FRONTESPIZIO

RELAZIONE

PROGETTO DI LEGGE
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                        Articolo 2
                        Articolo 3
                        Articolo 4

XVIII LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 298

PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE

d'iniziativa dei deputati
MELONI, CIRIELLI, RAMPELLI, ACQUAROLI, BELLUCCI, BUCALO, BUTTI, CARETTA, CIABURRO, CROSETTO, LUCA DE CARLO, DEIDDA, DELMASTRO DELLE VEDOVE, DONZELLI, FERRO, FIDANZA, FOTI, FRASSINETTI, GEMMATO, LOLLOBRIGIDA, LUCASELLI, MASCHIO, MONTARULI, OSNATO, RIZZETTO, ROTELLI, SILVESTRONI, TRANCASSINI, VARCHI, ZUCCONI

Modifiche agli articoli 97, 117 e 119 della Costituzione, concernenti il rapporto tra l'ordinamento italiano e l'ordinamento dell'Unione europea

Presentata il 23 marzo 2018

  Onorevoli Colleghi! — Oggi nella Costituzione non è previsto un diritto di ribellione, ma piuttosto un dovere di sottomissione. «Ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi, di adempiere con disciplina ed onore le funzioni che gli sono affidate».
  Ma: «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all'oppressione è diritto e dovere del cittadino».
  Formulato in questi termini dall'onorevole Dossetti, nel 1947, durante i lavori dell'Assemblea costituente (e leggibile nel testo del «Comitato dei 75»), questo articolo, sul diritto di ribellione, non fu approvato.
  Nel 2001 nel nuovo titolo V della parte seconda della Costituzione, in specie con il nuovo articolo 117, primo comma, è stato all'opposto introdotto il nostro dovere di sottomissione all'Europa: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto (...) dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario».
  In particolare questa è una norma che, per il suo ampio disposto, non solo si sovrappone al «vecchio» articolo 11 della Costituzione, ai sensi del quale l'Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicura la pace e la giustizia fra le nazioni, ma va molto oltre, costituzionalizzando per importazione in Italia tutti i materiali giuridici di fonte europea. Non solo i princìpi europei, ma anche, e a trecentosessanta gradi, tutti i vincoli derivanti da tutte le fonti giuridiche europee. E dunque non solo i vincoli derivati dai trattati, ma anche i vincoli derivanti dai regolamenti, dalle direttive, dalle decisioni europee e da altre norme.
  I princìpi europei sono alti e nobili, ma sono formulati in termini generalissimi e programmatici e pertanto sono elastici e flessibili, e per questo tali da sovrapporsi per confusione ai più fondati, chiari, precisi, dispositivi, non ideologici e non programmatici princìpi costituzionali italiani.
  Ma non solo i princìpi, lo si ripete. La più vasta gamma dei vincoli europei a cui l'Italia si è subordinata e si subordina, in forza del citato articolo 117, primo comma, della Costituzione, non solo ha forma opposta rispetto ai princìpi, essendo rigida e specifica, ma soprattutto è una classe di vincoli che può derivare anche da atti di livello inferiore, da atti para-amministrativi più o meno oscuramente formulati e verbalizzati nelle prassi e dalle prassi europee.
  A partire, per esempio, dalle decisioni del collegio dei Commissari europei, per arrivare a quelle dei vari Consigli europei, atti questi che non sono certo leggi, ma che in Italia, proprio per effetto del citato articolo 117, primo comma, diventano ancora più che leggi, fonte di vincoli addirittura costituzionalmente rafforzati.
  In questi termini ci siamo volontariamente e follemente «desovranizzati». Nelle Costituzioni degli altri Paesi fondatori dell'Unione europea non si trovano norme così generali, così automatiche e così sottomesse.
  È vero che, se pure ad altri effetti, l'articolo 11, primo comma, della Costituzione, fa riferimento a fonti giuridiche internazionali, ma comunque stabilisce espressamente il principio della «parità con gli altri Stati». Un principio, questo della parità, che è invece del tutto assente nel più volte citato articolo 117, primo comma.
