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PDL 3205

XVI LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 3205



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

VASSALLO, BORDO, BOSSA, CAPANO, GIACHETTI, GIULIETTI, MINNITI, MOGHERINI REBESANI, LEOLUCA ORLANDO, ARTURO MARIO LUIGI PARISI, PES, SARUBBI, SCHIRRU, SIRAGUSA, TOCCI

Modifica dell'articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, in materia di tutela dell'ordine pubblico e di uso di indumenti indossati per ragioni di natura religiosa o etnico-culturale

Presentata l'11 febbraio 2010


      

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Onorevoli Colleghi!

      1. La presente proposta di legge disciplina l'uso in luogo pubblico o aperto al pubblico di indumenti indossati per ragioni di carattere religioso o etnico-culturale che coprono il volto rendendo difficoltoso il riconoscimento della persona. Questa esigenza è determinata dalla pratica in uso presso gruppi minoritari di religione musulmana di cui si riscontra una presenza - sebbene assai ridotta e al momento difficile da quantificare - anche in Italia.
      È utile ricordare, in premessa, che esistono quattro «principali» tipi di velo:

          1) il niqab: un velo che copre tutto il corpo, compreso il viso, ad eccezione degli occhi;

          2) l'hijab: un velo che copre il collo e i capelli, ma non il viso;

          3) il sitar: un velo supplementare che alcune donne in jilbab (simile all'hijab) usano per coprire integralmente il corpo, compresi gli occhi, accompagnato da guanti per le mani;

 

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          4) il burqa: un abito che copre integralmente il corpo, mentre gli occhi sono nascosti da una «griglia» in tessuto.

      Nella categoria oggetto della presente proposta di legge ricadono dunque il burqa, il sitar e il niqab. Non ricadono invece tra le fattispecie regolamentate i veli - quale l'hijab - che coprono il capo ma non il viso e tutti quelli che in ogni caso rendono identificabile il soggetto che li indossa.

      2. Si è già posto il problema se per tali indumenti sia applicabile il divieto di cui all'articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, relativo all'uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo, norma che punisce il contravventore con l'arresto da uno a due anni e con l'ammenda da 1.000 a 2.000 euro.
      La questione si è posta a seguito dell'ordinanza n. 24 del 2004, del sindaco del comune di Azzano Decimo, in provincia di Pordenone, adottata in materia di pubblica sicurezza, la quale ha espressamente incluso tra i «mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona» anche «il velo che copre il volto», tra cui il burqa e il niqab. Tale ordinanza, annullata dal prefetto competente, è stata tuttavia censurata dal Consiglio di Stato, sezione VI, decisione n. 3076 del 19 giugno 2008, il quale ha chiarito che, pur in assenza di una previsione esplicita, è possibile far rientrare tra i giustificati motivi che consentono di coprire il volto anche quello religioso o culturale. Nello specifico, il Consiglio di Stato sottolinea che il «velo che copre il volto» non è utilizzato generalmente per evitare il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture. Dunque, secondo il Consiglio di Stato la legislazione vigente consente l'uso di indumenti quali il burqa e il niqab anche in luogo pubblico perché il motivo religioso rientra tra i «giustificati motivi» che escludono l'ambito di applicazione dell'articolo 5 della legge n. 152 del 1975.
      Rimangono però seri dubbi sull'opportunità di affidare all'interpretazione di organi amministrativi o giurisdizionali una materia così delicata e carica di implicazioni non solo riferite ad esigenze di sicurezza pubblica.

