FRONTESPIZIO

RELAZIONE

PROGETTO DI LEGGE
                        Articolo 1

XVIII LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 356

PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati
COMAROLI, MOLTENI, FEDRIGA, GRIMOLDI, GUIDESI

Modifica all'articolo 2 della legge 15 dicembre 1999, n. 482, in materia di tutela delle lingue storiche regionali

Presentata il 24 marzo 2018

  Onorevoli Colleghi! — Il nostro Paese ha il maggior numero di dialetti in rapporto alla sua superficie. Il professor Tristano Bolelli, celebre glottologo e linguista, autore di numerose pubblicazioni e docente all'università di Pisa, ha più volte asserito che i dialetti non sono dei sottoprodotti della lingua italiana: hanno loro radici che sono altrettanto nobili. Quasi due secoli di propaganda unionista di stampo centralista e giacobino, ben rappresentati dal motto «Uno Stato, una nazione, una lingua» (lo stesso utilizzato in Francia), hanno cancellato il fondamentale e indiscusso principio che ogni dialetto è una lingua e hanno introdotto un'artificiale distinzione valoriale, esclusivamente politica, tra lingua e dialetto. Non è vero che il dialetto sia una corruzione della lingua. Citiamo in proposito le parole di Guido Barbina, professore ordinario di geografia umana all'università di Udine e preside della facoltà di lingue e letterature straniere dell'università di Udine: «Tralasciamo, perché puramente accademico e a volte fuorviante, il pretestuoso problema della differenziazione fra lingua e dialetto: una simile distinzione, peraltro impossibile, non ci porterebbe certamente a chiarire il problema di una corretta classificazione dei casi di difformità linguistica italiani».
  La decisione di quali siano le caratteristiche che distinguono una lingua dall'altra è comunque arbitraria, perché le lingue appartengono a loro volta a famiglie linguistiche formate da lingue simili, spesso confinanti e aventi un'origine comune. Nella pratica succede spesso che per comodità si usino definizioni geografiche di lingue e di dialetti, anziché strettamente linguistiche. Tecnicamente, i termini lingua e dialetto, se non perfettamente equivalenti, sono certamente interscambiabili e il loro uso non implica nessuna precisa distinzione genetica o gerarchica. Meno che mai è sottinteso un giudizio di valore.
  L'uso dei termini lingua e dialetto che invece si fa in politica implica un rapporto gerarchico fra le due entità e un giudizio di valore: la lingua sarebbe qualcosa di superiore al dialetto e il dialetto una forma degenerata o comunque inferiore della lingua. Questa distinzione dei due termini, linguisticamente infondata, è il risultato di una scelta politica molto comune che restringe l'utilizzo del termine lingua a quella ufficiale dello Stato, attribuendo agli altri idiomi la qualifica di dialetti. Il linguista norvegese Einar Haugen ha provocatoriamente illustrato questa distinzione pseudo-linguistica con le seguenti parole: «Una lingua è un dialetto con alle spalle un esercito e una flotta». Il friulano Pier Paolo Pasolini con la consueta efficacia ha spiegato che «Il dialetto diventa lingua, quando viene scritto ed adoperato per esprimere i sentimenti più alti del cuore (...) per esprimere le proprie idee, il proprio sentire, i propri desideri».
  Il dibattito, non solo in Parlamento, è stato particolarmente acceso nella definizione di ciò che è dialetto e di ciò che è lingua. Per un linguista parlare di lingua o di dialetto è la stessa identica cosa. Per un linguista, l'ultimo dialetto della Lombardia ha la stessa dignità della lingua letteraria. Certo ha una diversa storia, quella storia che ha condotto alcuni di questi idiomi ad essere usati in un contesto più ristretto e altri in uno molto più ampio. Come ulteriore dimostrazione che fra lingua e dialetto non esistono sostanziali differenze (una lingua non è altro che un dialetto che ha la prevalenza sugli altri, riconosciuto come mezzo di comunicazione da comunità che hanno dialetti diversi) basta vedere le definizioni che dell'una e degli altri vengono comunemente date. Nessuno riesce ad evidenziare reali diversità.
