FRONTESPIZIO

RELAZIONE

PROGETTO DI LEGGE
                        Articolo 1
                        Articolo 2
                        Articolo 3
                        Articolo 4

XVIII LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 2047

PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati
ASCARI, D'ORSO, PALMISANO, PIERA AIELLO, BARBUTO, BUSINAROLO, CATALDI, DI SARNO, DI STASIO, DORI, GIULIANO, PERANTONI, SAITTA, SALAFIA, SARTI, SCUTELLÀ

Modifiche al codice civile e alla legge 4 maggio 1983, n. 184, in materia di affidamento dei minori

Presentata il 31 luglio 2019

Onorevoli Colleghi! – La presente proposta di legge prevede una serie di norme volte a riformare e regolamentare il sistema di affidamento dei minori.
Questo complesso di norme risulta necessario e assolutamente urgente a seguito di alcuni scandali che hanno scosso negli ultimi mesi la coscienza collettiva e portato alla luce alcune gravissime lacune del sistema di affidamento dei minori nel nostro Paese.
Uno dei casi più famosi è stato portato alla luce grazie all'inchiesta giornalistica «Veleno», realizzata da Alessia Rafanelli e Pablo Trincia e pubblicata nel quotidiano la Repubblica, che tratta della vicenda, iniziata tra il 1997 e il 1998, riguardante sedici bambini sottratti alle rispettive famiglie tra Massa Finalese e Mirandola, nella bassa modenese, su indicazione dei servizi sociali, e mai più restituiti, malgrado alcune di queste famiglie siano state successivamente prosciolte da ogni accusa.
L'inchiesta giornalistica mira a dimostrare l'inconsistenza delle accuse secondo cui i bambini sarebbero stati vittime di abusi sessuali da parte di una rete satanica di pedofili che li avrebbe costretti ad assistere e a compiere riti satanici e sacrifici umani nei cimiteri della zona, promossi e diretti da un sacerdote, nonostante che le indagini non abbiano riscontrato prove di alcun genere.
Pare infatti che le dichiarazioni rese dai minori non fossero avvalorate da alcuna prova, quali fotografie, riprese audio-video, testimonianze dei custodi del cimitero, che non sia stato ritrovato alcun cadavere, sebbene sia stato dragato il fiume Panaro alla ricerca di prove, mentre le stesse testimonianze dei bambini derivavano da quanto era riferito dagli assistenti sociali, senza il sostegno di alcuna registrazione dei colloqui con i minori.
Sembrerebbe che gli assistenti sociali impiegassero la tecnica dello «svelamento progressivo», secondo cui il minore vittima di abuso rivela gradualmente la propria storia e per questo è necessario farlo parlare il più possibile: tuttavia, in questo caso, la tecnica potrebbe aver prodotto effetti distorsivi di grave portata, con interrogatori lunghi e ripetuti, atti a far dire ai minori ciò che gli interroganti adulti si aspettavano di ascoltare, anziché la realtà dei fatti.
Nel corso del processo, le perizie mediche che avrebbero dovuto accertare gli abusi sui minori sono state del tutto controverse, avendo alcuni periti addirittura escluso che i bambini abbiano mai subìto violenze.
Metà degli accusati è stata prosciolta da ogni accusa, ma nel frattempo alcuni sono morti: una madre si è suicidata gettandosi dal quinto piano di un palazzo; il sacerdote accusato di dirigere la setta, don Govoni, è morto d'infarto ed è stato post mortem prosciolto da ogni addebito; altre due madri sono morte in carcere mentre un altro indagato è stato colpito da un attacco cardiaco.
L'unione dei comuni dell'area nord di Modena si è fatta interamente carico delle spese per l'affidamento e le terapie psicologiche dei minori sottratti, versando in totale 4 milioni di euro, circa la metà dei quali è stata destinata al Centro aiuto al bambino (CAB), aperto privatamente dalla dottoressa Valeria Donati, una tra gli assistenti sociali responsabile degli «interrogatori» e delle sottrazioni dei bambini, per fornire assistenza ai bambini di cui diagnosticava i traumi, dopo che la competente azienda sanitaria locale aveva deciso di appaltare il servizio a una struttura più qualificata.
Queste somme sono state destinate per anni anche a psicologi dipendenti pubblici che collaboravano a pagamento con un'istituzione privata denominata Cenacolo francescano.
L'inchiesta «Veleno» ha arricchito la vicenda di testimonianze di due tra i principali protagonisti, in particolare due ragazze, minori all'epoca dei fatti, una delle quali figlia della donna che si suicidò in carcere a seguito della condanna, le quali hanno dichiarato, rispettivamente, nell'ambito dell'inchiesta: «Ho la certezza di aver inventato tutto» e «Mi sono sentita sequestrata da assistenti sociali, psicologhe e giudici. Queste persone non devono più avere a che fare con dei bambini. Io chiedo questo. Lo faccio per i bambini di oggi, perché non devono più subire quello che ho subìto io».
A seguito dell'inchiesta, psicologi e assistenti sociali sono stati convocati nella commissione servizi sociali del Consiglio dell'unione dei comuni dell'area nord di Modena, per fare luce sulla vicenda, e l'ente ha deciso di non rinnovare la quota associativa annuale al CISMAI, il coordinamento dei servizi per i maltrattamenti dei minori in Italia, a cui appartenevano molti degli assistenti sociali protagonisti della vicenda.
Dall'altra parte, l'avvocato Luisa Vitali ha fatto pervenire alla stampa, nel gennaio 2018, una lettera attribuita a quattro dei bambini a suo tempo sottratti alle famiglie, nella quale, da adulti, confermano la veridicità di tutto quello che a suo tempo riferirono sulle accuse alle famiglie.
Quanto descritto esprime un fenomeno che non si esaurisce nel solo caso descritto nell'inchiesta «Veleno», come denuncia la campagna nazionale «Nidi violati», portata avanti in rete da alcune associazioni, e che si occupa degli allontanamenti sui minori, disposti applicando l'articolo 403 del codice civile su segnalazioni contro genitori accusati di molestie, maltrattamenti, abusi e incapacità genitoriale, per i quali, però, dopo anni o anche decenni si accerta la totale innocenza: si tratta dei fenomeni noti anche come «falsi positivi».
Rappresentanti della campagna «Nidi violati», nell'audizione svolta dalla Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza nell'ottobre 2017, hanno ribadito la mancanza di dati e informazioni aggiornate che rende difficile affrontare il fenomeno e comprenderne la portata.
I primi studi su falsi ricordi, falsa memoria e falsi positivi risalgono agli anni ’70: perciò, negli anni ’90, gli specialisti avrebbero dovuto quanto meno conoscere il rischio, nell'approccio psicologico sul fanciullo e sull'adolescente, di indurre i minori a falsi ricordi.
È fondamentale che questo fenomeno venga sradicato: lo Stato dovrebbe farsi garante del benessere dei minori e dovrebbe contrastare comportamenti illeciti, soprattutto di funzionari pubblici o persone da essi incaricate, che pregiudicano l'integrità psico-fisica dei bambini e delle loro famiglie.
L'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza ha pubblicato la seconda raccolta di dati sperimentale elaborata con le procure della Repubblica presso i tribunali per i minorenni, intitolata «La tutela dei minorenni in comunità».
Nello studio si evidenzia che i numeri dell'accoglienza in comunità dei minorenni allontanati dalla propria famiglia d'origine al 31 dicembre 2015 mostrano, complessivamente, una tendenza all'aumento rispetto a quanto rilevato per l'anno precedente. In particolare, i minori di età presenti nelle strutture di tipo familiare sono 21.035, con un incremento del 9,3 per cento rispetto al 31 dicembre 2014.
Dal confronto tra il numero di minorenni presenti in comunità al 31 dicembre 2015 e il totale dei minorenni residenti in Italia al 1° gennaio 2016, pari a 10.008.033, si evince che i bambini e gli adolescenti accolti dalle strutture di tipo familiare rappresentano circa lo 0,2 per cento dell'intera popolazione infradiciottenne.
Si evidenzia, inoltre, un incremento del 5 per cento del numero di strutture per minori attive nel territorio nazionale che, al 31 dicembre 2015, risulta pari a 3.352 unità, rispetto alle 3.192 registrate al termine dell'anno 2014, correlativamente a un aumento del 7,8 per cento della domanda di accoglienza connesso, come osservato, alla rilevata crescita numerica del numero complessivo degli ospiti delle comunità al 31 dicembre 2015.