  Quanto è stato fatto in Italia nel 2001 sembra ancora più assurdo in considerazione dell'articolo 4, paragrafo 2, dell'allora Trattato sull'Unione europea (TUE), come modificato dal Trattato di Lisbona, che ha segnato il rapporto tra l'Unione europea e l'identità costituzionale degli Stati membri nei seguenti termini: «L'Unione rispetta l'uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali. Rispetta le funzioni essenziali dello Stato».
  Al proposito devono poi essere ricordate la giurisprudenza dell'allora Corte di giustizia delle Comunità europee in materia di rapporti tra ordinamento interno e dell'Unione europea, come anche le sentenze della nostra Corte costituzionale (in particolare le sentenze n. 170 del 1984, n. 286 del 1986, n. 117 del 1994, n. 126 del 1996 e n. 93 del 2010), tutte basate sullo stesso principio che ora informa l'articolo 4, paragrafo 2, del TUE.
  In sintesi, il Trattato di Lisbona traccia una strada opposta a quella dell'articolo 117, primo comma, della Costituzione, salvaguardando le prerogative costituzionali fondamentali degli Stati membri e non, all'opposto, circoscrivendone la portata.
  In ipotesi si potrebbe anche tentare di formulare un'interpretazione riduttiva dell'articolo 117, primo comma, assumendo che questa sia una norma applicabile solo nel rapporto interno tra Stato e regioni. Tuttavia la forma ampia della norma esclude questo particolare tipo di interpretazione restrittiva e la ragione non ne consentirebbe comunque un'applicazione logica e lineare.
  Può darsi che nel 2001 non fossero chiare ai «costituenti» le conseguenze politiche e sistemiche della nuova normativa europea che stavano introducendo nella Costituzione. Ma oggi ne sono, per contro, drammaticamente forti ed evidenti gli effetti. Così che il nuovo titolo V non solo ha assurdamente sovrapposto un particolare nuovo tipo di «federalismo» al già operato e già per suo conto devastante «decentramento» dello Stato, ma ha in più e radicalmente alterato i termini della nostra sovranità nazionale.
  È per queste ragioni che si prevede la soppressione dei richiami che subordinano il nostro ordinamento a quello dell'Unione europea all'articolo 117, primo comma, della Costituzione e, a seguire e nella stessa logica, anche agli articoli 97, primo comma, e 119, primo comma. Ma non solo.
  In un ambiente ispirato all'inizio dall'etica politica classica del no taxation without representation, il «vecchio» articolo 81 della Costituzione ha tenuto per un lungo tratto di tempo.
  In specie, ha tenuto dal dopoguerra fino all'inizio degli anni settanta quando, a fronte delle grandi trasformazioni che stavano intervenendo nella struttura della società italiana, a partire dalle grandi migrazioni dal sud al nord e dall'Appennino alla pianura, ha preso avvio una politica di deficit spending, poi degenerata in quella «democrazia del deficit» che ha portato l'Italia ad avere il terzo debito pubblico del mondo, certamente senza che l'Italia abbia la terza economia del mondo.
  La crisi finanziaria mondiale ha infine impartito all'Europa, e all'Italia, una lezione fondamentale: è impossibile continuare a produrre più deficit e debiti pubblici che prodotto interno lordo.
  Dato il nostro enorme debito pubblico, è per questa ragione che nel 2011-2012 è stato introdotto nella Costituzione il «nuovo» articolo 81. È questa una norma molto seria ed efficace e perciò qui non in discussione. Una norma sulla quale va peraltro notato quanto segue:

   a) nel corpo della nuova norma non c'è alcun riferimento ai cosiddetti «vincoli europei». La sovranità di bilancio è dunque totalmente nazionale, una forma di esercizio costituzionale della responsabilità esclusiva delle Camere;

   b) soprattutto, un conto è limitare per il futuro la crescita ulteriore del deficit e del debito pubblico italiani, come si fa nel «nuovo» articolo 81, dove proprio per questo si prevede l’«equilibrio di bilancio»; un conto è, invece, il corso forzoso imposto dall'Europa per la riduzione dello stock storico del nostro debito pubblico, come invece si vuole con il cosiddetto «fiscal compact».