  È corretto affermare che il dialetto è una lingua. Una necessità che nasce dalla reazione al grande disprezzo che in passato, e purtroppo ancora oggi, è riservato ai dialetti, vissuti come un ostacolo al processo di omologazione e di standardizzazione linguistica, elemento fondamentale per quella culturale. Anche per questo motivo la riscoperta da parte di ciascuno di noi delle proprie radici culturali si trasforma nella fierezza di appartenere a un certo tipo dialettale, di riscoprire le proprie origini e la propria identità. Tale rinnovato orgoglio si esprime appunto definendo il dialetto una lingua.
  In termini leggermente più neutri possiamo dire che in politica solitamente si concede la dignità di lingua agli idiomi di chi dispone di mezzi di pressione sufficienti a farsi riconoscere come comunità etnico-linguistica distinta da quella maggioritaria. Una volta ottenuto lo status di lingua (e i relativi finanziamenti), anche gli idiomi minoritari possono essere dotati di tutti quegli strumenti, esterni ai sistemi linguistici stessi, che caratterizzano le lingue ufficiali degli Stati: una norma standard, grammatiche e dizionari redatti in modo professionale, l'insegnamento nelle scuole, lo sviluppo di testi prestigiosi, l'uso in occasioni e documenti ufficiali. Questi strumenti sono la conseguenza, e non la causa, dello status ufficiale di lingua. I dialetti ne sono privi unicamente a causa della debolezza politica o economica delle comunità linguistiche in cui vengono parlati.
  I vari dialetti hanno avuto vicende storiche diverse; non si può negare che alcuni di loro, pur rispettabilissimi, non hanno prodotto documenti letterari, limitandosi soltanto ad essere mezzo di comunicazione fra gli abitanti di una certa zona. Resta il dato storico che da una pari dignità iniziale ognuno di loro ha avuto diverse sorti. Ad esempio, il siciliano nel duecento ha prodotto una grande scuola poetica, la prima in Italia. Quella toscana, del «dolce stil novo», è venuta dopo e, per ragioni culturali, storiche ed economiche, la sua formidabile produzione letteraria del trecento (Dante, Petrarca e Boccaccio) ha creato i presupposti perché si diffondesse in gran parte della penisola. Questo condizionò la scelta di autori non toscani, quali il napoletano Sannazzaro e l'emiliano Boiardo, di scrivere in toscano.
  È importante ricordare che sino alla fine del Risorgimento nessuna autorità politica o religiosa ha imposto il toscano come base della lingua nazionale. Fino ad allora l'italiano era rimasto una lingua letteraria, perché veniva imparato sui libri e non era in alcun modo adoperato da tutta la popolazione. Non dimentichiamo che nel decennio 1860-1870 i popoli della penisola italica erano per l'80 per cento analfabeti. Quindi, la minoranza che sapeva leggere e scrivere produceva certamente cose interessanti, ma non c'era diffusione della cultura. Per questo motivo da noi, contrariamente che in altri Stati europei, si è verificata una persistenza dei dialetti. Quando non esisteva l'unità nazionale, sempre ammesso e non concesso che oggi ci sia, la lingua toscana era semplicemente uno strumento per comunicare tra diversi Stati e autonomie. Da noi non è accaduto come in Francia, dove la lingua è stata stabilita con una legge, o come in Inghilterra, dove la scelta di un certo dialetto come lingua generale è dipesa da vicende di carattere soprattutto politico. Per esempio, è certo che il francese sia linguisticamente più evoluto dell'italiano. Le cosiddette «lingue imperiali» sono quelle che hanno registrato una maggiore evoluzione, a conferma del fatto che l'italiano è una lingua relativamente giovane. Questa è una peculiarità della penisola italica che le proposte di legge costituzionale di modifica all'articolo 12 della Costituzione, in materia di riconoscimento dell'italiano quale lingua ufficiale della Repubblica, ricorrentemente poste all'attenzione del Parlamento, vogliono cancellare. Alla fine del Risorgimento, con lo Stato unitario, c'è stata l'imposizione: la lingua che era usata per una libera scelta dettata dalla necessità è stata codificata e imposta quale lingua ufficiale della penisola.
