TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 257 di Martedì 12 novembre 2019

 
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INTERROGAZIONI

A)

   SILVESTRONI. — Al Ministro dello sviluppo economico, al Ministro della salute, al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:

   lo studio del For Free Choice Institute – pubblicato in data 21 marzo 2019 – sostiene che il claim «senza olio di palma» è ingannevole per il consumatore;

   lo studio compara 96 prodotti alimentari in commercio in Italia tra quelli consumati dalle fasce più giovani della popolazione;

   le conclusioni della ricerca sopra indicata evidenziano che, laddove l'olio di palma è stato sostituito con altri ingredienti, non si è riscontrato alcun miglioramento significativo del profilo nutrizionale dei prodotti in termini di grassi saturi. In diversi casi, infatti, i prodotti con olio di palma contengono meno grassi, sia in totale sia saturi;

   lo studio sostiene, inoltre, di aver dimostrato che i prodotti che contengono olio di palma certificato come più sostenibili dei prodotti che usano altri grassi vegetali;

   il Ministero della salute ha pubblicato il 25 febbraio 2016 un parere dell'Istituto superiore di sanità sull'olio di palma che afferma testualmente «la letteratura scientifica non riporta l'esistenza di componenti specifiche dell'olio di palma capaci di determinare effetti negativi sulla salute» e inoltre: «non ci sono evidenziate dirette nella letteratura scientifica che l'olio di palma, come fonte di acidi grassi saturi, abbia un effetto diverso sul rischio cardiovascolare rispetto agli altri grassi con simile composizione percentuale di grassi saturi mono/poli-insaturi, quali, ad esempio il burro»;

   inoltre, non risulta che nessuna autorità o ente o organizzazione (mondiale, europea o nazionale) ha mai adottato alcun provvedimento per eliminare l'olio di palma dai prodotti alimentari, affermando che questo ingrediente sia dannoso per la salute; né ne ha mai limitato l'uso neppur in via precauzionale ai sensi delle norme sulla sicurezza alimentare (regolamento (CE) n. 178/02);

   la mancanza di informazioni connessa all'uso di questa tipologia di etichettatura potrebbe così risultare ingannevole; si potrebbe presupporre un miglioramento sotto il profilo nutrizionale dei prodotti che hanno rimosso un ingrediente, inducendo in errore il consumatore; inoltre, potrebbero essere fornite informazioni ambigue e confuse, tra l'altro non basate su dati scientifici pertinenti e inconfutabili –:

   se il Governo sia a conoscenza dei fatti di cui in premessa e quali iniziative intenda adottare per garantire la tutela dei consumatori, evitando che vengano diffusi messaggi fuorvianti nelle etichettature degli alimenti che non trovano riscontri fattuali e scientifici, e se ritenga o meno di promuovere un'indagine compiuta e puntuale da parte della Commissione europea circa l'utilizzo delle etichette «senza olio di palma» per verificare l'eventuale contrasto con quanto previsto dall'articolo 36 del regolamento UE/1169/11.
(3-00962)

(17 settembre 2019)

B)

   DELMASTRO DELLE VEDOVE e LOLLOBRIGIDA. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:

   il 6 ottobre 2018, il profilo Facebook del comune di San Vito Chietino ha pubblicato un post nel quale si annunciava la partecipazione dell'assessore Andrea Catenaro alla manifestazione di solidarietà al sindaco di Riace, Mimmo Lucano, indetta dalla galassia della sinistra antagonista e globalista;

   Domenico Lucano (detto Mimmo) è stato arrestato il 2 ottobre 2018, nell'ambito di un'inchiesta avviata dalla procura di Locri diciotto mesi fa, con l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e affidamento fraudolento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti a due cooperative della zona;

   dalle foto si può notare che l'assessore Catenaro indossa la fascia tricolore, peraltro al contrario, disonorando la bandiera nazione. Come dispone l'articolo 12 della Costituzione, che ogni cittadino dovrebbe conoscere e – a maggior ragione – un rappresentante delle istituzioni, «La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni»;

   l'uso della fascia tricolore è disciplinato dal testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, una legge della Repubblica che ogni amministratore locale che si può definire «adeguato» al suo ruolo dovrebbe conoscere alla perfezione (articolo 50, comma 12, e articolo 53, comma 3);

   tale normativa è integrata dalla circolare del Ministero dell'interno n. 5 del 1998, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 270 del 18 novembre 1998 con la quale si forniscono indicazioni in ordine al corretto utilizzo della fascia tricolore da parte del sindaco;

   nella sopra menzionata circolare si fa riferimento alla consuetudine che il sindaco indossi la fascia, in tutte le occasioni ufficiali, in qualunque veste intervenga. Per il significato del tricolore statuito dall'articolo 12 della Carta costituzionale, essa richiama tangibilmente il principio costituzionale dell'unità ed indivisibilità della Repubblica; la circolare impone un uso corretto e conveniente della fascia tricolore nell'avvertita consapevolezza della dignità e del decoro della carica;

   politicamente, sarebbe opportuno rilevare come un sindaco rappresenti la comunità locale nella sua interezza, non solo nella parte che lo ha eletto;

   va tenuto presente che l'articolo 54 della Carta costituzionale, nell'imporre a tutti i cittadini il dovere di fedeltà alla Repubblica, statuisce, per gli amministratori, l'ulteriore dovere di adempiere con disciplina ed onore le funzioni pubbliche ad essi affidate;

   a quanto risulta agli interroganti, la manifestazione di solidarietà all'indagato Lucano non ha goduto dell'aurea di ufficialità istituzionale necessaria per consentire l'esibizione della fascia tricolore;

   l'assessore appartiene ad una lista civica espressione di un centro sociale e, come solitamente avviene in quegli ambienti, probabilmente l'assessore Catenaro si ritiene al di sopra della legge –:

   se risulti al Governo che vi fossero i presupposti per indossare la fascia tricolore nel caso di cui in premessa;

   di quali elementi disponga il Ministro interrogato in merito a quanto esposto in premessa e se intenda adottare le iniziative di competenza, anche tramite una circolare rivolta a tutte le amministrazioni comunali, per chiarire le circostanze per l'utilizzo della fascia tricolore, in modo tale da evitarne un utilizzo improprio;

   se intenda assumere iniziative volte ad apportare modifiche e integrazioni al testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, al fine di evitare arbitri e incertezze circa l'utilizzo della fascia tricolore.
(3-00279)

(30 ottobre 2018)

C)

   GIACCONE. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:

   il 5 settembre 2019 un detenuto sottoposto al regime di «alta sicurezza» ha aggredito violentemente un poliziotto penitenziario presso la casa di reclusione di Asti;

   già con l'atto di sindacato ispettivo n. 4-01743 l'interrogante denunciava la grave situazione in cui operano gli agenti di polizia penitenziaria nel carcere di Asti, da alcuni anni classificato come casa di reclusione ad alta sicurezza, con una popolazione carceraria formata prevalentemente da detenuti «con fine pena mai o gravati da condanne per lunghi anni di detenzione»;

   di fatto la struttura è stata trasformata da struttura puramente detentiva a istituto di massima sicurezza senza una contemporanea e contestuale implementazione nell'organico del personale, che configura una pianta organica deficitaria di figure chiave, come ispettori e sovrintendenti di polizia penitenziaria;

   ne consegue che gli agenti di sicurezza sono oggetto di ripetuti episodi di aggressioni da parte dei detenuti, più volte denunciati a mezzo stampa anche dai sindacati di rappresentanza, con grave pericolo per la propria incolumità, oltre che per l'ordine e la sicurezza pubblica –:

   se e quali iniziative urgenti il Ministro interrogato intenda adottare con riguardo a quanto esposto in premessa e, in particolare, se non ritenga di promuovere urgentemente una visita ispettiva da parte del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria per verificare l'effettiva situazione di grave disagio e pericolo, oltre che di sottorganico, da tempo denunciata a tutti i livelli.
(3-00955)

(9 settembre 2019)

   GIACCONE. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:

   il penitenziario di Asti è divenuto da alcuni anni casa di reclusione ad alta sicurezza, con una popolazione carceraria formata prevalentemente da detenuti «con fine pena mai o gravati da condanne per lunghi anni di detenzione», senza che contemporaneamente ci siano stati adeguati miglioramenti e implementazioni nell'organico nel personale;

   il 15 novembre 2018 nel carcere un agente penitenziario è stato brutalmente e violentemente aggredito, con calci e pugni in testa e allo stomaco, da un detenuto di 34 anni con fine pena nel 2022;

   l'agente, prontamente soccorso dai colleghi, ha dovuto ricorrere alle cure del pronto soccorso di Asti ed è stato ricoverato in ospedale;

   si tratta purtroppo solo dell'ennesimo episodio in cui gli agenti della polizia penitenziaria nel carcere di Asti subiscono in prima persona aggressioni da parte dei detenuti;

   inoltre, sempre nel mese di novembre 2018 nel medesimo carcere, pochi giorni prima dell'aggressione all'agente, si è registrata una protesta di 40 detenuti, convinti dopo 4 ore di trattativa a rientrare nelle celle dal commissario e comandante Alessia Chiosso;

   da diverso tempo i sindacati di categoria protestano chiedendo maggiore sicurezza per gli agenti di polizia penitenziaria, da un lato attraverso l'adeguamento dell'organico presente presso la casa di reclusione di Asti, attualmente non consono a garantire il normale grado di sicurezza degli agenti stessi, e, dall'altro lato, mediante l'applicazione, con decisione, delle misure necessarie per contrastare e reprimere fenomeni di aggressione similari a quelli esposti;

   la pianta organica della casa di reclusione, carente a tutti i livelli, è particolarmente deficitaria di figure chiave come ispettori e sovrintendenti di polizia penitenziaria –:

   se e in che termini il Ministro interrogato intenda intervenire con riguardo alla protesta di cui in premessa e a sostegno del personale della casa di reclusione di Asti, al fine di aumentare la sicurezza degli agenti nel penitenziario, nonché per incrementare l'organico presso la medesima struttura.
(3-01100)

(11 novembre 2019)
(ex 4-01743 del 28 novembre 2018)

D)

   PALMISANO, PERANTONI e ASCARI. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:

   di recente alcune notizie di cronaca (www.corrieredellacalabria.it dell'8 giugno 2019) hanno riportato all'attenzione dell'opinione pubblica una vicenda che, all'epoca dei fatti, ha destato sgomento per le modalità, di stampo mafioso, con cui fu ucciso, il 9 aprile 2018 a Limbadi, in provincia di Vibo Valentia, un biologo (incensurato), Matteo Vinci, dilaniato da un'autobomba comandata a distanza, mentre si trovava a bordo della propria auto insieme al padre Francesco, che rimase gravemente ustionato;

   la direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, in data 26 giugno 2018, ha tratto in arresto i cinque presunti autori della strage, appartenenti al clan Mancuso;

   il 16 maggio 2019 la procura della Repubblica competente ha depositato la richiesta di rinvio a giudizio al giudice dell'udienza preliminare che, nella stessa data, ha emesso il decreto di fissazione dell'udienza preliminare per il 7 giugno 2019;

   la notifica alle parti doveva compiersi, ai sensi di legge, entro il 28 maggio 2019, ovvero almeno dieci giorni prima dell'udienza;

   consta all'interrogante che, al contrario, la notifica ad uno degli imputati, L.D.G., detenuta agli arresti domiciliari, è stata fatta il 4 giugno 2019 e che il giudice dell'udienza preliminare ha disposto il rinvio dell'udienza al 21 giugno 2019;

   in una lettera indirizzata al Ministro della giustizia, in data 31 luglio 2018, il legale della famiglia Vinci, avvocato Giuseppe De Pace, denunciava la grave situazione derivante dal difetto di notifica a uno degli imputati, sottolineando la fase di profonda prostrazione dei genitori di Matteo Vinci, già duramente provati dalla perdita del figlio e allarmati dai possibili esiti del processo e delle sorti dei presunti autori della strage;

   nella stessa lettera l'avvocato De Pace chiedeva le motivazioni alla base del difetto di notifica e quelle riguardanti la mancata partecipazione al processo in videoconferenza di uno degli imputati, su disposizione del medico del carcere in cui lo stesso era detenuto –:

   se il Ministro interrogato intenda valutare se sussistono i presupposti per assumere iniziative ispettive presso gli uffici giudiziari di cui in premessa.
(3-01099)

(11 novembre 2019)
(ex 5-02384 del 27 giugno 2019)

E)

   BUSINAROLO e PERANTONI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:

   il 24 luglio 2018 è stato pubblicato il primo regolamento attuativo del decreto legislativo n. 61 del 13 aprile 2017 (recante «Revisione dei percorsi dell'istruzione professionale nel rispetto dell'articolo 117 della Costituzione, nonché raccordo con il percorso dell'istruzione e formazione professionale, a norma dell'articolo 1, commi 180 e 181, lettera d), della legge 13 luglio 2015, n. 107»), ovvero il decreto interministeriale 24 maggio 2018, n. 92;

   se il riordino degli istituti professionali è pensato, oltre che per combattere la dispersione e l'abbandono scolastico, anche nell'ottica di facilitare l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, attraverso competenze che li mettano sullo stesso piano dei colleghi europei, l'Italia, in controtendenza, sta procedendo verso un indebolimento della formazione linguistica, con l'eliminazione della seconda lingua straniera dal biennio di tali istituti;

   se è vero che tra i principi dell'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 61 del 2017 si dichiara che le istituzioni scolastiche professionali sono «concepite come laboratori di ricerca, sperimentazione ed innovazione didattica», è altrettanto vero che l'acquisizione di competenze innovative non può prescindere dalla conoscenza di almeno due lingue straniere, per garantire agli studenti italiani di essere competitivi con quelli europei;

   occorre evidenziare, altresì, che per rafforzare le competenze degli studenti e migliorarne le prospettive di inserimento lavorativo, come previsto dal comma 3 dell'articolo 1 del decreto legislativo n. 61 del 2017, non si può prescindere dalle esigenze del territorio. Molte infatti sono le aziende made in Italy che collaborano con Paesi europei, come Germania e Francia, per cui l'utilizzo di lingue, come il francese e il tedesco, per una comunicazione che avvenga in una piattaforma di scambi alla pari, si rende assolutamente necessario;

   analoga situazione si verifica anche per altri settori lavorativi, tra cui quelli della gastronomia, della moda e del turismo, per i quali la conoscenza delle lingue straniere rappresenta un valore aggiunto importantissimo;

   a seguito della sopra citata riforma la seconda lingua comunitaria è di fatto scomparsa dai quadri orari del primo biennio, mentre ricompare nel triennio di alcuni indirizzi, ancora troppo pochi rispetto alla concezione di formazione completa, professionalizzante e competitiva dei giovani studenti;

   nell'ottica di una ridefinizione della normativa in materia, si ritiene opportuno un intervento urgente diretto a:

    a) prevedere il ripristino della terza ora alle scuole secondarie di primo grado, cancellata dalla cosiddetta «riforma Gelmini» a favore di un'ora di approfondimento della lingua italiana, nonché rendere obbligatoria la seconda lingua straniera anche alle scuole secondarie di secondo grado per garantire la continuità didattica in linea con quanto previsto dalla Carta europea di Lisbona 2005 a cui l'Italia ha aderito e che mira ad incentivare il plurilinguismo;

    b) eliminare dalle scuole secondarie di primo grado l'insegnamento dell'inglese potenziato, che potrebbe essere proposto come extracurriculare attraverso Pon –:

   se, alla luce di quanto descritto in premessa, il Ministro interrogato non ritenga opportuno assumere ogni iniziativa di competenza, anche di carattere normativo, diretta a reintrodurre l'insegnamento delle lingue secondarie comunitarie nell'ambito del nuovo assetto degli istituti professionali, come naturale processo di acquisizione per raggiungere gli obiettivi fissati dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, nonché a prevedere la reintroduzione della terza ora nelle scuole secondarie di primo grado, ad eliminare l'insegnamento dell'inglese potenziato nelle stesse e a rendere obbligatoria la seconda lingua straniera anche nelle scuole secondarie di secondo grado al fine di garantire la continuità didattica.
(3-01101)

(11 novembre 2019)
(ex 5-01455 del 13 febbraio 2019)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE DI COMPETENZA IN MATERIA DI AFFIDAMENTO DI MINORI, ANCHE ALLA LUCE DELLE VICENDE CHE HANNO COINVOLTO LA RETE DEI SERVIZI SOCIALI DELLA VAL D'ENZA

   La Camera,

   premesso che:

    le vicende giudiziarie che hanno coinvolto la rete dei servizi sociali della Val d'Enza hanno scosso l'opinione pubblica. Cittadini e associazioni sono scesi in campo a tutela dei diritti dei minori, dei più vulnerabili e delle famiglie. Hanno chiesto trasparenza e continuano ancora oggi a far sentire la propria voce per evitare che sul caso possa abbassarsi nuovamente il livello di attenzione;

    a dare avvio alle indagini è stata la procura di Reggio Emilia, insospettita dall'elevato numero di fascicoli su violenze, abusi sessuali e maltrattamenti in famiglia aperti su segnalazione dei servizi sociali dell'unione dei comuni della Val d'Enza;

    il quadro emerso dalle intercettazioni è agghiacciante. Quello che veniva presentato all'esterno come un modello istituzionale da emulare altro non sarebbe stato che una forma di business, con un giro d'affari da centinaia di migliaia di euro, finalizzato ad allontanare i minori dal proprio nucleo familiare per collocarli in affido retribuito;

    a quanto consta ai firmatari del presente atto di indirizzo, i responsabili si sarebbero avvalsi della collaborazione di numerosi professionisti del settore, tra cui psicologi, assistenti e neuropsichiatri finiti sotto indagine;

    secondo gli inquirenti, gli affidamenti illeciti venivano supportati da documenti e relazioni peritali false, dichiarazioni inventate o manipolate, di modo che emergessero situazioni di abusi o violenze in famiglia in realtà mai verificatisi. L'obiettivo di tali manipolazioni sarebbe stato quello di dipingere il nucleo familiare originario come connivente con il presunto adulto abusante, creando così una rete di indizi che giustificasse l'allontanamento del minore dallo stesso, in difetto dei relativi presupposti;

    particolarmente grave appare anche la posizione dell'amministrazione locale che, a quanto consta, avrebbe affidato direttamente il servizio di psicoterapia alla onlus torinese. Secondo fonti stampa, infatti, gli psicoterapeuti scelti senza gara dai servizi sociali del comune di Bibbiano sarebbero stati retribuiti a spese dell'amministrazione con tariffe superiori al doppio rispetto al normale (135 euro l'ora contro una media nazionale di 70 euro) per l'espletamento di prestazioni professionali che avrebbero potuto essere svolte gratuitamente anche da parte del servizio sanitario nazionale;

    il 27 giugno 2019, sulla base di questi ed altri rilievi, il giudice per le indagini preliminari ha disposto decine di misure cautelari che hanno coinvolto a vario titolo medici, politici, assistenti sociali e psicoterapeuti interessati dalla vicenda. Tra i reati contestati vi sono: abuso d'ufficio, maltrattamento su minori, frode processuale, peculato d'uso, ma anche violenza privata e lesioni gravissime, a fronte dei traumi subiti dai bambini durante l'affido, con compromissione inevitabile del loro percorso di crescita;

    l'inchiesta in questione, denominata «Angeli e demoni», ha acceso i riflettori sulla vulnerabilità dei servizi locali che dovrebbero vigilare sulla regolarità del sistema affido dei minori;

    numerose criticità, invero, erano già emerse nel documento approvato dalla Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza nella seduta del 17 gennaio 2018, a conclusione dell'indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia, con particolare riferimento all'eccessiva durata degli affidamenti, all'inconsistenza delle motivazioni a sostegno dei provvedimenti e, ancora, all'insufficienza dei controlli effettuati sulle strutture che svolgono attività di accoglienza;

    i parlamentari del Gruppo Lega–Salvini Premier hanno immediatamente evidenziato la necessità di avviare una profonda verifica del sistema degli affidi, nell'interesse delle famiglie e della stragrande maggioranza dei professionisti che operano seriamente in questo settore, salvaguardando migliaia di bambini da violenze e abusi;

    in tale prospettiva, è in dirittura di arrivo finalmente l'iniziativa legislativa promossa dalla Lega–Salvini Premier sull'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività connesse alle comunità di tipo familiare che accolgono minori, nonché sull'introduzione di una serie di correttivi finalizzati a prevenire situazioni di potenziale conflitto di interesse tra i giudici onorari minorili e coloro che rivestono cariche rappresentative in strutture di accoglienza;

    nella medesima prospettiva, in seguito all'inchiesta «Angeli e demoni», è stato sottoscritto un protocollo d'intesa tra il Ministero dell'interno e quello per le disabilità e la famiglia, per rafforzare la cooperazione istituzionale tra i soggetti preposti alla tutela dei diritti dei minori. L'intesa ha gettato le basi per l'attuazione di un meccanismo di condivisione delle segnalazioni sui provvedimenti di allontanamento dei minori che veda attori protagonisti il dipartimento per le politiche della famiglia e il dipartimento della pubblica sicurezza. Si è, inoltre, convenuto di promuovere politiche di sensibilizzazione dell'opinione pubblica e di istituire un tavolo tecnico con il compito di definire un'apposita strategia per il conseguimento degli obiettivi prefissati;

    con specifico riguardo alla vicenda Bibbiano, inoltre, l'allora Ministro per le disabilità e la famiglia ha sollecitato più volte un incontro con il presidente della regione Emilia-Romagna, al medesimo fine di rafforzare la cooperazione istituzionale. Quest'ultimo, tuttavia, ha declinato l'invito, sottraendosi per ragioni apparentemente politiche ad un importante confronto istituzionale che avrebbe potuto contribuire a fare ulteriormente chiarezza sulla vicenda;

    sono le famiglie le vere vittime della vicenda Bibbiano. Genitori, ragazzi e bambini che, in maniera paradossale, hanno subito un trauma gravissimo da parte di quelle strutture di protezione che avrebbero dovuto tutelare il loro benessere;

    nel programma del nuovo Governo, i temi relativi alle case famiglia, alle strutture di accoglienza e alla vulnerabilità del sistema degli affidi non risultano espressamente menzionati;

    tali questioni non possono essere relegate in secondo piano per ragioni di stampo meramente politico. È indispensabile restituire ad esse la giusta centralità nel rispetto di tutte le famiglie che invocano trasparenza e che hanno inviato negli ultimi mesi centinaia di segnalazioni con riguardo al tema in esame;

    il diritto del minore a crescere ed essere educato nella propria famiglia è riconosciuto espressamente dalla legge 4 maggio 1983, n. 184, novellata dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, e ribadito in numerosi atti di impegno, anche a livello internazionale, tra cui la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva dall'Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176,

impegna il Governo:

