Doc. XXII, n. 25




RELAZIONE

Onorevoli Colleghi! - A partire dagli anni novanta del secolo scorso, il nostro Paese ha avviato un profondo processo di riforma strutturale dell'amministrazione nazionale, finalizzato a recuperare l'efficienza e l'economicità dell'azione pubblica. Questo percorso si è basato sulla distinzione tra funzioni politiche, funzioni amministrative e di gestione, sull'introduzione di strumenti e di tecniche di regolazione privatistiche, sulla diffusione del modello societario nell'organizzazione pubblica, nonché sul rafforzamento dei poteri e delle responsabilità della dirigenza di Stato. Così facendo, l'Italia ha cercato di recepire le migliori pratiche regolatorie provenienti dal contesto internazionale, diffusesi sotto l'influenza del cosiddetto «New Public Management».
Per dare corpo a queste strategie e tecniche di governo della cosa pubblica sono fattori cruciali la competenza professionale, l'indipendenza gestionale e il merito individuale di quanti ricoprono incarichi di vertice nell'amministrazione, negli enti e nelle grandi società pubbliche. La selezione dei grandi manager di Stato, dunque, non può più essere affidata alla negoziazione politica e tantomeno a procedure opache di affiliazione o di cooptazione interna; le scelte devono essere ed apparire trasparenti, competitive e adeguate.
Il costume politico, tuttavia, non si è dimostrato all'altezza di queste aspettative. Le legislature elette in base al sistema elettorale maggioritario, al contrario, hanno evidenziato il rapido riemergere della passion des places delle mutevoli maggioranze parlamentari, che hanno applicato un «sistema delle spoglie» all'italiana, rendendo le nomine amministrative una variabile dipendente dal colore politico degli esecutivi in carica.
Simili fenomeni di malcostume amministrativo non hanno una rilevanza solo politica. Essi creano delle «zone grigie» nelle istituzioni, in grado di favorire, anche indirettamente, la commissione di veri e propri illeciti. Ne è prova la recente cronaca giudiziaria, che evidenzia un pericoloso intreccio tra due distinti fenomeni di immoralità pubblica: da un lato, le prassi clientelari, di spartizione e di lottizzazione delle nomine negli enti e nelle società di Stato; dall'altro lato, la costituzione di fondi neri da destinare a politici e a manager, per orientare gare d'appalto, concessioni, sussidi e licenze. La gestione delle nomine, in questo contesto, può diventare parte di un più ampio accordo di malaffare, oppure essere oggetto diretto di scambio corruttelare.
Questi episodi non si giustificano solo con la scarsa moralità dei singoli; essi hanno cause più profonde: si generano e proliferano negli interstizi di un sistema amministrativo lacunoso, che ignora gli strumenti di prevenzione e di autocorrezione, che appare gravemente opaco nel suo agire e che si dimostra riluttante a ogni forma di controllo effettivo e indipendente.
È compito del Parlamento, primo giudice e garante della legalità dell'amministrazione, indagare gli assetti organizzativi del potere pubblico in tutte le sue ramificazioni, la qualità della classe amministrativa e le procedure di selezione e di valutazione dei manager. Non si tratta, del resto, di una preoccupazione nuova. Già il Rapporto del Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione, istituito nel 1996 dal Presidente della Camera dei deputati, aveva evidenziato i potenziali rapporti incestuosi tra vertici politici, alta burocrazia e imprese, «quando lo Stato ha larghi poteri di nomina a cariche pubbliche e private».
Alcune criticità meritano di essere evidenziate. Innanzitutto, l'Italia ha disperso il grande patrimonio di professionalità interna all'amministrazione pubblica (i corpi tecnici, i civil servant per richiamare una terminologia in uso nelle democrazie anglosassoni), ancora forte fino alla metà del secolo scorso. Anche nella scelta di profili manageriali provenienti dall'economia privata, che come mostrano esperienze internazionali possono favorire il trasferimento di competenze e di conoscenze nell'apparato pubblico, non prevalgono in genere serie valutazioni di professionalità, ma piuttosto logiche di affiliazione politica, a detrimento del vincolo di «esclusivo servizio alla Nazione» cui pure le cariche dirigenziali nelle imprese di Stato dovrebbero sottostare.
In secondo luogo, mancano strumenti effettivi di valutazione dei meriti. Questo è vero ex ante, perché non si procede a pubbliche e trasparenti selezioni basate sui curricula degli aspiranti, ma con affidamenti non motivati, senza pubbliche hearing, decisi in sedi lontane dal dibattito pubblico. Ma è vero anche ex post, perché i risultati gestionali conseguiti non sono rilevati secondo standard oggettivi, non sono resi pubblici, non sono utilizzati per decidere le conferme o l'allontanamento degli interessati.
In terzo luogo, la privatizzazione di larghi settori dell'organizzazione amministrativa (compresi enti che svolgono funzioni pubbliche) ha condotto a un indebolimento dei controlli e delle responsabilità. In particolare, le nomine sfuggono al controllo parlamentare, agli obblighi di trasparenza finanziaria e alla responsabilità erariale della Corte dei conti. Inoltre, dopo la privatizzazione, molte società pubbliche hanno generato una costellazione di enti satellite, con partecipazioni di secondo e di terzo livello, spesso solo funzionali all'aumento dei consigli di amministrazione, dei collegi sindacali e degli incarichi dirigenziali.
Il Parlamento, per esercitare pienamente le sue funzioni legislative e di indirizzo politico, necessita, innanzitutto, di acquisire informazioni generali circa la complessità del fenomeno in questione, procedendo a una completa ricognizione del numero, della tipologia e della qualità delle società pubbliche, delle procedure di nomina e di revoca dei vertici e del loro status giuridico ed economico.
Dopo questa verifica preliminare si dovranno valutare le prassi e i criteri seguiti per le nomine: accertare la diffusione di accordi clientelari; la presenza di soggetti o di interessi non istituzionali che influiscano nelle scelte; il grado di indipendenza operativa e gestionale dei manager di Stato; la trasparenza delle procedure di indirizzo e di controllo; la presenza di conflitti di interesse.
Per un verso, la vastità e il rilievo strategico del problema e, per altro verso, la necessità di dotarsi di adeguati poteri istruttori, impongono di dare una piena veste istituzionale a quest'attività di indagine, tramite lo strumento della Commissione parlamentare di inchiesta, ai sensi dell'articolo 82 della Costituzione.
Compito della Commissione, all'esito dei suoi lavori, sarà quello di redigere un rapporto che indichi non solo le criticità rilevate ma, soprattutto i possibili correttivi, di ordine legislativo, regolamentare od organizzativo, in grado di rafforzare la trasparenza delle procedure di nomina e la capacità professionale e l'indipendenza gestionale dei dirigenti delle imprese di Stato.


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