premesso che:
il progressivo diffondersi di un'economia eccessivamente finanziarizzata è degenerato in gravissime distorsioni nei mercati finanziari a partire dall'insostenibile entità dei prodotti derivati, oltre 7 volte il prodotto interno lordo mondiale;
l'accelerazione dei processi di deregolamentazione finanziaria è stata accompagnata da fenomeni di instabilità sempre più vistosi, soprattutto in campo valutario. Inoltre, il pressoché completo abbattimento dei vincoli alla libera circolazione internazionale dei capitali ha fortemente ristretto i gradi di libertà delle politiche economiche nazionali. Inoltre, la combinazione tra instabilità finanziaria e impotenza della politica economica ha notevolmente contribuito all'inquietante divaricazione dei redditi verificatasi, sia tra i Paesi che all'interno dei singoli Paesi;
la recente crisi economica e finanziaria mondiale ha avuto un impatto considerevole sulle economie e sulle finanze pubbliche. Il settore finanziario è stato uno dei principali responsabili della crisi economica, mentre i Governi e i cittadini europei ne hanno sostenuto i costi. In Europa e a livello internazionale è diffusa l'opinione che il settore finanziario debba contribuire in modo più giusto, dati i costi legati alla gestione della crisi e l'attuale tassazione insufficiente del settore. Diversi Stati membri dell'Unione europea hanno già intrapreso iniziative divergenti nell'ambito della tassazione del settore finanziario;
è dunque sempre più sentita l'esigenza di conferire alla politica nuove leve, nazionali e internazionali, di controllo e di governo dei mercati. Un primo passo nella direzione del cambiamento è stato allora individuato in una proposta, avanzata dagli stessi economisti e su cui esiste il consenso da parte, tra gli altri, di Francia, Belgio, Spagna, Portogallo Slovacchia, Grecia e Germania, ossia l'introduzione di un'imposta sulle transazioni finanziarie (itf), comunemente nota come financial transaction tax;
la manovra attuata dal Governo italiano impone importanti sacrifici: per questo è ancora più cruciale fermare gli attacchi speculativi che grandi attori finanziari europei e internazionali operano ai danni dei titoli di Stato italiani, della sostenibilità del debito italiano e, in generale, dei mercati. L'azione di questi soggetti impatta negativamente sulle risorse da destinare alle politiche sociali e del lavoro, alle tutele ambientali, climatiche e dei beni comuni, alla cooperazione: limitarne il potere è un atto di equità e giustizia sempre più necessario ed urgente;
l'Europa deve agire in fretta per introdurre questa tassa, fattibile anche se implementata nella sola eurozona, come dimostrano numerosi studi. Se ciò non è possibile con l'Europa dei 27, l'eurogruppo deve fare da capofila. Si è sostenuto che una tassa sulle transazioni finanziarie applicata solo in alcuni Paesi europei frenerebbe l'accesso di capitali, mentre è invece questo uno dei benefici della tassa sulle transazioni finanziarie, perché essa rappresenta una rete che lascia passare gli investimenti «bona fide» e frena quelli meramente speculativi. È noto che i mercati finanziari funzionano principalmente tramite due gigantesche piattaforme telematiche. Anche agendo solamente sulle piazze e gli scambi nell'area euro, sia in entrata che in uscita da questa, si potrebbero intercettare molte operazioni dirette sulla City e Wall Street;
le tre principali obiezioni all'istituzione della tassa (non si può imporre se non a livello globale, in quanto altrimenti non ci sarebbe gettito per la fuga dei capitali, la tassa aumenta significativamente il costo del capitale, la tassa riduce la liquidità dei mercati) sono false o infondate
o per l'evidenza dei fatti (la prima) o per mancanza di prove (le seconde due):
a) sino a poco tempo fa si è ritenuto che essa non fosse applicabile se non a livello globale, pena la fuga di capitali dal Paese che decidesse di porla in vigore. Questo pregiudizio è falso perché esistono ad oggi, come documenta un lavoro di ricerca del Fondo monetario internazionale, ben 23 Paesi che applicano unilateralmente la tassa (nient'altro che un fissato bollato) senza che si sia verificata alcuna fuga di capitali (Matheson T., Taxing financial transactions. issues and evidence, IMF working paper n. 11/54, marzo 2011, 8). Il Paese con la tassa più alta è il Regno Unito che applica la stamp duty reserve tax su un solo tipo di attività finanziaria (tassa del 5 per mille sui possessori di azioni quotate alla borsa di Londra). La tassa consente di raccogliere circa 5 miliardi di sterline all'anno. Ancora sul piano scientifico, esistono numerosi lavori che misurano l'elasticità dei volumi di transazioni all'introduzione di tasse simili, evidenziando coefficienti piuttosto contenuti e non tali da avvalorare l'ipotesi di fuga dei capitali. Un altro motivo per i quali la fuga non può avvenire è che proprio le operazioni ad altissima frequenza usufruiscono di un vantaggio di prossimità alla sede fisica della borsa da cui partono le informazioni in via telematica. Spostare le operazioni lontano dai mercati principali comporterebbe la perdita di questo vantaggio;