1) ad adottare iniziative per garantire il rafforzamento della cooperazione tra i soggetti istituzionali preposti alla tutela dei diritti dei minori e delle famiglie, in continuità con gli obiettivi stabiliti nel protocollo di intesa siglato, durante il mandato del precedente Governo, tra il Ministro dell'interno e il Ministro per le disabilità e la famiglia;

2) in ogni caso, ad adottare iniziative, anche normative, per verificare che i provvedimenti di allontanamento del minore siano disposti nel rispetto delle raccomandazioni e dei principi fondamentali in materia e, dunque, in via residuale, per un tempo limitato e, comunque, per ragioni non connesse esclusivamente alle condizioni di indigenza dei genitori, garantendo – laddove possibile – la continuità delle relazioni con la famiglia di origine e il futuro rientro del minore nella stessa;

3) ad adottare iniziative per monitorare le condizioni dei minori affidati e intensificare il sistema dei controlli sulle strutture che esercitano attività di accoglienza, ponendo particolare attenzione al rispetto degli standard minimi, al possesso dei requisiti strutturali e organizzativi, nonché al corretto utilizzo delle risorse, valutando altresì la congruità dei costi in relazione alle prestazioni erogate;

4) a promuovere la creazione di un database nazionale che raccolga dati in merito ai provvedimenti di allontanamento dei minori, alla loro durata, al numero e alle caratteristiche dei minorenni fuori famiglia, agli affidatari e alle strutture che esercitano attività di accoglienza;

5) ad adottare iniziative per prevedere, anche alla luce dei dati raccolti e delle raccomandazioni dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza, una modifica del quadro normativo penale, civile e amministrativo di riferimento, che vada nella direzione di rafforzare la tutela dei minori e delle famiglie, assicurare il contraddittorio e il diritto di difesa nell'ambito dei procedimenti che li vedono coinvolti, garantire il rispetto dei principi di trasparenza e rotazione degli incarichi, eliminare in radice ogni ipotesi di conflitto di interesse – con particolare riguardo al regime delle incompatibilità dei giudici onorari minorili – e inasprire le pene per i reati che hanno come soggetti lesi i minori;

6) a promuovere la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni per gli interventi relativi ai minorenni, alle famiglie di origine, agli affidatari e alle strutture di accoglienza, in modo da garantire l'esigibilità e l'uniformità di tali prestazioni sul territorio nazionale;

7) ad adottare iniziative per garantire la gestione e la presa in carico delle segnalazioni inviate dai cittadini in merito ai provvedimenti di allontanamento dei minori dal proprio nucleo familiare d'origine;

8) ad adottare le iniziative di competenza, in specie normative, per assicurare che, a livello locale, l'affidamento dei servizi rivolti ai minori e, tra questi, quelli di psicoterapia non avvenga in via diretta e senza gara, come pare sia accaduto nell'ambito della vicenda che vede coinvolti i comuni della Val d'Enza, e che la loro eventuale esternalizzazione sia ben motivata e passi, di norma, attraverso una procedura di evidenza pubblica, indetta nel rispetto dei principi di pubblicità e trasparenza;

9) a promuovere campagne di sensibilizzazione dell'opinione pubblica sul tema dei diritti dell'infanzia, sullo strumento dell'affidamento e sui valori ad esso sottesi.
(1-00267) «Locatelli, Molinari, Cavandoli, Cestari, Golinelli, Murelli, Piastra, Tomasi, Tombolato, Vinci, Morrone, Raffaelli, Tonelli, Panizzut, Boldi, De Martini, Foscolo, Lazzarini, Sutto, Tiramani, Ziello».

(18 ottobre 2019)

   La Camera,

   premesso che:

    è dei giorni scorsi la notizia sui media nazionali di un'inchiesta avviata nel 2018 dalla procura della Repubblica di Reggio Emilia denominata «Angeli e demoni», volta a indagare il funzionamento dei servizi sociali della Val D'Enza;

    in base alle notizie diffuse dalla stampa, le accuse mosse a carico dei responsabili dei servizi anzidetti sarebbero relative a falsificazione di atti e relazioni relative alla condizione di minorenni all'interno delle loro famiglie di origine, allo scopo di allontanare i bambini stessi dalle proprie famiglie e affidarli ad amici e conoscenti per la corresponsione del contributo mensile alle famiglie affidatarie;

    le indagini preliminari sarebbero state avviate dal pubblico ministero di Reggio Emilia, dottoressa Valentina Salvi, per i sospetti derivanti dalla quantità di denunce presentate dai servizi sociali della zona contro genitori accusati di essere violenti;

    dall'inchiesta sono emersi specifici nomi e cognomi per un totale di ventisette indagati e la notizia raccapricciante di arresti domiciliari a carico di esponenti e dipendenti della pubblica amministrazione locale;

    tra i reati contestati vi sono: frode processuale, depistaggio, abuso d'ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione e peculato d'uso;

    dall'inchiesta «Angeli e demoni» sta emergendo un quadro complessivo drammatico che – se confermato – è assolutamente preoccupante, soprattutto se si considera che dietro tale sistema si celerebbe un business illecito di diverse centinaia di migliaia di euro, oltre al fatto che i bambini sono stati vittima di maltrattamenti e abusi, anche sessuali, e che la scelta degli adulti affidatari sarebbe stata orientata a «preferire» l'affidamento dei bambini a persone e coppie omosessuali, considerati i «collegamenti stretti», rilevati dalla procura, tra le affidatarie (omosessuali) e le operatrici e dirigenti del servizio sociale;

    tutte le norme giuridiche, tanto nazionali che internazionali, sulla protezione dell'infanzia stabiliscono che il diritto primario di ogni minorenne è quello di vivere all'interno della propria famiglia di origine e l'affidamento familiare è contemplato come misura temporanea di supporto alle famiglie, nell'ottica della prevenzione dell'abbandono e non come soluzione da applicare in casi di acclamata inidoneità delle famiglie;

    la lacunosità dei dati relativi all'attuazione dell'istituto dell'affido rende difficoltoso avere un'esatta conoscenza dell'ampiezza del fenomeno ad oggi, stante che anche la «Relazione sullo stato di attuazione della legge recante modifiche alla disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori», presentata ogni tre anni al Parlamento dai Ministri della giustizia e del lavoro e delle politiche sociali, e trasmessa da ultimo nel gennaio 2018, contiene dati aggiornati solo al biennio 2014-2015;

    basandosi su questi dati, certamente non attuali come quelli forniti dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali con riferimento all'anno 2014, si evince che il numero degli affidamenti disposti in Italia è perlopiù stabile intorno alle 26 mila unità, poco più di 14 mila dei quali sono affidamenti familiari;

    va gravemente sottolineato che oltre il 60 per cento di questi bambini si trova in affido da oltre due anni, anche qui un dato sostanzialmente stabile dalla fine degli anni ’90;

    la legge 4 maggio 1983, n. 184, «Diritto del minore ad una famiglia», prevede esplicitamente che laddove le famiglie non siano concordi nell'applicazione della misura dell'affidamento questo può essere disposto con provvedimento del tribunale per i minorenni del quale, tuttavia, va monitorata la durata;

    l'affidamento dei minori in difficoltà familiare troppo spesso rappresenta una soluzione non temporanea, come invece dovrebbe essere, con la conseguenza che non si raggiunge mai – per «quel» bambino – la situazione di stabilità familiare fondamentale per il suo sviluppo;

    il termine di ragionevole durata dell'affidamento, già oggi previsto per legge in ventiquattro mesi prorogabili, dovrebbe essere prorogato solo in base a precise motivazioni, laddove corrisponda ad un progetto determinato nell'interesse dello specifico minore per cui è richiesto e, comunque, per un tempo massimo di ulteriori dodici mesi;

    utilizzare l'affidamento e l'allontanamento dalla famiglia d'origine come misura a tempo indeterminato snatura l'istituto e lo trasforma in una misura definitiva idonea ad aggiungere abbandono all'abbandono;

    l'applicazione errata dell'affidamento familiare è evidente concausa delle distorsioni cui si assiste anche in casi come quello di cronaca sopra riferito, anche perché la verifica delle relazioni periodiche dei servizi che si occupano di monitorare gli affidamenti è demandata interamente agli uffici del pubblico ministero presso i tribunali per i minorenni che, evidentemente, non hanno sufficienti risorse per garantire i diritti dei minorenni coinvolti;

    l'attuale sistema di affido dei minori presenta evidenti criticità e lacune, soprattutto se si considerano l'eccessiva discrezionalità attribuita ai servizi sociali, la sussistenza frequente di situazioni di «conflitto di interessi» in capo a molti operatori del settore e la mancanza di adeguati ed efficienti strumenti di controllo sull'affidabilità dei soggetti affidatari e sugli standard qualitativi e di servizio delle comunità ospitanti: tutti fattori che inevitabilmente compromettono l'obiettivo primario della tutela del benessere psico-fisico dei bambini,

impegna il Governo:

1) a raccogliere e rendere disponibile periodicamente, con cadenza annuale, secondo criteri uniformi sul territorio nazionale, attraverso un puntuale monitoraggio sia a livello nazionale che regionale, il numero dei minorenni fuori famiglia, includendovi qualsiasi minorenne destinatario di una misura di allontanamento dalla famiglia o anche da un solo genitore, avendo cura di monitorare la durata del collocamento in affidamento familiare e/o in comunità o altre strutture;

2) a promuovere la definizione e la disciplina giuridica dello stato dei minorenni fuori famiglia come nuova categoria di vittime sociali;

3) a promuovere la revisione della norma che istituisce il difensore del minore – attualmente previsto solo nei procedimenti di adottabilità – anticipando la sua nomina obbligatoria al momento precedente l'assunzione di ogni provvedimento ex articolo 330 e seguenti del codice civile, avendo cura che siano specificate con apposite linee guida ogni elemento necessario ai fini della nomina e del concreto funzionamento della figura dell'avvocato del minore, quale soggetto che accompagnerà il minorenne in tutto il percorso giudiziale che lo porterà al rientro nella famiglia naturale ovvero all'accoglienza in una nuova famiglia;

4) ad adottare iniziative per garantire che nel caso di famiglie indigenti sia assicurata l'applicazione della legge 4 maggio 1983, n. 184, nella parte in cui stabilisce che le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la responsabilità genitoriale non possono essere di ostacolo all'esercizio del diritto del minore alla propria famiglia e che a tal fine sono disposti interventi di sostegno e di aiuto a favore della famiglia, affinché in tali casi non si ricorra mai all'affido ma sia, invece, sempre assicurato il sostegno economico dei genitori naturali;

5) ad adottare iniziative volte a garantire che l'affidamento sia effettivamente temporaneo, con l'abolizione della prassi dell'affido disposto, di regola, a tempo indeterminato, garantendo che il termine di ragionevole durata dell'affidamento, già oggi previsto per legge in ventiquattro mesi prorogabili, sia prorogato solo in base a precise motivazioni, laddove corrisponda ad un progetto determinato nell'interesse dello specifico minore per cui è richiesto e, comunque, per un tempo massimo di ulteriori dodici mesi;

6) ad adottare iniziative per istituire una procedura formale e omogenea a livello nazionale che regoli la collaborazione tra il servizio pubblico e le organizzazioni del privato sociale delegate per la gestione dell'affido, formalizzandone l'autorizzazione e il riconoscimento e stabilendo le relative responsabilità, sul modello già adottato per le adozioni, mediante la previsione di associazioni accreditate e controllate;

7) ad assumere iniziative per garantire l'assenza di conflitto di interesse tra le diverse professionalità del servizio pubblico e del privato sociale coinvolte nei procedimenti di affido anche mediante l'individuazione di strumenti, sul piano normativo e ordinamentale, che escludano il conflitto stesso;

8) ad adottare iniziative per istituire la figura dell'operatore dell'accoglienza familiare temporanea, un professionista proveniente dal mondo sociale con competenze educative e con esperienza di lavoro nell'ambito del disagio minorile e familiare, che avrà il compito di lavorare, da un lato, direttamente con le famiglie di origine e, dall'altro, con quelle affidatarie o con le strutture di accoglienza, rappresentandole nelle sedi istituzionali e affiancandole nella gestione del quotidiano, nel rapporto con il minore e nei percorsi educativi che lo riguardano e che sarà anche un tutor del ragazzo che dopo anni si appresta a lasciare l'istituto o la comunità per l'avvio alla vita autonoma;

9) a promuovere l'istituzione di sezioni specializzate per la famiglia e per i minori in tutti i tribunali e le corti d'appello, favorendo la procedura d'urgenza, la semplificazione dei riti e la specializzazione del sistema;

10) a promuovere il riconoscimento a livello giuridico dell'interesse diffuso rappresentato dalle associazioni di tutela dei diritti dei minorenni fuori famiglia.
(1-00220) «Meloni, Bellucci, Lollobrigida, Acquaroli, Baldini, Bucalo, Butti, Caiata, Caretta, Ciaburro, Cirielli, Luca De Carlo, Deidda, Delmastro Delle Vedove, Donzelli, Ferro, Foti, Frassinetti, Gemmato, Lucaselli, Mantovani, Maschio, Mollicone, Montaruli, Osnato, Prisco, Rampelli, Rizzetto, Rotelli, Silvestroni, Trancassini, Varchi, Zucconi».

(8 luglio 2019)

   La Camera,

   premesso che:

    nel nostro Paese la legislazione vigente in materia di minori fuori famiglia ha subito nel corso degli anni una significativa evoluzione: si è passati, infatti, dall'accoglienza presso gli istituti di assistenza pubblici o privati per minori, i cosiddetti orfanotrofi, al collocamento presso comunità di tipo familiare, cosiddette case-famiglia, e all'affido come possibile fase transitoria verso l'adozione vera e propria;

    riguardo alla normativa italiana si ricorda principalmente la legge 4 maggio 1983, n. 184, una vera e propria legge quadro in materia di adozione, sensibilmente riformata e successivamente integrata fino alla legge n. 173 del 2015, in materia di continuità affettiva del minore in affidamento. Una normativa che delinea un ampio sistema di misure di tutela, ribadisce, in maniera netta, che il minore ha il primario diritto di crescere ed essere educato nell'ambito della propria famiglia e comunque come la sottrazione del minore dal proprio nucleo familiare sia da considerarsi come una soluzione limite. L'allontanamento di un figlio dalla famiglia di origine dovrebbe, infatti, sempre costituire l’extrema ratio, praticabile solo nei casi in cui tutte le misure di sostegno al suo nucleo familiare non abbiano dato gli esiti sperati;

    la Costituzione prevede l'obbligo della Repubblica di agevolare le famiglie, anche nell'assolvimento dei compiti genitoriali;

    la stessa la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (articolo 8), come interpretata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, impone agli Stati membri di non ingerirsi nell'ambito della vita privata di ciascuna famiglia e, nel contempo, di adottare misure atte a garantirne il rispetto effettivo, anche prevedendo idonee misure di supporto nell'ambito delle situazioni di criticità genitoriali;

    riguardo ai minori in affidamento familiare e nei servizi residenziali per minorenni, l'indagine del Ministero del lavoro e delle politiche sociali sugli affidamenti al 31 dicembre 2016 dice che i bambini e i ragazzi che vivono questa condizione, conseguente ad un decreto di allontanamento dal nucleo familiare di origine emesso dall'autorità giudiziaria, sono risultati a fine 2016 pari a 26.615 casi, di cui: 14.012 bambini e ragazzi di 0-17 anni in affidamento familiare a singoli, famiglie e parenti per almeno cinque notti alla settimana; 12.603 bambini e ragazzi di 0-17 anni collocati nei servizi residenziali per minorenni. Nell'affidamento familiare, i tassi sulla popolazione minorile di riferimento più elevati si riscontrano nelle aree del Centro e del Nord del Paese;

    con riferimento alla situazione delle accoglienze, la suddetta indagine evidenzia un quadro non del tutto rassicurante delle percentuali di redazione da parte del servizio sociale territoriale di uno specifico progetto. Nell'affidamento familiare, infatti, solamente il 60 per cento dei soggetti dimessi possiede un progetto redatto dal servizio sociale territoriale. Emergono una carenza delle attività dei servizi residenziali per minorenni ed evidenti lacune e fragilità del lavoro di rete tra i soggetti che contribuiscono alla presa in carico del minorenne;

    peraltro, la legislazione italiana prevede che le regioni definiscano gli standard minimi dei servizi e dell'assistenza che devono essere forniti dalle comunità di tipo familiare e dagli istituti e che siano tenute a verificare periodicamente il rispetto dei medesimi standard;

    sta di fatto che la stessa indagine conoscitiva dalla Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza della XVII legislatura, nel suo documento conclusivo del gennaio 2018, ha ricordato le forti differenze nelle regioni italiane rispetto agli standard minimi da rispettare e l'impossibilità di conoscere l'effettiva situazione rispetto al numero di strutture (comunità familiari) presenti sul territorio nazionale e conseguenti numerose segnalazioni di casi di strutture abusive nelle quali venivano perpetrati reati di vario tipo ai danni dei minorenni ospitati;

    un'ulteriore forte criticità sottolineata nella citata indagine conoscitiva è stata anche l'eccessiva rapidità nella valutazione circa la necessità dell'allontanamento. Peraltro, il decreto di allontanamento è sine die, nel senso che viene definito provvisorio, ma solo formalmente, perché di fatto, non avendo un tempo determinato di efficacia, può durare anni;

    per quanto attiene ad altre criticità emerse, è stato sottolineato come spesso le relazioni di segnalazione elaborate dagli assistenti sociali non siano sempre oggettive e quindi idonee a fornire all'organo giurisdizionale le informazioni necessarie per assumere una decisione corretta. Inoltre, nel corso del procedimento, per legge deve essere nominato un tutore provvisorio che rappresenti il minore, ma nella maggior parte dei casi è nominato a tutela del minore stesso il responsabile del servizio sociale che ha elaborato la relazione di allontanamento, con un evidente conflitto di interessi;