  La comunità scientifica e i proponenti del presente progetto di legge rifiutano la distinzione pseudo-linguistica fra lingue e dialetti, che suddivide i diversi idiomi in due gruppi in base alla loro posizione politica. Dando pari dignità ad entrambi, la suddivisione è tra lingue, la cui diversità e specificità rispetto all'italiano sono state già riconosciute sia a livello internazionale che dallo Stato italiano, e dialetti, che ancora oggi sono totalmente negati e discriminati da parte dello Stato centralista, ma che a livello regionale e anche da parte di studi internazionali sono riconosciuti come lingue, cioè come sistemi linguistici ben distinti dall'italiano. In pratica, tutti i cosiddetti «dialetti italiani» sono lingue distinte e non dialetti dell'italiano. È un dato di fatto che i dialetti contribuiscono alla crescita della lingua italiana. Un esempio abbastanza recente è che i giovani, per dire che una ragazza è piuttosto bruttina la chiamano «squinzia», che non è altro che una parola dialettale: si trova sia nel milanese che nel bolognese. Sono molte le parole ormai accettate da quello che chiamiamo l'italiano e che non provengono dal toscano, ma dai dialetti del nord e del sud. Prendiamo una serie di parole toscane come «lucignolo, concio, guide, rena, guazza»: nessuna di queste si trova nell'italiano comune. A loro si sono preferite espressioni che appartengono ad altri dialetti come, rispettivamente, «stoppino, letame, redini, sabbia, rugiada». Anche la Toscana ha i suoi dialetti, e il toscano non si identifica totalmente con la lingua italiana. Fatta eccezione per il toscano e per il romanesco, i cosiddetti «dialetti italiani» sono lingue che si sono sviluppate in modo autonomo e diverso rispetto al fiorentino che ha costituito la base per l'italiano: il piemontese e il napoletano, per esempio, non meno che il sardo e il friulano che oggi per lo Stato italiano hanno un rango superiore, essendo stati riconosciuti con la legge 15 dicembre 1999, n. 482.
  Nella realtà politica italiana, l'uso spregiudicato delle arbitrarie definizioni di lingua e di dialetto è servito finora ad aggirare la Costituzione, che all'articolo 6 recita «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche». La citata legge 15 dicembre 1999, n. 482, costituisce un passo importante per le lingue riconosciute e prevede l'introduzione del bilinguismo nelle istituzioni e nel sistema educativo, anche se discrimina profondamente le altre lingue regionali, purtroppo escluse dal provvedimento. Dal testo originale è stato stralciato un articolo che prevedeva il futuro allargamento delle lingue riconosciute, concedendo la potestà legislativa in materia alle regioni e non più allo Stato. Il Parlamento in quel frangente ha ancora una volta adottato il principio della ragion di Stato, per cui è la maggioranza a disporre a proprio piacimento dei diritti delle minoranze. Per negare i diritti delle minoranze, pur riconosciuti dalla Costituzione, è ancora sufficiente per la maggioranza negare l'esistenza di queste: in pratica basta continuare a definire le lingue minoritarie come dialetti.