In tema di numero medio di ospiti per struttura, su base regionale, si osserva che i valori più elevati si registrano, nell'ordine: a Bolzano, con 13,6 ospiti; in Umbria con 12,4 ospiti; in Molise con 12,1 ospiti; in Friuli-Venezia Giulia con 11,8 ospiti; nelle Marche con 10,3 ospiti e in Sicilia con 10 ospiti per struttura. I territori dove, invece, il numero medio di ospiti per struttura risulta più contenuto corrispondono all'area del Piemonte e della Valle d'Aosta (3,7 ospiti) e alla provincia autonoma di Trento che, al pari del Veneto, segna un numero medio di 3,9 ospiti per struttura, seguiti dall'Emilia-Romagna con 4,6 ospiti.
Per quanto riguarda il profilo dell'età dei bambini e ragazzi accolti in comunità al 31 dicembre 2015 si nota la netta prevalenza della classe d'età più elevata (14-17 anni) che segna il 61,6 per cento del numero complessivo dei minorenni ospiti delle strutture e che risulta, peraltro, in crescita rispetto al 57,2 per cento registrato nella precedente rilevazione. Inoltre, è emerso che il 13,2 per cento dei minorenni collocati in comunità ha età inferiore a 6 anni, con una diminuzione rispetto al 15 per cento rilevato al 31 dicembre 2014. In diminuzione risulta anche l'incidenza relativa dei bambini di età compresa tra 6 e 10 anni (12,8 per cento, rispetto al 14,1 per cento del 2014) e dei ragazzi nella fascia d'età 11-13 anni (12,4 per cento, rispetto al 13,8 per cento del 2014).
L'inserimento dei minorenni nelle strutture di accoglienza avviene, nella maggioranza dei casi (57,8 per cento), a seguito di provvedimento dell'autorità giudiziaria, segnando una netta prevalenza rispetto alla percentuale di collocamenti di cui è stata espressamente dichiarata la natura consensuale (13,7 per cento). Tuttavia, nel restante 28,5 per cento dei casi le comunità non hanno fornito alle procure della Repubblica alcuna precisa indicazione circa la tipologia di inserimento.
Dal confronto con il dato risultante dalla precedente raccolta di dati dell'Autorità emerge una sostanziale continuità, seppur con una lieve diminuzione, della percentuale dei casi di minorenni presenti in comunità da più di 24 mesi, che passa dal 26,5 per cento, rilevato al 31 dicembre 2014, al 23 per cento, mentre il restante 77 per cento degli ospiti di minore età si trova in comunità, al 31 dicembre 2015, da meno di 24 mesi.
Bisogna infatti tenere conto che la permanenza dei minorenni fuori della propria famiglia di origine in comunità non può superare i 24 mesi, salve eventuali proroghe disposte dal tribunale per i minorenni nel caso in cui la sospensione del collocamento possa recare pregiudizio al minore.
Negli ultimi mesi, inoltre, è stato scoperto un gravissimo caso di presunto sfruttamento illecito del sistema degli affidamenti di minori, anche al fine di arricchimenti personali, noto come «caso Bibbiano», dal nome del piccolo comune in provincia di Reggio Emilia in cui ha avuto origine.
Il 27 giugno 2019, a seguito dell'operazione di polizia «Angeli e demoni», numerose persone sono state sottoposte a misura cautelare perché avrebbero costruito un illecito e redditizio sistema di gestione dei minori, attraverso il quale essi venivano sottratti illegittimamente alle famiglie d'origine per poi collocarli in affidamento, a pagamento, presso persone amiche o conoscenti, generando un giro d'affari illecito di diverse centinaia di migliaia di euro.
Secondo l'accusa, il sistema produceva false relazioni e disegni artefatti per allontanare i bambini dalle famiglie e collocarli in affidamento retribuito per poi sottoporli ad un programma psicoterapeutico, con un giro d'affari di centinaia di migliaia di euro.
Emergerebbe che destinatari dei provvedimenti sarebbero un sindaco, assistenti sociali, psicoterapeuti di una nota organizzazione non lucrativa di utilità sociale di Torino, psicologi dell'azienda sanitaria locale reggiana, oltre a decine di indagati tra sindaci, amministratori comunali, un avvocato, dirigenti e operatori socio-sanitari, accusati, a vario titolo, di frode processuale, depistaggio, abuso d'ufficio, maltrattamenti su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d'uso.
Le indagini hanno potuto appurare l'impiego di metodi altamente suggestivi utilizzati sui minori durante le sedute di psicoterapia: redazione di relazioni mendaci, disegni dei bambini artefatti attraverso la mirata aggiunta di connotazioni sessuali, terapeuti travestiti da personaggi cattivi delle fiabe messi in scena per rappresentare, di fronte ai minori, i genitori intenti a far loro del male, impiego di elettrodi in un meccanismo che veniva spacciato ai bambini come «macchinetta dei ricordi» per alterare lo stato dei loro ricordi in prossimità dei colloqui giudiziari; mentre i servizi sociali omettevano di consegnare ai bambini lettere e regali inviati dai genitori naturali, che i carabinieri hanno rinvenuto e sequestrato in un magazzino dove erano stati accatastati.
Tra gli affidatari dei minori c'erano persone con problemi psichici e genitori di figli suicidi, mentre vi sono stati due casi accertati di stupro presso le famiglie affidatarie e in comunità, dopo l'illegittimo allontanamento.
Tale sistema ha avuto gravissime ripercussioni sui minori che ne sono stati vittime: in particolare, alcuni, oggi adolescenti, manifestano profondi segni di disagio (tossicodipendenza e gesti di autolesionismo) mentre sono incalcolabili i danni provocati alle famiglie, separate in maniera forzata e talvolta ingiusta, dai propri figli, al precipuo scopo di ottenere vantaggi personali.
Dal punto di vista normativo, è urgente l'esigenza di adeguare la tutela amministrativa e giurisdizionale dei diritti dei minori e, in generale, delle persone nell'ambito familiare ai dettami sovranazionali e, segnatamente, all'articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che, come interpretato costantemente dalla Corte europea dei diritti dell'uomo e in sostanziale conformità al sistema di princìpi posto dagli articoli 30 e 31 della Costituzione, da un lato afferma l'intangibilità della vita privata e familiare in assenza di specifiche e comprovate esigenze di tutela di soggetti bisognosi della protezione pubblica; dall'altro contempla l'obbligo cosiddetto «positivo» delle istituzioni degli Stati parti di apprestare i servizi assistenziali alla famiglia affinché questa possa essere sostenuta, anche in ipotesi di disagio sociale o relazionale, mantenendo la propria unità e senza che abbia luogo la compressione autoritativa delle funzioni e dei legami che in essa si esplicano.
Nondimeno, da lungo tempo sono frequenti le condanne della Corte europea dei diritti dell'uomo nei confronti dell'Italia per l'inadempimento dei predetti obblighi positivi e per lo svolgimento di interventi autoritativi non preceduti dal necessario impegno nell'assistenza consensuale alla famiglia. In particolare, alcune condanne anche recentissime hanno riguardato addirittura vicende definite con dichiarazioni di adottabilità passate in giudicato e, dunque, almeno allo stato della normativa, sostanzialmente irreversibili, pur a fronte della constatata ingiustizia, erroneità e illegittimità. Al contempo, da oltre un decennio il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa sollecita la previsione di efficienti meccanismi di adeguamento alle statuizioni della Corte europea dei diritti dell'uomo, anche mediante il superamento del principio di intangibilità del giudicato, almeno nelle ipotesi di violazioni particolarmente incisive dei diritti fondamentali incidenti sullo status personae e sullo status familiae, quali quelle riconosciute nell'ambito di procedimenti definiti con dichiarazione dello stato di adottabilità di minori.
In un quadro siffatto si colloca l'inquietante dato che ha origine in una statistica ministeriale, confermato da studi di esperti e da inchieste giornalistiche: quasi quarantamila minorenni, nel 2011, erano collocati coattivamente in strutture comunitarie o comunque in ambito extra-familiare. Più volte operatori del diritto ed esperti nel campo della tutela minorile si sono espressi, pubblicamente e anche mediante studi editi, testimoniando la tendenza al progressivo incremento di quel numero.