  Il fiscal compact è stato come tale battezzato e formalizzato nel corso del 2012. Prima non era affatto così.
  L'idea originaria di una disciplina europea dei bilanci nazionali, un'idea su cui si iniziò a discutere in Europa nel biennio 2009-2010, era basata sulla doppia formula, della «responsabilità» sopra, ma anche della «solidarietà» sotto: non l'una senza l'altra.
  Per essere chiari, l'idea politica che allora si stava sviluppando in Europa era questa: se la nuova geopolitica del mondo portata dalla globalizzazione e poi drammatizzata dalla crisi poneva termine all'età dell'oro dell'Europa, impedendole di fare più deficit e debiti pubblici che prodotti interni lordi, e, comunque, apriva per l'Europa la sfida che veniva da un nuovo mondo articolato nel confronto-competizione non più tra Stati-nazione ma tra blocchi continentali, allora l'Europa non aveva altra scelta se non quella di prenderne atto, avviando un processo di reazione e di riorganizzazione.
  E dunque non solo meno deficit e debiti pubblici, ma anche più unità e armonizzazione su scala europea nella disciplina dei bilanci pubblici e, proprio in questa logica strategica, più compattezza continentale. Per converso, dovevano però esserci anche più intelligenza politica nella formulazione e nell'applicazione dei parametri europei e più solidarietà.
  Alla base, dal lato dell'Italia, c'erano allora tre obiettivi essenziali:

   1) calcolare le percentuali di riduzione del debito pubblico italiano non solo in base al valore assoluto del nostro debito pubblico, e dunque in modo non rigidamente matematico, ma calcolarle anche in considerazione di altri fattori rilevanti. In particolare si trattava di fattori favorevoli all'Italia, quali la ricchezza patrimoniale (gli italiani, rispetto a tanti altri, hanno molto patrimonio e pochi debiti), la riforma delle pensioni (quella italiana considerata in Europa ottima già nel 2010), l'andamento dell’export (in crescita allora in Italia quasi più che altrove) e altro. Va notato a questo proposito che, dopo una lunga e non facile opposizione, questa richiesta fu alla fine accettata (e, se del caso, dovrebbe oggi essere difesa con forza, in sede di eventuale – si spera di no – applicazione del fiscal compact).

   2) Subordinare la sottoscrizione del relativo trattato all'avvio degli «eurobond», nella forma compatibile con i vigenti trattati (si veda a questo proposito, a titolo indicativo: Junker-Tremonti, «E-bonds would end crisis», The Financial Times, 5 dicembre 2010). È possibile credere nell'euro, se non si crede negli «eurobond»?

   3) In ogni caso, anche come strumento negoziale, si chiedeva di calcolare il contributo di ogni Paese al nuovo fondo di salvataggio europeo (ESM) non in base alla percentuale nazionale di partecipazione al capitale della Banca centrale europea (per l'Italia pari circa al 18 per cento), ma in percentuale rispetto all'effettivo grado di esposizione al rischio estero di ciascun sistema bancario-finanziario nazionale (per l'Italia questo era circa pari al 5 per cento).