  In un quadro più ampio e attuale, quale quello europeo, l'entrata in vigore della legge n. 482 del 1999 ci ha consentito di sottoscrivere, il 27 giugno 2000, la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie (già approvata dal Consiglio d'Europa nel maggio 1992) e di aderire alla Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali, fatta a Strasburgo il 1° febbraio 1995, sempre nell'ambito del Consiglio d'Europa, la cui ratifica è avvenuta con la legge 28 agosto 1997, n. 302. La Convenzione impegna i Paesi aderenti a non discriminare l'utilizzo delle lingue minoritarie e a riconoscere il diritto a tale uso da parte delle minoranze in tutti gli ambiti, compreso quello dell'istruzione e dei rapporti con la pubblica amministrazione. La normativa italiana vigente riassume, in definitiva, i settori di applicazione della Convenzione-quadro. Più precisamente, contiene norme per la tutela delle lingue storicamente ritenute minoritarie, ossia quelle delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l'occitano e il sardo. In un primo tempo diversi progetti di legge prevedevano la valorizzazione dell'etnia rom e sinti. Il Parlamento non ha ritenuto che sussistessero le condizioni per il riconoscimento, in quanto mancava un riferimento di questa cultura a un territorio specifico. Seguendo le proprie tradizioni, infatti, le comunità zingare non sono stanziali, ma prevalentemente nomadi. L'orientamento prevalso in Parlamento è stato di conservare il patrimonio storico-artistico-culturale estendendo la tutela della citata legge n. 482 del 1999 alle lingue, di diversa derivazione, presenti in Italia da epoche remote e confermando che la residenza in un determinato territorio è precondizione per la rivendicazione del diritto al riconoscimento di minoranza linguistica.
  Negli ultimi decenni c'è stata una evoluzione della giurisprudenza costituzionale. Fino all'entrata in vigore del decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del 1977, la potestà legislativa in materia di tutela delle minoranze linguistiche era di esclusivo appannaggio dello Stato; analogo l'orientamento della Corte costituzionale (sentenza n. 32 del 1960), in base al quale la disciplina delle minoranze alloglotte, in quanto riconducibile ai supremi interessi dell'unità e dell'invisibilità dell'ordinamento repubblicano, doveva ritenersi attribuita esclusivamente alla competenza legislativa statale. Con l'emanazione del decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del 1977 le regioni hanno potuto legiferare in questo campo, sia pure indirettamente, fondandosi sui poteri riconosciuti in materia di beni culturali e di attività di promozione culturale ed educativa. Parallelamente alla potestà legislativa regionale nell'ambito delle materie riservate dall'articolo 117 della Costituzione e dalle disposizioni degli statuti speciali è emerso un mutamento dell'indirizzo giurisprudenziale, con rilevanti pronunce della Corte costituzionale (n. 28 del 1982, n. 289 del 1987 e n. 768 del 1988).
  Sulla carta geografica della nostra penisola si può tracciare una linea ideale che va da La Spezia a Rimini. Questo è il confine che divide i due grandi gruppi dei dialetti italiani: quelli settentrionali da quelli centro-meridionali e toscani; questi ultimi vanno poi considerati a parte. I dialetti settentrionali hanno caratteristiche per cui vengono chiamati anche gallo-italici. È verificabile dal fatto che di solito le parole finiscono in consonante. A Bologna si dirà «bon» per dire «buono», ma si dirà «bona» per «buona», vale a dire la «a» è la vocale che rimane mentre le altre, come la «o», cadono se sono in posizione finale. Questa è una costante di tutti i dialetti settentrionali, tranne che nel Veneto, dove c'è un'impostazione diversa che deriva dal fatto che in quella regione la popolazione in origine non era gallica, ma venetica. Nei dialetti dell'Italia settentrionale le vocali finali delle parole cadono tranne quando c'è la «a», nel veneto invece possono rimanere anche altre vocali. Facciamo degli esempi: «avaro» in veneto si dice «crudo, peloso, strento, stitico», invece negli altri dialetti settentrionali è difficile trovare una vocale finale a meno che non si tratti, come in Emilia-Romagna, del caso di «tiré» che però è il participio passato di un verbo, ovvero di «tirare». Insomma, «avaro» in veneto resterà «avaro» mentre a Bologna sarà «aver» o «avar». Un altro elemento tipico delle lingue dei popoli settentrionali è che le consonanti doppie diventano semplici. Nel veneto, è noto, invece di «matto» si dice «mato». Nei dialetti in cui manca la vocale finale, si dirà «mat». Inoltre, per confermare gli indizi dell'origine gallica dei dialetti settentrionali, c'è qualcuno che sostiene che la «u» lombarda sarebbe una «u» gallica (su questo punto non tutti gli studiosi sono d'accordo). È un discorso controverso, come la presunta origine della «c» intervocalica aspirata nel toscano che, come ricordato, costituisce un caso a parte nei dialetti dell'Italia centro-meridionale. Concludendo la panoramica sui dialetti dell'Italia settentrionale, va aggiunto che essi sono molto più vari di quelli centro-meridionali, nonostante l'area di diffusione dei primi sia più ristretta di quella dei secondi. Ciò dipende dalla maggiore varietà della storia dell'Italia settentrionale. Basti pensare quanto abbia significato il fatto che Torino, Milano, Bergamo, Venezia e Padova, come tante altre città, abbiano avuto vicende politiche e sociali completamente autonome. La storia di queste autonomie, di interi territori e comunità che passavano dagli uni agli altri, le molte guerre e le alleanze, gli scambi commerciali e la crescita economica hanno prodotto un'evoluzione di quei dialetti diversa da quella del resto della penisola.