L'impressionante dato statistico viene confermato anche in base a studi statistici condotti da Governi esteri, che hanno sentito l'esigenza di tutelarsi, anche mediante richieste di chiarimenti alle istituzioni italiane, circa la frequenza degli allontanamenti coattivi di minori dalle famiglie, specificamente con riguardo a situazioni di fatto non caratterizzate dall'accertamento o anche dalla contestazione della violazione di doveri parentali, ma esclusivamente da condizioni di disagio economico-sociale.
La necessità di comprendere i contenuti e le ragioni dello stato di fatto sintetizzato dai riferiti dati statistici, unita all'assenza di un'anagrafe ufficiale degli affidamenti extra-familiari di minori, ha determinato lo svolgimento, da parte della Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza, di un'approfondita e pluriennale indagine sugli interventi autoritativi in ambito minorile, con particolare riferimento all'allontanamento coattivo dei minori dalle famiglie.
Nel corso di detta indagine è emerso in modo chiaro che, se da un lato occorre che sia garantita la tutela dei minorenni da pericoli da maltrattamento fisico e psicologico in ambito familiare, nondimeno nella stragrande maggioranza dei casi i provvedimenti di collocazione extra-familiare e di affidamento etero-familiare sono determinati da valutazioni di rischio condotte sulla base di indicatori presuntivi non riconosciuti sul piano scientifico e, ancor più frequentemente, da ragioni di disagio della famiglia non imputabili a specifici e accertati comportamenti pregiudizievoli dei genitori nei confronti nei figli. Addirittura, è stato osservato, persino da magistrati e avvocati esperti nel settore minorile, oltre che da rappresentanti di associazioni impegnate nella tutela dell'infanzia, che in un grande numero di casi l'allontanamento coattivo del minore è determinato dalla situazione di indigenza economica della famiglia. Inoltre, un numero considerevole di provvedimenti di allontanamento è motivato in base a giudizi sulla personalità e sul carattere dei genitori o dei parenti dei minorenni interessati, anziché dall'accertamento di comportamenti pregiudizievoli; normalmente, tali giudizi sono espressi per iscritto in segnalazioni di operatori di pubblica sicurezza o di assistenti sociali e, in alcuni casi non infrequenti, persino in comunicazioni anonime pervenute alle procure della Repubblica presso i tribunali dei minorenni, mentre non costituiscono oggetto di ulteriore istruttoria nel contraddittorio processuale.
Diversi operatori del diritto minorile, ascoltati nell'ambito della predetta indagine conoscitiva, hanno riferito concordemente e univocamente che, nella maggior parte dei casi, il provvedimento di collocazione del minore fuori dall'ambito familiare viene emesso, in via nominalmente provvisoria, non solo anteriormente ad ogni adempimento istruttorio, ma addirittura prima dell'audizione dei genitori del minore, i quali vengono sentiti solo dopo l'emissione del provvedimento e, molto spesso, a distanza di settimane o addirittura di mesi dalla sua esecuzione. Inoltre, in difformità dal dettato normativo e dall'avviso più volte ribadito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, i provvedimenti provvisori, anche se relativi alla collocazione extra-familiare di minori, risultano privi dell'indicazione, anche orientativa, della durata dell'intervento, di guisa che sovente restano efficaci per anni, ad onta della natura interinale e della previsione normativa del termine di ventiquattro mesi quale ordinaria durata massima della collocazione extra-familiare del minore, superabile soltanto in caso di acclarato pregiudizio derivante dalla riunificazione della compagine familiare.
In molti casi, inoltre, i provvedimenti provvisori di allontanamento vengono reiterati per ragioni diverse rispetto a quelle originariamente considerate dal giudice e, segnatamente, in base a relazioni rese dai gestori delle strutture collocatarie o sulla base di notizie da loro fornite e non verificate nel contraddittorio delle parti. In tali situazioni si determina un evidente conflitto di interessi, quanto meno potenziale, nelle persone dei gestori delle strutture collocatarie, in ragione del metodo di finanziamento delle stesse.
Invero, le strutture che ricoverano minori allontanati dalle famiglie vengono finanziate con erogazioni di denaro pubblico deliberate senza giustificativi di spesa, ma in ragione del numero dei minori ricoverati e della durata di ciascun ricovero. Ne deriva che, per ciascun ospite, le somme ricevute hanno ammontare tanto maggiore quanto più lungo è il periodo di collocazione del minore nella struttura. Conseguentemente, risulta quanto meno illogico e del tutto inopportuno che le valutazioni dei gestori e degli operatori delle strutture collocatarie, peraltro quasi mai sottoposte a verifica nel contraddittorio processuale, incidano sulla decisione in ordine alla durata della collocazione extra-familiare del minore, la quale peraltro, secondo il disposto degli articoli 2 e seguenti della legge 4 maggio 1983, n. 184, dovrebbe avere la durata minore possibile e finalità corrispondente al pronto reinserimento del minore nell'ambito familiare.
Solo in un numero sparuto e marginale di procedimenti, alla collocazione extra-familiare, principalmente in strutture comunitarie o in case-famiglia, viene preferita la collocazione presso parenti aventi rapporti significativi con il minore interessato; anzi, normalmente l'eventualità della collocazione endo-familiare non viene neppure considerata e motivatamente valutata, mentre in alcuni casi detta soluzione viene esclusa in base a considerazioni del tutto generiche e irrilevanti, relative alla possibilità che i parenti collocatari possano manifestare solidarietà o, al contrario, ostilità nei confronti dei genitori del minore. Inoltre, soprattutto se l'intervento autoritativo sia connesso alla condizione di psicopatologia o di tossicodipendenza dei genitori del minore, è sorprendentemente consueta, nelle motivazioni dei provvedimenti giurisdizionali, la singolare considerazione per cui l'affidamento a parenti determinerebbe per il minore il pregiudizio consistente nella permanenza in un ambito familiare in cui è maturata la condizione personale dei genitori, quasi che tra le caratteristiche dell'ambiente familiare e detta condizione personale sia da ravvisarsi automaticamente o comunque da presumersi la sussistenza di un nesso di derivazione eziologica. Quando, poi, l'allontanamento del minore sia connesso a condizioni di disagio economico-sociale della famiglia, la collocazione endo-familiare è esclusa de plano o addirittura per implicito, in base alle medesime ragioni che hanno determinato l'intervento autoritativo. In definitiva, per l'una o per l'altra via, la collocazione endo-familiare, indicata ex lege quale regime da preferirsi in caso di necessaria interruzione della convivenza parentale-filiale, viene sistematicamente esclusa.
Privi di espressa motivazione sono nella stragrande maggioranza dei casi i provvedimenti amministrativi con cui, ai sensi dell'articolo 403 del codice civile, l'autorità amministrativa procede all'allontanamento del minore dalla famiglia in via preventiva rispetto all'intervento giurisdizionale. Del resto, la formulazione normativa è talmente generica che numerosissimi sono gli allontanamenti deliberati in via amministrativa senza la sussistenza di alcuna situazione di imminente pericolo derivante dalla permanenza del minore nell'ambito familiare. Nondimeno, non risultano casi in cui, in esito all'esame del provvedimento amministrativo da parte del giudice minorile, l'allontanamento non sia stato confermato in sede giurisdizionale e sia stata ripristinata la collocazione familiare del minore.