      3. Il dibattito sull'uso del burqa ha assunto un rilievo internazionale a ridosso della guerra in Afghanistan nel 2002,quando le immagini di donne coperte integralmente da un indumento in tessuto colorato apparvero sulle pagine dei principali quotidiani, quale monito caritatevole per giustificare l'intervento militare esportatore di democrazia.
      L'uso del burqa deriva da costumi culturali interpretati come precetti religiosi che veicolano una concezione del ruolo della donna incompatibile con i valori oggi condivisi dai cittadini italiani ed europei. Numerose testimonianze dimostrano che la pratica incide sulla dignità delle donne ed è spesso indotta prevaricando la loro volontà.
      È molto istruttivo al riguardo il lavoro svolto dalla Commissione parlamentare «Gérin» istituita nel 2009 in Francia e che, nel corposo rapporto appena consegnato, considera l'uso non volontario del «velo integrale» espressione di «arcaismo culturale e proselitismo integralista», che colpisce la dignità umana e in particolare quella delle donne. Queste ultime sarebbero vittime di un'interpretazione arbitraria dei testi religiosi, in quanto l'uso del burqa non costituisce una prescrizione islamica, ma un'espressione del comunitarismo integralista, specialmente in alcune aree dell'Asia centrale, che colpisce le donne, discriminandole socialmente. In effetti, il ricorso al «velo integrale» è più limitato nell'Africa del nord e in Turchia, mentre è più diffuso in Afghanistan ed è nato da un'interpretazione fortemente minoritaria che non si basa su alcun testo dottrinario incontestabile.
      L'associazione dell'uso del velo integrale con la religione musulmana ha indotto le principali organizzazioni francesi - quali il Consiglio francese del culto musulmano e le sue articolazioni regionali - ad assumere

 

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una netta posizione ribadendo che: «l'uso del velo integrale non è una prescrizione religiosa, ma piuttosto una pratica estrema, una pratica religiosa fortemente minoritaria basata su pareri minoritari».
      In Francia, secondo dati del Ministero dell'interno riportati nel rapporto Gérin, le donne che usano il «velo integrale» sarebbero circa duemila (1.900). Secondo il quotidiano «Le Monde» (30 luglio 2009), che pure riporta i dati diffusi dal Ministero dell'interno (direction centrale du renseignement intirieur), quelle che portano il burqa sarebbero solo 367 su circa 3.500.000 musulmane.
      Ma gli operatori dei servizi pubblici coinvolti nella rilevazione segnalano una crescita del velo «semplice» soprattutto tra le donne giovani, a fronte del crescente spazio occupato nel dibattito pubblico sul burqa. La metà delle donne che usa il velo integrale in Francia ha meno di trenta anni di età, il 90 per cento ne ha meno di quaranta e l'1 per cento è minorenne. Il dato rilevante, politicamente e socialmente, emerge guardando alla nazionalità: i due terzi delle donne che indossano il velo integrale sono di nazionalità francese e appartengono alla seconda o terza generazione dell'immigrazione degli anni cinquanta-sessanta. Secondo il rapporto esistono molteplici percorsi individuali. In una certa parte non facilmente quantificabile, le donne che usano il velo integrale sono vittime di violenze e sono costrette ad indossarlo in segno di sottomissione sociale e familiare. Esistono, altresì, casi nei quali il velo sostituisce una netta presa di posizione rispetto a una società considerata corrotta. In questa logica il velo viene utilizzato come strumento di proselitismo da gruppi settari e comunitaristi quali i salafiti, che in Francia sono circa 12.000, in forte crescita negli ultimi anni e coordinati da una rete di circa cinquanta luoghi di culto.
      Non esistono dati riguardanti l'Italia, ma possiamo presumere che il fenomeno sia nel nostro Paese ad oggi ancora più circoscritto.