  Riassumendo, procedendo da ovest a est e da nord a sud, in Italia si hanno i dialetti gallo-romanzi (occitani e francoprovenzali), i dialetti gallo-italici (piemontese, lombardo, ligure, emiliano, romagnolo), veneti, ladini, friulani, toscani, centro-meridionali (umbro, marchigiano, abruzzese, molisano, pugliese, campano, lucano, salentino, calabrese, siciliano) e il sardo. Ogni dialetto ha le sue caratteristiche. Insomma, i vari dialetti non costituiscono un'unica linea retta, ma sono come tanti segmenti, ciascuno dei quali succede all'altro. Fra i grandi gruppi di dialetti, quelli dell'Italia settentrionale e quelli centro-meridionali, non esiste nessun elemento in comune. Ad esempio, in Emilia la «a» accentata diventa «e», per cui si dice «peder» invece di «pader» e «meder» invece di «mader»; questa è una costante che, ad un certo punto, si interrompe: entriamo in un'altra zona con altre caratteristiche. Ecco, è finito un segmento dialettale e ne comincia un altro.
  I dialetti che utilizzando la nomenclatura politica potrebbero assurgere al grado di lingua sono: il veneto, il piemontese, l'emiliano-romagnolo, il lombardo, il ligure, il siciliano, il napoletano e le altre lingue meridionali.
  La lingua veneta, parlata nella regione Veneto, è tra quelle maggiormente discriminate da parte dallo Stato italiano, che erroneamente la classifica come un dialetto dell'italiano. Secondo una ricerca dell'ISTAT del 1998, il 52 per cento dei veneti parla principalmente la lingua regionale, che per mille anni fu la lingua ufficiale della Serenissima Repubblica di Venezia. Nel marzo 1995, la giunta regionale del Veneto ha pubblicato un «Manuale della Grafia Veneta Unitaria». Diverse amministrazioni comunali del Veneto hanno adottato il bilinguismo veneto-italiano nei propri atti. Una variante della lingua Veneta, il «Talian», parlato da centinaia di migliaia di discendenti di immigrati veneti in Brasile, è stata decretata, per una settimana, lingua ufficiale in Serafina Correa, Stato del Rio Grande do Sol in Brasile. La lingua veneta è classificata lingua nettamente distinta dall'italiano in diversi studi internazionali, come lo studio promosso dall'UNESCO «Red Book of Endangered Languages» (1993-1996) del professor Tapani Salminen dell'università di Helsinki (che è anche membro della Commissione dell'UNESCO che si occupa di lingue regionali e minoritarie) e la tredicesima edizione di «Ethnologue, Languages of the World», pubblicato negli Stati Uniti d'America dal Summer Institute of Linguistics di Dallas. Il veneto costituisce uno degli esempi più eclatanti della discriminazione delle lingue sulla base della loro supposta inferiorità: la lingua madre di diverse importanti personalità del passato, come l'esploratore Marco Polo o lo scrittore Carlo Goldoni, non era certo l'italiano.