b) un'altra obiezione che appare infondata è quella dell'impatto della tassa sul costo del capitale. Per l'aliquota fissata, dalla proposta della Commissione europea i calcoli fondati sui modelli di capitalizzazione dei valori futuri attesi degli asset dimostrano che questo costo è pressoché nullo;
c) la terza obiezione che la tassa diminuisca la liquidità dei mercati è anch'essa del tutto opinabile. È dimostrato che la tassa riporterebbe ai costi di transazione e alla liquidità di dieci anni fa, ovvero ad un periodo più florido di quello che si sta vivendo. La verità è che non esiste nessun evidenza certa sugli effetti della tassa sulla liquidità ma solo una serie di diversi modelli che trovano risultati opposti a seconda del tipo di microstruttura dei mercati finanziari e del modello di competizione ipotizzato tra gli intermediari;
l'imposta sulle transazioni finanziarie è uno strumento disponibile e necessario anche quale freno alla degenerazione della finanza che ha obbligato gli Stati a finanziare con oltre 6.000 miliardi di dollari gli istituti bancari occidentali per salvarli dal fallimento. L'imposta sulle transazioni finanziarie è una piccola tassa che rende non conveniente e onerosa la mera speculazione. L'imposta sulle transazioni finanziarie è uno strumento che interviene in maniera equa e che salvaguarda il risparmio;
a differenza della Tobin tax e delle successive varianti che si riferiscono agli scambi di valuta, l'imposta sulle transazioni finanziarie prende in considerazione tutte le transazioni su strumenti finanziari, allargando così sostanzialmente la base imponibile rispetto alla Tobin tax;
l'imposta sulle transazioni finanziarie è un'imposta con un tasso molto ridotto (tra lo 0,01 per cento e lo 0,1 per cento) da applicare su ogni compravendita di titoli e strumenti finanziari. Un'imposta sufficientemente piccola da non scoraggiare le «normali» operazioni di investimento realizzate sui mercati finanziari. Tale tassa non avrebbe effetti apprezzabili per chi opera sui mercati con un'ottica di lungo periodo. Il tasso ipotizzato è nettamente inferiore alle commissioni annuali richieste dai gestori di fondi di investimento o fondi pensione;
è ben diversa la situazione per chi intende speculare. È, oggi, possibile comprare e vendere strumenti finanziari centinaia, anche migliaia di volte in un giorno, 24 ore su 24, nella speranza di guadagnare su piccole oscillazioni dei prezzi degli stessi strumenti. Tali operazioni non hanno alcun legame con l'economia reale,
ma aumentano l'instabilità e la volatilità dei mercati, con impatti potenzialmente devastanti per l'economia globale. Oggi, infatti, una gran parte delle transazioni finanziarie sono operate da mega-computer che, in automatico, speculano in millesimi di secondo sull'arbitraggio tra i valori marginalmente diversi degli stessi titoli o monete presenti nello stesso istante su piazze diverse. Si ottengono guadagni minimi, ma corposi per una miriade di operazioni e muovendo grandi cifre ogni giorno;
se è vero che i mercati finanziari hanno bisogno di un intervento regolatorio stringente e complesso, è altrettanto vero che la decisione sull'introduzione dell'imposta sulle transazioni finanziarie ha, finalmente, immediate possibilità applicative, vista il largo consenso del Parlamento europeo (si veda la risoluzione del Parlamento europeo, P7-TA(2010)0056 del 10 marzo 2010) e la recente proposta della Commissione europea attualmente oggetto di consultazione. Si tratta di una proposta in grado di dare un segnale forte della volontà politica di riportare sotto controllo la «finanza-casinò»;
la proposta della Commissione europea di direttiva del Consiglio [COM(2011)594] del 28 settembre 2011, concernente un sistema comune d'imposta sulle transazioni finanziarie e recante la modifica della direttiva 2008/7/CE, si propone quattro obiettivi (ai quali andrebbero aggiunte altre finalità come specificato più avanti):
a) evitare la frammentazione del mercato interno dei servizi finanziari, visto il crescente numero di provvedimenti fiscali nazionali non coordinati attualmente al varo;
