Onorevoli Colleghi! - Il dilagante fenomeno della disoccupazione, causato dal contingente momento di crisi economica, colpisce l'economia delle famiglie e del Paese ma si ripercuote anche sulla vita degli immigrati che onestamente lavorano nel nostro Paese e che hanno il permesso di soggiorno ma che rischiano di perdere i requisiti per rimanere in Italia oltre i sei mesi, a seguito di una comunicazione del datore di lavoro allo sportello unico e al centro per l'impiego competenti entro i cinque giorni dal licenziamento (o di qualsiasi altra forma di recesso dal lavoro). Il permesso per attesa occupazione, infatti, dura al massimo sei mesi. Gli immigrati disoccupati che non trovano un nuovo posto di lavoro entro tale periodo di tempo sono costretti a tornare nei Paesi d'origine, come previsto dalla direttiva di cui alla circolare del Ministero dell'interno del 6 maggio 2009, protocollo 400/C, «permesso di soggiorno per motivi di attesa occupazione - Durata», che richiama all'ordine le questure di tutta Italia. Essa ribadisce l'applicazione puntuale della normativa vigente, che definisce un sistema nel quale la fissazione di tempi (sei mesi) per consentire allo straniero il reimpiego nel nostro Paese risponde all'esigenza di tutela della sicurezza e dell'ordine pubblico, cui è preposta, secondo il Governo, la potestà autorizzatoria. Ma il Governo sta già efficacemente attuando un
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intervento per la sicurezza pubblica, con drastiche misure per fronteggiare il fenomeno della criminalità e della immigrazione clandestina, tra cui, da ultimo, il disegno di legge governativo all'esame del Senato della Repubblica (atto Senato n. 733-B). Vengono censurate, quindi, le scelte degli uffici per l'immigrazione di Verona e di Treviso, che dopo le pressioni degli immigrati e delle parti sociali stanno accordando proroghe fino a un anno dei permessi per attesa occupazione, quasi una sorta di «ammortizzatore sociale» ad hoc per fronteggiare i licenziamenti e gli stati di disoccupazione dovuti alla crisi economica e ad altri motivi. Oltre a questo dato, che purtroppo coinvolge l'intero Paese, ce ne sono anche altri, legati alle difficoltà di inserimento dell'extracomunitario nei diversi tessuti urbani e culturali italiani. Il Ministero dell'interno, nella circolare citata, richiama il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, che prevede che il summenzionato permesso duri «fino a sei mesi» e sottolinea la disposizione dell'articolo 37 del regolamento di attuazione del medesimo testo unico, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, secondo il quale «Allo scadere del permesso di soggiorno (...), lo straniero deve lasciare il territorio dello Stato» se non ha un nuovo contratto di lavoro. Secondo il Ministero dell'interno, infatti, tale problematica si è recentemente acuita in conseguenza dell'elevato numero di lavoratori stranieri a rischio di disoccupazione. Conseguentemente, il Ministero ha ritenuto utile ribadire alcuni aspetti essenziali della normativa vigente al fine di assicurare uniformità di indirizzo e omogeneità di comportamenti nel quadro della tutela dell'ordine pubblico. La normativa di riferimento in materia è contenuta nell'articolo 22, comma 11, del citato testo unico e nel menzionato articolo 37 del regolamento di attuazione di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 394 del 1999.
In base all'articolo 22, comma 11, la perdita del posto di lavoro non costituisce motivo di revoca del permesso di soggiorno per il lavoratore extracomunitario e per i suoi familiari, conservando la sua validità fino alla scadenza o, comunque, salvo che per il lavoratore stagionale, per un periodo non inferiore a sei mesi. A sua volta, l'articolo 37 del citato regolamento di attuazione, recante «Iscrizione nelle liste o nell'elenco anagrafico finalizzata al collocamento del lavoratore licenziato, dimesso o invalido», commi 1 e 2, ribadisce il suddetto termine:
1. Quando il lavoratore straniero perde il posto di lavoro ai sensi della normativa in vigore in materia di licenziamenti collettivi, l'impresa che lo ha assunto deve darne comunicazione allo Sportello unico e al Centro per l'impiego competenti entro 5 giorni dalla data di licenziamento. Il Centro per l'impiego procede, in presenza delle condizioni richieste dalla rispettiva disciplina generale, all'iscrizione dello straniero nelle liste di mobilità, anche ai fini della corresponsione della indennità di mobilità ove spettante, nei limiti del periodo di residua validità del permesso di soggiorno e, comunque, salvo che per il lavoratore stagionale, per un periodo non inferiore a sei mesi. Qualora il licenziamento collettivo non dia luogo all'iscrizione nelle liste di mobilità si applica la disposizione del comma 2.