  Il successivo Governo Monti, generato, come nel cinquecento, dalla «chiamata dello straniero», ha invece scelto di regredire rispetto a questa linea. Ovvero, come si dice, ha ceduto... con fermezza!
  È così che ora e per il futuro, sostanzialmente a partire dal 2014, e per ironia della storia proprio per espressa volontà nostra, ci troviamo obbligati non solo a pagare il conto delle perdite bancarie degli altri, ma anche a operare per molti anni, violenti (e recessivi) tagli della spesa pubblica.
  Tagli che pur in ipotesi di una crescita economica continua, anche se unita a un discreto e pure continuo livello di inflazione monetaria, pari, in ipotesi, a un 3 per cento di crescita complessiva, sarebbero comunque necessari per grandi numeri, da operare con continue manovre di finanza pubblica, prima per portare e poi per tenere allo «zero» assoluto il nostro squilibrio di bilancio (si ricordi che attualmente siamo intorno al 3 per cento), dovendo dunque negli anni a venire vincere la naturale e storica tendenza alla crescita della nostra spesa pubblica. A partire dagli andamenti demografici avversi e perciò a partire dagli automatismi incrementali impliciti nei diritti attualmente universali all'assistenza e alla salute, passando poi, per esempio, alle crescenti esigenze della sicurezza per arrivare, infine, al federalismo fiscalmente irresponsabile delle regioni e delle nuove «mega-province» ovvero delle «aree vaste».
  E, si faccia attenzione, notare tutto questo non è apologia della spesa pubblica e difesa dell'ancora viva «cultura parlamentare» del deficit, ma è piuttosto responsabile realismo. Tutto questo è, in particolare, realistica comprensione dell'intensità politica, prima ancora che economica, dei problemi che si stanno addensando sul nostro Paese. Minimizzare tutto questo in base a calcoli «scientifici», illudere e illudersi è tutto fuorché prudente, anche nella prospettiva interna ed esterna del (ri)sentimento verso l'Europa.
  Per come nel corso del 2012 è stato geometricamente configurato, il fiscal compact viene infatti ad essere lo strumento permanente di dominio dell'Europa sull'Italia: essere costretti, e per beffa costretti da noi stessi, a fare qualcosa che molto difficilmente possiamo fare; dovere per questo e senza speranza e per gli anni futuri subire ogni possibile forma di condizionamento, di riduzione e, infine, anche di azzeramento della nostra sovranità nazionale.
  Nel «nuovo» articolo 81, lo si ribadisce, si prescrive l'equilibrio di bilancio per il futuro, ma non si prescrive affatto la riduzione forzosa e forsennata del debito pubblico accumulato in precedenza.
  Purtroppo, la relativa legge di attuazione, la legge 24 dicembre 2012, n. 243, è radicalmente uscita da questo schema, incorporando e persino rafforzando le politiche di bilancio a matrice europea basate, nella logica del fiscal compact, sull'idea della corsa forzata alla riduzione dello stock storico del nostro debito pubblico.
  È proprio in questi termini che, nel corso del 2012, sulla scia del principio generale di «desovranizzazione» contenuto nell'articolo 117, primo comma, il fiscal compact è entrato non solo nel nostro ordinamento, per effetto della ratifica del cosiddetto «Trattato Monti», ma è entrato anche nella meccanica di attuazione della Costituzione.
  È per questo che qui si propone l'adeguamento della legge n. 243 del 2012 in modo che essa sia solo l'attuazione del «nuovo» articolo 81, per com'è scritto, e non altro.
  Nell'insieme, su questa proposta di legge costituzionale si chiede un voto che non è contro l'Europa, ma è per la nostra dignità nazionale e per la nostra libertà. Ad essere lungimiranti e non miopi, sia l'azione in Europa del nostro Governo sia l'Europa stessa ne trarranno giovamento.

PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE

Art. 1.
(Modifica all'articolo 97 della Costituzione).

  1. All'articolo 97, primo comma, della Costituzione, le parole: «, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea,» sono soppresse.

Art. 2.
(Modifica all'articolo 117 della Costituzione).

  1. All'articolo 117, primo comma, della Costituzione, le parole: «, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» sono soppresse.

Art. 3.
(Modifica all'articolo 119 della Costituzione).

  1. All'articolo 119, primo comma, della Costituzione, le parole: «, e concorrono ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea» sono soppresse.

Art. 4.
(Disposizione transitoria).

  1. Le disposizioni della legge 24 dicembre 2012, n. 243, sono adeguate alle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 3 della presente legge costituzionale, con apposita legge da emanare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della medesima legge costituzionale.

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