b) assicurare il giusto contributo degli enti finanziari alla copertura dei costi della recente crisi, nonché la parità di condizioni con gli altri settori dal punto di vista fiscale;
c) creare i disincentivi opportuni per le transazioni che non contribuiscono all'efficienza dei mercati finanziari, integrando le misure regolamentari mirate a evitare crisi future;
d) creare un nuovo flusso di gettito con l'obiettivo di sostituire gradualmente i contributi nazionali al bilancio dell'Unione europea, riducendo l'onere per i bilanci nazionali;
la Commissione europea ha svolto anche una valutazione dell'impatto derivante dall'introduzione dell'imposta sulle transazioni finanziarie da parte dell'Unione europea raccomandando alcune linee guida onde evitare fenomeni elusivi ed i rischi di delocalizzazione:
a) un ampio campo di applicazione per quanto riguarda prodotti, transazioni, tipi di operazioni e attori finanziari nonché transazioni effettuate all'interno di un gruppo finanziario;
b) l'utilizzo del principio di residenza: tassazione nello Stato membro in cui sono stabiliti gli attori finanziari, indipendentemente dal luogo di esecuzione delle transazioni;
c) la definizione delle aliquote d'imposta a un livello adeguato per minimizzare gli eventuali impatti sul costo del capitale a fini diversi da quelli degli investimenti finanziari;
d) l'esclusione dal campo di applicazione dell'imposta sulle transazioni finanziarie delle operazioni dei mercati primari sia per i titoli (azioni, obbligazioni) - per non ostacolare la raccolta di capitali da parte dei Governi e delle imprese - sia per le valute;
e) la separazione delle attività di concessione e assunzione di prestiti dei nuclei domestici, delle imprese o degli enti finanziari e di altre attività finanziarie quotidiane, come i prestiti ipotecari o le transazioni di pagamento;
f) l'esclusione dal campo di applicazione dell'imposta sulle transazioni finanziarie delle transazioni finanziarie con, ad esempio, la Banca centrale europea (Bce) e le banche centrali nazionali,
per evitare ripercussioni sulle possibilità di rifinanziamento degli enti finanziari o sugli strumenti di politica monetaria;
anche al G20 del 3-4 novembre 2011 tenutosi a Cannes, per la prima volta in un comunicato finale di un vertice del genere la proposta viene menzionata esplicitamente: «Abbiamo anche concordato - si legge nel comunicato al punto 28 - sul fatto che, nel tempo, nuove fonti di finanziamento devono essere trovate per soddisfare le esigenze di sviluppo e il cambiamento climatico. Abbiamo discusso una serie di opzioni di finanziamento innovativa evidenziata dal signor Bill Gates (si tratta del rapporto della Gates Foundation). Alcuni di noi hanno attuato o sono disposti a esplorare alcune di queste opzioni. Riconosciamo le iniziative in alcuni dei nostri Paesi di tassare il settore finanziario per vari scopi, tra cui una tassa sulle transazioni finanziarie, tra l'altro per sostenere lo sviluppo». Si tratta di una formulazione che, tra le altre cose, lascia intendere come la tassa sia perfettamente realizzabile anche in un gruppo di Paesi e non solo a livello internazionale;
durante il G20, ai Paesi europei favorevoli all'introduzione di tale imposta, si sono aggiunte diverse potenze emergenti, dal Sud Africa, al Brasile e all'Argentina. Persino dagli Usa, storicamente contrari a qualunque tassazione della finanza, è arrivata una «disponibilità» ad affrontare l'argomento;
l'imposta sulle transazioni finanziarie, così come disegnata dalla Commissione europea, offrirebbe un gettito annuo di circa 57 miliardi di euro, che potrebbero avvicinarsi ai 200 miliardi di euro se si allargasse la base imponibile, si aumentasse l'aliquota in esame sui derivati e se venisse meglio chiarito l'intervento sulle transazioni in valuta, distinguendo tra transazioni di mera speculazione e transazioni legate alla protezione di «operazioni economiche reali»;
è evidente che un tale gettito consentirebbe agli Stati dell'Unione europea di affrontare meglio i costi della crisi, così da sostenere adeguatamente la coesione sociale, il welfare state, il lavoro e difendendo, inoltre, i singoli Paesi dall'attacco speculativo al finanziamento del debito pubblico;
non bisogna, altresì, dimenticare gli scopi originari di tale tassa, quali l'impegno a sostenere la cooperazione e lo sviluppo dei Paesi più poveri, anche attraverso il raggiungimento dei Millenium development goals;
anche in Italia è particolarmente attivo un vasto movimento a sostegno della tassa sulle transazioni finanziarie, con la presenza, tra gli altri, delle principali sigle sindacali, delle associazioni del terzo settore e di svariate organizzazioni non governative che si occupano di cooperazione allo sviluppo;