  La lingua piemontese, in particolare, è stata definita da illustri glottologi una lingua autonoma di «transizione», dal gallo-romanzo all'italo-romanzo, che ha caratteristiche tipologiche che lo differenziano fortemente dall'italiano. Il primo documento storico ritrovato in lingua piemontese risale al XII secolo ed è il «Sermon Subalpengh», un documento di carattere religioso che si scaglia contro episodi di corruzione nelle gerarchie della Chiesa cattolica. Studi come quello promosso dall'Unesco (Red Book of Endangered Languages) del professor Salminen, Ethnologue e lo studio promosso dall'Istituto linguistico scozzese dell'Isola di Sky Sabhal Mor Outaig, classificano il piemontese come una lingua vera e propria, separata dall'italiano. Sul piano culturale, il Piemonte e la sua lingua e cultura da anni partecipano regolarmente, attraverso associazioni culturali, al Festival interceltico di Loriant. La sua codificazione grammaticale risale ai primi del 1700; ancora oggi esiste una casa editrice in lingua piemontese. Si tratta di una lingua ricca di letteratura secolare che ha toccato tutti i generi, dai testi giuridici ai saggi di linguistica, dispone di una vasta produzione letteraria e pubblicistica (epica, lirica, narrativa, saggistica, diritto, prosa giornalistica, ricerca scientifica, teatro tragico e comico) e di una propria «koiné» diffusa sul territorio. La regione Piemonte ha riconosciuto l'importanza della propria lingua storica, con l'approvazione della legge regionale 10 aprile 1990, n. 26, recante tutela, valorizzazione e promozione della conoscenza dell'originale patrimonio linguistico del Piemonte, modificata successivamente dalla legge regionale 17 giugno 1997, n. 37, e da diversi ordini del giorno del consiglio regionale nella VI legislatura (n. 799 del 18 giugno 1998, n. 812 del 7 luglio 1998 e n. 1077 del 12 ottobre 1999). Anche a livello europeo il piemontese è stato riconosciuto tra le lingue minoritarie europee (non dialetti) nella raccomandazione n. 928 del 1981 e nella risoluzione del 16 ottobre 1981 dell'Assemblea del Consiglio d'Europa, nonché dall'UNESCO. Lo Stato italiano non ha ritenuto di valorizzare e di riconoscere il piemontese tra le lingue regionali e minoritarie legalmente riconosciute. Contro questa decisione, l'allora presidente della regione Enzo Ghigo e il consiglio regionale del Piemonte hanno protestato ufficialmente con il Governo. A livello regionale esiste ora una Consulta per la lingua piemontese, che riunisce oltre venti associazioni culturali che si occupano del recupero e della formazione dei quadri scolastici per il futuro insegnamento nelle scuole. Il mancato riconoscimento da parte dello Stato italiano impedisce, però, un'azione più incisiva da parte dei comuni e delle comunità anche in campo internazionale.