      4. Preso atto che l'uso del burqa costituisce un segnale di possibili violenze private, c'è da valutare se il divieto sia la modalità più efficace per contrastare il fenomeno. Noi riteniamo, contrariamente a quanto emerge da altri progetti di legge già presentati al Parlamento, che non lo sia, per due principali ragioni.
      In primo luogo, il divieto rischia di accentuare la segregazione delle donne vittime di tale violenza. Inoltre, rischia di essere interpretato come una forma di discriminazione religiosa e di alimentare per reazione proprio gli atteggiamenti integralisti che si intendono reprimere. A questo riguardo, prima di predisporre la presente proposta di legge, abbiamo consultato alcuni leader di comunità immigrate contrari alla pratica del burqa in quanto la considerano frutto di ignoranza. Proprio per questa ragione essi ritengono essenziale, per contrastare i suoi presupposti culturali, la possibilità per le donne di essere avvicinate e aiutate a uscire dalla condizione di segregazione nella quale si dovessero eventualmente trovare contro la propria volontà, entrando progressivamente in contatto con le opportunità offerte di una società aperta e divenendo progressivamente consapevoli delle tutele offerte dal nostro ordinamento.
      In secondo luogo, la legge non può non tutelare chi liberamente scelga di indossare tali abiti ritenendo in questo modo di soddisfare un precetto religioso. Non spetta all'ordinamento giuridico, infatti, di verificare se ciò che per una comunità costituisce precetto religioso corrisponda a un canone fondato su una corretta dottrina, a una corretta esegesi dei testi fondativi ovvero sia riflesso di tradizioni etnico-culturali. È infatti notorio che tutte le religioni, comprese quelle oggi più largamente praticate nel mondo occidentale, hanno incorporato nel loro repertorio di riti, precetti e pratiche devozionali, usi e costumi tratti, in forma evolutiva, dalla tradizione di comunità storicamente date.
      Come è noto, non è neppure inconsueto riscontrare, nella storia dei Paesi occidentali, modelli di vita, pratiche di mortificazione

 

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del proprio corpo e rigide forme di esclusione dall'ordinaria vita di relazione intensamente e autenticamente vissute come una speciale adesione a scelte di carattere religioso. Un esempio che forse rende l'idea, per quanto il raffronto con il caso del burqa sia azzardato, è costituito dalla regola della clausura stretta o dell'uso del cilicio, che qualcuno potrebbero forse considerare lesivi della «dignità umana». Non c'è bisogno di richiamare alla memoria il noto documentario sulla clausura realizzato da Sergio Zavoli alla fine degli anni cinquanta, prima che la regola fosse riformata. Esistono ancora oggi esempi felici come il monastero del Corpus Domini di Bologna in cui donne che hanno liberamente scelto di sperimentare una speciale relazione con il mondo e con Dio vivono in clausura e parlano ai visitatori solo in alcune ore del giorno, dietro una fitta grata che nasconde gran parte del volto.
      L'ordinamento dovrebbe, pertanto, «arretrare» rispetto all'autonomia dell'individuo nel definire le proprie pratiche religiose ed i propri culti. La Costituzione, in virtù degli articoli 3, 7, 8, 19 e 20, assicura nei confronti del fenomeno religioso la massima libertà che si traduce nel principio di laicità riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale come l'equidistanza dello Stato nei confronti di tutte le religioni (sentenze nn. 203 del 1989 e 149 del 1995).
      È compito della legge garantire il libero dispiegarsi delle inclinazioni individuali. Pertanto essa deve espressamente assicurare che tali culti siano osservati in forza di una volontaria e libera scelta di chi li pratica. Qualora il burqa e il niqab siano indossati per effetto di coercizione da parte di terzi e, in particolare, all'interno della famiglia da parte del marito o di un genitore, devono essere innanzitutto fatte valere le già numerose pertinenti fattispecie penali presenti nel nostro ordinamento, tra cui in primo luogo quella relativa al reato di violenza privata (articolo 610 del codice penale), con eventuale inasprimento delle pene o con la definizione di specifiche fattispecie aggravanti.
      Del resto, la cronaca quotidiana riporta vari episodi di ribellione di giovani, soprattutto donne immigrate, spesso di tradizione musulmana, magari nate in Italia, che trovano concreta tutela, all'interno dell'ordinamento, per la loro volontà di non essere assoggettate alle tradizioni o alle regole religiose della famiglia di appartenenza.
      La legge deve invece bilanciare la tutela della libertà individuale di chi ritiene di corrispondere a un precetto religioso e le esigenze di pubblica sicurezza lese dall'impossibilità di identificare chi si copre il volto. Va tuttavia considerato che difficilmente il burqa e il niqab verrebbero indossati in luogo pubblico o aperto al pubblico allo scopo di commettere crimini odiosi, posto che essi richiamano una particolare attenzione su chi li indossa. A maggior ragione è difficile ipotizzare che tali indumenti siano indossati per coprire atti terroristici i quali spesso implicano il suicidio dello stesso attentatore.