    è stato evidenziato come il giudizio di «adeguatezza genitoriale», essendo privo di qualsiasi fondamento scientifico ed essendo basato su opinioni o punti di vista, non dovrebbe essere utilizzato quale criterio fondamentale e decisivo teso a legittimare un provvedimento di allontanamento del minore. Da qui forse la necessità di una revisione di tale giudizio di valore largamente utilizzato dagli operatori sociali e dai giudici minorili per motivare gli allontanamenti;

    sarebbe, tra l'altro, necessario verificare, più in generale, le condizioni effettive dei soggetti affidati, anche attraverso un monitoraggio sulle modalità di affido dei minori nel nostro Paese, nonché verificare i rapporti tra istituti e comunità e i soggetti istituzionali competenti, servizi sociali, onlus e altri soggetti sociali che operano nel settore dell'assistenza dei minori, con riguardo ai criteri e alle modalità di assegnazione dei minori in affido;

    in questo contesto, si è tragicamente inserita, nei mesi scorsi, l'indagine giudiziaria che il 27 giugno 2019 ha portato a numerose misure cautelari e che ha fatto emergere uno scenario orribile sulla rete dei servizi sociali della Val d'Enza nel reggiano, accusati, tra l'altro, di redigere false relazioni per allontanare bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito presso amici o conoscenti;

    le misure cautelari hanno visto coinvolti politici, medici, assistenti sociali, liberi professionisti, psicologi e psicoterapeuti di una onlus di Torino, coinvolti in un presunto illecito business sull'affidamento di minori tolti alle famiglie per poi mantenerli in affido e sottoporli a un circuito di cure private a pagamento di una onlus piemontese;

    l'inchiesta, denominata «Angeli e demoni», sugli affidi illeciti di minori, che vede al centro la rete dei servizi sociali della Val D'Enza, accusati di aver redatto false relazioni per allontanare bambini dalle famiglie e collocarli in affido retribuito da amici e conoscenti, ha chiamato in causa anche figure apicali del territorio reggiano, come il direttore generale dell'Ausl di Reggio Emilia accusato di concorso in abuso d'ufficio, la dirigente dei servizi sociali della Val d'Enza e lo stesso sindaco di Bibbiano;

    le indagini hanno mostrato un giro d'affari da centinaia di migliaia di euro di cui beneficiavano alcuni degli indagati, mentre altri si avvantaggiavano a vario titolo dell'indotto derivante dalla gestione dei minori attraverso i finanziamenti regionali grazie ai quali venivano, inoltre, organizzati anche numerosi corsi di formazione e convegni ad appannaggio della predetta onlus. Tra i reati contestati ci sono frode processuale, depistaggio, abuso d'ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione, peculato d'uso;

    sono state raccolte intercettazioni durante le sedute di psicoterapia effettuate sui bambini e ragazzi, dopo che gli stessi erano stati allontanati dalle rispettive famiglie attraverso le più ingannevoli e disparate attività come: relazioni false, disegni dei bambini artefatti attraverso la mirata «aggiunta» di connotazioni sessuali, terapeuti travestiti da personaggi «cattivi» delle fiabe messi in scena ai minori in rappresentazione dei genitori intenti a fargli del male, falsi ricordi di abusi sessuali ingenerati con gli elettrodi di quella che veniva spacciata ai bambini come «macchinetta dei ricordi». Il tutto durante i lunghi anni nei quali i servizi sociali omettevano di consegnare ai bambini lettere e regali dati dai genitori naturali che i carabinieri hanno trovato e sequestrato in un magazzino dove erano accatastati;

    quello che è emerso in questi mesi è un business illecito basato sull'affidamento di minori tolti alle famiglie per poi mantenerli in affido e sottoporli a un circuito di cure private a pagamento di una onlus;

    secondo l'accusa, in un incontro fra il direttore generale dell'Ausl di Reggio Emilia, con altri quattro indagati avvenuto il 10 dicembre 2018 in violazione del codice degli appalti del 2016 e delle connesse linee guida dell'anticorruzione, si sarebbe data «illecita prosecuzione» al servizio di psicoterapia che aveva un importo superiore a 40 mila euro, procurando un ingiusto vantaggio al centro studi «Hansel e Gretel»;

    sempre secondo l'accusa detti soggetti si sarebbero accordati in due distinti documenti, uno del 21 dicembre 2018, che aveva come preventivo di spesa 57.200 euro nel 2019 e 23.070 nel 2020, e uno del 2-3 gennaio 2019, che aveva per oggetto le medesime prestazioni, «ma con un ulteriore escamotage di spacchettare ulteriormente l'importo complessivo del servizio di psicoterapia per un periodo di sei mesi per l'importo di 28.600 euro». Questo, secondo gli inquirenti, «abbassando fraudolentemente il valore del servizio al di sotto della soglia che avrebbe necessitato di una procedura ad evidenza pubblica»;

    peraltro, si evidenzia che si tratta della seconda indagine del 2019 che mette sotto i riflettori persone e procedure dell'amministrazione comunale di Reggio Emilia, dopo gli avvisi di garanzia emessi nel febbraio 2019, che riguardavano 18 dirigenti indagati relativamente a fatti che risalivano al 2013. Anche in quel caso i reati ipotizzati erano di falso ideologico e abuso d'ufficio circa presunte irregolarità nelle procedure di affidamento dei lavori o dei servizi afferenti alla nomina del direttore dell'azienda pubblica di servizi alla persona, nell'affidamento dei servizi legali ed assicurativi del comune e altro;

    mentre proseguono i lavori della Commissione d'inchiesta regionale costituita ad hoc, nelle settimane scorse sono venute alla luce alcune conseguenze dell'inchiesta. Una di queste è la crescente difficoltà, segnalata da più parti, nel reperire famiglie affidatarie e l'aumento, tra gli operatori, delle richieste di trasferimento o di cambi di mansione, con assistenti sociali che preferirebbero occuparsi di anziani, piuttosto che di minorenni;

    si segnalano, inoltre, le notizie riportate dall'agenzia «Dire» del 16 ottobre 2019, nelle quali si riporta che un consigliere comunale della Lega di Pianoro (Bologna) ha scoperto, nei faldoni trovati in una stanza messa a disposizione dei gruppi politici al Comune di Pianoro, anche informazioni su se stesso bambino, nonché centinaia di bambini «schedati» con informazioni sensibili su situazione familiare, disagi, osservazioni sulla loro psicologia e sul comportamento. Informazioni raccolte sui minori per anni e stipate in armadi senza chiave, potenzialmente accessibili a chiunque;

    come riportato dal sito reggioreport.it del 22 ottobre 2019, nei comuni della Val d'Enza, al centro dell'inchiesta «Angeli e demoni», tra il 2015 e il 2016 i bambini tolti alle famiglie e inseriti in struttura erano passati da 18 a 33: quasi il doppio rispetto all'anno precedente. E se nel 2015 nessun bambino era in affidamento, sempre in val d'Enza nel 2016 sono diventati di colpo 104,

impegna il Governo:

1) ad avviare tutte le iniziative normative utili a garantire realmente che la permanenza fuori famiglia rispetti i principi di appropriatezza e temporaneità, per il periodo strettamente necessario e attraverso programmi di sostegno, affinché la famiglia possa recuperare le proprie competenze di cura;

2) ad adottare le opportune iniziative normative volte ad escludere che, nel corso del procedimento di affido, il soggetto nominato come tutore provvisorio che rappresenta il minore possa essere il responsabile del servizio sociale che ha elaborato la relazione di allontanamento;

3) ad adottare iniziative per garantire, in tutte le fasi del procedimento di affido, il pieno diritto del minore e dei genitori ad essere ascoltati;

4) ad adottare iniziative volte a verificare i progetti di affidamento al fine di garantire costanti rapporti di informazione tra il giudice tutelare, il tribunale per i minorenni, gli operatori socio-sanitari delle aziende sanitarie locali e le regioni competenti;

5) ad adottare le iniziative di competenza al fine di garantire una maggiore e più efficace attività ispettiva e di vigilanza, con particolare riguardo ai servizi sociali coinvolti e alle strutture e comunità familiari dove sono collocati i minori;

6) ad adottare iniziative per verificare il pieno rispetto degli standard minimi che le strutture devono garantire e ad avviare le utili iniziative, anche con il pieno coinvolgimento degli enti territoriali, volte a contrastare i tanti casi di strutture abusive nelle quali vengono troppo spesso perpetrati reati di vario tipo ai danni dei minorenni ospitati;

7) ad avviare un monitoraggio e a predisporre un sistema integrato di raccolta dati, con la conseguente necessaria nomina di un responsabile nazionale, al fine di poter conoscere l'effettivo numero e la situazione delle strutture (comunità familiari) operanti sul territorio nazionale; ad adottare iniziative per consentire una maggiore conoscenza della realtà dei minori fuori famiglia in affido temporaneo, sia sotto l'aspetto quantitativo che qualitativo, conoscenza che deve riguardare sia lo stato dei minori durante l'affido che la rete dei servizi sociali preposti;

8) ad adottare iniziative per prevedere, sempre nell'ambito del citato sistema di raccolta dati nazionale e in collaborazione con le regioni, un censimento di tutte le figure preposte al rapporto con i minori che operano nelle Ausl e nella rete dei servizi sociali, anche prevedendo la pubblicazione dei curricula vitae aggiornati nel tempo;

9) a promuovere, per quanto di competenza, una verifica sulla situazione relativa agli organici che operano nella rete dei servizi sociali, al fine di evitare, in caso di carenza di personale, l'esternalizzazione del servizio.
(1-00281) «Fiorini, Gelmini, Spena, Marrocco, Versace, Calabria, Vietina».

(11 novembre 2019)

   La Camera,

   premesso che:

    varie sono le vicende giudiziarie e le inchieste nazionali sul funzionamento dei servizi sociali, soprattutto in ambito socio-familiare, legato agli affidi in strutture o a tutori dei minori;

    in base alle notizie riportate negli ultimi anni dalla stampa e dalla tv, l'opinione pubblica è venuta a conoscenza di varie inchieste giudiziarie delle procure;

    infatti, è stata avviata un'inchiesta nel 2018 dalla procura di Reggio Emilia denominata «Angeli e demoni» per verificare i sospetti generati da una grande quantità di denunce presentate dai servizi sociali nei riguardi di altrettanti genitori accusati di essere violenti. In base alle notizie diffuse dai media, le accuse nei riguardi dei responsabili dei servizi sarebbero di falsificazione degli atti e delle relazioni relative alle condizioni dei minori all'interno dei loro ambiti familiari, allo scopo di allontanare gli stessi dalle famiglie d'origine e affidarli ad amici e parenti in cambio di un contributo mensile a quelle, quindi, divenute famiglie affidatarie. I reati contestati a 27 indagati sono di frode processuale, depistaggio, abuso d'ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, tentata estorsione e peculato d'ufficio;

    Il Giornale di Sicilia del 3 gennaio 2019 riporta l'avvio di un'inchiesta dalla procura di Marsala sulla «gestione dei servizi sociali del comune». «L'indagine riguarderebbe la distribuzione degli incarichi agli assistenti sociali, gli appalti aggiudicati alle diverse cooperative in tutti i servizi, alla formazione e alle graduatorie degli assistenti ai “minori non accompagnati”. I riflettori sembrerebbero puntati sul doppio ruolo di funzionari della pubblica amministrazione e politici che hanno interesse per alcune cooperative. I reati che potrebbero essere contestati vanno dall'abuso d'ufficio alla concussione»;

    su Ravenna web del 27 ottobre 2019 è uscita la notizia che è stata avviata un'inchiesta dalla procura di Ravenna nell'ottobre 2019, definita da Il Corriere di Romagna «fratellini ribelli», dove la stessa procura ha aperto un fascicolo dopo l'esposto da parte di una coppia allontanata dai suoi tre figli, all'interno del quale si leggono frasi choc attribuite all'assistente sociale: «etnia maltrattante per cultura», bambini che «andrebbero resettati». Sulla base di quella denuncia contro assistenti sociali, dirigenti e comune di Ravenna (a cui fa capo il servizio), il sostituto procuratore Angela Scorza ha aperto un fascicolo ed ha attivato accertamenti sulle «condotte di chi opera nell'intero sistema»;

    da notizie stampa (Brindisi Report del 10 maggio 2019) si apprende che è stata avviata anche un'inchiesta dalla procura di Brindisi nel 2014 per «verificare la situazione socio-familiare dei minori ricoverati nelle strutture-case famiglia»;

    tante sono le denunce di genitori nei riguardi dei servizi sociali e delle consulenze tecniche d'ufficio, che vengono pubblicate dai media negli ultimi anni, dove si riportano valutazioni non rappresentative della realtà familiare nella quale vivono i minori e che portano ad allontanamenti dei figli da uno dei genitori o addirittura da entrambi, con conseguente trasferimento in strutture-case famiglia;

    non sono previste per legge le registrazioni, audio o video, degli incontri protetti tra genitori, minori e assistenti sociali, ma solo relazioni redatte dai medesimi assistenti sociali. Ciò determina la difficoltà di comprovare se quanto relazionato corrisponda a quanto accaduto durante gli incontri sopra citati;

    la normativa nazionale di riferimento in materia di diritto minorile, così come le convenzioni internazionali, stabiliscono che il diritto primario del minore è quello di vivere all'interno del suo nucleo familiare. L'affidamento a famiglie affidatarie e il collocamento in casa famiglia deve essere una misura temporanea e non sine die, di supporto alla famiglia per il reintegro del minore nella stessa, una volta superate le conflittualità;

    il termine di durata dell'affidamento, previsto per legge, è di massimo ventiquattro mesi, prorogabili con specifiche motivazioni e nell'interesse del minore, di ulteriori dodici mesi;

    nonostante i tempi previsti dalla legge, resta sostanzialmente stabile – seppure con una lieve diminuzione – la percentuale dei casi di minorenni presenti in comunità da più di 24 mesi, comunque sempre pari al 23 per cento, ai quali, quindi, viene tolta la possibilità di tornare alla propria famiglia d'origine ove possibile, snaturando così la funzione stessa dell'istituto dell'affido e ledendo il diritto del minore a vivere tutelato in un nucleo familiare;

    troppo spesso i decreti provvisori del tribunale minorile, ma anche le sentenze definitive, che decidono sul collocamento del minore in casa famiglia, sono basate esclusivamente sulle relazioni dei servizi sociali;

    nonostante numerosi articoli di stampa ed inchieste della magistratura, non sono facilmente reperibili i dati nazionali relativi alle indennità destinate ai tutori, ai rimborsi per le case famiglia e, quindi, a tutte le notevoli somme di danaro che riguardano tali situazioni. Solo nell'inchiesta «Angeli e demoni» si parla di centinaia di migliaia di euro;

    secondo stime recenti riportate dai media, i minori fuori dalle loro case d'origine sono quasi 30.000. Ogni minore ospitato in casa famiglia ha un costo che va dai 70 ai 120 euro. Nei casi di minori con gravi disabilità, così come emerge dal dossier di «Casa al plurale», patrocinato dall'assessorato alle politiche sociali, salute, casa ed emergenza abitativa di Roma capitale, la retta giornaliera arriva fino a 268,90 euro;

    il sistema legato agli affidi minorili, così come specificato nei vari punti sopra elencati, a parere dei firmatari del presente atto di indirizzo, evidenzia gravi carenze e criticità, ma anche pochissimi dati di monitoraggio sul numero esatto e sulle caratteristiche dei minori affidati, sulle tipologie del percorso di accoglienza, sui tempi e sulle modalità di uscita dallo stesso, sui dati degli affidatari, sull'eccessiva discrezionalità attribuita ai servizi sociali, sulla carenza di controlli, sulle frequenti situazioni di «conflitto d'interesse», sullo standard delle strutture e delle comunità ospitanti, sulle somme percepite dalle stesse per provvedere ai minori affidati, sulle indennità spettanti ai tutori che hanno solo un potere legale sul minore. Tutti questi fattori non permettono assolutamente di tutelare il benessere psico-fisico dei minori e delle famiglie,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative, per quanto di competenza, volte a monitorare periodicamente i flussi economici che coinvolgono il sistema locale degli affidi, mediante apposite commissioni a livello regionale composte da personale non appartenente alla stessa regione di indagine, che prestino particolare attenzione ad incrementi anomali nelle rette delle case famiglia;

2) ad assumere iniziative per istituire un sistema informativo unitario che contenga: una banca dati dei minorenni privi di un ambiente familiare, basata su indicatori uniformi e comuni a tutto il territorio nazionale, per monitorare il numero e le caratteristiche dei minorenni fuori famiglia, le tipologie del percorso di accoglienza, i tempi e le modalità di uscita dallo stesso; o una banca dati del numero e della tipologia delle strutture di accoglienza; o una banca dati degli affidatari;

3) ad assumere iniziative, per quanto di competenza, per garantire concretamente l'assenza di conflitti d'interesse tra le diverse professionalità dei servizi sociali coinvolti nei procedimenti di affido, disciplinando altresì il regime delle incompatibilità dei giudici onorari e dei loro stretti congiunti, rispetto a incarichi che potrebbero riguardare i profili di necessaria imparzialità e indipendenza, così come già previsto nella delibera del Consiglio superiore della magistratura dell'11 luglio 2018;

4) ad assumere iniziative normative per differenziare i soggetti cui sono demandati compiti valutativi, esecutivi e di controllo dei provvedimenti giudiziali da quelli chiamati a prendere in carico i minorenni e le famiglie per il sostegno genitoriale e per la cura;

5) ad assumere iniziative, anche normative, per assicurare, nel caso di famiglie con problemi economici, la piena applicazione della legge n. 184 del 1983, che stabilisce che le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la responsabilità genitoriale non possono essere di ostacolo all'esercizio del diritto del minore alla propria famiglia, e affinché, a tal fine, siano disposti interventi concreti di sostegno economico e di aiuto a favore delle famiglie;

6) ad assumere iniziative per garantire l'effettiva temporaneità dell'affidamento, che per legge è di 24 mesi, prorogabili, in maniera tale da abolire al contempo la prassi dell'affido sine die che di fatto, a parere dei firmatari del presente atto di indirizzo, snatura l'essenza dell'istituto dell'affido minorile;

7) ad assumere iniziative normative per istituire il difensore del minore per ogni fase del procedimento di affido familiare;

8) ad assumere iniziative normative per rafforzare l'azione di controllo e di ispezione sulle strutture di accoglienza, svincolando in particolare tale controllo dalla sola verifica circa lo stato di abbandono del minorenne ai fini dell'adottabilità;

9) ad assumere le iniziative di competenza affinché tutti gli incontri tra assistenti sociali, tutore, genitori e minore siano debitamente registrati tramite apparecchiature audio o video, al fine di rendere effettivamente oggettivo il contenuto di tali incontri;

10) ad assumere iniziative di competenza per garantire l'ascolto della persona minorenne sia in fase istruttoria che a seguito dell'emissione di un provvedimento a sua tutela, informandola adeguatamente circa le decisioni che la riguardano e assicurando la sua partecipazione alla definizione del progetto educativo.
(1-00283) «Giannone, Benedetti, Benigni, Borghese, Cunial, Cecconi, Gagliardi, Longo, Vizzini, Tasso».

(11 novembre 2019)

   La Camera,

   premesso che:

    in tema di affidamento dei minori la Convenzione Onu sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza (Convention on the rights of the child – Crc), adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 e ratificata e resa esecutiva in Italia dalla legge 27 maggio 1991, n. 176, sottolinea, fin dal preambolo, come riportato anche dal sito web dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza, l'importanza della famiglia nella vita di ogni bambino e adolescente, quale «unità fondamentale della società e di un ambiente naturale per la crescita e il benessere di tutti i suoi membri e in particolare dei fanciulli»;

    alla luce di ciò numerosi diritti ruotano attorno a questa istituzione: diritto di conoscere i propri genitori e di essere allevato dagli essi (articolo 7), diritto di non essere separato da loro (articolo 9) e di mantenere rapporti regolari e frequenti con ciascuno di essi (articoli 10 e 11), diritto di trovare sempre e comunque protezione in un ambiente familiare anche qualora, nel proprio superiore interesse, quello di origine non sia idoneo (articoli 20 e 21). Altrettanti doveri incombono, di conseguenza, su coloro che esercitano la responsabilità genitoriale e sullo Stato stesso: dovere dei genitori di dare l'orientamento e i consigli adeguati ai propri figli all'esercizio dei diritti che sono riconosciuti loro dalla Convenzione (articolo 5), dovere dello Stato di fare del proprio meglio per garantire il riconoscimento del principio secondo cui entrambi i genitori hanno una responsabilità comune per quanto riguarda l'educazione del bambino o adolescente e il provvedere al suo sviluppo (articolo 18), dovere dei genitori di assicurare le condizioni di vita necessarie allo sviluppo del fanciullo e dello Stato di adottare adeguati provvedimenti per aiutare coloro che esercitano la responsabilità genitoriale ad attuare questo diritto (articolo 27);

    in particolare, il «principio della protezione del fanciullo allontanato dalla famiglia», di cui all'articolo 20 della Convenzione di New York, fissa i principi applicabili ai casi di allontanamento, temporaneo o permanente, del minore dal suo ambiente familiare, stabilendo che questi ha diritto a speciale protezione da parte dello Stato. È, quindi, onere degli Stati garantire a tale minore una forma di cura ed assistenza alternative e, nella scelta di tali soluzioni, l'autorità pubblica deve tenere conto della necessità di garantire una certa continuità nell'educazione del fanciullo, nonché della sua origine etnica, culturale e linguistica;

    un'analisi specifica deve poi essere riservata alla Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei fanciulli fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva in Italia dalla legge n. 77 del 2003, che detta una disciplina particolareggiata delle procedure giudiziarie che riguardano i fanciulli ed è quindi applicabile anche ai procedimenti di affidamento;

    in particolare, la Convenzione riconosce al minore il diritto di essere consultato ad esprimere la propria opinione e di essere informato delle eventuali conseguenze dell'attuazione della sua opinione e delle eventuali conseguenze di ogni decisione, la possibilità di designare un rappresentante speciale, qualora l'ordinamento interno privi coloro che hanno responsabilità genitoriale della facoltà di rappresentarlo e dall'altra parte pone in capo alle autorità giudiziarie l'obbligo di esaminare con prontezza e in modo sufficiente ed esaustivo le informazioni in vista di una decisione nell'interesse superiore del minore;

    la stessa Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza nella relazione sulla sua attività, trasmessa al Parlamento il 29 aprile 2019, afferma «il diritto delle persone di minore età di essere accolte ed educate prioritariamente nella propria famiglia e, se necessario, in un altro ambito familiare di appoggio o sostitutivo»;

    esistono, infatti, realtà familiari connotate da gravi difficoltà che, seppur temporaneamente, possono compromettere la crescita serena ed equilibrata delle persone minori di età. In questi casi si ricorre all'istituto dell'affidamento di tipo familiare o, ove ciò non sia possibile, all'inserimento in una comunità di tipo familiare o in un istituto di assistenza, al solo fine di tutelare i bambini e i ragazzi da condizioni pregiudizievoli e, al contempo, sostenere la famiglia d'origine nel recupero delle funzioni genitoriali;

    in realtà l'affido – in base alla legge n. 184 del 1983, modificata dalla legge n. 149 del 2001 – è una soluzione estrema, a cui la giustizia minorile si vede costretta a ricorrere quando la vita e l'educazione di bambini e ragazzi sono a rischio nelle famiglie d'origine per motivi che vanno ben oltre i meri problemi economici;

    la stessa legge n. 184 del 1983 non pone un elenco dei motivi per cui si può disporre l'affido; a fornire tali criteri è l'articolo 403 del codice civile, che consente l'allontanamento dei minori dalla famiglia da parte della «pubblica autorità» qualora i minori si trovino in stato di abbandono morale o materiale, vivono «in locali insalubri o pericolosi» o sono allevati da persone incapaci di provvedere alla loro educazione;

    le comunità per minorenni hanno cambiato profondamente volto negli ultimi anni: da istituti nei quali i bambini accolti correvano il rischio di diventare meri numeri sono diventate realtà connotate da un'atmosfera familiare e accogliente, nelle quali si articolano interventi e progetti personalizzati in base alle specifiche esigenze dei bambini e dei ragazzi coinvolti;

    nell'attesa dell'entrata a regime del Sistema informativo nazionale bambini e adolescenti (Sinba), ad oggi ancora in fase di sperimentazione, che consentirà in futuro di acquisire in modo continuativo dati sui minorenni fuori dalla famiglia, l'Autorità garante, al fine di avere un quadro conoscitivo sul fenomeno, ha continuato a svolgere un'attività di monitoraggio attraverso la raccolta dei dati sui minorenni presenti in comunità e l'analisi delle informazioni che, per legge, ogni sei mesi le strutture di accoglienza sono tenute a comunicare alle procure minorili;