In sede di indagine conoscitiva, è risultato acclarato e incontroverso come, durante il periodo di collocazione extra-familiare, la frequentazione tra il minore e i genitori sia del tutto minimale, ridotta a poche ore su base mensile, e la frequentazione con gli altri parenti sia quasi sempre esclusa. Si determina così un'ulteriore contraddizione rispetto al dettato normativo già menzionato, secondo cui l'affidamento con collocazione extra-familiare deve tendere al mantenimento del rapporto affettivo e relazionale tra il minore e i parenti – principalmente i genitori –, nella prospettiva della riunificazione della compagine familiare nel più breve tempo possibile. Viceversa, soltanto pochissime strutture garantiscono l'assiduità e la tendenziale quotidianità del rapporto del minore con i familiari. La considerazione dianzi svolta risulta vieppiù aggravata dalla prassi largamente diffusa, per quanto inconciliabile con il dato normativo, di rimettere al servizio sociale o addirittura ai responsabili della struttura collocataria la definizione delle modalità, della frequenza e della durata degli incontri tra il minore e i familiari, quando non la determinazione di sospendere discrezionalmente la frequentazione tra i genitori e il figlio o, addirittura, di provvedere all'allontanamento del minore dai genitori ove questo non sia disposto direttamente dal giudice.
Sul piano dell'impatto sociale, il numero enorme di provvedimenti di allontanamento dipendenti da condizioni di disagio economico-sociale e connessi con segnalazioni all'autorità giudiziaria, da parte dell'assistenza sociale, di situazioni suscettibili di essere affrontate mediante interventi assistenziali, ha comportato la diffusione tra i consociati di una particolare ritrosia rispetto alla fruizione del diritto di richiedere al servizio socio-assistenziale interventi di sostegno economico e persino di protezione nei casi di violenza endo-familiare. Ne deriva una crescente percezione del servizio sociale come amministrazione ostile alla compagine familiare e come autorità preposta all'attivazione di interventi giurisdizionali compressivi dei diritti afferenti all'autonomia e all'unità della vita familiare, con inevitabile recisione del rapporto fiduciario tra i cittadini aventi diritto all'assistenza e l'istituzione preposta a garantire la tutela assistenziale.
L'indicata percezione è aggravata dall'emergere di numerose situazioni di conflitto di interessi consistenti nel coinvolgimento di assistenti sociali e di componenti dei collegi giudicanti minorili nella gestione o nell'attività di strutture per l'accoglienza di minori allontanati coattivamente dalla famiglia.
In tale quadro, risulta vieppiù incoerente e dannosa la nota tendenza alla diminuzione delle risorse destinate, nell'ambito dell'amministrazione locale, al sostegno economico e sociale in favore delle famiglie in difficoltà, a fronte inoltre del macroscopico ammontare di fondi destinati al finanziamento delle strutture di ricovero dei minori allontanati coattivamente dalla famiglia, prudenzialmente e attendibilmente calcolato nella somma di un miliardo e mezzo di euro per anno su base nazionale. L'indicato profilo è stato segnalato con preoccupazione, nel corso dell'indagine conoscitiva della Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza, sia da importanti associazioni impegnate nell'ambito della protezione dei diritti dei minori, sia da operatori del diritto con esperienza pluriennale nell'ambito della giustizia minorile.
Al cospicuo investimento di risorse economiche per il finanziamento delle strutture collocatarie non corrisponde un'adeguata assiduità e analiticità dei controlli sull'attività delle strutture medesime. Risulta sostanzialmente omessa ogni iniziativa di controllo preventivo e di accesso ispettivo da parte delle autorità dotate dei relativi poteri, quali le procure minorili, le amministrazioni territoriali locali, l'amministrazione sanitaria e l'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza. Solo a seguito di specifici e gravi eventi in danno di minori ricoverati sono emerse, nel corso degli ultimi anni, situazioni di incuria anche conclamata e di manifesta inidoneità di strutture collocatarie a garantire ai minori ricoverati le necessarie condizioni di salubrità e serenità; addirittura, in alcuni casi si sono manifestate ex abrupto situazioni di reiterata violenza fisica, anche sessuale, sui minori ricoverati, accertate in ambito giurisdizionale e protrattesi per anni prima dell'emersione.
Per di più, di pubblico dominio sono ormai le notizie di casi in cui l'esecuzione coattiva della collocazione etero-familiare del minore si è tradotta, per l'interessato, in un evento traumatico ben più grave del supposto pregiudizio derivante dalla permanenza nell'ambito familiare: ciò è accaduto sia a causa delle modalità violente dell'ablazione del minore dalla custodia parentale, sia in ragione dell'ingiustificata limitazione dei rapporti e dei contatti con i genitori e con gli altri parenti nel periodo di ricovero extra-familiare. Non mancano gli studi specialistici che ravvisano in siffatti eventi la fonte di danni irreparabili all'equilibrio emotivo-affettivo e all'incolumità psico-fisica del minore. Neppure sono mancate segnalazioni di vicende in cui la recisione del legame familiare, protratta immotivatamente per lungo tempo, ha determinato innaturali conseguenze di confusione nell'equilibrio psico-affettivo del minore anche a fronte della prospettiva del tardivo ricongiungimento alla famiglia.
Le constatate disfunzioni del sistema di tutela familiare e minorile risultano in definitiva collegate a distinti e interconnessi profili di criticità afferenti alla formulazione del dato normativo, all'apprestamento delle garanzie del giusto processo in ambito minorile, alle modalità di concreta applicazione dei provvedimenti di collocazione extra-familiare e, infine, ai controlli sulle strutture collocatarie.
In particolare, con riguardo alla normativa sostanziale, emerge l'esigenza di specificare, quanto meno sul piano della previsione generale e astratta, i connotati della fattispecie idonea a determinare l'esclusione dei genitori dall'affidamento del figlio o dalla titolarità della responsabilità genitoriale e la collocazione del minore in ambito estraneo al nucleo familiare o addirittura in ambito extra-familiare. Sul punto, l'attuale e risalente formulazione degli articoli 330 e 333 del codice civile risulta eccessivamente generica, tanto che continua a dar luogo a distorte applicazioni per cui la coattiva disgregazione della compagine familiare prescinde da violazioni dei doveri parentali eziologicamente connesse con pregiudizi o concreti pericoli di pregiudizio per i figli in potestate. Inoltre, le disposizioni indicate non contemplano in modo espresso la necessità che l'intervento compressivo della funzione parentale risulti strettamente proporzionato e funzionale al superamento del pregiudizio o del pericolo di pregiudizio accertato e abbia carattere di temporaneità, con durata almeno tendenziale da indicare nel provvedimento giurisdizionale.
Pertanto, in sede di modifica legislativa, ci si propone di chiarire che, in primo luogo, l'intervento autoritativo sulla responsabilità genitoriale deve essere determinato da una violazione dei doveri afferenti all'esercizio della predetta responsabilità; in secondo luogo, l'intervento autoritativo deve essere attuato a condizione che il pregiudizio per il minore non sia suscettibile di essere affrontato ed escluso mediante un intervento assistenziale da svolgersi su base consensuale con gli esercenti la responsabilità genitoriale; inoltre, pur a fronte dell'acclarata necessità dell'intervento autoritativo, l'allontanamento del minore dai genitori e dai parenti conviventi deve intendersi quale extrema ratio, sì da essere disposto soltanto a fronte del concreto, attuale e comprovato pregiudizio o pericolo di danno per la vita o l'incolumità del minore, ricorrendo – a fronte dell'accertata impossibilità, imputabile alla condotta degli esercenti la responsabilità genitoriale, di evitare il pregiudizio per il minore – a provvedimenti da attuarsi senza scissione della compagine familiare o, eventualmente, mediante l'allontanamento di un genitore o convivente che si sia reso responsabile di specifiche condotte pregiudizievoli per la vita o l'incolumità del minore; ancora, alla collocazione extra-familiare deve essere preferita la collocazione del minore presso parenti prossimi o, in mancanza, presso persone conosciute al minore e che accettino di accoglierlo temporaneamente, salvo che ciò sia impedito da comprovate e specifiche ragioni impeditive che determinino pericolo per la vita o l'incolumità del minore interessato.