      5. È probabilmente per questo insieme di ragioni che - pur in presenza di un ampio dibattito sulla questione - in Francia come, ad oggi, in quasi in tutti gli altri Paesi europei non esistono divieti assoluti all'uso del velo completo in pubblico. La citata Commissione francese ha condotto un'indagine (pagine 67 e seguenti) a tale riguardo, la quale, piuttosto, registra singole eccezioni, come ad esempio in Svezia dove sono previsti divieti solo per i magistrati e per chi esercita professioni in cui è previsto l'uso di uniformi. Nel Regno Unito «la libertà di indossare il velo integrale non è limitata dalla legge». Chiunque, del resto, può facilmente notare donne completamente coperte dal velo lavorare come bibliotecarie alla British Library o come dottoresse negli ospedali inglesi, senza che questo provochi particolari contraccolpi sugli utenti. Si tratta spesso di donne che in questo modo acquistano una libertà che sarebbe altrimenti loro negata. In Belgio, dove è presente una consistente comunità islamica, insiste un ampio dibattito sul tema. Il rapporto registra che in quel Paese il

 

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divieto assoluto è imposto solo da alcune amministrazioni locali, ma è assente «una normativa generale che vieti la pratica di indossare il velo integrale».
      Il rapporto segnala, inoltre, che in altri Paesi, specie dell'Europa dell'est, il tema non è all'ordine del giorno. Non lo è nemmeno in Germania dove la costituzione della Conferenza tedesca dell'islam ha garantito la gestione di potenziali conflitti. In particolare, in materia di velo la Corte costituzionale, nella sentenza del 24 settembre 2003, ha considerato illegittimo il divieto di indossare il velo agli insegnanti, oltre a qualsiasi dipendente pubblico, che non sia espressamente disciplinato da una singola legge. In linea con questo pronunciamento sei Länder hanno adottato testi legislativi che vietano agli insegnanti la possibilità di indossare segni evidenti di appartenenza religiosa (Bade- Würtemberg, Brême, Bavière, Basse-Saxe, Rhénanie du Nord-Westphalie, Sarre). Infine, i Länder di Berlino e di Hesse hanno esteso il divieto agli appartenenti alla pubblica amministrazione.
      Per l'ordinamento francese l'uso del «velo integrale» viola il principio di laicità che è sancito anche dalla legge 228/2004, la quale vieta l'ostensione di simboli religiosi nelle scuole. Il burqa, rivendicando una astratta libertà di abbigliamento e la difesa del mondo non corrotto dalla società corrotta, violerebbe inoltre la parità di genere e il diritto internazionale europeo. Pertanto la già citata Commissione ritiene l'uso del «velo integrale» una pratica agli antipodi dei valori repubblicani. Ne derivano tre esigenze: 1) convincere attraverso la mediazione, la pedagogia e l'educazione; 2) proteggere le donne oggetto di violenza e sensibilizzare gli operatori dei servizi pubblici a vigilare; 3) analizzare le condizioni giuridiche in modo da prevedere un'eventuale interdizione dell'uso del «velo integrale» nei luoghi pubblici.
      La citata Commissione propone innanzitutto al Parlamento (alle Camere, in base all'articolo 34.1 introdotto nel 2008) di approvare una risoluzione che condanni l'uso del «velo integrale» in quanto contrario ai valori repubblicani, ribadendo l'impegno a combattere questa pratica che discrimina le donne. Propone, altresì, di rendere effettiva la funzione dell'Osservatorio sulla laicità (creato nel 2007 e voluto dall'allora Presidente della Repubblica Chirac), di favorire la costruzione di luoghi di culto per rispettare la diversità di confessione, lottando contro il fondamentalismo religioso e di evitare derive settarie. La Commissione propone inoltre di rendere stringenti le norme che sanzionano la violenza motivata da pratiche «religiose», di prevedere il delitto di violenza psicologica all'interno della coppia, di introdurre il reato di attentato alla dignità della persona. Le proposte della Commissione mirano, quindi, a limitare le derive settarie alimentate dall'isolamento e dalla strumentalizzazione di codici religiosi, confermando l'impegno francese - anche all'estero - nella difesa del diritto delle donne. Lo fanno - è bene sottolineare questo punto - attraverso un complesso di misure che si muovono innanzitutto sul piano della promozione culturale e con norme tese a meglio tutelare la libertà della donna.
      Per quanto concerne l'adozione di una legge che vieti la copertura totale del viso in luoghi pubblici, il rapporto indica invece che «la congiuntura rivela l'assenza di un orientamento unanime tra le forze politiche presenti in Parlamento per l'approvazione di una legge che vieti di indossare il "velo integrale", benché una parte significativa dei componenti la commissione lo ritenga utile per motivi di sicurezza pubblica».
      La posizione della Conferenza episcopale francese è invece al riguardo molto chiara. Secondo il vescovo di Créteil, Monsignor Michel Santier, che esprime la posizione della Conferenza, «c'è da essere scettici sull'opportunità di una legge che non risolve la questione. Il rischio per le donne musulmane che portano il velo integrale è che non escano più di casa e siano ancora più marginalizzate. Il risultato sarebbe contrario all'effetto ricercato e condurrebbe, per reazione, a un aumento del numero delle donne che indossano questo
 