    l'attuale legge sull'affido ha attribuito importanti funzioni ai procuratori della Repubblica presso i tribunali per i minorenni in ordine al monitoraggio delle condizioni dei minorenni ospiti delle comunità, nonché alla vigilanza sulle stesse;

    questo ruolo di vigilanza affidato alle procure minorili costituisce il principale strumento di attuazione del diritto di verifica periodica sulle condizioni dei minorenni che vivono fuori dalla famiglia di origine, sancito dall'articolo 25 della Convenzione sui diritti per l'infanzia e l'adolescenza e che l'Autorità garante ha deciso di valorizzare attraverso la prima raccolta sperimentale sui dati dell'accoglienza, relativa ai dati al 31 dicembre 2014 e pubblicata nel 201 5, quella successiva relativa ai dati aggiornati al 31 dicembre 2015, pubblicata nel 2017, da ultimo quella in corso in via di pubblicazione, riferita al biennio 2016 e 2017;

    secondo l'ultimo rapporto pubblicato nel 2017 dall'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza sono 21.035 in Italia i ragazzi che vivono fuori dalla propria famiglia di origine, ospiti delle 3.352 comunità sparse su tutto il territorio nazionale (dati al 31 dicembre 2015). Si tratta in prevalenza di maschi, di età compresa tra i 14 e i 17 anni;

    i dati raccolti mettono a fuoco, oltre alla dimensione quantitativa, anche le principali caratteristiche qualitative dell'accoglienza in comunità, poiché le peculiari condizioni di vulnerabilità di questi ragazzi rappresentano un serio «fattore di rischio» per lo sviluppo armonico della loro personalità;

    sono, quindi, molteplici le ragioni che portano all'ingresso di una persona minore di età in una comunità. Si va dalle difficoltà educative della famiglia di origine legate a uno stato precario di salute psico-fisica, ai bambini e ai ragazzi vittime di abusi o maltrattamenti, a quelli entrati nel circuito penale, senza tralasciare i minori che fuggono da guerre e povertà, giungendo nel nostro Paese privi di adulti di riferimento e in condizioni di particolare fragilità;

    i bisogni di tutela non si esauriscono nelle difficoltà che determinano l'ingresso nella struttura, ma riguardano anche la fase di uscita dal percorso di accoglienza dei ragazzi divenuti maggiorenni;

    secondo l'indagine le maggiori criticità nell'accoglienza in comunità sono: 1) la presenza, sul territorio nazionale, di classificazioni differenti delle strutture residenziali per minori, cosa che rende arduo il confronto tra i dati esistenti e, conseguentemente, difficile il monitoraggio del fenomeno; 2) l'esigenza di definire a livello nazionale standard minimi e criteri comuni per le comunità che ospitano i minorenni: importanti passi avanti su questo fronte saranno compiuti con l'approvazione in Conferenza Stato-regioni delle linee di indirizzo per l'accoglienza nei servizi residenziali per minorenni, redatte nell'ambito di un tavolo istituzionale che ha visti coinvolti, oltre all'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Ministero della giustizia, la Conferenza delle regioni e delle province autonome, l'Anci, nonché membri esperti e coordinamenti nazionali; 3) la mancanza di dati completi e aggiornati sui bambini e sui ragazzi collocati nelle strutture residenziali: non esiste, infatti, un'anagrafe dei minori che vivono fuori dalla propria famiglia di origine condivisa fra le diverse istituzioni che se ne occupano;

    inoltre, le linee d'indirizzo per le famiglie in situazione di vulnerabilità, approvate in Conferenza unificata il 21 dicembre 2017, sono volte a fornire indicazioni unitarie ai fini della definizione delle azioni possibili per fronteggiare le diverse situazioni di vulnerabilità familiare, nonché favorire la permanenza e/o, nel caso il minore viva già fuori dalla famiglia, la riunificazione di questo con la stessa;

    l'accompagnamento di bambini e famiglie in situazione di vulnerabilità costituisce un ambito fondamentale del lavoro di cura e protezione dell'infanzia, inteso come l'insieme degli interventi che mirano a promuovere condizioni idonee alla crescita, a prevenire i rischi che possono ostacolare il percorso di sviluppo e a preservare e/o proteggere la salute e la sicurezza del bambino, e tale compito compete al servizio sociale locale;

    si tratta di una funzione complessa che richiede un puntuale raccordo e la necessità di un approccio globale, che sappia utilizzare tutti gli strumenti normativi e operativi in accordo con le istituzioni e i relativi servizi nell'area della salute pubblica, della scuola, dei servizi educativi per l'infanzia e, in alcuni casi, anche dell'autorità giudiziaria sempre nel rispetto del superiore interesse del minore; tale approccio può essere garantito solo dall'interdisciplinarietà professionale e dalla trasversalità degli interventi;

    l'obiettivo delle professioni che si occupano di protezione della famiglia è quello di garantire un servizio di qualità. Pertanto, risulta necessario predisporre una valutazione periodica delle performance delle singole persone che esercitano tali professioni con criteri e procedure uniformi su tutto il territorio nazionale, al fine di contribuire al miglioramento organizzativo, gestionale e qualitativo del lavoro svolto;

    il «sostegno di vicinanza», ovverosia la possibilità da parte delle famiglie della stessa comunità locale di attivarsi e di farsi carico dei minori in difficoltà senza che questi vengano allontanati dalle famiglie di origine, è un'esperienza che già in molti territori sta dando ottimi risultati. Si tratta di un intervento in cui le famiglie affidatarie intervengono a sostegno della famiglia d'origine fin quando questa non riesca a superare le proprie difficoltà, senza che il minore sia costretto a subire il doloroso distacco che rischia di condizionare per sempre la sua vita;

    nel 2012 la rivista dell’American academy of psychiatry ha definito priva di fondamento scientifico la pas (parental alienation syndrome); l'alienazione parentale non è stata inserita nel Dsm V, neppure nell'Icd-11 e ci sono state ben due sentenze della Corte di cassazione a metterne in discussione la validità scientifica e l'applicazione nelle cause di affidamento dei figli: la n. 7041 del 2013 e la n. 13274 del 2019; l’Apsac (American professional society on the abuse of children) nell'agosto 2019 ha emesso un comunicato ribadendo di ritenere non fondata scientificamente l'alienazione parentale, avvertendo i sostenitori di questa teoria di non sostenere che l'Apsac l'abbia riconosciuta; In Italia lo stesso Ministero della salute e l'Istituto superiore di sanità si sono dichiarati dello stesso parere; ciò nonostante la sindrome da alienazione parentale (definita in tanti modi: «conflitto di lealtà», «sindrome della madre malevola», «rapporto simbiotico») viene ancora utilizzata in alcune decisioni, anche di natura giudiziaria, arrivando anche a interrompere il legame familiare, più di frequente tra la madre e il figlio;

    anche se il problema degli affidi dei minori molte volte si intreccia con quello della violenza di genere e della tutela del soggetto vittima di violenza, come i fatti di cronaca insegnano, bisogna prevedere l'allontanamento dei minori dal nucleo familiare solo come ultima ratio e comunque sempre e solo nell'interesse del minore stesso, privilegiandone dove è possibile l'affido presso altri parenti o altri soggetti vicini al nucleo familiare secondo un principio di gradualità delle scelte;

    in particolare, in merito ai fatti accaduti nella regione Emilia-Romagna, che hanno coinvolto la rete dei servizi sociali della Val d'Enza, la stessa Assemblea regionale, con delibera n. 215 del 27 luglio 2019, ha dato via all'istituzione di una Commissione assembleare speciale d'inchiesta circa il sistema di tutela dei minori nella regione Emilia-Romagna, al fine di poter affrontare i fatti mediante l'analisi dei documenti ufficiali e al riparo da strumentalizzazioni e spettacolarizzazioni nel pieno ed esclusivo interesse delle famiglie e dei bambini coinvolti;

    oggetto della Commissione è il tema della tutela dei minori, in particolare degli affidi in ambito regionale, in particolare:

     a) servizi sociali anche appaltati a soggetti esterni, quali, ad esempio: le procedure di affidamento dei servizi; la trasparenza e pubblicità delle procedure di affidamento; gli standard qualitativi; i servizi pubblici connessi agli affidi e i privati con cui interagiscono; l'esternalizzazione dei servizi; i fondi regionali interessati, la loro ripartizione, assegnazione ai servizi territoriali e le modalità di spesa locale;

     b) metodi seguiti negli affidi di minori e nella presa in carico delle famiglie, quali, ad esempio, il sistema dei controlli sulle consulenze tecniche d'ufficio affidate a psicologi e pedagogisti, sull'operatività degli assistenti sociali, la delega a terzi dei servizi, la competenza degli operatori sociali;

     c) il rapporto tra servizi sociali e servizi dell'amministrazione della giustizia minorile (protocolli da seguire nel rapporto con i minori; la valutazione dei servizi sociali negli affidi);

     d) il ruolo del Garante regionale per l'infanzia e l'adolescenza ed i suoi rapporti con i servizi sociali territoriali, con gli organi della giustizia minorile e con le forze dell'ordine dedite alle indagini;

    si tratta, quindi, di un mandato non volto a identificare reati – non ricorrendone i poteri costituzionali e statutari, né quindi gli strumenti – ma il funzionamento di un sistema di servizi, nel complesso e anche in suoi luoghi specifici, come la Val d'Enza;

    in merito è opportuno ricordare che il 27 giugno 2019 i carabinieri di Reggio Emilia hanno dato il via all'operazione denominata «Angeli e demoni» mettendo agli arresti domiciliari 18 persone. La teoria dell'accusa, anche se lo stesso procuratore di Reggio Emilia dottor Marco Mescolini ha specificato che «sotto inchiesta non c'è il sistema dei servizi: sotto inchiesta ci sono delle persone», è che ci sia una sorta di «sistema Bibbiano» di gestione e affidamento dei minori, con funzionari pubblici, assistenti sociali, medici e psicologi – i quali a vario titolo e in vario modo gravitano attorno ai servizi sociali dell'Unione Val d'Enza, consorzio di sette comuni in provincia di Reggio Emilia – che hanno manipolato le testimonianze dei bambini, al fine di sottrarli alle famiglie di origine per affidarli, dietro pagamento, a famiglie di amici o conoscenti;

    dalle audizioni svolte in seno alla Commissione sopra citata è emerso che non esiste alcun sistema emiliano-romagnolo che ha come obiettivo primario quello di allontanare i minori dalle proprie famiglie, ma esistono a Bibbiano dei casi in cui si sono verificate anomalie, sulle quali e sulla cui gravità la magistratura sta svolgendo il suo lavoro di accertamento;

    inoltre, è emerso chiaramente che in Italia manca un sistema organico di raccolta dati sui minori affidati, così come sono emerse molte criticità riguardo alla formazione degli operatori, al numero di assistenti sociali e psicologi, spesso sotto organico, al sistema di supervisione, che, sicuramente, va potenziato,

impegna il Governo:

1) ad adottare iniziative volte a determinare i livelli essenziali delle prestazioni per gli interventi relativi ai minorenni, alle famiglie di origine, agli affidatari e alle strutture di accoglienza, in modo da garantire l'esigibilità dei diritti civili e sociali delle persone di minore età, in linea con quanto previsto dall'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione;

2) ad assumere iniziative per adottare un sistema informativo unitario affinché vi sia un database unitario ed aggiornato sui bambini e sui ragazzi collocati nelle strutture residenziali o presso famiglie affidatarie che coinvolga tutte le istituzioni interessate;

3) ad assumere iniziative, in particolare normative, sul rito del procedimento per adeguarlo ai principi del «giusto processo»: garantendo il diritto alla difesa tecnica dei genitori, anche con la nomina obbligatoria di un difensore d'ufficio in caso in cui manchi quello di fiducia, la nomina di un curatore speciale e di un avvocato del minorenne e, nei casi di provvedimenti di allontanamento adottati d'urgenza, prevedendo tempi celeri per assicurare il contraddittorio differito; riformando l'articolo 403 del codice civile, introducendo una procedura di convalida del provvedimento volta a circoscrivere le ipotesi nelle quali è consentito l'intervento d'urgenza della pubblica autorità; disciplinando l'impugnabilità dei provvedimenti, anche se temporanei e la decisione sull'impugnativa in tempi certi e brevi; disciplinando il regime delle incompatibilità dei giudici onorari e dei loro stretti congiunti rispetto a incarichi che potrebbero pregiudicarne i profili di necessaria imparzialità e indipendenza, così come già previsto nella delibera del Consiglio superiore della magistratura del luglio 2018;

4) ad aggiornare le linee di indirizzo per l'accoglienza nei servizi residenziali per minorenni, già adottate dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, affinché tengano conto delle raccomandazioni contenute nell'indagine conoscitiva della Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza sui minori fuori famiglia conclusasi nel 2018;

5) ad assumere iniziative, per quanto di competenza, volte a predisporre tutte le misure volte ad assicurare una tempestiva e un'adeguata «presa in carico» delle famiglie in difficoltà al fine di promuovere la genitorialità e prevenire gli allontanamenti ove sia certo che non vi siano casi di violenza o di abusi e, qualora l'allontanamento si dovesse rendere necessario, a promuovere un adeguato monitoraggio del percorso per il recupero delle competenze genitoriali, con un costante monitoraggio del progetto educativo del minorenne fuori famiglia;

6) a predisporre le iniziative di competenza volte ad implementare il Sistema informativo unitario dei servizi sociali (Siuss) con le banche dati sui minori fuori famiglia, strutture di accoglienza e affidatari;

7) ad adottare iniziative per potenziare le piante organiche degli uffici giudiziari che si occupano di procedimenti in materia di responsabilità genitoriale e di quelli in cui sono comunque coinvolti i minorenni;

8) ad assumere le iniziative di competenza volte a predisporre tutte le misure necessarie affinché, pur nel rispetto del diritto di cronaca, sia sempre garantito l'anonimato dei minorenni coinvolti nei casi di affidamento e adozione, evitando sensazionalismi e qualsiasi forma di speculazione, promuovendo nel contempo attività di sensibilizzazione per l'utilizzo di un linguaggio che non sia lesivo della dignità della persona di minore età, che non la riconduca a stereotipi stigmatizzanti o che ne turbi lo sviluppo della personalità;

9) ad assicurare la costituzione e la convocazione dell'Osservatorio nazionale per l'infanzia e l'adolescenza, così come previsto dalla legge 23 dicembre 1997, n. 451;

10) a predisporre tutte le iniziative di competenza necessarie in merito all'opportunità di regolare più chiaramente la fase di indagine del pubblico ministero minorile, il valore delle segnalazioni/relazioni dei servizi sociali o di altri soggetti, l'informazione delle parti (incluso esplicitamente il minore), il diritto alla difesa dei genitori, anche con l'effettività del gratuito patrocinio, nonché la legale rappresentanza del minore, la costituzione delle prove in dibattimento e, più in generale, il ruolo dei servizi sociali nell'ambito del procedimento, dalla fase istruttoria a quella attuativa dei provvedimenti;

11) a valutare l'opportunità di adottare, per quanto di competenza, iniziative normative e finanziarie volte alla promozione delle misure rientranti nel cosiddetto «sostegno di vicinanza», così come descritto in premessa, e in generale al fine di prevedere una disciplina dettagliata della gradualità dell'intervento di allontanamento dei minori dalle famiglie, iniziando con l'allontanamento dei genitori o tutori problematici dall'abitazione e, solo se tale misura risulti insufficiente, provvedere con altri interventi, quali l'affidamento ad altri parenti o conoscenti e infine l'affidamento, temporaneo, a famiglie affidatarie o comunità;

12) ad adottare iniziative, per quanto di competenza, per escludere la sindrome dell'alienazione parentale come elemento su cui fondare scelte di allontanamento del minore dai contesti familiari;

13) a predisporre iniziative volte a definire meglio i contenuti e le modalità di segnalazione alle autorità giudiziaria minorili, facendo sì che queste siano accompagnate da un progetto educativo e sociale che, ove possibile, coinvolga la presa in carico della famiglia d'origine;

14) a predisporre, per quanto di competenza, iniziative normative affinché nella valutazione dei casi e nella presa in carico del minore e della sua famiglia vi sia la più ampia collegialità multiprofessionale possibile con la presenza a fianco dell'educatore, dello psicologo/neuropsichiatra e dell'assistente sociale;

15) ad adottare, per quanto di competenza, iniziative volte a sostenere gli enti locali nel potenziamento degli organici dei servizi sociali territoriali, favorendo la costituzione in tutti i comuni, singoli o associati, di équipe dedicate alla tutela minori con adeguate competenze sociali e giuridiche, nell'alveo di una più complessa, organica e multiprofessionale presa in carico del minorile e della sua famiglia;

16) ad adottare iniziative, per quanto di competenza, atte a garantire la formazione e l'aggiornamento continuo del personale che si occupa di protezione della famiglia (psicologi, assistenti sociali, educatori) e una valutazione periodica delle performance dei singoli anche all'interno della équipe multidisciplinare, per assicurare efficienza e qualità del servizio;

17) ad adottare le opportune iniziative di competenza volte a garantire la formazione, l'aggiornamento e il monitoraggio delle competenze e delle strategie educative, evitando così il rischio del «burn out» degli operatori all'interno delle comunità di tipo familiare e, conseguentemente, prevenendo «le condotte di maltrattamento o di abuso di ogni genere»;

18) ad attivarsi, anche attraverso iniziative normative, al fine di rendere ancora più incisivo il contenuto della legge 19 luglio 2019, n. 69, recante «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere», cosiddetto codice rosso;

19) ad attivarsi al fine di predisporre ogni utile iniziativa, anche di natura normativa, tesa a delineare una concreta attività di prevenzione del fenomeno della violenza, in particolare intervenendo nell'ambito scolastico e nella formazione delle figure professionali che, in ragione del proprio servizio, possono entrare in contatto con vittime di violenza;

20) ad adottare iniziative, per quanto di competenza, volte a garantire una separazione dei ruoli nel sistema degli affidi familiari, in modo tale da rendere distinte le figure di coloro che gestiscono il sistema di valutazione sociale delle famiglie rispetto a coloro che gestiscono il collocamento dei minori, stabilendo così un'incompatibilità tra chi decide sull'affido e chi, invece, gestisce le strutture di accoglienza.
(1-00284) «Rizzo Nervo, Bologna, De Filippo, Rostan, Carnevali, Macina, Annibali, Ascari, Piera Aiello, Baldino, Barbuto, Bilotti, Businarolo, Carla Cantone, Cataldi, D'Orso, Di Sarno, Di Stasio, Dori, Fassino, Giuliano, Incerti, Lorenzin, Palmisano, Perantoni, Rossi, Saitta, Salafia, Sarti, Scutellà, Elisa Tripodi».