2. Quando il licenziamento è disposto a norma delle leggi in vigore per il licenziamento individuale, ovvero in caso di dimissioni, il datore di lavoro ne dà comunicazione entro 5 giorni allo Sportello unico e al Centro per l'impiego competenti. Lo straniero, se interessato a far risultare lo stato di disoccupazione, per avvalersi della previsione di cui all'articolo 22, comma 11, del testo unico, deve presentarsi, non oltre il quarantesimo giorno dalla data di cessazione del rapporto di lavoro, presso il Centro per l'impiego e rendere la dichiarazione, di cui all'articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, così come sostituito dal decreto legislativo 19 dicembre 2002,
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n. 297, che attesti l'attività lavorativa precedentemente svolta, nonché l'immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa, esibendo il proprio permesso di soggiorno», precisando, al comma 5, che: «Quando, a norma delle disposizioni del testo unico e del presente articolo, il lavoratore straniero ha diritto a rimanere nel territorio dello Stato oltre il termine fissato dal permesso di soggiorno, la questura rinnova il permesso medesimo, previa documentata domanda dell'interessato, fino a sei mesi (...)». A completamento di ciò si pone la disposizione contenuta nel comma 6, per la quale «Allo scadere del permesso di soggiorno, lo straniero deve lasciare il territorio dello Stato, salvo risulti titolare di un nuovo contratto di soggiorno per lavoro ovvero abbia diritto al permesso di soggiorno ad altro titolo, secondo la normativa vigente». La citata circolare del Ministro dell'interno, richiama, oltre al regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 394 del 1999, anche il decreto del Presidente della Repubblica 18 ottobre 2004, n. 334, «regolamento recante modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, in materia di immigrazione» che detta modalità applicative. Non sarebbe quindi conforme alla normativa vigente, la decisione della questura di Treviso che ha garantito che il permesso per attesa occupazione non scade dopo sei mesi, ma può essere prorogato anche per un anno aiutando, quindi, il lavoratore extracomunitario che da sei mesi ha perso il lavoro e che ha il permesso di soggiorno scaduto, riconoscendogli come «attenuanti», oltre che i motivi umanitari, anche la lunga permanenza in Italia e la crisi che sta colpendo l'Italia.
Condannare all'irregolarità persone che finora sono state perfettamente integrate potrebbe creare un disagio sociale diffuso, che si verrebbe a sommare alla crisi economica e lavorativa del nostro Paese. Gli immigrati che perdono il posto a Treviso hanno più tempo per cercare un nuovo lavoro, allontanando il rischio di dover scegliere tra il ritorno in patria e la scomparsa nell'irregolarità, ma devono «misurarsi» con la circolare del Ministero dell'interno, che prevede l'incondizionata applicazione della normativa vigente.
La perdita del posto di lavoro, in realtà, non costituisce di per sé motivo di revoca del permesso di soggiorno al lavoratore extracomunitario e ai suoi familiari legalmente soggiornanti, ma è troppo ristretto il lasso di tempo concesso allo stesso lavoratore per trovare un nuovo impiego. Inoltre, bisogna anche considerare il fatto che il lavoratore ha versato i contributi durante il periodo di lavoro e che ha diritto di godere di tali contributi. Occorre, perciò, ovviare alla rigida applicazione dell'articolo 22, comma 11, del citato testo unico, chiave interpretativa della circolare del Ministro dell'interno, che rischia di gettare i lavoratori extracomunitari costretti al rimpatrio, nella povertà o, peggio, nella clandestinità.
Ribadendo i motivi applicati ai casi di Treviso e di Verona, occorre, invece, prevedere che il lavoratore straniero in possesso del permesso di soggiorno per lavoro subordinato che perde il posto di lavoro, anche per dimissioni, può essere iscritto negli elenchi anagrafici per il periodo di residua validità del permesso di soggiorno e, comunque, salvo che si tratti di permesso di soggiorno per lavoro stagionale, per un periodo non inferiore a sei mesi.
A tali fatti risponde la presente proposta di legge, che prevede, per motivi umanitari e costituzionali, nonché contributivi, un periodo di tempo maggiore per consentire al lavoratore immigrato, già inserito e integrato nel nostro tessuto sociale, di trovare un altro lavoro, di evitare il rimpatrio e di mantenere, per quanto possibile, il suo status dignitoso, sia occupazionale che sociale, già faticosamente conquistato nel nostro Paese.
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