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tipo di abito. I cittadini francesi, e tra loro i cattolici, non devono lasciarsi prendere dallo scontro delle civiltà. Se vogliamo che i cristiani in situazione di minoranza nei Paesi a maggioranza musulmana dispongano di tutti i loro diritti, noi dobbiamo nel nostro paese rispettare i diritti di tutti i credenti all'esercizio del loro culto» (La Stampa, 2 febbraio 2010, pagina 21).
      Negli Stati Uniti d'America - un Paese che ha certamente molto irrigidito la sua legislazione a tutela della sicurezza dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 - si è comunque rispettato il primo emendamento della Costituzione che espressamente sancisce «Il Congresso non potrà fare alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione, o per proibirne il libero culto». A questo riguardo merita di essere citata infine la posizione espressa dal Presidente americano Barack Obama nella sua memorabile conferenza tenuta a Il Cairo lo scorso giugno 2009, il quale ha ricordato «Negli Stati Uniti la libertà è inscindibile dalla libertà di professare la propria religione (...) è importante, per i paesi occidentali, evitare di impedire ai cittadini musulmani di praticare la propria religione come lo ritengono opportuno, ad esempio decidendo quali vestiti possano essere indossati dalle donne musulmane; non si può infatti fare distinzione tra le religioni sotto la falsa pretesa del liberalismo».

      6. La presente proposta di legge si differenzia quindi dagli altri progetti di legge già presentati al Parlamento assumendo che non sia il divieto la strada migliore per contrastare gli arcaismi culturali e la violenza privata che potrebbero sottostare all'uso del burqa o di altri indumenti simili. Seppure in forma diversa, sia le proposte di legge d'iniziativa degli onorevoli Sbai ed altri (atto Camera n. 2422), Cota ed altri (atto Camera n. 2769), Mantini ed altri (atto Camera n. 3018), Binetti ed altri (atto Camera n. 627), sia, infine, quello d'iniziata degli onorevoli Amici ed altri (atto Camera n. 3020), che pure contempla una attenuazione del regime sanzionatorio, prevedono un divieto generalizzato dell'uso degli indumenti che coprono il volto in qualsiasi luogo pubblico o aperto al pubblico. Si ricorda che con la seconda espressione (luogo aperto al pubblico) ci si riferisce a un qualsiasi luogo, materialmente separato dall'esterno, l'accesso al quale, pur consentito ad una generalità di soggetti, sia regolabile da chi ne ha la disponibilità giuridica (ad esempio uno stadio, un teatro o un cinema). Con la prima espressione (luogo pubblico) ci si riferisce a uno spazio pubblico a cui può accedere chiunque senza alcuna particolare formalità, essendo quello il suo scopo normale e prevalente (ad esempio strade, piazze, giardini pubblici o spiagge demaniali).
      Oltre alle considerazioni fin qui svolte, in particolare, non è possibile condividere il divieto previsto dal citato atto Camera n. 2769, perché tale divieto assoluto di indossare indumenti che coprano il volto «in ragione della propria affiliazione religiosa» è in palese contrasto con l'articolo 19 della Costituzione, che, come ricordato, garantisce la libertà religiosa. Tali obiezioni valgono anche per i citati atti Camera nn. 2422 e 3018, i quali, inoltre, mirando a vietare espressamente «l'utilizzo degli indumenti femminili in uso presso le donne di religione islamica denominati burqa e niqab», violano il principio di eguaglianza (articolo 3 della Costituzione), perché colpiscono solo gli indumenti femminili in uso presso le donne di religione islamica, facendo, tra l'altro, perdere il carattere di generalità e di astrattezza della legge. A seguito di tale specificazione, un indumento con caratteristiche simili, ma non le medesime, e in uso presso una religione differente da quella musulmana non rientrerebbe nel divieto. Né a superare il contrasto con la Costituzione vale l'argomentazione che tali indumenti siano estranei ai precetti del Corano e alla tradizione religiosa musulmana, che limita ai luoghi di culto la prescrizione di adeguata copertura del corpo nei riguardi delle donne.
      Seppur con fini differenti, di fatto, comportano lo stesso divieto assoluto anche