(11 novembre 2019)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE A PREVENIRE
E CONTRASTARE OGNI FORMA DI VIOLENZA CONTRO LE DONNE

   La Camera,

   premesso che:

    la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne è stata istituita dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite con la risoluzione n. 54/134 del 17 dicembre 1999, che ha scelto la data del 25 novembre e che ha invitato i Governi, le organizzazioni internazionali e le organizzazioni non governative a organizzare attività volte a sensibilizzare l'opinione pubblica;

    in data 14 novembre 2018, sono state approvate, ad amplissima maggioranza, le mozioni parlamentari Annibali, Boldrini, Gebhard ed altri n. 1-00070, D'Arrando, Panizzut ed altri n. 1-00074 e Carfagna ed altri n. 1-00075, in forza delle quali il Governo pro tempore ha assunto impegni precisi di contrasto alla violenza e alla discriminazione nei confronti delle donne;

    il fenomeno della violenza contro le donne viene definito dall'articolo 3 della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (cosiddetta «Convenzione di Istanbul»), ratificata dall'Italia con la legge 27 giugno 2013, n. 77, come «una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella sfera pubblica che nella sfera privata»;

    essa affonda le sue radici in una profonda, e persistente, disparità di potere tra uomini e donne e in un'organizzazione patriarcale della società che ancora oggi permea le pratiche e la vita quotidiana di milioni di uomini e donne in Italia;

    tutti i dati e le ricerche pubblicate negli ultimi anni dicono che la violenza contro le donne nel nostro Paese è un fenomeno ampio, diffuso e strutturale. Nella gran parte dei casi gli autori della violenza sono il partner, i parenti o gli amici. Nei casi più estremi la violenza contro le donne può portare al femminicidio;

    il 28 giugno 2019 Eures ha pubblicato un rapporto sugli «Omicidi in famiglia», da cui emerge che nel 2018 il 49,5 per cento delle vittime degli omicidi volontari commessi in Italia è stato ucciso all'interno della sfera familiare o affettiva (163 su 329 vittime di omicidio totali): la percentuale più alta mai registrata in Italia. Di queste, il 67 per cento è costituito da donne (109 vittime) a fronte di 54 vittime di sesso maschile (33 per cento). L'ambito familiare arriva ormai a costituire il contesto omicidiario quasi esclusivo per le vittime femminili, visto che ben l'83,4 per cento delle 130 donne uccise in Italia nel 2018 ha trovato la morte per mano di un familiare o di un partner/ex partner;

    i costi sociali ed economici della violenza dimostrano che le risorse stanziate per la prevenzione comportano netti risparmi rispetto a quanto il sistema pubblico è costretto a spendere una volta che la violenza viene realizzata. Anche le conseguenze sulla salute delle donne sono pesantissime;

    questa fotografia così nitida è resa possibile anche grazie al lavoro, spesso volontario, di tante donne dei centri antiviolenza non istituzionali, che da sempre affiancano le donne maltrattate ascoltandole e accompagnandole nella costruzione di percorsi personali di fuoriuscita dall'esperienza di violenza;

    il ruolo delle associazioni di donne va riconosciuto, valorizzato e potenziato quale strumento fondamentale per la lotta contro la violenza maschile sulle donne. In tal senso, va garantita su tutto il territorio la presenza di case rifugio in linea con i parametri internazionali, privilegiando quelle che possono garantire la qualità dei servizi e la competenza di genere e professionale;

    una forma di violenza molto diffusa e difficile da riconoscere, esplicitamente citata dalla Convenzione di Istanbul, è la violenza economica;

    come si legge nella guida sulla violenza economica curata dalla Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano (Cadmi), con il contributo della Global Thinking Foundation, «la definizione condivisa, anche a livello internazionale, di violenza economica può essere così espressa: la violenza economica si riferisce a atti di controllo e monitoraggio del comportamento di una donna in termini di uso e distribuzione del denaro, con la costante minaccia di negare risorse economiche, ovvero attraverso un'esposizione debitoria, o ancora impedendole di avere un lavoro e un'entrata finanziaria personale e di utilizzare le proprie risorse secondo la sua volontà». Essa spesso si cela dietro a comportamenti ancora culturalmente giustificati e accettati. È diffusa trasversalmente ed indipendentemente dalle fasce di reddito delle donne;

    le difficoltà che le donne incontrano nella fuoriuscita dalla violenza sono spesso legate a scarsi strumenti di welfare a sostegno dei loro percorsi di libertà e autonomia. Questo fa sì che sovente esse tornino dal partner violento per le difficoltà economiche che si trovano ad affrontare;

    in questo senso occorre salutare positivamente le buone pratiche e gli strumenti adottati a livello regionale, come il cosiddetto «reddito di libertà» o il «contributo di libertà». Misure di sostegno economico, specifiche per le donne vittime di violenza domestica, al fine di sostenerne l'autonomia e lo sviluppo di un progetto di vita indipendente. Strumenti che aiutano le donne a scardinare il ricatto della dipendenza economica dall'uomo violento;

    questo tipo di misure sono ancora distribuite a macchia di leopardo. Occorrerebbe invece introdurre una misura universale e omogenea su tutto il territorio nazionale;

    per aiutare l'inserimento nel mondo del lavoro delle donne vittime di violenza, occorre prorogare ed estendere gli sgravi contributivi per l'assunzione di donne vittime di violenza di genere a tutte le categorie di datori di lavoro. Sarebbe altresì importante estendere alle donne vittime di violenza una quota di riserva sul numero di dipendenti dei datori di lavoro pubblici e privati, prevedendo per loro l'estensione dell'articolo 18 della legge 12 marzo 1999, n. 68;

    come pubblicato dal quotidiano La Stampa in data 4 giugno 2019, «da una ricerca Episteme sulle donne e la gestione economica delle famiglie, emerge che oltre tre donne su 10 non hanno un conto corrente personale». Tale ricerca fotografa una diffusa dipendenza economica delle donne che spesso è uno dei motivi che porta ad accettare abusi e violenze fisiche. In tal senso, si rende necessario promuovere iniziative al fine di informare le donne sui loro diritti in ambito economico e su come riconoscere la violenza economica ed eliminarla dalla propria vita. Molto si potrebbe fare anche sul fronte bancario;

    al fine di contrastare forme di violenza volte a rendere la donna economicamente dipendente, anche attraverso l'occultamento doloso delle risorse patrimoniali al fine di non corrispondere quanto dovuto a titolo di mantenimento al coniuge o ai figli, occorre introdurre specifici e dedicati interventi anche di carattere normativo;

    un numero enorme di donne ha poi subito una qualche forma di molestia sessuale: l'Istat dice che, nel 2018, 8 milioni 816 mila donne (il 43,6 per cento), fra i 14 e i 65 anni, ha subito molestie sessuali nel corso della vita. Per quel che riguarda le molestie sul lavoro, dove esiste un sommerso importante, del 7,5 per cento di donne che ha subito ricatti sessuali sul lavoro, solo il 20 per cento ne ha parlato e quasi nessuna ha denunciato;

    un fenomeno ampio a cui occorre dare una risposta anche attraverso un intervento normativo che dia applicazione all'articolo 40 della Convenzione di Istanbul;

    occorre poi ricordare che il 21 giugno 2019 la Conferenza internazionale del lavoro ha approvato a Ginevra la Convention concerning the elimination of violence and harassment in the world of work con 439 voti a favore, 7 contrari e 30 astensioni dai delegati della Conferenza che riunisce i delegati dei Governi, sindacati e rappresentanti degli imprenditori dei 186 Paesi membri dell'Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro). La Convenzione, accompagnata da una relativa «raccomandazione», afferma che la violenza e le molestie nel mondo del lavoro «sono inaccettabili e incompatibili con un lavoro dignitoso». Gli Stati che ratificano la Convenzione si impegnano ad adottare disposizioni contro violenze e molestie e a fornire un facile accesso a mezzi di ricorso e a rimedi;

    nella mozione n. 1-00243, a prima firma dell'onorevole Lisa Noja, si evidenzia come «le donne con disabilità abbiano una probabilità di essere vittime di violenza da due a cinque volte superiore rispetto alle donne non disabili, frequentemente nell'ambito delle relazioni domestiche, a causa della posizione di maggiore fragilità e vulnerabilità sofferta»;

    il «Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne» per il triennio 2017-2020, approvato nel novembre 2017 in Consiglio dei ministri dal Governo pro tempore, è uno strumento importante volto a dare piena attuazione alla Convenzione di Istanbul. Esso ripropone i tre assi strategici della Convenzione di Istanbul: prevenire, proteggere e sostenere, perseguire e punire, oltre ad un asse trasversale di supporto all'attuazione relativo alle politiche integrate. Il piano dovrà essere rinnovato nel 2020;

    in attuazione dell'articolo 1, commi 790 e 791, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, e per il compimento degli obiettivi posti al paragrafo 5.4 «Soccorso» del piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 24 novembre 2017, sono state adottate le linee guida nazionali per l'assistenza socio-sanitaria alle donne che subiscono violenza e che si rivolgono al pronto soccorso, pubblicate in Gazzetta ufficiale il 30 gennaio 2018;

    le regioni, in virtù della loro competenza di tipo concorrente in materia di programmazione, coordinamento e indirizzo degli interventi socio-sanitari ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione, devono adoperarsi affinché le aziende sanitarie e le aziende ospedaliere diano puntuale attuazione alle linee guida nazionali. Ad oggi non si sa quante regioni lo stiano facendo;

    la Dichiarazione sull'eliminazione della violenza contro le donne (Nazioni Unite, 20 dicembre 1993) include esplicitamente la tratta e la prostituzione forzata tra le forme di violenza di genere. Il 26 febbraio 2016 il Consiglio dei ministri del Governo pro tempore ha adottato il primo piano d'azione nazionale contro la tratta e il grave sfruttamento degli esseri umani per gli anni 2016-2018. Il piano deve essere ancora rinnovato;

    negli ultimi anni il legislatore è intervenuto più volte a livello normativo, perseguendo tre obiettivi: prevenire i reati, punire i colpevoli e proteggere le vittime. In tal senso, sono state introdotte misure, sostanziali e processuali, volte a garantire alla vittima di reati di violenza domestica e di genere una tutela più incisiva ed efficace e ad imprimere tempestività alla risposta giudiziaria;

    si può dire che la disciplina di settore ha raggiunto un livello avanzato di tutela per le vittime dei reati in argomento: dalla legge n. 119 del 2013, la cosiddetta legge sul femminicidio, alla legge n. 4 del 2018, volta a rafforzare le tutele per i figli rimasti orfani a seguito di un crimine domestico, e da ultimo con l'approvazione della legge 19 luglio 2019, n. 69, «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere», cosiddetto codice rosso. Un provvedimento dalla portata molto ampia che ha colmato alcuni vuoti normativi ed è intervenuto sulla necessità condivisa di velocizzare l'instaurazione del procedimento penale e, conseguentemente, accelerare l'eventuale adozione di provvedimenti di protezione delle vittime. Una legge tuttavia perfettibile, nel solco delle indicazioni emerse nel corso delle audizioni in Commissione giustizia, del parere espresso del Consiglio superiore della magistratura e delle proposte di coordinamento e buone prassi tra gli uffici della Scuola superiore della magistratura;

    in merito alla sicurezza delle donne, i dati dicono che la diffusione di armi comporta un pericolo maggiore di omicidi e di vittime nei settori più indifesi, in particolare le donne. Nel merito, Giorgio Beretta, analista dell'Opal (Osservatorio permanente sulle armi leggere), in un'intervista a Linkiesta del 15 gennaio 2019, dichiarava che «dei 92 tra omicidi di donne e femminicidi che sono stati commessi nel 2018, ben 28, cioè quasi uno su tre, sono stati compiuti da persone con regolare licenza per armi. In sintesi, oggi l'ambito di maggior pericolosità per gli italiani, soprattutto per le donne, è quello familiare e relazionale e se c'è un'arma in casa è più probabile che venga utilizzata per ammazzare un familiare, spesso una donna, che per respingere eventuali ladri»;

    il Rapporto ombra delle associazioni di donne per il Grevio, il gruppo di esperte sulla violenza contro le donne del Consiglio d'Europa (ottobre 2018), incaricato di monitorare l'attuazione della Convenzione di Istanbul in Italia, raccomanda come «urgentissimo e fondamentale menzionare espressamente nel codice civile la violenza intra-familiare come causa di esclusione di affidamento condiviso e la violenza assistita come causa di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale»;

    al fine di garantire una tutela preventiva della persona offesa, la legge 19 luglio 2019, n. 69, ha rafforzato l'interlocuzione tra la magistratura penale e quella civile, in caso di contemporanea pendenza di procedimenti relativi alle stesse parti, al fine di ridurre il rischio di decisioni confliggenti in tema di tutela delle vittime o, al contrario, di strumentalizzazione nel giudizio civile della vicenda penale;

    occorre tuttavia segnalare come ancora in troppi casi accade che un procedimento penale scaturito da una denuncia per violenza domestica proceda completamente staccato dal procedimento civile di separazione e si disponga l'affido condiviso dei figli e/o si impongano diritti di visita che mettono a repentaglio i diritti e la sicurezza della vittima o dei minori;

    accade altresì che si colpevolizzino le madri che denunciano la violenza, di cui viene messa in discussione la competenza genitoriale con meccanismi quali la sindrome dell'alienazione parentale, che non ha basi scientifiche come ribadito anche dalla Corte di cassazione, e la vittimizzazione secondaria a tutti i livelli, che determinano una prosecuzione dell'esercizio di potere e di controllo nei confronti della donna. La sindrome dell'alienazione parentale passa sovente attraverso le consulenze tecniche d'ufficio, redatte da psicologi, psicoterapeuti o psichiatri nominati dal giudice;

    questa problematica sarà indagata e approfondita dal lavoro della nuova Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, come dichiarato, secondo quanto consta ai firmatari del presente atto, dalla sua Presidente, senatrice Valeria Valente;

    occorre ricordare poi che l'articolo 31 della Convenzione di Istanbul impone di prendere in dovuta considerazione gli episodi di violenza vissuti dai figli minori «al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli»;

    in tal senso, va salutata positivamente la presa di posizione della Ministra per le pari opportunità e la famiglia, Elena Bonetti, che in merito al disegno di legge cosiddetto Pillon, che proponeva una riforma in materia di affido condiviso, il cui contenuto ad avviso dei firmatari del presente atto viola la Costituzione e le convenzioni internazionali, ha annunciato la volontà di non sostenere il provvedimento;

    la prevenzione resta centrale nella lotta alla violenza di genere. Essa passa inevitabilmente da una profonda opera di promozione di una cultura ispirata alla parità di genere, al superamento degli stereotipi, del sessismo e della misoginia. Un cambiamento che deve investire in maniera decisa e forte tutti gli istituti e i soggetti della formazione e della cultura;

    le politiche annunciate dall'attuale Governo in tema di conciliazione, parità di genere e welfare, vanno nella giusta direzione e segnano un'importante inversione di tendenza;

    centrale è il ruolo della scuola di ogni ordine e grado al fine di educare al rispetto di genere, contrastare ogni forma di violenza e discriminazione e favorire il superamento di pregiudizi e disuguaglianze;

    purtroppo, ancora oggi, nei mondi che vengono a contatto con la violenza sulle donne, sono presenti molti pregiudizi. Per questo la specializzazione e la formazione di tutti i soggetti, che vengono a contatto con la violenza sulle donne, sono cruciali. Anche su questo si è intervenuti con la legge 19 luglio 2019, n. 69, ma occorre investire di più in termini di risorse umane ed economiche;

    sul piano della comunicazione viene ancora riservata poca attenzione al ruolo che i media possono avere per consolidare una coscienza sociale diffusa di condanna del fenomeno. Troppe volte, soprattutto nei casi di femminicidio, i media tendono a far passare un messaggio fuorviante e diseducativo, sia sul piano del linguaggio, che su quello della rappresentazione della notizia. Espressioni, come «Amore malato», «eccesso di amore», «raptus», «gigante buono», richiamano ad una sorta di giustificazionismo dell'azione violenta. Anche su questo punto la Convenzione di Istanbul interviene in maniera puntuale con l'articolo 17, prevedendo la sensibilizzazione degli operatori dei settori dei media per la realizzazione di una comunicazione e di un'informazione, anche commerciale, rispettosa della rappresentazione di genere;

    in tal senso, il Manifesto di Venezia, promosso dalla Commissione pari opportunità della Federazione nazionale della stampa italiana con altri sindacati e l'associazione Giulia giornaliste, ha messo l'informazione al centro della rivoluzione culturale che può contrastare la violenza sulle donne;

    nell'era del web, la violenza, come è noto, corre anche in rete e le donne sono le principali vittime del discorso d'odio on line, il cosiddetto hate speech. L'odio in rete si sta diffondendo come un fiume in piena ed è in costante crescita nel nostro Paese. È ormai evidente che si tratta di un problema da affrontare con urgenza, tanto a livello nazionale che mondiale;

    sul fronte della tutela delle donne vittime di violenza e in funzione preventiva, è fondamentale il trattamento degli uomini violenti anche nella fase di esecuzione della pena. I dati dicono che, espiata la pena, gli uomini violenti tendono a commettere altri reati della stessa natura. Su questo punto così rilevante è intervenuta la legge 19 luglio 2019, n. 69, ma occorre tuttavia continuare a lavorare al fine di rimuovere le condizioni all'origine dei fatti violenti e causa di una probabile recidiva. Tale impegno va supportato dalle necessarie risorse umane ed economiche;

    la lotta alla violenza contro le donne necessita di ulteriori risorse umane ed economiche. Esse devono essere destinate con criteri trasparenti ed attenti ai principi sanciti dalla Convenzione di Istanbul;

    un obiettivo importante e condivisibile della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio è quello di arrivare ad una legge quadro sulla violenza contro le donne al fine di sistematizzare e dare omogeneità alla normativa esistente,

impegna il Governo:

1) a mettere in campo tutte le iniziative necessarie a raggiungere la piena applicazione della Convenzione di Istanbul;

2) ad adottare iniziative volte alla prevenzione e al contrasto della violenza economica;

3) ad adottare iniziative per introdurre strumenti di welfare volti a sostenere economicamente le donne nel loro percorso di fuoriuscita dalla violenza e a favorirne l'inserimento nel mondo del lavoro e l'autonomia abitativa;

4) a mettere in campo strategie efficaci per prevenire e perseguire ogni forma di violenza fisica, psicologica e sessuale, che può affliggere le donne nel contesto di un rapporto di lavoro e ad adottare le iniziative di competenza per ratificare quanto prima la Convention concerning the elimination of violence and harassment in the world of work;

5) ad assumere le iniziative necessarie ad approvare un nuovo piano nazionale antiviolenza per il triennio 2020-2023;

6) a monitorare l'attuazione a livello regionale delle linee guida nazionali per l'assistenza sociosanitaria alle donne che subiscono violenza e che si rivolgono ai pronto soccorso;

7) a definire il nuovo piano d'azione nazionale contro la tratta e il grave sfruttamento degli esseri umani;

8) ad adottare ogni iniziativa utile a monitorare e controllare la diffusione delle armi per uso di difesa personale, nonché ad assicurare che alla detenzione legittima di un'arma corrisponda una tempestiva ed efficace comunicazione ai familiari, ai conviventi maggiorenni, anche diversi dai familiari, compreso il convivente more uxorio;

9) ad adottare iniziative per introdurre modifiche al codice civile al fine di prevedere la violenza intra-familiare come causa di esclusione di affidamento condiviso e la violenza assistita come causa di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale;

10) a promuovere la parità tra i sessi e la prevenzione della violenza di genere attraverso l'educazione scolastica, assumendo iniziative per destinare a tale scopo nuove risorse finanziarie;

11) ad assumere iniziative per investire risorse adeguate per la formazione specifica e per il necessario aggiornamento del personale chiamato ad interagire con la vittima, polizia e carabinieri, magistrati, personale della giustizia, polizia municipale e personale sanitario, anche nell'ambito di specifici capitoli di spesa destinati alla violenza di genere;

12) ad adottare politiche volte a garantire la parità di genere e ad incrementare l'occupazione femminile, elemento quest'ultimo fondamentale per la liberazione delle donne dalla violenza;

13) ad assumere iniziative per dare attuazione all'articolo 17 della Convenzione di Istanbul, anche attraverso l'adozione di misure per la promozione, da parte dei media, della soggettività femminile e l'introduzione di efficaci meccanismi di monitoraggio e di intervento sanzionatorio su comportamenti mediatici e comunicativi di ogni tipo che esprimano sessismo e visione stereotipata dei ruoli tra uomo e donna;

14) ad adottare iniziative volte a prevenire e contrastare il fenomeno dell’hate speech;

15) ad assumere le iniziative necessarie al fine di destinare le risorse umane ed economiche necessarie per i programmi di trattamento per gli uomini autori di violenza contro le donne;

16) ad adottare iniziative volte ad incrementare le risorse destinate al Fondo per le pari opportunità, al Fondo per le vittime di reati intenzionali violenti, al Fondo antitratta e, in generale, a tutte le politiche per la promozione della parità di genere e per la prevenzione ed il contrasto di ogni forma di violenza contro le donne;

17) ad adottare le iniziative normative ed organizzative necessarie all'attuazione della legge n. 4 del 2018, volta a rafforzare le tutele per i figli rimasti orfani a seguito di un crimine domestico, al fine di renderla finalmente pienamente operativa;

18) ad adottare iniziative per pervenire a una legge quadro sulla violenza contro le donne al fine di sistematizzare e dare omogeneità alla normativa esistente.
(1-00249) «Annibali, Boschi, Marattin, Anzaldi, Carè, Colaninno, D'Alessandro, De Filippo, Del Barba, Marco Di Maio, Ferri, Fregolent, Gadda, Giachetti, Librandi, Migliore, Mor, Moretto, Nobili, Noja, Paita, Portas, Rosato, Toccafondi, Ungaro».

