se non addirittura pericolosi. In tal senso, è opportuno promuovere un'attività di monitoraggio delle produzioni rientrate per evitare che le stesse favoriscano il ricorso all’«economia grigia» (come nel caso dei laboratori cinesi in alcuni distretti industriali italiani), essendo non accettabile l'idea che il rientro sia basato sulla ricostituzione di condizioni di lavoro illegali sul territorio nazionale;

    infine, occorre tener presente che le politiche industriali pro-reshoring non devono costituire una fonte di discriminazione per le imprese che non hanno mai delocalizzato e che hanno continuato a produrre solamente in Italia. In quest'ottica, secondo gli esperti, il fenomeno del reshoring dovrebbe godere di un trattamento identico a quello riservato all'attrazione di investimenti da parte di imprese estere. In altri termini, alle aziende italiane che – dopo aver delocalizzato – decidono di rientrare delle fasi produttive nel nostro Paese dovrebbero essere offerti gli stessi incentivi e servizi che vengono messi a disposizione di realtà imprenditoriali straniere desiderose di investire in Italia. Va tuttavia sottolineato come qualsiasi intervento di politica industriale che favorisca il «doing business», cioè la «facilità di fare impresa» (secondo la Banca mondiale l'Italia occupa nel 2018 la 46^ posizione in questa classifica, in salita rispetto alla precedente edizione, ma ancora in posizione arretrata rispetto ai benchmark europei) nel nostro Paese (dalla riduzione del cuneo fiscale all'incremento dell'efficienza della pubblica amministrazione) avrà effetti positivi sia per le imprese che hanno mantenuto la produzione nel Paese, sia quelle che intendono tornare. Lo stesso dicasi per gli investimenti che favoriscano il permanere del capitale umano (cosiddetti skill produttivi) costituito dalle competenze industriali dei distretti, ivi compresi i saperi artigianali tipici del fashion,

impegna il Governo:

1) nel quadro della nuova Strategia di politica industriale dell'Unione europea (COM(2017)479) e tenendo conto delle esperienze maturate in altri Stati europei, ad adottare ogni iniziativa, anche normativa, volta a favorire il rientro (reshoring) delle imprese italiane che hanno delocalizzato la produzione al di fuori dei confini nazionali, coordinando tali attività nell'ambito di una cabina di regia cui partecipino una molteplicità di soggetti istituzionali e del mondo produttivo cui sia affidato, in particolare, il compito di promuovere l'attrazione degli investimenti esteri in Italia;

2) a sviluppare le predette attività alla luce delle esperienze regionali in corso, favorendo in tale ambito l'utilizzo dello strumento dei contratti di sviluppo, di cui all'articolo 43 del decreto-legge n. 112 del 2008, sottoscritti nella forma di accordo di programma ovvero di accordo di sviluppo ai sensi del decreto del Ministero dello sviluppo economico del 9 dicembre 2014;

3) ad adottare ogni iniziativa normativa finalizzata all'istituzione di un apposito fondo presso la Cassa depositi e prestiti s.p.a. che permetta ai comuni e agli enti locali di accedere a finanziamenti di lunga durata per realizzare o riqualificare siti idonei alla localizzazione industriale, a fronte di un preciso progetto imprenditoriale finalizzato al reinsediamento di imprese che rientrano in Italia;

4) ad assumere iniziative per prevedere il rifinanziamento, nell'ambito del disegno di legge di bilancio per il 2019, delle agevolazioni previste dal Piano nazionale impresa 4.0, che devono considerarsi strumento fondamentale per ridurre il gap competitivo delle imprese italiane, nonché del credito d'imposta per le spese di formazione 4.0 del personale dipendente nel settore delle tecnologie previste dal medesimo Piano;

5) a rafforzare il ruolo degli istituti tecnici superiori, adeguando la loro offerta formativa alle possibilità offerte delle nuove tecnologie e coordinando la loro attività con le esigenze delle imprese operanti nell'ambito delle finalità del piano nazionale Impresa 4.0;

6) ad implementare la trasformazione 4.0 della pubblica amministrazione mediante il rafforzamento del processo di digitalizzazione, da attuare attraverso un cambio generazionale che preveda l'assunzione di personale con competenze specifiche, al fine di realizzare gli obiettivi di semplificazione burocratica e di riduzione degli adempimenti a carico delle imprese e dei cittadini;

7) a valutare la possibilità di utilizzare quota parte delle risorse destinate alla promozione del made in Italy per la promozione del reshoring o di «esperienze di successo», ovvero di aziende che sono tornate a produrre in Italia e che ne hanno avuto benefìci, al fine di favorire processi «imitativi» che inducano altre imprese all'assunzione di strategie volte a consentire il ritorno della produzione in Italia.
(1-00010) «Gelmini, Porchietto, Occhiuto, Bagnasco, Baratto, Barelli, Battilocchio, Benigni, Biancofiore, Bignami, Carrara, Cattaneo, Cassinelli, Cristina, D'Attis, D'Ettore, Della Frera, Fatuzzo, Fiorini, Gagliardi, Germanà, Giacometto, Giacomoni, Labriola, Marrocco, Mazzetti, Minardo, Mulè, Fitzgerald Nissoli, Novelli, Orsini, Palmieri, Pella, Pettarin, Pittalis, Polidori, Rosso, Ruffino, Paolo Russo, Rotondi, Ruggieri, Santelli, Scoma, Silli, Sozzani, Squeri, Tartaglione, Vietina, Zangrillo, Musella».

(4 luglio 2018)

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