Con riferimento all'attuazione delle regole del giusto processo in ambito minorile, i vantaggi in termini di elasticità connessi all'applicazione del rito camerale vanno conciliati con l'apprestamento delle garanzie del contraddittorio, con l'esigenza che le parti partecipino alla formazione della prova dei fatti rilevanti per la decisione e, non ultimo, con la necessità di definizione del giudizio in tempi ragionevoli. Rispetto al perseguimento di tali finalità risulta allo stato inadeguato il combinato disposto dell'articolo 336 del codice civile e degli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile, diffusamente applicati – in base ad una mal supposta impermeabilità dei procedimenti di volontaria giurisdizione rispetto ai canoni del giusto processo – in maniera tale da comportare il protrarsi pluriennale dei procedimenti e, soprattutto, l'emissione di decisioni basate, anziché su fatti emergenti da documenti e dichiarazioni acquisite nel contraddittorio delle parti, su valutazioni di soggetti diversi dalle parti processuali, recepite a prescindere da ogni vaglio critico.
Ancora sul piano delle previsioni normative generali, si pone la necessità di escludere che la manifestazione di mere opinioni valutative sulla personalità dei genitori o dei parenti del minore possa essere intesa come fatto rilevante ai fini della decisione e possa legittimamente costituire oggetto di accertamento demandato ad un consulente tecnico, come spesso accade attualmente. Occorre, cioè, che il dettato normativo esprima con certezza il principio per cui, come in ogni processo, la decisione deve essere basata sulla prova di fatti e comportamenti e non, invece, su apodittici giudizi valutativi vertenti sulla proficuità delle impostazioni educative o delle opinioni o degli atteggiamenti dei genitori e sulla loro corrispondenza ad un modello sociale asserito come prevalente o astrattamente virtuoso.
Con specifico riferimento alla valutazione relativa all'allontanamento del minore dai genitori, si ravvisa l'opportunità di prevedere che l'avviso del minore stesso sia raccolto in via preventiva dal giudice, eventualmente coadiuvato da un esperto, nel contraddittorio delle parti, a prescindere dall'età del minore, sempre che questi sia in grado di esprimersi. Un'esigenza siffatta procede in sostanziale continuità con l'orientamento della giurisprudenza di legittimità, inteso ad escludere che l'audizione del minore, come fonte privilegiata della conoscenza di circostanze rilevanti ai fini della decisione, possa essere surrogata dall'acquisizione delle esternazioni del minore fuori del processo e ad opera di soggetti diversi dal giudice o dalla persona all'uopo delegata dal giudice stesso.
Quanto all'emissione di provvedimenti provvisori, occorre esplicitare che essa richiede la sussistenza di gravi e univoci indizi di fatti specifici e di comportamenti integranti violazione dei doveri parentali e del pregiudizio concreto e attuale che ne derivi per il minore, con l'ulteriore specificazione che, specialmente al fine di giustificare un provvedimento interinale di allontanamento, detto pregiudizio deve riguardare la vita, l'incolumità o la libertà del minore medesimo, non essendo all'uopo rilevante o comunque sufficiente il dissenso rispetto alle scelte educative dei genitori o le condizioni di disagio non suscettibili di comportare un pregiudizio maggiore rispetto al trauma della disgregazione familiare. Inoltre, va chiarito che, in aderenza ai princìpi generali immanenti all'intero ordinamento processuale e in conformità ai canoni del giusto processo, l'emissione di provvedimenti inaudita altera parte è ammessa esclusivamente in casi di eccezionale urgenza e con necessaria instaurazione del contraddittorio entro termini predeterminati, decorsi i quali il provvedimento sarà destinato a perdere efficacia: tale impostazione risponde anche al dovere di necessario adeguamento al già considerato dictum della Corte europea dei diritti dell'uomo e, del resto, è conforme al modello delineato, in materia di adottabilità, dall'articolo 10, commi 4 e 5, della citata legge n. 184 del 1983.
In ordine al contenuto tanto dei provvedimenti definitivi quanto di quelli provvisori, andrà escluso che esso possa esaurirsi in una delega di poteri a soggetti diversi dal giudice ai fini della definizione della collocazione del minore e delle modalità e dei tempi di attuazione della frequentazione con i genitori e con i parenti. Va inoltre previsto che, decorso il termine di efficacia previsto nel provvedimento di collocazione extra-familiare, il minore deve essere restituito alla custodia degli esercenti la responsabilità genitoriale, salva la proroga motivata in relazione al perdurare del pregiudizio alla vita, all'incolumità o alla libertà del minore stesso.
Con riferimento all'attuazione dei provvedimenti giurisdizionali di collocazione extra-familiare, la constatata e pressoché costante disapplicazione del dettato degli articoli 2 e seguenti della legge n. 184 del 1983 più volte menzionata impone di indicare espressamente che: la durata della collocazione del minore, da indicarsi – come già detto – nel provvedimento giurisdizionale che la dispone, dovrà essere individuata con motivazione specifica in ordine alla proporzionalità rispetto al pregiudizio cui deve essere posto rimedio; nel periodo di collocazione extra-familiare, al minore deve essere garantita la frequentazione quotidiana e libera dei genitori e dei familiari, mentre ogni limitazione relativa alle modalità di svolgimento, all'assiduità e alla durata degli incontri deve essere specificamente prevista e motivata nel provvedimento giurisdizionale, deve essere strettamente proporzionale rispetto all'esigenza di evitare un pregiudizio o un concreto e attuale pericolo di pregiudizio alla vita o all'incolumità del minore e, inoltre, deve avere durata limitata e predeterminata, oltre la quale la limitazione perde efficacia se non reiterata in ragione del comprovato perdurare del predetto pregiudizio o pericolo di pregiudizio.
Con riferimento alla gestione e al controllo sull'attività delle case-famiglia e delle strutture di collocazione dei minori, occorre stabilire che le stesse vengano finanziate esclusivamente mediante rimborso fino a concorrenza delle spese, debitamente documentate, relative alla gestione e agli esborsi sostenuti per i minori accolti, compresi la retribuzione del personale e il pagamento di eventuali collaboratori e fornitori; che, in ordine alla congruità e veridicità della documentazione delle spese, nonché sulle modalità di svolgimento della cura della persona dei minori accolti e sullo stato delle strutture, vengano svolti controlli, con frequenza almeno mensile e senza preavviso, da parte del procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni competente per territorio o di un magistrato da esso incaricato, dell'amministrazione che provvede al finanziamento mediante rimborso nei termini predetti e dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza o da un soggetto da essa incaricato. La Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza è facoltizzata ad accedere, mediante l'invio di una propria delegazione, alle sedi delle case-famiglia e delle altre strutture di collocazione dei minori per verificarne le condizioni e il trattamento dei minori che vi sono ospitati.
La presente proposta di legge si compone di quattro articoli. In particolare all'articolo 1 vengono modificate le disposizioni del codice civile secondo quanto sopra illustrato. L'articolo 2 modifica alcune norme contenute nella legge 4 maggio 1983, n. 184. Infine, gli articoli 3 e 4 contengono le norme finanziarie, finali e transitorie.

PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.
(Modifiche al codice civile)

1. L'articolo 330 del codice civile è sostituito dal seguente:

«Art. 330. – (Ablazione e limitazione della responsabilità genitoriale) – Il genitore che, con la propria condotta attiva od omissiva, incorre nella violazione dei doveri afferenti all'esercizio della responsabilità genitoriale, così cagionando al figlio minorenne un pregiudizio o il pericolo concreto e attuale di un pregiudizio per la vita, l'incolumità, la salute fisica o la libertà personale o morale, è estromesso dall'esercizio della responsabilità stessa o ne è limitato, con le modalità e per il tempo strettamente necessari ad escludere o rimuovere il pregiudizio o il pericolo cagionati.
La condotta, il pregiudizio o il pericolo di cui al primo comma devono risultare da fatti specifici e comprovati e non possono desumersi da valutazioni relative alla personalità del genitore o dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale.
Il giudice adotta il provvedimento ablativo o limitativo della responsabilità genitoriale soltanto se risulti inequivocabilmente che il pregiudizio o il pericolo di cui al primo comma non possano essere esclusi o evitati mediante l'intervento dei servizi sociali, eventualmente anche con la prestazione di assistenza educativa domiciliare, da svolgersi con il consenso del genitore o dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale.
Il giudice, al fine preminente della tutela e della salvaguardia dell'unità familiare e della permanenza del minorenne nel proprio contesto domestico abituale, esamina prioritariamente la possibilità di emettere un provvedimento che non escluda l'unità del nucleo familiare ovvero, se necessario, che rimuova la situazione di pregiudizio o di pericolo di cui al primo comma mediante l'allontanamento del genitore, del parente o del convivente che con la propria condotta abbia determinato tale situazione. Soltanto se tale tipo di provvedimento non risulti sufficiente a rimuovere la situazione di pregiudizio o di pericolo, il giudice può disporre la collocazione del minore in ambito diverso dal suo contesto domestico abituale, presso un parente entro il quarto grado ovvero presso altra persona conosciuta dal minore stesso, che accetti di assumerne la temporanea cura e custodia. Soltanto nel caso in cui i predetti provvedimenti non siano possibili o sufficienti, per specifiche e comprovate ragioni, a salvaguardare la vita, l'incolumità, la salute fisica e la libertà personale e morale del minore, può essere disposta la collocazione di questo presso una famiglia affidataria o, se ciò risulti impossibile, presso una casa-famiglia o una struttura di accoglienza.
I provvedimenti di cui al secondo e al terzo periodo del quarto comma devono indicare, a pena di nullità, la durata della collocazione del minore fuori del suo contesto domestico abituale. Decorso il termine di durata previsto nel provvedimento, il minore è restituito alla custodia del genitore o dei genitori, ferme restando le altre statuizioni limitative eventualmente disposte. Il giudice, in ragione del comprovato e attuale perdurare del pregiudizio o del pericolo che avevano determinato l'allontanamento, può tuttavia prorogare la collocazione del minore fuori dal suo contesto domestico abituale, indicando la durata della proroga, a pena di nullità del provvedimento.
Il provvedimento di allontanamento del minore deve essere eseguito da personale specializzato e con modalità tali da non provocare o aggravare lo stato di turbamento psicologico del minore interessato. L'esecuzione deve essere sospesa se il minore opponga resistenza fisica o verbale o comunque manifesti in modo evidente la volontà di non distaccarsi dai genitori; in tal caso il giudice provvede nuovamente ai sensi dell'articolo 336, quarto comma. Le disposizioni del secondo periodo non si applicano in caso di esecuzione coattiva del provvedimento di allontanamento del genitore dalla casa familiare; nondimeno, anche in questo caso, all'atto dell'esecuzione del provvedimento, deve essere prestata al minore l'assistenza necessaria per attenuare i possibili effetti di turbamento psicologico.
Durante il periodo di collocazione del minore fuori del suo contesto domestico abituale, il minore ha diritto di frequentare i genitori e gli altri familiari, con cui abbia rapporti significativi, con frequenza quotidiana e senza vigilanza. Modalità diverse di svolgimento della frequentazione o della sua durata possono essere previste esclusivamente nel provvedimento con cui il giudice dispone la collocazione del minore fuori del suo contesto domestico abituale; le statuizioni adottate a tale riguardo devono essere specificamente motivate con riferimento a un concreto, attuale e comprovato pregiudizio o pericolo di pregiudizio per la vita, l'incolumità, la salute fisica o la libertà personale o morale del minore e devono essere limitate a quanto strettamente necessario per rimuovere tale pregiudizio o pericolo; tali statuizioni sono efficaci soltanto per la durata indicata nel provvedimento che le dispone e, in mancanza di indicazione della durata, sono nulle.
Durante il periodo di collocazione del minore fuori del suo contesto domestico abituale, è garantita al minore anche la congrua frequentazione delle persone, diverse dai familiari, con cui abbia stabilito rapporti affettivi prima dell'allontanamento dai genitori.
La mancata indicazione del termine di durata, nei provvedimenti di cui al primo e al terzo periodo del quinto comma e al secondo periodo del settimo comma, costituisce fatto rilevante ai fini della responsabilità disciplinare dei giudici che abbiano concorso alla deliberazione del provvedimento stesso».