(2 ottobre 2019)

   La Camera,

   premesso che:

    il 25 novembre ricorre la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, istituita dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite (con la risoluzione n. 54/134 del 17 dicembre 1999), e l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha invitato i Governi, le organizzazioni internazionali e le organizzazioni non governative a organizzare attività volte a sensibilizzare l'opinione pubblica sul tema della violenza di genere;

    la «Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne» (Cedaw), adottata nel 1979 dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite, rappresenta il principale testo internazionale sui diritti delle donne ed impegna gli Stati a sancire la parità di genere nelle loro legislazioni nazionali ed a garantire alle donne efficace protezione contro le discriminazioni e, altresì, ad adottare misure per eliminare tutte le forme di discriminazione;

    la quarta conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne (Pechino, 1995) segna un passaggio storico e culturale fondamentale, con la proclamazione che i diritti delle donne sono diritti umani e che la violenza di genere costituisce una violazione dei diritti fondamentali delle donne;

    numerose convenzioni dell'Onu e carte regionali prescrivono responsabilità istituzionali ed impegni precisi per gli Stati sottoscrittori, anche nell'adozione di misure atte a cambiare la cultura degli stereotipi e dei pregiudizi, cultura che è alla base delle violenze sulle donne, nonché l'adozione di strumenti di protezione delle vittime;

    la Convenzione di Istanbul, approvata dal Comitato dei ministri dei Paesi aderenti al Consiglio d'Europa il 7 aprile 2011, impegna gli Stati firmatari, con norme giuridicamente vincolanti ed armonizzate al livello europeo, a prevenire ed a contrastare le violenze contro le donne ed a proteggere e sostenere le vittime contro qualsiasi forma di violenza e, in particolare, a prevenire la violenza domestica, a proteggere le vittime, a perseguire i trasgressori, riaffermando la violenza contro le donne come una violazione dei diritti umani e come forma di discriminazione;

    i più recenti dati dell'Istat («Informazioni statistiche per l'Agenda 2030 in Italia») evidenziano che la violenza sulle donne è un fenomeno sommerso e strutturale e che sono in aumento i casi di violenze; l'Eures stima un aumento degli omicidi di donne, uno ogni due giorni e mezzo, e che i femminicidi (ovvero gli omicidi di donne in ragione del loro genere) rappresentano frequentemente l'atto ultimo ed estremo di una catena persecutoria di violenze e di sopraffazioni di natura psicologica, fisica, sessuale, economica, lavorativa e sociale;

    i dati forniti annualmente dall'Organizzazione mondiale della sanità confermano che la violenza di genere costituisce una questione strutturale, un fenomeno di dimensioni globali, un flagello che rappresenta la prima causa di morte delle donne. Una «malattia sociale», trasversale a tutte le latitudini geografiche, alle appartenenze etniche, ai ceti sociali, alle religioni ed alle età;

    l'Italia ha un corpo giuridico articolato e consolidato per combattere il fenomeno delle violenze di genere: la legge n. 66 del 1996, recante «Norme contro la violenza sessuale», sancisce che gli atti di violenza sessuale non sono più «reati contro la moralità pubblica ed il buoncostume», ma «reati contro la persona»; la legge n. 38 del 2009, di conversione del decreto-legge n. 11 del 2009, recante «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori», introduce una nuova fattispecie di reato (articolo 612-bis del codice penale), punisce le minacce insistenti, le molestie assillanti e le violenze che, per la loro sequenza continuativa e modalità aggressiva, incidono sulla tranquillità e sull'incolumità personali e violano la sfera privata; la legge n. 119 del 2013, di conversione del decreto-legge n. 93 del 2013, reca norme per la prevenzione ed il contrasto della violenza domestica e di genere;

    la legge n. 119 del 2013, in attuazione dell'articolo 5 della Convenzione di Istanbul, prevede l'adozione di un piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere e relativi stanziamenti. Il piano prevede una pluralità di azioni: campagne di pubblica informazione e sensibilizzazione; promozione in ambito scolastico delle corrette relazioni tra i sessi, nonché di tematiche antiviolenza e antidiscriminazione; potenziamento dei centri antiviolenza e dei servizi di assistenza e protezione delle vittime di violenza di genere e di stalking; formazione specializzata degli operatori; collaborazione tra istituzioni; raccolta ed elaborazione dei dati; previsione di specifiche azioni positive;

    il piano straordinario prevede, altresì, il coinvolgimento delle associazioni impegnate nella lotta contro la violenza e dei centri antiviolenza presenti sul territorio;

    da ultimo, la legge 19 luglio 2019, n. 69, recante «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere», ha modificato la disciplina penale, sia sostanziale che processuale, della violenza domestica e di genere, corredandola di inasprimenti di sanzione;

    a tre mesi dall'entrata in vigore del cosiddetto codice rosso, però, il bilancio della dottrina e, in particolare, degli avvocati matrimonialisti, non è positivo e la media delle donne vittime di violenza domestica rimane ancora troppo alta: una ogni due giorni;

    alla base di questo amaro giudizio ci sono diverse considerazioni: non si riesce a capire che le leggi devono essere accompagnate da grandi investimenti economici, che consentano di sanare, ad esempio, la carenza di personale, piaga irrisolta dell'Italia, perché se, da un lato, si accelerano le procedure e si inaspriscono le pene, dall'altro è indispensabile rafforzare gli organici;

    il codice rosso non potrà mai portare davvero risultati se i centri anti-violenza chiudono e se la pianta organica dei magistrati vede una carenza di almeno duemila unità. Il magistrato, di fatto, non ha la possibilità di sentire la vittima di violenza domestica entro tre giorni dalla denuncia, come disposto per legge, circostanza su cui, comunque, Fratelli d'Italia aveva chiesto l'introduzione della scelta da parte della vittima nell'applicazione del termine cogente al fine del rispetto dei temi emotivi della donna, se il carico di lavoro è eccessivo per il numero di magistrati in servizio,

impegna il Governo:

1) ad attuare in maniera efficace tutto quanto previsto dal piano d'azione nazionale straordinario e di durata biennale, con l'obiettivo di raggiungerne la piena applicazione;

2) ad assumere le iniziative attuative del piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne (2017-2020), monitorando la loro ricaduta, la valutazione dei risultati ottenuti e l'effettiva efficacia per le donne vittime di violenza ed i loro figli;

3) ad intraprendere tutte le opportune iniziative di competenza al fine di garantire la protezione delle donne e dei loro figli;

4) a promuovere una parità effettiva e sostanziale tra uomo e donna attraverso azioni di sensibilizzazione e l'adozione di specifici programmi di educazione scolastica finalizzati alla prevenzione della violenza, nonché alla diffusione di linee guida per una comunicazione improntata al rispetto delle differenze di genere;

5) ad adottare strategie efficaci per prevenire tutte le forme di violenza contro le donne: fisica, psicologica, sessuale, lavorativa ed economica;

6) ad assumere opportune iniziative volte a promuovere percorsi di assistenza e di supporto psicologico per le donne che hanno subito una violenza e per i parenti delle vittime di femminicidio, anche attraverso lo sviluppo di una capillare rete di servizi socio-sanitari e assistenziali dotati di specifiche professionalità come psicologi e psicoterapeuti;

7) a sostenere la donna al fine di garantirle la libera scelta e di rispettarne i tempi di elaborazione emotiva e psicologica, rispetto all'obbligo del magistrato di sentirla entro tre giorni dalla denuncia, assicurando altresì un adeguato contesto nell'audizione e il supporto di figure professionali in grado di sostenerla emotivamente;

8) ad adottare iniziative per prevedere percorsi di specializzazione per avvocati, magistrati e forze dell'ordine, perché la velocità delle decisioni può fare la differenza tra la vita e la morte;

9) a favorire specifiche iniziative per incentivare l'inserimento delle vittime di violenza nel mondo del lavoro;

10) ad adottare iniziative per garantire che le risorse ripartite nella Conferenza Stato-regioni (a cominciare da quelle stabilite nella Conferenza del maggio 2018) siano erogate con regolarità e puntualità, assicurando il funzionamento dei centri antiviolenza e delle case rifugio presenti sul territorio ed eliminando le disparità regionali nell'offerta dei servizi alle vittime di violenza;

11) ad adottare iniziative per verificare i costi economici e sociosanitari della violenza, nonché procedere alla raccolta dei dati relativi agli omicidi di donne con motivazione di genere;

12) ad informare il Parlamento sulle attività della cabina di regia prevista per dare impulso alle politiche di prevenzione e contrasto della violenza, nonché sul neonato Comitato tecnico antiviolenza costituito con decreto del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega alle pari opportunità e alle politiche giovanili;

13) ad adottare ogni iniziativa di competenza per favorire l'attuazione della legge n. 4 del 2018, che tutela gli orfani di crimini domestici, al fine di renderla pienamente operativa;

14) a non adottare iniziative volte a ridurre le risorse destinate al fondo per le politiche relative alle pari opportunità e, più in generale, a tutte le politiche per la prevenzione ed il contrasto di ogni forma di violenza contro le donne e per la promozione di un'effettiva parità di genere.
(1-00090) (Nuova formulazione) «Bellucci, Meloni, Rampelli, Lollobrigida, Acquaroli, Bucalo, Butti, Luca De Carlo, Deidda, Delmastro Delle Vedove, Ferro, Foti, Frassinetti, Gemmato, Lucaselli, Maschio, Mollicone, Montaruli, Osnato, Prisco, Rotelli, Silvestroni, Trancassini, Varchi, Zucconi, Ciaburro».

(8 dicembre 2018)

   La Camera,

   premesso che:

    gli episodi di violenza sulle donne, che troppo spesso hanno esiti mortali per le vittime, stanno segnando con tragica regolarità le cronache quotidiane: tra il 1° agosto del 2017 e il 31 luglio del 2018, secondo il Censis, sono state 120 le vittime di femminicidio in Italia; è ancora in divenire, invece, l'elenco del 2019. Si rileva, tuttavia, che nei primi tre mesi il trend è in diminuzione;

    la «Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica» detta Convenzione di Istanbul è uno strumento internazionale giuridicamente vincolante volto a creare un quadro normativo. L'obiettivo di questo strumento è anche quello di combattere e punire le forme di violenza nei confronti delle donne;

    la legge n. 119 del 2013, nota come legge anti femminicidio, ha già previsto all'interno del codice una serie di norme aggravanti e di tutele a difesa delle donne e ha altresì esteso l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato a tutte le persone offese dei reati di stalking, maltrattamenti e violenza sessuale indipendentemente dalle loro condizioni reddituali;

    invece nel diritto civile il patrocinio a spese dello Stato non prevede deroghe per i casi di violenza. La vittima può infatti richiedere il patrocinio a spese dello Stato solo se ha un reddito inferiore ad euro 11.493,82, compresi i redditi degli altri componenti del nucleo familiare (ad eccezione del marito/compagno);

    inoltre, tale norma prevede lo stanziamento di risorse all'interno dei centri anti violenza, che necessitano di una mappatura a livello nazionale;

    il 19 luglio 2019 è stata approvata la legge n. 69 composta da 21 articoli dal titolo «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizione in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere», cosiddetto «Codice Rosso»; detta legge, tra le altre cose, dà anche piena attuazione alla convenzione di Istanbul proprio con la finalità di porre un efficace ed immediato argine della violenza contro le donne;

    l'obiettivo che ha guidato il legislatore è stato quello di predisporre strumenti per consentire allo Stato, di intervenire con tempestività al fine di stroncare sul nascere l'azione criminosa evitando che la stessa, se non interrotta, possa produrre conseguenze drammatiche;

    esigenza, questa, perseguita mediante la predisposizione di un procedimento snello ed efficace capace di battere sul tempo gli eventi e di restituire sicurezza e vicinanza alle vittime. Il cardine dell'intervento normativo è l'ascolto della persona offesa entro tre giorni dalla presentazione della denuncia. L'audizione della vittima, svolta senza ritardo dall'autorità giudiziaria ha lo scopo di evitare stasi procedimentali che causerebbero ritardi nell'adozione di provvedimenti a loro tutela;

    la chiave del cosiddetto «codice rosso» è la protezione delle vittime; ovviamente, in termini numerici, gli effetti dell'applicazione del contenuto del codice rosso, in particolare il termine di 3 giorni, che sicuramente saranno positivi, si potranno avere solo una volta decorso un congruo tempo rispetto all'entrata e quindi all'effettiva applicazione della norma;

    già la Convenzione di Istanbul dedica gli articoli 15 e 50 alla formazione delle figure professionali che vengono in contatto con vittime e autori dei reati di violenza e alla prevenzione e protezione tempestiva di chi subisce tali condotte;

    con il codice rosso, la specializzazione del personale delle forze dell'ordine mira a garantire una risposta professionale adeguata alle specificità proprie delle indagini nella delicatissima materia della violenza di cui stiamo parlando. L'obiettivo di detta misura è quello di avere una maggiore uniformità delle capacità di reazione delle denunce. Questa legge, pertanto, punta ad accorciare le distanze tra la giustizia e le donne maltrattate. Il secondo pilastro della riforma è rappresentato dalla repressione del fenomeno oggetto dell'intervento legislativo;

    la richiamata Convenzione di Istanbul, all'articolo 45, chiede alle Parti di adottare tutte le misure idonee a garantire che i reati relativi alla violenza sulle donne siano puniti con sanzioni efficaci proporzionate e dissuasive, in considerazione della loro gravità;

    in linea con quanto sancito dalla convenzione, anche su questo punto il codice rosso ha rafforzato e irrigidito la risposta punitiva che l'ordinamento penale prevede per tale fenomeno criminoso;

    per contrastare il fenomeno della violenza, sarebbe, inoltre, quanto mai indispensabile promuovere ogni provvedimento normativo per introdurre specifici trattamenti terapeutici o farmacologici inibitori della libido;

    anche il fenomeno della prostituzione rappresenta una tipologia di violenza ed è una problematica sempre più consistente. Tale considerazione deriva anche dal fatto che i dati esistenti su tale fenomeno, vengono raccolti con estrema difficoltà, poiché il fenomeno è sommerso, e, di conseguenza, è possibile effettuare mere stime ed è possibile solo fare riferimento al numero di donne effettivamente entrate nei percorsi di protezione sociale; ne deriva che rimangono fuori tutte coloro che non hanno avuto la possibilità di emergere in quanto vittime di tratta o che non sono state correttamente identificate come tali;

    al fine di monitorare e limitare tale fenomeno sarebbe opportuna l'abolizione della «legge Merlin»,

impegna il Governo:

1) ad assicurare che siano attivati, entro 12 mesi dall'entrata in vigore della legge n. 69 del 2019, così come previsto dalla medesima, corsi di formazione per la polizia di Stato, per l'Arma dei carabinieri e per il Corpo di polizia penitenziaria al fine di prevenire e perseguire i reati indicati nella legge;

2) a prevedere l'obbligatorietà dei suddetti corsi per il personale individuato dall'amministrazione di appartenenza;

3) ad adottare iniziative per assicurare che i finanziamenti stanziati annualmente siano erogati regolarmente senza ritardi e vincolati all'assunzione di impegni precisi, all'individuazione delle priorità e alla valutazione dei risultati ottenuti;

4) ad adottare iniziative per prevedere indicatori per la valutazione, da effettuarsi con cadenza annuale o comunque per ogni ciclo di finanziamento, dell'impatto degli stanziamenti per informare circa le future strategie di intervento, tramite la consultazione delle organizzazioni della società civile e dei centri antiviolenza;

5) a predisporre una sezione all'interno del sito del dipartimento per le pari opportunità volta a rendere accessibile, in tempi rapidi, la rendicontazione completa delle attività finanziate con i fondi della legge n. 119 del 2013, nella quale le amministrazioni regionali e locali possano caricare direttamente e in autonomia la documentazione rilevante (delibere, risultati bandi, reportistica delle attività svolte da parte dei beneficiari dei fondi e altro), facendo sì che tali informazioni siano disponibili in formato «aperto» (open data), e siano uno strumento efficace e incisivo di segnalazione di materiale sessista che non si limiti esclusivamente all'ambito pubblicitario;

6) ad aggiornare la mappatura dei centri antiviolenza del Dipartimento per le pari opportunità secondo la reportistica ricevuta da regioni e province autonome, anche al fine di stimare il fabbisogno reale dei centri antiviolenza per la loro sopravvivenza e il loro adeguato funzionamento, informando di conseguenza circa lo stanziamento necessario per assicurare servizi adeguati su tutto il territorio;

7) ad assumere iniziative per incoraggiare il settore privato, il settore delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione e i mass-media, nel rispetto della loro indipendenza e libertà di espressione, a partecipare all'elaborazione e all'attuazione di politiche e alla definizione di linee guida e di norme di autoregolamentazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità, anche promuovendo una comunicazione improntata al pieno rispetto della dignità culturale e professionale delle donne e vietando forme di comunicazione che possano indurre una fuorviante percezione dell'immagine femminile;

8) ad assumere iniziative per introdurre, nell'ambito delle istituzioni scolastiche, anche contemplando il potenziamento dell'offerta formativa, percorsi e progetti mirati a garantire pari opportunità di educazione, istruzione, cura, relazione e gioco, con il coinvolgimento delle famiglie al fine di superare ogni tipo di disuguaglianza e discriminazione, in tal modo educando le nuove generazioni alla parità tra uomo e donne all'affettività, nonché a definire linee guida che forniscano indicazioni per includere nei programmi scolastici i temi dell'educazione alla legalità, del diritto all'integrità dell'identità personale e del contrasto alla violenza sulle donne e allo sfruttamento della prostituzione;

9) ad assumere iniziative normative, volte a prevedere percorsi specifici in carcere per gli autori di reati di violenza sessuale sulle donne e di sfruttamento della prostituzione, inclusi interventi sulla normativa che disciplina l'ordinamento penitenziario volti a rendere obbligatoria per i detenuti per reati contro le donne la destinazione di una percentuale del reddito generato da lavoro in favore del risarcimento delle vittime;

10) ad adottare iniziative per abrogare la «legge Merlin»;

11) a promuovere ogni iniziativa normativa volta a introdurre dei trattamenti terapeutici o farmacologici inibitori della libido;

12) ad adottare iniziative per stanziare adeguate risorse finanziarie al fine di garantire l'erogazione a carico del servizio sanitario nazionale, in esenzione dalla partecipazione al relativo costo, di tutte le attività, prestazioni, servizi, dispositivi e ausili necessari alla diagnosi e al trattamento delle affezioni di carattere fisico e psichico conseguenti ad atti di violenza fisica, oggetto di denuncia all'autorità giudiziaria.
(1-00282) «Tateo, Foscolo, Bisa, Locatelli, Molinari, Cantalamessa, Di Muro, Marchetti, Morrone, Paolini, Potenti, Turri, Boldi, De Martini, Lazzarini, Panizzut, Sutto, Tiramani, Ziello».

(11 novembre 2019)

   La Camera,

   premesso che:

    la violenza contro le donne rappresenta la manifestazione più grave e brutale della disparità storica nei rapporti di forza tra i generi, nonché una evidente violazione dei diritti umani;

    seppur il nostro Paese abbia firmato e ratificato la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ovvero la cosiddetta Convenzione di Istanbul, aperta alla firma l'11 maggio del 2011, ancora oggi vi sono evidenti fattori che ostacolano l'Italia ad una corretta applicazione della medesima Convenzione;

    benché non esista un sistema di raccolta dati disaggregato e coordinato, gli ultimi dati Istat fotografano una situazione allarmante: quasi 7 milioni di donne italiane, dai 16 ai 70 anni, hanno subìto almeno una volta nella vita una forma di violenza (20,2 per cento violenza fisica, 21 per cento violenza sessuale con casi nel 5,4 per cento di violenze sessuali gravi, come stupro e tentato stupro). Numeri sconvolgenti se si considera che a praticare le violenze siano stati partner o ex partner: nel dettaglio, su 3 milioni di donne, la violenza è avvenuta nel 5,2 per cento dei casi dall'attuale partner e nel 18,9 per cento dei casi da un ex partner;

    seppur la volontà di riscatto e difesa da parte delle vittime di violenza sia altissima, se si considera che il 41,7 per cento delle donne ha lasciato il proprio compagno proprio in seguito alle violenze subite, non esiste un sistema integrato di informazione in merito ai diversi servizi di supporto disponibili e sulle misure legali che le stesse possano richiedere;

    eccezion fatta per rarissimi casi virtuosi, ove sia consolidato un lavoro integrato con i servizi specialistici, le donne che subiscono violenza si rivolgono, in prima battuta, ai servizi generali, tra i quali servizi sanitari e il servizio sociale del territorio e solo di rado ricevono informazioni adeguate sui servizi specializzati, pur essendo espressamente previsto dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, approvata dal Governo Berlusconi IV;

    le procure e le forze di polizia, il più delle volte, adottano strumenti informativi per le vittime che si traducono, nella maggior parte dei casi, in una mera riproduzione del contenuto normativo, di difficile comprensione per le vittime, raramente fruibili in una lingua diversa dall'italiano e, ove presenti, disponibili solo nel caso in cui la vittima decide di presentare denuncia/querela;

    ancora oggi, in Italia, le donne trovano ancor troppi ostacoli sia con le forze dell'ordine, che con professionisti/e dell'ambito sociale e sanitario, dovuti ancora ad una scarsa preparazione e formazione sul fenomeno della violenza, ma soprattutto al substrato culturale italiano, caratterizzato da profondi stereotipi sessisti e diseguaglianze tra i generi, oltre che pregiudizi nei confronti delle donne che denunciano situazioni di violenza, cui ancora si tende a non credere;

    ancora oggi, secondo i dati Svimez 2019, la condizione femminile in Italia segna una forte differenza con l'Europa: nel 2018 per il nostro Paese aumenta la distanza nel tasso di occupazione femminile dalla media europea, che passa da 11,5 a 13,8 punti percentuali;

    la scarsa partecipazione femminile è legata in buona parte all'incapacità delle politiche italiane di welfare e del lavoro di conciliare i tempi della vita lavorativa e familiare, causando anche incertezza economica e una modifica dei comportamenti sociali: si è innescato un circolo vizioso per cui la conciliazione lavoro e vita privata è complicata e il reddito medio delle famiglie non è adeguato per domandare servizi privati per l'infanzia, soprattutto nel Mezzogiorno, dove la «divisione del lavoro» all'interno delle famiglie è fortemente dicotomica per genere e la partecipazione femminile al mercato del lavoro patologicamente bassa;

    la situazione assume contorni ancora più preoccupanti per le donne con problemi di salute o disabilità: ha subito violenze fisiche o sessuali il 36 per cento di chi è in cattive condizioni di salute e il 36,6 per cento di chi ha limitazioni gravi, a fronte dell'11,3 per cento della popolazione femminile generale;

    il rischio di subire stupri o tentati stupri è doppio (10 per cento contro 4,7 per cento delle donne senza problemi) e, in questi casi, le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner, parenti, amici o conoscenti;

    molto spesso, purtroppo, sono proprio gli uomini che si prendono cura di queste donne ad approfittare di loro. Per questo motivo e per la difficoltà delle donne con disabilità psichica/intellettiva non solo a denunciare, ma persino a riconoscere come tali le violenze subite in ambiente domestico, la violenza domestica sulle donne con disabilità, e in particolare disabilità psichica o intellettiva, non viene quasi mai denunciata (solo nel 10 per cento dei casi);

    ancora oggi in Italia uno dei problemi principali rimane l'atteggiamento culturale degli operatori/trici del diritto, del sociale, della sanità che mette ancora costantemente in questione la credibilità delle donne; anche se viene sporta denuncia si tende a vedere tale strumento come intento manipolatorio per altri fini (p.e. vantaggi nella separazione) e tanto meno credibili vengono ritenute le donne con disabilità, spesso ritenute «incapaci di intendere» e inattendibili;

    per di più le donne con disabilità psichica/intellettiva con maggiori necessità di sostegno possono essere soggette agli istituti giuridici della tutela o della curatela;

    dall'indagine Istat 2015 sono emersi segnali di miglioramento rispetto alla situazione fotografata nel 2006, ma le violenze rilevate si sono manifestate con forme più gravi ed è aumentato il numero di donne che hanno temuto per la propria vita (dal 18,8 per cento del 2006 al 34,5 per cento del 2014);

    lo strumento della denuncia a disposizione della donna vittima è spesso svuotato del suo significato di rimedio per la tutela dei propri diritti, in quanto gli strumenti previsti dal diritto interno sono raramente applicabili entro un termine ragionevole, oltre ad essere di difficile accesso per l'estrema tecnicità e per l'impreparazione culturale di chi dovrebbe applicarli;

    a ciò si aggiunga che le informazioni sui propri diritti e lo strumento della denuncia sono praticamente inaccessibili alle donne con disabilità psico-sociali, oltre che a quelle con disabilità intellettive o sensoriali che utilizzano forme di comunicazione alternative;

    il rischio di vittimizzazione secondaria nel tentativo di uscire dalla violenza da parte della donna, e ancor più della donna con disabilità, è alto e riguarda più di un attore coinvolto nei percorsi di uscita dalla violenza, dai servizi sociale e sanitario, alle forze dell'ordine e al sistema giudiziario;

    dal momento in cui una donna trova la forza per denunciare la violenza subita deve poter contare su un'adeguata assistenza da parte dello Stato che in questa partita gioca un ruolo cruciale;

    purtroppo, per carenza di adeguati finanziamenti, in Italia non tutti i centri antiviolenza dispongono di case rifugio: rispetto ai 258 rifugi citati dal Dipartimento per le pari opportunità, secondo i dati raccolti dalle Ong, ce ne sono 78 (di cui 50 della rete associativa nazionale D.i.Re) per un totale di 627 posti letto;

    si tratta di un numero distribuito in maniera piuttosto disomogenea sul territorio nazionale e inadeguato per rispondere ai bisogni e alla sicurezza delle donne che subiscono violenza e in totale violazione della raccomandazione (EG-TFV (2008) 6) che indica come parametro numerico adeguato di alloggi sicuri in rifugi per donne specializzati, disponibili in ogni regione, un posto letto per 10.000 abitanti: secondo la ricerca di Wave, in Italia sarebbero necessari 6.078 posti letto, ne mancano ben 5.451;

    a tal proposito, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato l'Italia per non aver protetto una donna e suo figlio dal marito violento, in quanto non c'erano più fondi per ospitarla nella struttura in cui si era rifugiata (Corte EDU, Sezione Prima, sentenza Talpis c. Italia, 2 marzo 2017, ric. n. 41237/14);

    nel caso appena citato il dirigente dei servizi sociali di Udine negò i necessari fondi per permettere all'associazione che ospitava la signora Talpis di tenerla presso il rifugio o almeno fornirle una soluzione alternativa di accoglienza con un evidente «rimbalzo» di responsabilità per questioni meramente burocratico-formali tra vari servizi pubblici, tanto che la Corte europea ha affermato che le autorità italiane non hanno assicurato alla signora Talpis una protezione effettiva, favorendo un contesto di impunità nel quale si trovava il marito. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa in data 7 giugno, nella procedura di supervisione delle decisioni della Cedu ha chiesto ulteriori misure individuali e generali;