  La lingua emiliana e quella romagnola, parlate nella regione Emilia-Romagna, sono anch'esse classificate dallo Stato italiano come dialetti (semplici varietà) dell'italiano-toscano, quindi non suscettibili di riconoscimento come lingue distinte. Il citato studio promosso dall'UNESCO «Red Book for Endangered Languages» del professor Tapani Salminen riconosce l'emiliano come lingua gallo-romanza e non italo-romanza. Fra l'altro, secondo l'UNESCO, la lingua è parlata pure nello Stato di San Marino. Lo stesso riconoscimento viene da Ethnologue che parla dell'emiliano e del romagnolo come «structurally separated language from Italian» ovvero «lingua strutturalmente separata dall'italiano». Per il romagnolo, in particolare, un altro importante riconoscimento viene da Meic Stevens, che lo indica come idioma distinto dall'italiano e facente parte della sottofamiglia emiliano-romagnola. La regione Emilia-Romagna, nel 1994, ha emanato una legge che, pur denominando queste lingue «dialetti» (legge 7 novembre 1994, n. 45, recante tutela e valorizzazione dei dialetti dell'Emilia-Romagna), prevede anche la possibilità di finanziare iniziative scolastiche. Data la distinzione pseudo-linguistica operata dallo Stato italiano, però, il termine «dialetti», introdotto nel testo della legge regionale, impedisce un successivo passo in avanti verso un riconoscimento ufficiale. Una delle obiezioni che sono mosse contro il riconoscimento dell'emiliano è che esistono diverse varianti (dialetti) e non una lingua standard scritta. Coloro che muovono questa obiezione confondono la causa con l'effetto: tutte le lingue non standardizzate mancano, proprio, di una forma standard. Questa arriva, appunto, in seguito a un riconoscimento ufficiale che rende possibile e necessario lo sviluppo di una forma standard. Il sardo, per esempio, già riconosciuto da anni a livello europeo e in via di riconoscimento a livello ufficiale italiano, non ha ancora una forma scritta standardizzata e presenta invece molte varianti locali: esattamente come tutte le lingue che non hanno ancora subìto l'azione livellatrice e omologatrice di una politica linguistica centralizzata. È la stessa situazione dell'emiliano o di altre lingue regionali, ancora non riconosciute ufficialmente e relegate, dal punto di vista legislativo e psicologico, nel «ghetto di Stato» dei dialetti. Nella regione Emilia-Romagna in questi anni si è notato un rifiorire di iniziative musicali e anche culturali che hanno come tema le parlate di questa regione. Esistono anche gruppi musicali di giovani. Riguardo all'insegnamento scolastico, purtroppo non ancora diffuso, è da segnalare un positivo esperimento, fatto nell'anno scolastico 1979-80 dal direttore didattico Gastone Tamagnini presso la scuola media statale «M. Buonarotti» di Fabbrico, in provincia di Reggio Emilia. In quest'intervento sperimentale, agli alunni furono insegnate per due mesi la cultura e la lingua del posto. Esperimenti altrettanto positivi dell'utilizzo della lingua romagnola nelle scuole sono stati avviati nella scuola elementare «Martiri Fantini» di Cervia (Ravenna) dalle professoresse Claudia Benedetti e Fabiana Giunchi. A livello televisivo, trasmissioni quotidiane in lingua emiliana nelle varianti reggiana e bolognese sono trasmesse dalle due emittenti locali private Teletricolore (l’Almanacco di Auro Franzoni) e Sesta rete (Notiziari Bulgnais). Il dizionario tascabile di lingua bolognese-emiliana di Luigi Lepri e Daniele Vitali, pubblicato nel 1999 dalla casa editrice Vallardi, ha venduto in poche settimane diverse migliaia di copie e ora è pronta una seconda ristampa. Un successo che la dice lunga sull'interesse pubblico, sulla riscoperta e sulla valorizzazione, proiettata nel futuro, delle proprie radici.
  Il citato studio dell'UNESCO «Red Book of Endangered Languages» riconosce anche al lombardo lo status di lingua, appartenente al ceppo gallo-romanzo. Ed è il lombardo, e non l'italiano-toscano, che è parlato da oltre 300.000 persone nel Canton Ticino (Svizzera) e anche in alcune vallate del Trentino, confinanti con la Lombardia, secondo il medesimo studio dell'UNESCO e Ethnologue. In generale, tutte le parlate lombarde «sono molto differenti dall'italiano standard» e secondo Ethnologue «i parlanti possono essere senza problemi bilingui». Nel Canton Ticino, le amministrazioni locali del Cantone da tempo attuano una politica di valorizzazione della parlata lombarda che, purtroppo, non viene emulata dalla regione Lombardia. Sono numerose le trasmissioni sulle emittenti locali, soprattutto nella fascia montana e pedemontana, di musica popolare in lingua lombarda, di teatro e di intrattenimento in generale. Molti sono anche i festival di musica popolare, tra cui il più prestigioso è il capodanno celtico che si celebra nel fine settimana del Samonios al Castello sforzesco di Milano. Su internet sono presenti diverse iniziative di privati e di associazioni in favore del lombardo nelle sue varianti linguistiche.