2. L'articolo 332 del codice civile è sostituito dal seguente:

«Art. 332. – (Revoca o modifica del provvedimento ablativo o limitativo della responsabilità genitoriale) – I provvedimenti ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale, di cui all'articolo 330, quarto e settimo comma, sono revocabili o modificabili su ricorso proposto al tribunale per i minorenni dal genitore destinatario del provvedimento stesso o dal pubblico ministero. Il ricorso è proponibile in ogni tempo e indipendentemente dalla sussistenza di fatti sopravvenuti».

3. L'articolo 333 del codice civile è sostituito dal seguente:

«Art. 333. – (Provvedimenti nei riguardi dei parenti che svolgano funzione vicaria dei genitori) – Le disposizioni degli articoli 330 e 332 e quelle dell'articolo 336 si applicano anche ai parenti che svolgano in modo continuativo, anche di fatto per accordo con i genitori, funzione vicaria della responsabilità genitoriale nei confronti del minore».

4. L'articolo 336 del codice civile è sostituito dal seguente:

«Art. 336. – (Procedimento) – I provvedimenti di cui all'articolo 330 sono adottati su ricorso dell'altro genitore, di un parente del minore entro il quarto grado o del pubblico ministero.
Il tribunale provvede in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, all'esito di istruttoria compiuta anche d'ufficio. Il provvedimento ablativo o limitativo è adottato se risulta la prova delle circostanze di cui all'articolo 330. La prova si forma nel contraddittorio delle parti e non può essere costituita da valutazioni o da dichiarazioni processuali che non siano state rese da soggetti alla cui deposizione ciascuna delle parti costituite abbia avuto la possibilità di assistere.
Qualora ricorrano indizi gravi e univoci della sussistenza delle circostanze previste dall'articolo 330, primo comma, e vi sia fondato motivo di temere che il tempo occorrente per l'instaurazione del contraddittorio possa determinare un pregiudizio irreparabile per il minore, il presidente del tribunale emette un provvedimento provvisorio con efficacia non superiore a quarantacinque giorni dal deposito, curando che nel medesimo termine sia instaurato il contraddittorio. Il provvedimento è confermato, modificato o revocato dal tribunale all'esito del contraddittorio e dopo che siano state sentite le parti costituite e il pubblico ministero.
Quando un minore si trovi in situazione di evidente e attuale pericolo per la propria integrità fisica, l'autorità di pubblica sicurezza intervenuta, su segnalazione da chiunque pervenuta ovvero d'ufficio, colloca senza indugio il minore stesso in un ambiente sicuro, fino al provvedimento del giudice, valutando in via prioritaria la possibilità di collocazione presso un parente del minore entro il quarto grado o presso altra persona legata affettivamente al minore stesso, che accetti di assumerne la temporanea cura e custodia. Ove non sia possibile provvedere ai sensi del precedente periodo, l'autorità di pubblica sicurezza procedente chiede al comune di residenza del minore indicazioni sulla struttura presso cui collocare temporaneamente e in via d'urgenza il minore.
Nel caso di cui al quarto comma, l'autorità di pubblica sicurezza procedente, entro ventiquattro ore dall'intervento, comunica il provvedimento di collocazione del minore al pubblico ministero presso il tribunale per i minorenni che, se ne accerta la fondatezza, conferma il provvedimento e senza indugio presenta il ricorso ai sensi del primo comma ovvero, se ne ricorrono le condizioni, ai sensi degli articoli 9 e 10 della legge 4 maggio 1983, n. 184. Qualora, invece, il pubblico ministero ravvisi la manifesta infondatezza del provvedimento dell'autorità di pubblica sicurezza, lo revoca immediatamente e dispone la restituzione del minore ai soggetti esercenti la responsabilità genitoriale.
Se ravvisi la competenza del tribunale ordinario, il tribunale per i minorenni trasmette a questo il fascicolo, dopo avere emesso, se necessario, il provvedimento provvisorio e urgente ai sensi del terzo comma, in cui è contenuta anche la statuizione declinatoria della competenza.
Salvi i casi previsti dai commi terzo e quarto del presente articolo, i provvedimenti di cui all'articolo 330 non possono essere adottati se non dopo che il minore sia stato ascoltato, nel contraddittorio delle parti, dal giudice, coadiuvato da un esperto all'uopo nominato. La disposizione del primo periodo si applica qualunque sia l'età del minore, purché, nel caso in cui non abbia compiuto gli anni dodici, sia in grado di esprimere la propria volontà. Quando occorra, l'audizione del minore è compiuta da un esperto delegato dal giudice, il quale vi assiste, con la presenza delle parti, da una sala adiacente collegata con vetro specchio o videocollegamento e con collegamento audiofonico, utilizzando il quale il giudice stesso dirige l'audizione per il tramite dell'esperto che rimane in contatto visivo con il minore. Dell'audizione del minore è sempre effettuata registrazione audiovisiva. Tranne che nei casi in cui sia disposto l'allontanamento del minore dal suo contesto domestico abituale, l'audizione del minore può essere esclusa se, per specifiche ragioni da indicarsi nella motivazione del provvedimento del giudice, esso sia manifestamente superfluo ovvero possa determinare turbamento psicologico per il minore in misura sproporzionata rispetto all'utilità apportata all'esito decisorio.
Per la partecipazione al procedimento è sempre necessaria l'assistenza tecnica. In caso di conflitto di interessi, anche potenziale, tra il minore e i soggetti esercenti la responsabilità genitoriale, il giudice relatore nomina un curatore speciale nell'interesse del minore. Il curatore speciale, ove non eserciti la professione forense, deve farsi assistere da un difensore. Il curatore speciale è tenuto, a pena di inefficacia della nomina e salva ogni altra responsabilità civile e penale, a dichiarare qualsiasi situazione di conflitto di interessi, compresi la proprietà, lo svolgimento di funzioni di direzione, amministrazione o controllo e i rapporti di lavoro, di collaborazione o di consulenza con strutture presso le quali sono collocati minori o che somministrano trattamenti diagnostici e terapeutici ai medesimi».