il nostro Paese potrebbe essere, con ogni probabilità, uno dei Paesi che più avrebbe da guadagnare dall'introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, come hanno sempre affermato i promotori della campagna Zerozerocinque: «Pensiamo ai prezzi delle materie prime, a partire dal petrolio, che il nostro Paese importa e che sono oggi in balia di mercati finanziari. Pensiamo ai vantaggi di valute più stabili per le imprese che esportano. Pensiamo soprattutto agli attacchi speculativi portati nelle ultime settimane contro i nostri titoli di Stato, e che verrebbero enormemente frenati dall'introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie e da altre misure per regolamentare la finanza»;
anche la Camera dei deputati del nostro Paese si è pronunciata a favore dell'introduzione dell'imposta sulle transazioni finanziarie con l'approvazione il 16 giugno 2010 delle risoluzioni n. 7-00328 Zacchera, n. 7-00333 Barbi e n. 7-00346 Evangelisti, nonché della mozione n. 1-00800 approvata il 25 gennaio 2012. Inoltre, sono state presentate alcune proposte di legge in tal senso tra le quali si segnalano: l'atto Senato n. 2189 Amati, l'atto Senato n. 2964 Barbolini, l'atto Senato
n. 2444 Lannutti, l'atto Camera n. 3585 Borghesi, l'atto Camera n. 3740 Sarubbi e l'atto Camera n. 4389 Bersani;
alcuni di questi disegni di legge propongono, riferendosi all'esempio di quanto fatto dalla Francia e dal Belgio, che inizialmente, in attesa della sua adozione almeno da parte di un certo numero di Paesi dell'Unione europea, l'imposta sia con un'aliquota zero per poi diventare operativa con un'aliquota massima dello 0,05 per cento;
si devono, pertanto, valutare positivamente le parole pronunciate dal Presidente del Consiglio dei ministri Mario Monti che ha affermato che l'Italia sta riconsiderando «in sede europea una posizione in senso più favorevole alla proposta di tassazioni finanziarie come già Francia e Germania ritengono necessario fare»;
risulterebbe incomprensibile e debole da parte del nostro Paese una posizione di mero rinvio a una discussione globale. Una pratica attendista che di fatto frenerebbe lo sviluppo di una governance politica ed economica unitaria nell'Unione europea,
a sostenere con forza, in tutte le sedi europee, le proposte di introduzione di un'imposta sulle transazioni finanziarie a livello dell'Unione europea oppure a livello dell'eurozona;
a prendere le necessarie iniziative per estendere, anche gradualmente, tale imposta a livello internazionale, cominciando a coinvolgere le potenze emergenti che hanno già manifestato il loro consenso all'imposta sulle transazioni finanziarie;
a sostenere l'adozione della proposta di direttiva del Consiglio avanzata il 28 settembre 2011 dalla Commissione europea [COM(2011)594] proponendo le seguenti modifiche:
a) definire la destinazione del gettito dell'imposta sulle transazioni finanziarie a favore delle politiche sociali, dei programmi infrastrutturali europei, dei programmi, a partire da quelli previsti al «Pacchetto energia-clima» e dal Protocollo di Kyoto, per il contrasto ai cambiamenti climatici, senza dimenticare gli scopi originari di tale tassa quali l'impegno a sostenere la cooperazione e lo sviluppo dei Paesi più poveri, anche attraverso il raggiungimento dei Millenium development goals;
b) rafforzare il principio di residenza: tassazione nello Stato membro in cui sono stabiliti gli attori finanziari, indipendentemente dal luogo di esecuzione delle transazioni;
c) prevedere un'ampia base imponibile - onde tra l'altro evitare manovre elusive - che includa anche le transazioni in valuta, distinguendo tra transazioni di mera speculazione e transazioni legate alla protezione di «operazioni economiche reali»;
a monitorare e verificare che una significativa percentuale di tale tassazione venga effettivamente impiegata per il raggiungimento degli «obiettivi del millennio», che vedono proprio il nostro Paese essere in grave ritardo rispetto alle scadenze prefissate, ovvero dello 0,51 per cento entro il 2010, già disatteso, e dello 0,7 per cento entro il 2015;
a valutare le opportune iniziative, anche normative, ferme restando le prerogative del Parlamento, al fine di introdurre l'imposta sulle transazioni finanziarie nella legislazione del nostro Paese, in attesa della sua adozione a livello europeo, definendo per il calcolo dell'imposta un'aliquota zero, imposta che diverrebbe operativa in un secondo tempo con l'aliquota definita in ambito europeo.