    è opportuno rilevare, altresì, che in molti territori il problema si rileva nella messa in protezione delle donne adulte non accompagnate da figli/e minorenni, o perché non hanno figli/e o per età (troppo piccole, fascia 18-25 anni, o troppo grandi, con figli/e maggiorenni) per le quali gli enti locali non rispondono economicamente creando situazioni di oggettivo rischio per tale target di violenza basata sul genere;

    la violenza sulle donne assume diverse sfaccettature e, in Italia, si continua ad ignorare la gravità e l'entità della violenza assistita e delle sue conseguenze, tendendo a colpevolizzare la madre (vittima di violenza), imputandole una responsabilità di cosiddetta «alienazione parentale» quando la stessa cerca dopo la separazione di difendersi dall'ex partner e padre dei figli/e violento;

    la violenza assistita non è riconosciuta come reato autonomo, ma inizia ad essere considerata dalla giurisprudenza come reato di maltrattamenti a danno dei/lle minori, ovvero può essere considerata ai sensi della legge n. 119 del 2013, come circostanza aggravante dell'articolo 572 del codice penale a carico dell'autore di violenza quando gli atti sono commessi «in presenza di minore degli anni diciotto»; si tratta evidentemente di previsione insufficiente, di aspetto meramente repressivo, di nessuna rilevanza sul piano civilistico;

    ancora oggi da parte dei servizi sociali o dei tribunali l'obiettivo principale è salvaguardare e conservare «il rapporto con la prole», ovvero il legame genitore-figlio/a, sulla base del presupposto che conservare un legame affettivo con un genitore biologico sia di per sé produttivo di effetti benefici, e che agire con violenza nei confronti del proprio partner all'interno di una relazione sentimentale non sia un comportamento indicativo di scarse competenze genitoriali;

    spesso l'uomo che ha posto atteggiamenti violenti e aggressivi contro l'ex moglie, a cui è stata addebitata la separazione, non perde l'affidamento dei figli ma soltanto nel caso in cui le condotte lesive siano poste anche nei riguardi dei bambini;

    ove esistenti, i centri antiviolenza specializzati e gestiti da Ong di donne offrono interventi e sostegno ai/lle minori vittime in famiglia di violenza assistita e/o diretta. Nella maggior parte dei casi però il sostegno e l'assistenza è demandata ai servizi di supporto generale, che hanno scarsa o nessuna formazione in tema di violenza contro le donne e che interpretano il loro mandato con un presunto «approccio neutro» che comporta mettere sempre – anche nei casi di violenza – i genitori sullo stesso piano, lasciando così ampio spazio al genitore violento di continuare ad agire la sua violenza su figli/e e madre;

    in tale contesto, sono purtroppo tanti i/le bambini/e uccisi/e dal padre maltrattante solo per vendetta nei confronti della donna e/o assieme alla donna o in un suicidio allargato: esempio emblematico è il caso di Federico Barakat, ucciso dal padre durante un incontro protetto all'interno della Asl di San Donato Milanese nonostante le ripetute denunce di maltrattamento e stalking presentate dalla madre, accusata peraltro di ostacolare i rapporti tra il padre e il figlio (il caso è all'esame della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo);

    dal punto di vista economico, il monitoraggio operato da Actionaid sui fondi antiviolenza nazionali ripartiti tra le regioni per le annualità 2015-2016 e per il piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere 2015-2017 ai sensi della legge 15 ottobre 2013, n. 119, mostra evidenti ritardi nella programmazione ed erogazione delle risorse, mettendo a rischio la possibilità concreta per le donne di accedere ai servizi fondamentali per uscire da situazioni di violenza;

    benché i fondi antiviolenza per il triennio 2015-2017 ammontino a circa 85,7 milioni euro circa risulterebbero erogati soltanto il 35,9 per cento, pari a circa 30,8 milioni di euro;

    analoghi ritardi si registrano sul fronte delle regioni, tanto che, dei fondi destinati ai centri antiviolenza e le case-rifugio (annualità 2015-2016), ad oggi le regioni hanno liquidato infatti solo il 25,9 per cento delle risorse: nello specifico, è stato erogato il 30,6 per cento dei fondi destinati al potenziamento dei centri antiviolenza, delle case rifugio esistenti e degli interventi regionali già operativi e il 17 per cento dei fondi per l'istituzione di nuove strutture;

    in merito ai centri antiviolenza, la rilevazione dell'Istat pubblicata il 28 ottobre 2019 e relativa al 2017, evidenzia che si sono rivolte ai centri 43.467 donne (15,5 ogni 10 mila donne); il 67,2 per cento ha iniziato un percorso di uscita dalla violenza (10,7 ogni 10 mila) e tra queste il 63,7 per cento ha figli, minorenni nel 72,8 per cento dei casi;

    nel 2017 i fondi pubblici per i centri antiviolenza sono stati 12 milioni di euro, che, se divisi per il numero delle donne accolte secondo l'Istat, ammontano a 76 centesimi: una cifra inadeguata che evidenzia il massiccio ricorso al volontariato da parte dei centri antiviolenza senza il cui supporto sarebbe difficile garantirne il funzionamento;

    dal punto di vista legislativo, in passato sono state poste in essere diverse iniziative positive e meritorie nella direzione del rafforzamento delle misure di tutela contro la violenza sulle donne; non ci si può esimere, a tal riguardo, dal dare atto di quanto realizzato durante il IV Governo Berlusconi, quando, per la prima volta, è stato posto in essere un piano nazionale contro la violenza di genere e lo stalking, finanziato con oltre 18 milioni di euro e teso a realizzare una strategia di contrasto su scala nazionale, con l'obiettivo di ottenere una positiva collaborazione tra i centri antiviolenza delle regioni, il numero verde 1522 e le diverse professionalità esistenti nelle fila delle forze dell'ordine;

    con la tipizzazione del reato di stalking, avvenuta nel 2009, il Governo e il Parlamento hanno dimostrato un adeguato livello di attenzione all'individuazione di strategie di contrasto e di prevenzione della violenza, realizzando un importante passo in avanti nel sistema legislativo;

    tuttavia, la situazione odierna è ben diversa rispetto agli impegni profusi dai Governi Berlusconi; l'attività dell'attuale Esecutivo appare ai firmatari del presente atto di indirizzo deficitaria e lacunosa e si sta compiendo un grande errore nell'interrompere il percorso virtuoso avviato dall'ultimo Governo Berlusconi che aveva ottenuto risultati notevoli nel contrasto alla violenza sulle donne sulla base del consenso e della proficua collaborazione di tutte le forze politiche presenti in Parlamento, nonché col sostegno e la preziosa ed attiva collaborazione dei membri del mondo dell'associazionismo dei centri anti-violenza;

    benché il 14 novembre 2018 la Camera abbia approvato all'unanimità la mozione sul contrasto della violenza di genere presentata dal gruppo Forza Italia, ancora oggi, mancano interventi concreti volti a dare concreta attuazione a tutti gli impegni profusi nella mozione citata;

    per quanto riguarda più propriamente gli interventi di natura legislativa, il gruppo di Forza Italia, pur condividendo la linea ispiratrice, ha condotto una vera e propria battaglia durante l'esame del cosiddetto codice rosso (legge 19 luglio 2019, n. 69) al fine di apportare dei miglioramenti alla proposta di legge d'iniziativa del Movimento 5 Stelle adottata come testo base dalla Commissione giustizia;

    tra le novità introdotte in tema di violenza domestica e di genere sono state recepite importanti proposte avanzate da Forza Italia, che già il 25 luglio 2018, aveva presentato una proposta di legge in materia di tutela e informazione delle vittime di reati violenti e in gran parte recepita dalla legge 19 luglio 2019, n. 69;

    il cosiddetto codice rosso (legge 19 luglio 2019, n. 69) è intervenuto sulla necessità di velocizzare l'instaurazione del procedimento e, conseguentemente, accelerare l'eventuale adozione di provvedimenti di protezione delle vittime attraverso modifiche puntuali al codice penale che risultano fondamentali per tutelare le vittime di violenza domestica e di genere: a fronte di notizie di reato a delitti di violenza domestica e di genere, la polizia giudiziaria, acquisita la notizia di reato, riferisce immediatamente al pubblico ministero e quest'ultimo, entro tre giorni dall'iscrizione della notizia di reato, assume informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti di reato;

    in tale contesto, particolare menzione meritano le proposte di Forza Italia approvate in sede parlamentare, tra le quali: l'introduzione di una nuova fattispecie penale, ovvero, l'articolo 612-ter, in materia di diffusioni di immagini o video sessualmente espliciti (sexting e revenge porn); l'introduzione di una fattispecie specifica di reato, diretta a punire la «costrizione o induzione al matrimonio mediante coercizione»; l'aumento della pena di cui all'articolo 609-quater del codice penale se il compimento degli atti sessuali con il minore che non abbia compiuto gli anni quattordici avviene in cambio di denaro o altra utilità, anche solo promessi; l'applicazione di procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici (braccialetti elettronico) nei casi di divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa; la previsione che in caso di condanna per reati sessuali, la sospensione della pena viene subordinata alla partecipazione a percorsi di recupero ad hoc;

    oltre alle proposte appena citate, la battaglia di Forza Italia è andata ben oltre, attraverso l'approvazione dell'emendamento con cui è stato previsto lo stanziamento di una quota pari a 3 milioni di euro per l'anno 2019 e 5 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2020 da destinare a misure di sostegno e di aiuto economico in favore delle famiglie affidatarie degli orfani per crimini domestici;

    proprio in merito allo stanziamento delle risorse in favore degli orfani per crimini domestici (previsto dalla legge n. 4 del 2018), ad oggi non è stato ancora emanato il regolamento volto a stabilire i criteri e le modalità per l'utilizzazione delle risorse in favore degli orfani per crimini domestici e al finanziamento di iniziative di orientamento, di formazione e di sostegno per l'inserimento dei medesimi nell'attività lavorativa, svuotando di significato i molteplici interventi in favore degli orfani di crimini domestici lasciandoli, di fatto, senza alcuna tutela effettiva;

    a ciò si aggiunga che, a seguito dell'approvazione del cosiddetto codice rosso, l'aumento delle denunce delle vittime di violenza di genere, ha fatto crescere in maniera altrettanto esponenziale il lavoro delle procure senza che siano stati forniti i mezzi e le risorse necessarie per far fronte sia in maniera qualitativa sia quantitativa al nuovo carico di lavoro;

    purtroppo, ancora oggi, in troppi casi, accade che un procedimento penale scaturito da una denuncia per violenza domestica proceda completamente staccato dal procedimento civile di separazione e si disponga l'affido condiviso dei figli e/o si impongano diritti di visita che mettono a repentaglio i diritti e la sicurezza della vittima o dei minori;

    con particolare riferimento alla risoluzione di conflitti intra familiari, dai dati Istat su separazioni e divorzi in Italia si evince che nel 2005 (prima dell'emanazione della legge n. 54 del 2006) i figli/e affidati alla madre erano l'80,7 per cento nelle separazioni e l'82,7 per cento nei divorzi, mentre, dopo l'entrata in vigore della legge, nel 2009 solo il 12,2 per cento di figli/e è stato affidato alla madre contro un 86,2 per cento in affido condiviso; nel 2015 solo l'8,9 per cento dei figli/e è stato affidato alla madre contro un 89 per cento in affido condiviso;

    nei casi di «grave pregiudizio» per il figli/o, l'articolo 330 del codice civile prevede che possa essere dichiarata la decadenza e/o limitata la responsabilità genitoriale del genitore abusante e l'articolo 337-quater del codice civile stabilisce che «il giudice può disporre l'affidamento dei figli ad uno solo dei genitori qualora ritenga con provvedimento motivato che l'affidamento all'altro sia contrario all'interesse del minore»;

    la formulazione generica delle disposizioni del codice civile appena citate, che non menzionano espressamente l'ipotesi di violenza nelle sue più diverse forme possibili, ha portato ad una generale disapplicazione di tali previsioni nei casi di violenza assistita, tanto che l'attenzione del giudicante ai fini dell'adozione dei provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità, è rivolta alla sola violenza diretta sul/la minore (con il frequente limite che si tende a non vedere la violenza diretta psicologica) e in più si verifica una «impermeabilità» alla violenza agita da un genitore ai danni dell'altro della quale i/le minori sono stati testimoni (cosiddetta violenza assistita);

    in tale contesto, la violenza viene dunque ignorata e ogni richiesta di limitazione della responsabilità genitoriale o di affidamento esclusivo è ritenuta infondata e illegittima: i padri accusati di aver commesso violenza domestica hanno la stessa probabilità dei padri non violenti di ottenere l'affidamento dei figli/e, poiché si dà scarso valore alla violenza agita in ambito domestico, pronosticando che nel futuro saranno superate tali problematiche (con sottovalutazione dei potenziali pericoli sia per le madri che per i figli/e nella futura gestione dei rapporti), nell'idea che la figura paterna non possa mai venir meno;

    molto spesso non si individua il pericolo che questo genitore rappresenta e si attua una forma occulta di mediazione e/o conciliazione, davanti ai/le giudici o ai servizi sociali, tesa a trovare comunque un accordo sui diritti e tempi di incontro tra il padre violento e i minori, ed a definire consensualmente il procedimento di separazione: in questo modo si obbliga, implicitamente, la donna a definire il procedimento con una conciliazione, denegando giustizia anche nei casi in cui sia espressamente richiesta l'adozione di provvedimenti giudiziali, con implicita violazione del divieto di mediazione obbligatoria previsto all'articolo 48 della Convenzione;

    nel momento in cui le madri sollevano la questione della violenza subita per chiedere protezione anche per i figli/e dal padre violento, rischiano di essere penalizzate venendo considerate come alienanti, vendicative o alla ricerca di vantaggi economici;

    nel sistema italiano manca il raccordo tra procedimento penale e procedimento civile, se non limitato alla mera comunicazione dell'esistenza del procedimento penale alla Procura minorile ai sensi dell'articolo 609-decies del codice penale: se da una parte, infatti, tali comunicazioni vengono effettuate, e sono rilevanti ai fini della notizia dell'esistenza di un procedimento penale, dall'altra raramente segue da parte dei tribunali per i minorenni l'emanazione di provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale, così come avviene anche nei procedimenti avanti al giudice ordinario;

    tutto ciò è stato rilevato anche dal Consiglio superiore della magistratura, organo di governo della magistratura che, con risoluzione del 9 maggio 2018, ha individuato la necessità di cooperazione tra magistratura ordinaria, sia penale che civile, e minorile qualora sia pendente un giudizio di separazione o divorzio, per evitare la possibilità di vittimizzazione processuale sul coniuge o sui minori vittime di violenza diretta o assistita con possibile adozione di provvedimenti inconciliabili che riguardano le medesime persone;

    di particolare rilevanza vi è il fatto che quando viene attivato un procedimento dinanzi al tribunale per i minorenni, a seguito di segnalazione di condotte violente agite da un genitore ai danni dell'altro ed in presenza dei figli/e minori comuni, vengano di prassi adottati provvedimenti che dispongono l'affidamento del figlio/a minore al servizio sociale, anziché al genitore non violento;

    ciò nell'immaginario comune inevitabilmente induce a sollevare dubbi sull'adeguatezza della capacità genitoriale della vittima, che viene limitata nei suoi poteri e nella gestione dei figli/e, costretta ad interagire con soggetti istituzionali terzi per le varie decisioni relative ai figli/e, nella costante valutazione da parte di soggetti istituzionali con la conseguenza di una sua vittimizzazione secondaria;

    le consulenze tecniche d'ufficio disposte dai/lle magistrati/e, unitamente alle verifiche richieste ai servizi sociali in caso di «grave conflittualità», molto spesso, non considerano le violenze esercitate da un genitore sull'altro, così come non tengono conto della violenza assistita dai minori: si opera secondo il principio che il minore debba comunque mantenere relazioni significative con entrambe le figure genitoriali;

    le conseguenze di tale condizione sono devastanti per le donne cui è richiesto di tenere un profilo indifferente verso la violenza domestica vissuta, mantenendo un rapporto continuo e corretto con i padri dei/lle minori che le hanno maltrattate: se i/le minori si schierano a difesa della madre o dichiarano di avere paura del padre, la responsabilità ricade quasi sempre sulla madre che viene ritenuta portatrice di negatività verso il padre che trasferisce ai figli/e;

    l'attuale disciplina sull'affido condiviso, non prevedendo esplicitamente che nei casi di maltrattamento, abuso dei mezzi di correzione, violenze sessuali, violenze fisiche, debba escludersi tale affido, da un lato viola i diritti dei/lle minori a una vita libera da ogni forma di violenza, dall'altro non tutela le donne vittime di violenza domestica ed anzi le espone ad un incremento del rischio di violenza da parte dell'ex partner a causa della gestione condivisa dei/lle minori imposta dalla legge;

    partendo dal presupposto che solo con un profondo mutamento culturale si potrebbe combattere in modo efficace il fenomeno della violenza di genere, è necessario mettere in campo iniziative, anche in sede legislativa, volte a porre un freno all'incontenibile fenomeno di violenze che, purtroppo, ancora oggi molte donne sono costrette a subire,

impegna il Governo:

1) ad intraprendere le opportune iniziative al fine di prevedere un sistema integrato di rilevazione dei dati, anche giudiziari, che, superando la frammentarietà e la parzialità delle informazioni, generi flussi strutturati d'informazioni fruibili a livello nazionale e locale per le finalità proprie di tutti gli attori istituzionali, politici e sociali, anche disaggregati per le diverse condizioni, in particolare per presenza di disabilità;

2) ad adottare iniziative per prevedere il coordinamento e la coerenza tra interventi nazionali e regionali, coinvolgendo le associazioni di donne che offrono servizi specialistici, con allocazione di risorse umane, tecniche e finanziarie adeguate e stabili nel tempo per un'attuazione sistematica ed efficace delle azioni, il monitoraggio e la valutazione del loro impatto;

3) a prevedere opportune iniziative volte a promuovere percorsi di assistenza e di supporto psicologico per le donne che hanno subito una violenza e per i parenti delle vittime di femminicidio, nonché specifiche iniziative per incentivare l'inserimento delle vittime di violenza nel mondo del lavoro;

4) ad adottare iniziative volte ad incrementare l'occupazione femminile come elemento fondamentale di emancipazione e liberazione da ogni tipo di violenza, intesa soprattutto quale strumento di inclusione sociale;

5) a intraprendere le opportune iniziative al fine di dotare gli uffici giudiziari dei mezzi e delle risorse idonee per rendere efficaci le misure previste dalla legge 19 luglio 2019, n. 69;

6) ad assumere le opportune iniziative al fine di stanziare risorse adeguate destinate alla formazione del personale impiegato nelle strutture di pubblica sicurezza, chiamato ad interagire con le donne che hanno subito maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori e lesioni aggravate, per incentivare una cultura sociale e giudiziaria orientata alla tutela della vittima;

7) ad effettuare una ricognizione sul numero degli ordini di allontanamento e degli ordini di protezione applicati annualmente dai tribunali in Italia e, in particolar modo, sui tempi di attuazione;