 

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i citati atti Camera nn. 3020 e 627, che nonostante riconoscano come giustificato motivo «l'uso di indumenti indossati per ragioni di natura religiosa» restringono poi l'utilizzo dei discussi indumenti solo «a condizione che la persona mantenga il volto scoperto e chiaramente riconoscibile». Pertanto, pur garantendo l'utilizzo di veli come lo chador che non copre il volto, che peraltro non ricadrebbero comunque nei divieti del vigente articolo 5 della legge n.152 del 1975, vietano - come le altre proposte di legge menzionate - l'uso del burqa e del niqab. A seguito della modifica dalla citate proposte di legge, dunque, il comma 2 del citato articolo 5 istituirebbe un «giustificato motivo» che non consente deroghe alla norma del comma 1, e che dunque in realtà non costituisce «giustificato motivo» ai fini dell'articolo in questione, ma produce solo un'attenuazione delle sanzioni.
      Noi riteniamo che se si vuole meglio tutelare la libertà individuale delle donne si deve intervenire - come già detto prendendo spunto dal dibattito francese - con programmi che contrastino sul piano culturale gli arcaismi da cui esse sono eventualmente oppresse e con norme che sanzionino in modo più deciso le eventuali violenze private di cui sono vittime, piuttosto che attraverso un'impropria distorsione delle norme che regolano la sicurezza pubblica.
      In conclusione, la presente proposta di legge, seguendo la linea argomentativa esposta dal Consiglio di Stato, modifica l'articolo 5 della legge n. 152 del 1975, specificando che tra le ipotesi di giustificato motivo che consentono la copertura del volto rientra espressamente «la circostanza che l'uso di indumenti che coprono il volto sia motivato da ragioni di natura religiosa o etnico-culturale». Allo stesso tempo, per motivate e specifiche esigenze di sicurezza pubblica, consente ai pubblici ufficiali o agli incaricati di pubblico servizio di obbligare la persona che indossa un tale tipo di indumento a mostrare il volto, al fine della momentanea identificazione. Posto che quest'obbligo corrisponde alle medesime imprescindibili esigenze di tutela della sicurezza pubblica che il citato articolo 5 vuole perseguire, il contravventore è sottoposto alla identiche misure sanzionatorie previste per le altre fattispecie menzionate nello stesso articolo.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. L'articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente:

      «Art. 5. - 1. È vietato l'uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo o indumento atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. È in ogni caso vietato l'uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino.
      2. Ai fini del divieto di cui al comma 1, costituisce giustificato motivo la circostanza che l'uso di indumenti che coprono il volto sia motivato da ragioni di natura religiosa o etnico-culturale. In tali casi, ove richiesto da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio per motivate e specifiche esigenze di pubblica sicurezza la persona deve tempestivamente consentire di essere riconosciuta mostrando il volto, al fine della momentanea identificazione.
      3. Il contravventore alle disposizioni del presente articolo è punito con l'arresto da uno a due anni e con l'ammenda da 1.000 a 2.000 euro.
      4. Per la contravvenzione di cui al presente articolo è facoltativo l'arresto in flagranza».


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