5. Gli articoli 336-bis e 403 del codice civile sono abrogati.
6. L'articolo 38-bis delle disposizioni per l'attuazione del codice civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 30 marzo 1942, n. 318, è abrogato.

Art. 2.
(Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184)

1. Alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) all'articolo 4, il comma 4 è sostituito dal seguente:

«4. La durata dell'affidamento è disciplinata secondo le disposizioni dell'articolo 330, quinto comma, del codice civile»;

b) all'articolo 5, il comma 4 è sostituito dal seguente:

«4. Le persone fisiche e gli enti che, anche mediante la gestione di comunità di tipo familiare o altri istituti di assistenza, accolgono minori collocati fuori dell'ambito familiare non possono ricevere dallo Stato, dalle regioni e dagli enti locali finanziamenti ulteriori rispetto al rimborso delle spese sostenute in favore dei minori ospitati e per la gestione della struttura, ivi comprese quelle per il pagamento di retribuzioni e compensi ai dipendenti e ai collaboratori e di corrispettivi ai fornitori, purché ragionevolmente congrue in relazione alle condizioni del mercato del lavoro e della cessione di beni e servizi. È ammessa l'erogazione di anticipazioni sulla base della presentazione di programmi di spesa. Ai fini del rimborso previsto dal primo periodo, le spese sostenute devono essere documentate. Fermi restando le funzioni e i poteri delle autorità competenti, sulla completezza della documentazione, sulla congruità delle spese, sulla cura dei minori ospitati e sulla salubrità delle strutture vigilano, anche mediante accessi ispettivi non preannunciati, da svolgersi con frequenza almeno mensile, il procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni competente per territorio o un magistrato da lui incaricato, l'amministrazione preposta all'erogazione dei rimborsi e l'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza o il soggetto da questa delegato. La Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza può accedere in ogni tempo, mediante l'invio di una propria delegazione, alle sedi delle case- famiglia e delle altre strutture di collocazione dei minori per verificarne le condizioni e il trattamento dei minori che vi sono ospitati. La vigilanza è svolta separatamente dai soggetti indicati al quarto periodo, che coordinano le rispettive attività. Qualora, nel corso dell'attività ispettiva o in qualunque altro modo, siano rilevate situazioni o condotte ascrivibili a un soggetto collocatario o a uno dei gestori o collaboratori di una struttura collocataria di minori, tali da determinare un pregiudizio o il pericolo di un pregiudizio di qualsiasi natura anche per uno solo dei minori ospitati, tutti i minori collocati presso tale soggetto sono trasferiti presso altro soggetto con provvedimento immediato del presidente del tribunale per i minorenni o del magistrato da questo delegato; presso il soggetto destinatario del provvedimento non possono essere collocati altri minori»;

c) all'articolo 21 è aggiunto, in fine, il seguente comma:

«4-bis. Quando la Corte europea dei diritti dell'uomo, con sentenza definitiva, abbia pronunciato o confermato la condanna dell'Italia per violazioni determinate da una statuizione dichiarativa dello stato di adottabilità passata in giudicato, può essere domandata la revoca della dichiarazione di adottabilità, anche con riferimento a minori di cui siano stati disposti l'affidamento preadottivo o l'adozione, entro tre mesi dalla data in cui la pronuncia della Corte predetta sia divenuta definitiva. Nel caso in cui, avuto riguardo all'interesse del minore, da valutarsi alla stregua di circostanze di fatto specifiche e comprovate, non sia possibile la revoca dello stato di adottabilità e dell'affidamento preadottivo o dell'adozione eventualmente disposti, il giudice, se non vi ostino specifiche circostanze di fatto da cui risulti inequivocabilmente il pericolo di pregiudizio per l'equilibrio psico-affettivo del minore, ordina il ripristino immediato o futuro dei rapporti di fatto tra il minore stesso e i genitori e i parenti rispetto ai quali sia cessato il rapporto familiare, se del caso in via graduale e con espressa determinazione dei tempi e delle modalità di attuazione nonché dei sostegni assistenziali e psicologici ritenuti utili in favore del minore».

Art. 3.
(Disposizioni finanziarie)

1. Dall'attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
2. Gli eventuali risparmi derivanti dall'applicazione delle disposizioni del comma 4 dell'articolo 5 della legge 4 maggio 1983, n. 184, come sostituito dall'articolo 2 della presente legge, sono destinati, in via tendenziale e salve le attribuzioni di enti amministrativi autonomi, all'incremento delle attività e dei programmi di pubblica assistenza alle famiglie in condizioni di disagio economico e sociale.

Art. 4.
(Disposizioni finali e transitorie)

1. Le disposizioni della presente legge, in quanto compatibili, si applicano anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della presente legge.
2. Le somme erogate prima della data di entrata in vigore della presente legge ai sensi dell'articolo 5, comma 4, della legge 4 maggio 1983 n. 184, nel testo vigente prima della data di entrata in vigore della presente legge, non sono soggette a ripetizione se erogate in conformità alla normativa previgente.
3. I soggetti collocatari di minori collocati fuori dell'ambito familiare per effetto di provvedimenti adottati prima della data di entrata in vigore della presente legge comunicano al presidente del tribunale per i minorenni competente l'eventuale pendenza del termine di cui al terzo comma dell'articolo 336 del codice civile, come sostituito dall'articolo 1 della presente legge, che scada nei tre mesi successivi dalla data di entrata in vigore della presente legge.

Per tornare alla pagina di provenienza azionare il tasto BACK del browser