(1-00848)
«Di Pietro, Donadi, Evangelisti, Leoluca Orlando, Borghesi, Porcino, Di Stanislao, Barbato, Messina».
premesso che:
il Parlamento europeo ha adottato, rispettivamente il 10 e 25 marzo 2010 e l'8 marzo 2011, ben tre risoluzioni con le quali ha invitato la Commissione europea a svolgere una valutazione dell'impatto potenziale di un'imposta sulle transazioni finanziarie, analizzandone vantaggi e svantaggi, anche ai fini del contributo al bilancio dell'Unione europea e/o del finanziamento di misure di cooperazione con i Paesi in via di sviluppo;
i Capi di Stato e di Governo della zona euro, nella riunione dell'11 marzo 2011, e il Consiglio europeo del 24 e 25 marzo 2011 hanno convenuto sull'esigenza di esplorare e sviluppare l'opportunità di introdurre un'imposta sulle transazioni finanziarie a livello di zona euro, di Unione europea e internazionale;
la Commissione europea ha elaborato una proposta di direttiva sulla tassazione delle transazioni finanziarie, intendendo, con tale termine, quelle relative a obbligazioni, azioni, derivati (in questo caso la tassa riguarderebbe il valore nozionale) e su alcuni contratti riguardanti le valute;
l'obbiettivo delle autorità comunitarie è quello di «assicurare che le istituzioni finanziarie contribuiscano in modo giusto ai costi della perdurante crisi», «di creare disincentivi appropriati contro le transazioni eccessivamente rischiose o che non contribuiscono all'efficienza dei mercati finanziari» e, infine, di «evitare una frammentazione del mercato interno», tenuto conto del numero crescente di tasse nazionali;
secondo la Commissione europea l'imposta potrebbe essere pari allo 0,1 per cento sulle transazioni di obbligazioni e azioni, mentre i contratti relativi a derivati potrebbero essere soggetti ad un'ulteriore imposta dello 0,01 per cento e detta imposta potrebbe essere uno strumento di autofinanziamento del bilancio comunitario 2014-2020;
sarebbero escluse, invece, sia le operazioni del mercato primario, sia le transazioni con l'Unione europea, la Banca europea per gli investimenti e gli istituti dell'Unione europea, nonché con organizzazioni internazionali, e le transazioni con la Banca centrale europea e con le Banche centrali nazionali;
secondo la Commissione europea, la maggior parte delle attività finanziarie quotidiane che coinvolgono cittadini e imprese non rientrerebbero nel campo di applicazione dell'imposta sulle transazioni finanziarie e che sarebbero esenti la stipula di contratti assicurativi, i prestiti ipotecari, i crediti al consumo, i servizi di pagamento (fatta salva la loro successiva negoziazione all'interno di prodotti strutturati);
molti diplomatici sono scettici sul successo di un'iniziativa controversa, ritenendo che una tassa di questo tipo dovrebbe essere globale per essere efficace e che sia gli Stati Uniti che il Regno Unito, l'Olanda e la Svezia sono contrari a tale ipotesi;
il Ministro delle finanze tedesco e quello francese hanno proposto di introdurre la tassa nella zona euro, considerandola una sorta di cooperazione rafforzata;
un approccio condiviso a livello di Unione europea aiuterebbe a creare un mercato interno dei servizi finanziari stabile, nonché a prevenire il fenomeno dell'evasione, a evitare la doppia tassazione e a ridurre al minimo le distorsioni della concorrenza all'interno del mercato unico europeo;
il Governo italiano non ha sinora formulato un'esplicita valutazione della proposta di direttiva della Commissione europea, anzi il Governo pro tempore nel documento di posizione sul nuovo quadro finanziario pluriennale, presentato il 2 maggio 2011, ha precisato che «si riserva di valutare in modo più approfondito le opzioni avanzate dalla Commissione, anche alla luce della base imponibile che
verrà proposta, ritenendo fondamentale in ogni caso il rispetto dei principi della sovranità fiscale degli Stati e della neutralità fiscale»;
ancora in occasione della Conferenza sul quadro finanziario pluriennale 2014-2020, svoltasi a Bruxelles il 20-21 ottobre 2011, il Governo italiano pro tempore ha ribadito che l'Italia ha una posizione «aperta», che potrà essere «definita compiutamente solo a seguito di ulteriori approfondimenti e chiarimenti sulla natura delle nuove risorse fiscali che consentono di valutare, tra l'altro, il loro impatto amministrativo e strutturale»;
sono state presentate numerose proposte di legge in materia sia in questo ramo del Parlamento che al Senato della Repubblica,
ad assumere un'iniziativa diretta ad addivenire in tempi brevi ad una posizione unitaria con gli altri Paesi dell'Unione europea e, soprattutto, dell'eurozona;
ad esprimersi in via definitiva sulla proposta di direttiva COM (2011)594 e a volerla sostenere in tutti i consessi internazionali ed europei;
a sostenere la finalizzazione dei proventi derivanti dall'applicazione di questa imposta all'incremento delle risorse proprie dell'Unione europea al bilancio comunitario e al finanziamento di misure di cooperazione con i Paesi in via di sviluppo.