8) ad assumere iniziative al fine di sviluppare e attuare, anche in collaborazione con le associazioni di donne esperte sul tema e dei centri antiviolenza e case rifugio, azioni di formazione specifiche per gli operatori dei servizi generati e, nello specifico, competenze per individuare le donne con disabilità, in particolare con disabilità intellettiva o con difficoltà maggiori di comunicazione, vittime di violenza domestica e che necessitano di protezione per evitare la vittimizzazione secondaria;

9) ad intraprendere le opportune iniziative al fine di prevedere un sistema integrato di informazione a disposizione delle donne in merito alle diverse tipologie di servizi di supporto disponibili e in merito alle misure legali che possono richiedere;

10) ad adottare iniziative per assicurare che i finanziamenti stanziati annualmente siano erogati regolarmente senza ritardi per permettere ai servizi specializzati di operare conformemente agli standard internazionali e nazionali in materia di diritti umani, con meccanismi di imputazione delle responsabilità pubbliche rispetto al sostegno e alla protezione forniti alle donne vittime di violenza;

11) ad assumere le iniziative di competenza al fine di rendere omogenea la normativa in tema di procedure per l'accesso e l'ospitalità nelle case rifugio delle donne vittime di violenza, indipendentemente da questioni di reddito delle stesse;

12) ad assumere iniziative al fine di rivedere ed adeguare i meccanismi di finanziamento statali, garantendo su tutto il territorio nazionale una presenza delle case rifugio sufficiente in linea con i parametri internazionali, privilegiando quelle che possono con sicurezza garantire la qualità dei servizi e la loro competenza di genere e sui diritti umani, oltre alla qualità professionale;

13) ad assumere iniziative legislative al fine di prevedere nel codice civile la fattispecie di reato riferita alla violenza intra-familiare come causa di esclusione di affidamento condiviso e la violenza assistita come causa di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale;

14) ad assumere iniziative legislative volte a prevedere agli articoli 604-bis e 604-ter del codice penale il concetto di discriminazione fondata sul genere;

15) ad adottare iniziative per prevedere percorsi costanti di formazione obbligatoria sulla violenza assistita e di genere agli operatori/trici sociali, sanitari e di giustizia;

16) ad assumere le opportune iniziative al fine di promuovere attività di prevenzione della violenza contro le donne attraverso l'attivazione di corsi di difesa personale e di arti marziali, anche in collaborazione con le associazioni operanti nel settore;

17) ad assumere iniziative legislative volte a prevedere nel codice civile la «violenza domestica e violenza assistita» come requisito per definire la contrarietà all'interesse del minore, al fine dell'adozione di provvedimenti di affido esclusivo e provvedimenti di limitazione/decadenza della responsabilità genitoriale;

18) ad intraprendere le opportune iniziative al fine di emanare tempestivamente il decreto recante il regolamento con cui sono stabiliti i criteri e le modalità per l'utilizzazione delle risorse destinate all'erogazione di borse di studio in favore degli orfani per crimini domestici e al finanziamento di iniziative di orientamento, di formazione e di sostegno per l'inserimento dei medesimi nell'attività lavorativa, ai sensi dell'articolo 11 della legge 11 gennaio 2018, n. 4.
(1-00285) «Carfagna, Prestigiacomo, Gelmini, Aprea, Anna Lisa Baroni, Bartolozzi, Bergamini, Biancofiore, Brambilla, Calabria, Cristina, Fascina, Ferraioli, Fiorini, Fitzgerald Nissoli, Labriola, Marrocco, Mazzetti, Milanato, Polidori, Polverini, Porchietto, Ravetto, Ripani, Rossello, Ruffino, Saccani Jotti, Santelli, Elvira Savino, Sandra Savino, Siracusano, Spena, Tartaglione, Maria Tripodi, Versace, Vietina, Zanella».

(11 novembre 2019)

MOZIONE CONCERNENTE INIZIATIVE PER LA PREVENZIONE E LA CURA DELL'OBESITÀ

   La Camera,

   premesso che:

    l'obesità rappresenta ormai un problema rilevantissimo di salute pubblica e di spesa per i sistemi sanitari nazionali, spesa che diverrà insostenibile se non saranno adottate politiche di prevenzione adeguate, non disgiunte da programmi di gestione della malattia in grado di affrontare il fardello delle comorbidità, ciò ad intendere la situazione nella quale si verifica in uno stesso soggetto una sovrapposizione e un'influenza reciproca di più patologie, in questo caso connesse all'obesità (diabete, ipertensione, dislipidemia, malattie cardio e cerebrovascolari, tumori, disabilità);

    secondo stime recenti dell'Istat in Italia vi sono circa 21 milioni di soggetti in sovrappeso, mentre il numero degli obesi è di circa 6 milioni, con un incremento percentuale di circa il 10 per cento rispetto al 2001; è sovrappeso oltre 1 persona su 3 (36 per cento, con preponderanza maschile: 45,5 per cento rispetto al 26,8 per cento nelle donne) e obesa 1 su 10 (10 per cento) e oltre il 66,4 per cento delle persone con diabete di tipo 2 è anche sovrappeso o obeso;

    l'incremento dell'obesità è attribuibile soprattutto alla popolazione maschile, in particolare nei giovani adulti di 25-44 anni e tra gli anziani;

    sovrappeso e obesità affliggono principalmente le categorie sociali svantaggiate che hanno minor reddito e istruzione, oltre a maggiori difficoltà di accesso alle cure;

    l'obesità riflette e si accompagna dunque alle disuguaglianze, innestandosi in un vero e proprio circolo vizioso che coinvolge gli individui che vivono in condizioni disagiate, i quali devono far fronte a limitazioni strutturali, sociali, organizzative e finanziarie che rendono difficile compiere scelte adeguate relativamente alla propria dieta e all'attività fisica;

    nel nostro Paese tra gli adulti con un titolo di studio medio-alto la percentuale degli obesi si attesta intorno al 5 per cento (per le persone laureate è pari al 4,6 per cento, per i diplomati è del 5,8 per cento), mentre triplica tra le persone che hanno conseguito al massimo la licenza elementare (15,8 per cento);

    lo stigma sull'obesità, ovvero la disapprovazione sociale, come rilevato dalla World obesity federation, è una delle cause che, attraverso stereotipi, linguaggi e immagini inadatte, finisce per ritrarre l'obesità in modo impreciso e negativo;

    lo stigma del peso si riferisce ai comportamenti e agli atteggiamenti negativi che sono rivolti verso le persone unicamente a causa del loro peso;

    esistono dati a livello globale di discriminazione basata sul peso in molte fasi della vita lavorativa, come nell'orientamento professionale, nei colloqui e nelle procedure di selezione, nelle disparità salariali, nei minori avanzamenti di carriera, nelle azioni disciplinari più severe e nel più elevato numero di licenziamenti;

    il bullismo sui giovani con obesità è uno dei fattori presenti nell'ambiente scolastico;

    l'alimentazione in gravidanza e nei primi anni di vita è fondamentale per uno sviluppo armonico dei bambini, per il contenimento della generazione delle cellule adipose e per lo sviluppo del sistema immunitario, come numerosi studi riportano in relazione all'importanza dei primi «mille giorni di vita», comprendendovi anche la gestazione, e come lo stesso Ministero della salute dipartimento per la prevenzione ha sottolineato, affermando che: «le evidenze scientifiche disponibili confermano che i primi mille giorni di vita sono fondamentali per un adeguato sviluppo fisico e psichico»;

    accade spesso che i bimbi, anche di pochi mesi e comunque entro i «mille giorni», siano nutriti presso strutture comunitarie, asili nido per esempio, strutture sul territorio nazionale ove si privilegia una dieta che giornalmente prevede proteine in eccesso, in particolare di origine animale. Risulta carente la cultura in merito alla possibile assunzione degli aminoacidi essenziali anche solo sommando nello stesso pasto legumi e cereali. Numerosi studi riferiscono all'eccesso di proteine animali, in particolare nei primi anni di vita, lo sviluppo di obesità e patologie metaboliche, in crescita nel nostro Paese. Vi sono evidenze di un'associazione tra lo squilibrio di nutrienti della dieta nelle prime fasi della vita e il rischio aumentato di sviluppare obesità e «non communicable diseases» nelle epoche successive; presso queste stesse strutture comunitarie i bambini di solito assumono un solo pasto al giorno: senza una dovuta educazione nutrizionale delle famiglie dei bimbi si corre il rischio che essi assumano proteine animali più volte al giorno; senza contare che la produzione di proteine animali è correlata a circa il 10 per cento delle emissioni di gas serra in Italia;

    la nutrizione non è sufficientemente integrata nell'educazione medica, indipendentemente dal Paese esaminato o dall'anno accademico;

    è stato istituito con decreto ministeriale del 18 gennaio 2019 presso il Ministero della salute «Il Tavolo di lavoro per la prevenzione e il contrasto del sovrappeso e dell'obesità»;

    l'obesità desta particolare preoccupazione per l'elevata comorbidità associata, specialmente di tipo cardiovascolare, come ad esempio il diabete tipo 2, in genere preceduto dalle varie componenti della sindrome metabolica (ipertensione arteriosa e dislipidemia aterogena), con progressione di aterosclerosi e aumentato rischio di eventi cardio e cerebrovascolari;

    sono sufficienti pochi dati per valutare la dimensione del problema: in chi pesa il 20 per cento in più del proprio peso ideale aumenta del 25 per cento il rischio di morire di infarto e del 10 per cento di morire di ictus rispetto alla popolazione normopeso, mentre, se il peso supera del 40 per cento quello consigliato, il rischio di morte per qualsiasi causa aumenta di oltre il 50 per cento, per ischemia cerebrale del 75 per cento e per infarto miocardico del 70 per cento; alla luce di queste condizioni, anche la mortalità per diabete aumenta del 400 per cento;

    è altrettanto importante sottolineare la correlazione fra eccesso di peso e rischio di tumori: per ogni 5 punti in più di indice di massa corporea (Bmi) il rischio di tumore esofageo negli uomini aumenta del 52 per cento e quello di tumore al colon del 24 per cento, mentre nelle donne il rischio di tumore endometriale e di quello alla colecisti aumenta del 59 per cento e quello di tumore al seno, nella fase post menopausa, del 12 per cento;

    l'eccesso di peso è anche responsabile di patologie non letali ma altamente disabilitanti e costose in termini di accesso alle cure, come ad esempio l'osteoartrosi;

    la dimensione del problema è tale non solo da meritare l'attenzione delle istituzioni e della politica, ma anche da rappresentare una priorità nell'ambito delle scelte da adottare e delle azioni da intraprendere a stretto giro nell'insieme delle questioni di salute pubblica da affrontare con più urgenza, per contenere il fenomeno e contrastarne le devastanti conseguenze. Infatti, non si può più ignorare che l'obesità influenzi pesantemente anche lo sviluppo economico e sociale: secondo la Carta europea sull'azione di contrasto all'obesità, obesità e sovrappeso negli adulti comportano costi diretti (ospedalizzazioni e cure mediche) che arrivano a rappresentare fino all'8 per cento della spesa sanitaria nella regione europea; tali patologie, inoltre, sono responsabili anche di costi indiretti, conseguenti alla perdita di vite umane e di produttività e guadagni correlati, valutabili in almeno il doppio dei citati costi diretti;

    a livello mondiale, l'obesità è oggi responsabile di un costo complessivo pari a circa 2000 miliardi di dollari, che corrisponde al 2,8 per cento del prodotto interno lordo globale; l'impatto economico dell'obesità, in altre parole, è sovrapponibile a quello del fumo di sigaretta e a quello di tutte le guerre, atti di violenza armata e di terrorismo;

    in Italia i dati più recenti riguardo i costi dell'obesità sono stati ricavati nell'ambito del progetto «Sissi», svolto con i database della medicina generale, dalla regione Toscana: lo studio stima che l'eccesso di peso sia responsabile del 4 per cento della spesa sanitaria nazionale, per un totale di circa 4,5 miliardi di euro nel 2012;

    i programmi di contrasto all'obesità del Ministero della salute fanno riferimento nello specifico a diverse linee di attività, quali: la collaborazione con la regione europea dell'Organizzazione mondiale della sanità per la definizione di una strategia di contrasto alle malattie croniche, denominata «Gaining health»; la cooperazione con l'Organizzazione mondiale della sanità per la costruzione di una strategia europea di contrasto all'obesità; le indicazioni europee del Consiglio Epsco del 2006; il piano sanitario nazionale 2006-2008; il piano di prevenzione 2010-2012; lo sviluppo e il coordinamento del programma «Guadagnare salute»; il piano di prevenzione 2014-2018 per programmi di promozione della salute e strategie basate sull'individuo;

    l'impatto dell'obesità e delle malattie non trasmissibili (NCDs, non-communicable diseases), per le quali l'obesità rappresenta il principale fattore di rischio, è preso in seria considerazione ai vari livelli governativi;

    a settembre 2018 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha inserito come priorità di azione, articolata in 13 punti, la lotta alle malattie non trasmissibili e all'obesità, con particolare richiamo agli Stati membri per uno sforzo che aumenti e renda prioritaria la spesa indirizzata alla riduzione dei fattori di rischio delle malattie non trasmissibili e alla sorveglianza, alla prevenzione e alla diagnosi precoce degli stessi;

    in Inghilterra le policy sull'obesità sono state affrontate dai programmi «Change4life», incentrato particolarmente sulla prevenzione dell'obesità, e «Healthy child programme», indirizzato al contrasto dell'obesità giovanile; nel 2010 la responsabilità per le politiche alimentari è passata dalla Food standard Agency al Department of health e il Governo ha iniziato a collaborare con il mondo produttivo in una sorta di patto di responsabilità per la salute pubblica per far fronte a diverse problematiche, tra cui l'obesità;

    in Spagna nel 2011 è stata approvata una legge sulla sicurezza alimentare che contiene misure per l'implementazione della strategia contro l'obesità, Naos (Estrategìa para la nutrición, actividad fisica y prevención de la obesidad), con la possibilità di adattare le linee di azione ogni 5 anni; nel 2013 è stato istituito un Osservatorio sulle abitudini alimentari e per lo studio dell'obesità che, oltre al costante monitoraggio sulla prevalenza dell'obesità, prevede l'implementazione delle modifiche dello stile di vita;

    negli Stati Uniti il sistema federale non consente che vi sia una policy nazionale unitaria sull'obesità; tuttavia, a livello federale, nel 2011, è stata approvata la terapia intensiva comportamentale per l'obesità, ora rimborsata da Medicare e Medicaid;

    nel 2017 e nel 2018 l'Assemblea plenaria del Comitato delle regioni dell'Unione europea ha approvato due pareri d'iniziativa (123rd plenary session, 11-12 maggio 2017, «Health in cities: the common good», e 131st plenary session, 10 ottobre 2018 «Mainstreaming sport into the EU agenda post-2020»), i quali hanno individuato come obiettivo, tra gli altri, rispettivamente la lotta dell'obesità nell'ambito urbano e il ruolo dell'attività fisica e sportiva nella prevenzione dell'obesità;

    il sistema di sorveglianza, denominato «OKkio alla salute», sul sovrappeso e sull'obesità nei bambini delle scuole primarie (6-10 anni) e i fattori di rischio correlati, promosso e finanziato dal Ministero della salute/CCM-Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie, coordinato dal Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute (Cnesps) dell'Istituto superiore di sanità, in collaborazione con le regioni, il Ministero della salute e il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, collegato al programma europeo «Guadagnare salute» e ai piani di prevenzione nazionali e regionali, facente anche parte dell'iniziativa della regione europea dell'Organizzazione mondiale della sanità «Childhood obesity surveillance initiative», evidenzia che in Italia complessivamente il 37 per cento dei bambini presenta un eccesso ponderale fra sovrappeso e obesità;

    si stima che 1 bambino su 3 sia fisicamente inattivo, maggiormente le femmine rispetto ai maschi, e la frequenza di sovrappeso e obesità nei bambini conferma livelli preoccupanti di eccesso ponderale: il 25 per cento dei bambini è in sovrappeso e l'11 per cento obeso, con maggiore prevalenza nelle regioni del Sud d'Italia;

    secondo i dati della Childhood obesity surveillance initiative (2015-2017) dell'Organizzazione mondiale della sanità l'Italia ha il maggior numero dei bambini obesi o in sovrappeso tra le nazioni europee;

    entro il 2030 una migrazione di massa porterà 1,47 miliardi di persone dalle campagne alle città, causando anche un incremento dell'obesità e, conseguentemente, importanti documenti, quali il «Copenhagen consensus of mayors for healthier and happier cities for all» (WHO Europe 2018), la «Roma urban health declaration» (2017 G7 on Health Italian precidency), il Manifesto per la «Salute nelle città: bene comune» (Health city Institute-ANCI 2017), il «Bending the curve» (Cities changing diabetes summit, Houston 2017), individuano nella lotta all'obesità in ambito urbano una delle priorità d'azione per le istituzioni governative e i sindaci nell'ambito dell’urban health;

    in occasione della Giornata mondiale e nazionale dell'obesità 2018, l’Italian obesity network ha promosso il documento «Manifesto dell’Italian obesity network per un futuro sostenibile» e per la Giornata 2019 il documento «Carta dei diritti e dei doveri delle persone con obesità», sottoscritto da tutte le società scientifiche e le associazioni di pazienti attive sull'obesità in Italia,

impegna il Governo:

1) ad adottare iniziative normative affinché nell'ordinamento siano introdotte una definizione di obesità come malattia cronica caratterizzata da elevati costi, diretti e indiretti, economici e sociali e una definizione del ruolo degli specialisti che si occupano di tale patologia;

2) a implementare un piano nazionale sull'obesità che armonizzi, a livello nazionale, le attività nel campo della prevenzione e della lotta all'obesità, un documento, condiviso con le regioni, che, compatibilmente con la disponibilità delle risorse economiche, umane e strutturali, individui un disegno strategico comune inteso a promuovere interventi basati su un approccio multidisciplinare integrato e personalizzato, centrato sulla persona con obesità e orientato a una migliore organizzazione dei servizi e a una piena responsabilizzazione di tutti gli attori dell'assistenza;

3) ad adottare iniziative per assicurare alla persona con obesità il pieno accesso agli iter diagnostici per le comorbidità, alle cure e ai trattamenti dietetico-alimentari e, nei casi più gravi, l'accesso a centri di secondo livello per valutare approcci psicologici, farmacologici e chirurgici;

4) a prevedere una più stringente implementazione di quanto previsto nel Patto nazionale della prevenzione 2014-2018 relativamente alle politiche di contrasto all'obesità, adottando iniziative vincolanti nel nuovo Patto nazionale della prevenzione 2020-2025, prevedendo linee guida inerenti ai «primi 1.000 giorni di vita» del bambino;

5) a promuovere il miglioramento della formazione degli operatori sanitari sul tema della nutrizione e a promuovere una maggiore cultura per gli operatori scolastici e per i neo genitori su questo tema;

6) a promuovere ulteriori studi sulle cause di obesità e ad adottare iniziative per migliorare gli standard di nutrizione delle mamme in gravidanza e dei bambini per agire, in particolare anche sui primi «1.000 giorni», esplicitando che non vi è obbligo di erogazione quotidiana di proteine animali nelle mense pubbliche e favorendo un approccio culturale basato sull'assunzione del corretto quantitativo di proteine e sulla possibilità di assumere gli aminoacidi essenziali anche con sole proteine vegetali;

7) a promuovere programmi per la prevenzione dell'obesità infantile e per la lotta alla sedentarietà attraverso iniziative coordinate di promozione della salute, intesa nella sua dimensione biopsicosociale, che implementino a livello scolastico l'attività fisica e sportiva, la sana alimentazione e l'informazione sulla promozione dei corretti stili di vita, compresa la qualità relazionale;

8) a intraprendere iniziative congiunte e sinergiche di informazione alla popolazione a sostegno di quanto promosso dalla campagna nazionale e internazionale denominata Obesity Day;

9) a promuovere percorsi educativi e informativi e interventi a tutela della persona con obesità negli ambienti lavorativi e scolastici, volti a contrastare le discriminazioni e gli atti di bullismo anche nei confronti delle persone con obesità;

10) a intraprendere tutte le iniziative per la protezione dell'allattamento al seno materno, per sei mesi esclusivo e fino a due anni complementare;

11) ad assumere iniziative per disciplinare la pubblicità di prodotti alimentari e bevande per bambini, al fine di:

   a) adoperarsi affinché i luoghi dove i bambini si riuniscono (asili, scuole, cortili delle scuole e centri di pre-scuola, parchi giochi, cliniche della famiglia e del bambino e servizi pediatrici e durante tutte le attività sportive e culturali) siano liberi da ogni forma diretta e indiretta di pubblicità di alimenti con un alto contenuto di grassi saturi, acidi grassi, zuccheri e sali liberi;

   b) sviluppare politiche di contenimento del marketing alimentare sui bambini, con la predisposizione di misure che proteggano l'interesse pubblico;

   c) identificare le informazioni e la natura degli effetti del marketing alimentare rivolto ai bambini per sviluppare ulteriori ricerche in questo campo, al fine di ridurre l'impatto sui bambini della pubblicità di alimenti con un eccessivo contenuto di grassi saturi, acidi grassi, zuccheri e sali liberi;

12) ad assumere iniziative per stimolare l'industria alimentare a studiare un'adeguata porzionatura dei prodotti per l'infanzia e l'adolescenza, tenuto conto di tutti i nutrienti che possono influire sullo sviluppo di obesità.
(1-00082) (Nuova formulazione) «Pella, Bologna, Boldi, Carnevali, Gemmato, De Filippo, Rostan, Pedrazzini, Cecconi, Giacometto, Pentangelo, Rosso, Zangrillo, Occhiuto, Bagnasco, D'Arrando, Siani, Sozzani, Versace, Di Lauro, Nappi, Sportiello, Provenza, Zolezzi, Giordano, Sarli, Menga, Nevi, Perego Di Cremnago».

(28 novembre 2018)

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