  Il ligure, classificato come lingua gallo-romanza dal citato studio promosso dall'UNESCO «Red Book for Endangered Languages», da Ethnologue e dall'università Sabhal Mor Outaig, è parlato in una sua variante (il monegasco) anche nel Principato di Monaco e nei territori francesi confinanti con la Liguria. Le associazioni culturali e alcuni gruppi musicali hanno intrapreso numerose iniziative per il recupero di questa lingua, a cui manca oggi una forma standard scritta. Anche il ligure è considerato dallo Stato italiano un dialetto e non una lingua regionale, e in quanto tale viene discriminato.
  La Sicilia, che dal 1946 gode di un proprio statuto di autonomia, mai applicato fino in fondo dai politici siciliani che l'hanno governata sino ad oggi, è l'unica regione a statuto speciale che non si vede riconosciuta la propria lingua. Il ricordato studio promosso dall'UNESCO «Red Book for Endangered Languages», e molti altri studi affermano che il siciliano è una lingua distinta dall'italiano. Secondo Ethnologue, «il Siciliano è differente dall'Italiano standard in modo sufficiente per essere considerato una lingua separata (...) è inoltre una lingua ancora molto utilizzata e si può parlare di parlanti bilingui» in siciliano e in italiano standard. Se, a livello culturale, esiste ancora oggi una fiorente attività che ruota sul siciliano, a livello politico mancano ancora forti segni di rilancio della battaglia per la valorizzazione della lingua siciliana.
  Anche il napoletano e le lingue italo-meridionali, secondo l'UNESCO, sono da considerare lingue separate dall'italiano standard (toscano) e non dialetti di questo. L'attività di valorizzazione è portata avanti principalmente da associazioni culturali e da gruppi musicali e teatrali. Sono presenti anche siti internet in lingua napoletana. Anche la lingua napoletana e le altre parlate meridionali soffrono il fatto di essere state confinate dalla cultura ufficiale italiana nel «ghetto» dei dialetti. Come il veneto, anche il napoletano può, fra l'altro, vantare un'illustre tradizione letteraria.
  Questo è un seppur sommario e parziale quadro delle principali lingue regionali parlate oggi all'interno del territorio dello Stato italiano. Le politiche di riconoscimento e di valorizzazione linguistica devono essere decise e governate dalle regioni e dagli altri enti locali, espressione delle comunità locali, e non dagli Stati centrali, a maggior ragione se centralisti come quello italiano. Solo così le minoranze potranno uscire dal ghetto minoritario per diventare realmente comunità attive e riconosciute con gli stessi diritti delle maggioranze di Stato. Un ambito ben più ampio di quello riconosciuto dalla citata legge 15 dicembre 1999, n. 482, che costituisce un importante passo in avanti, ma non è sufficiente a soddisfare le attese di chi crede fino in fondo nel rispetto di tutte le identità, le culture e le lingue. Per ovviare alle discriminazioni di Stato ed evitare che siano le maggioranze parlamentari di stampo statalista e centralista a decidere quali siano le lingue da valorizzare e quali invece quelle da ghettizzare etichettandole come dialetto, la presente proposta di legge reca una modifica all'articolo 2 della legge n. 482 del 1999, affinché la disciplina recata dalla stessa legge possa trovare applicazione anche per tutte le lingue riconosciute storiche con delibera dei rispettivi consigli regionali.

PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

  1. All'articolo 2 della legge 15 dicembre 1999, n. 482, è aggiunto, in fine, il seguente comma:

   «1-bis. Le disposizioni della presente legge si applicano altresì alle lingue che, con delibera dei consigli regionali, sono riconosciute come lingue storiche regionali».

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