(1-00849)
«Cambursano, Commercio, Mannino, Melchiorre, La Forgia, Zampa, Giorgio Merlo, Esposito, Marmo, Portas, Mario Pepe (Misto-R-A), Gaglione, Tanoni, Lo Monte, Lombardo, Oliveri, Giulietti».
premesso che:
la pesante crisi finanziaria ed economica in atto ha dimostrato come i mercati finanziari, epicentro della crisi economica, si siano rivelati scarsamente regolamentati, sottoposti ad un'insufficiente e inadeguata vigilanza pubblica e soggetti a un'eccessiva instabilità, dovuta anche a fenomeni speculativi di portata incontrollata;
gli stessi bilanci pubblici di tutta l'Unione europea sono stati sottoposti in questi anni ad una forte pressione, che ha contribuito a favorire il consistente incremento dei debiti sovrani, mentre è sempre più evidente che l'unica risposta non può consistere nelle sole politiche di tagli e riduzione della spesa, con gli inevitabili effetti depressivi sull'economia, ma occorre piuttosto rilanciare la crescita con una politica economica attiva che sostenga la domanda e promuova gli investimenti;
l'obiettivo di coniugare crescita sostenibile, risanamento dei bilanci pubblici e regolazione dei mercati finanziari è diventato, dunque, sempre più necessario, e l'esigenza di reperire nuove risorse con cui risanare le finanze pubbliche, ridurre il peso dei debiti sovrani e, nel contempo, avviare gli investimenti necessari per uscire dalla stagnazione e dalla situazione di bassissima crescita in cui versano molte economie nazionali è diventata improcrastinabile;
l'introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, se realizzata in modo appropriato, può contribuire in questo momento storico a coprire in parte i costi generati dalla crisi, rappresentando al tempo stesso un'efficace misura per frenare le attività speculative, senza colpire l'economia reale, e un utile strumento per reperire risorse da destinare allo sviluppo;
del resto già nel marzo del 2011 il Parlamento europeo aveva approvato un'importante risoluzione - P7-TA-PROV(2011)008 - nella quale aveva dichiarato di essere favorevole all'introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie che migliorerebbe il funzionamento
del mercato, riducendo la speculazione, e contribuirebbe a finanziare i beni pubblici mondiali nonché a ridurre i deficit pubblici, affermando altresì che «in mancanza di una sua introduzione a livello globale, l'Unione europea dovrebbe come primo passo attuare una TTF a livello europeo»;
dopo aver pubblicato una valutazione di impatto che ha riconosciuto la realizzabilità e l'applicabilità di un'imposta sulle transazioni finanziarie a livello europeo, il 28 settembre 2011 la Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva del Consiglio [COM(2011)594] concernente un sistema comune d'imposta sulle transazioni finanziarie, da applicarsi in tutti gli Stati membri dell'Unione europea a partire dal 1o gennaio 2014;
il Governo italiano attualmente in carica, pur avendo già notificato alla Commissione europea un cambio di posizione sull'introduzione di questa imposta, sarà chiamato ad esprimersi sul merito della proposta di direttiva;
in una mozione sull'Europa (n. 1-00800) approvata il 25 gennaio 2012 a larghissima maggioranza dall'assemblea della Camera dei deputati, il Governo è stato impegnato ad appoggiare l'introduzione di una tassazione sulle transazioni finanziarie, prospettando l'opportunità che essa si applichi a tutti Paesi membri dell'Unione europea e perseguendo contemporaneamente una più ampia intesa globale anche oltre i limiti dell'Unione europea;
l'introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie non ha certo l'obiettivo di risolvere tutti i problemi determinati dalla crisi, né ha la pretesa di essere il solo strumento atto a combattere la speculazione; tuttavia, può rivelarsi uno strumento efficace sia per arginare l'attività speculativa nei mercati, che ha poco a che vedere con l'economia reale, sia perché costituisce comunque un modo per spostare parte del peso della crisi anche sugli operatori finanziari, in particolare su quelli che svolgono attività speculativa che, pur avendo avuto responsabilità determinanti nell'esplodere della crisi finanziaria, non hanno ancora contribuito in alcun modo a sostenerne i costi,
ad adottare ogni iniziativa utile nelle opportune sedi europee tesa ad assicurare il pieno coinvolgimento di tutti gli Stati membri dell'Unione europea perché si giunga alla graduale applicazione della tassa a livello europeo;
a sostenere in sede europea la proposta di direttiva [COM(2011)594], anche prevedendone alcuni miglioramenti nella cosiddetta fase ascendente, in particolare assicurando che il pagamento dell'imposta venga collegato al criterio della nazionalità dello strumento finanziario, al fine di ridurre ulteriormente le possibili manovre elusive dell'imposta, nonché assicurando che la destinazione del gettito sia impegnata in parte per progetti di sviluppo e di contrasto dei cambiamenti climatici, in parte per la lotta alla povertà del mondo e per il sostegno dei progetti a questo fine realizzati, in parte per le politiche sociali degli Stati membri e in parte per la riduzione dei debiti sovrani.
(1-00850)
«Tempestini, Ventura, Boccia, Barbi, Maran, Baretta, Fluvi, Gozi, Corsini, Fedi, Narducci, Pistelli, Porta, Touadi, Mogherini Rebesani, Calvisi, Capodicasa, De Micheli, Duilio, Genovese, Marchi, Marini, Misiani, Nannicini, Rubinato, Sereni, Vannucci, Albini, Carella, Causi, D'Antoni, Fogliardi, Graziano, Marchignoli, Piccolo, Pizzetti, Sposetti, Strizzolo, Vaccaro, Verini».
premesso che:
il dibattito sull'introduzione di un'imposta sulle transazioni finanziarie e sui suoi effetti sui mercati risale ormai a
quarant'anni fa, quando James Tobin propose un'imposta di modico valore sulle transazioni valutarie al fine di stabilizzare il mercato delle valute stesse; da allora gli economisti hanno discusso vivacemente sia sull'aliquota della tassa, sia sugli effetti distorsivi causati da un'eventuale applicazione solo su alcuni mercati, sia sulla quantificazione dell'eventuale gettito e, naturalmente, sulla destinazione del gettito stesso, senza che, però, si arrivasse mai ad una diffusa applicazione per lunghi periodi;
il tema è tornato drammaticamente di attualità negli ultimi quattro anni, da quando, cioè, sono emersi gli effetti disastrosi di un sistema finanziario mondiale non opportunamente regolamentato, soggetto ad improvvisi e non controllati fenomeni speculativi ed è aumentata la pressione sui bilanci di molti degli Stati europei;
l'azione del Governo italiano si è, quindi, sviluppata, fin dal 2008, nel senso di un forte contenimento del deficit pubblico, che ora dovrebbe accompagnarsi ad un forte rilancio degli investimenti e dello sviluppo del Paese;
l'introduzione di un'imposta sulle transazioni finanziarie potrebbe essere una significativa risposta ad un drammatico bisogno di risorse finanziarie da dedicare alla ripresa delle economie reali, al risanamento dei deficit e dei debiti nazionali;
in questa fase economica il peso della pressione fiscale non può gravare ulteriormente né sulle famiglie, né sulle imprese, già colpite dagli aumenti delle imposte dirette ed indirette, dall'aumento dei costi delle materie prime, anche quelle di prima necessità e dall'incremento dei costi dei servizi pubblici; il sistema finanziario, al contrario, sarebbe in grado di assorbire un'imposta sulle transazioni con un'aliquota bassa, tale da risultare assolutamente sopportabile a livello di singola transazione, ma in grado di generare a livello complessivo un gettito rilevante;
alcune stime della Commissione europea calcolano un potenziale gettito a livello europeo pari a 55 miliardi di euro, immaginando un'aliquota pari allo 0,1 per cento sulle transazioni di titoli azionari ed obbligazionari ed un'aliquota pari allo 0,01 per cento sulle transazioni di strumenti derivati; altre stime, addirittura, calcolano un gettito a livello mondiale pari a circa 650 miliardi di dollari, con un'aliquota pari allo 0,5 per cento; si tratta di cifre importanti, capaci di contribuire in modo decisivo alla stabilizzazione dei bilanci pubblici e al contenimento della pressione fiscale;
l'introduzione dell'imposta sta trovando via via sempre più sostenitori, soprattutto dopo la presa di coscienza del ruolo che il mondo della finanza, di un certo modo di fare finanza, ha avuto nel generare la spaventosa crisi che si sta vivendo; in Europa, Francia e Germania da tempo ne chiedono a gran voce l'introduzione; il Presidente francese Sarkozy ha più volte annunciato la volontà di procedere anche a livello nazionale, con un gettito stimato di circa 12 miliardi di euro; Spagna, Finlandia, Lussemburgo, Belgio, Austria, Ungheria, Grecia e Portogallo hanno espresso il loro sostegno all'imposta; al contrario, la Gran Bretagna, dove pure è già in vigore un'imposta simile, la stamp duty reserve tax, si è dimostrata fermamente contraria;
anche le istituzioni comunitarie, supportate da studi autorevoli, stanno convergendo su alcune proposte concrete di imposta: la Commissione europea ha ipotizzato l'introduzione di una forma di tassazione sul settore finanziario in una comunicazione del 7 ottobre 2010 [COM(2010)549], con lo scopo di:
a) migliorare l'efficienza e la stabilità del settore finanziario, così da scoraggiare le attività speculative e generare una nuova fonte di entrate;
b) risanare i conti pubblici, a contropartita del sostegno ricevuto da alcuni Governi a seguito della recente crisi;
c) assoggettare a tassazione attività in gran parte esenti dall'imposta sul valore aggiunto (articolo 135, paragrafo 1, direttiva 2006/112/CE);
la Commissione europea ha, inoltre, ipotizzato che l'imposta possa costituire, in tutto o in parte, una nuova risorsa propria, da introdurre nel bilancio dell'Unione europea, andando progressivamente a sostituire i contributi nazionali, alleviando il relativo onere per i bilanci statali;
la proposta è stata oggetto di una consultazione pubblica svoltasi tra il 22 febbraio ed il 19 aprile 2011 con la partecipazione di un gran numero di soggetti, anche istituzionali, ad esito della quale è stata adottata la proposta di direttiva del Consiglio concernente un sistema comune d'imposta sulle transazioni finanziarie [COM(2011)594], a decorrere dal 1o gennaio 2014;
fondamentale indicazione della Commissione europea è quella del rispetto del principio di sussidiarietà, rilevando che il funzionamento del mercato interno sarebbe pregiudicato ove gli Stati membri agissero unilateralmente nell'introduzione dell'imposta; la mancanza di coordinamento tra i sistemi di tassazione comporterebbe distorsioni della concorrenza tali da accrescere i rischi di delocalizzazione delle attività finanziarie, all'interno o all'esterno dell'Unione europea, oltre al rischio che il settore finanziario sia soggetto a doppia tassazione;
anche al di fuori delle istituzioni sono sempre più numerose le forze sociali, i movimenti di cittadini e le associazioni che sostengono l'introduzione di una simile imposizione,
a sostenere l'introduzione di un'imposta sulle transazioni finanziarie a livello europeo, non solo negli Stati che adottano l'euro, ma in tutti i Paesi dell'Unione europea;
a sostenere le iniziative dell'Unione Europea affinché l'imposta venga estesa anche nel resto del mondo;
a differenziare le modalità di imposizione, in modo da gravare maggiormente le transazioni tipicamente speculative di breve/brevissimo periodo;
a destinare il gettito derivante dall'introduzione dell'imposta prioritariamente alla riduzione della pressione fiscale sulle imprese, in particolar modo le medio-piccole imprese.
(1-00851)
«Dozzo, Montagnoli, Fugatti, Lussana, Fedriga, Fogliato, Forcolin, Comaroli, Bitonci, Giancarlo Giorgetti, D'Amico, Polledri, Simonetti, Alessandri, Allasia, Bonino, Bragantini, Buonanno, Callegari, Caparini, Cavallotto, Chiappori, Consiglio, Crosio, Dal Lago, Desiderati, Di Vizia, Dussin, Fabi, Fava, Follegot, Gidoni, Goisis, Grimoldi, Isidori, Lanzarin, Maggioni, Maroni, Martini, Meroni, Molgora, Laura Molteni, Nicola Molteni, Munerato, Negro, Paolini, Pastore, Pini, Rainieri, Reguzzoni, Rivolta, Rondini, Stefani, Stucchi, Togni, Torazzi, Vanalli, Volpi».
premesso che:
nel corso dell'ultimo decennio si sono verificati notevoli cambiamenti negli scenari dell'economia mondiale e la crisi dei mercati finanziari di tutti i Paesi ne è la drammatica testimonianza;
l'accelerazione dei processi di deregolamentazione finanziaria è stata accompagnata da fenomeni di instabilità sempre più vistosi, soprattutto in campo valutario;
inoltre, il pressoché completo abbattimento dei vincoli alla libera circolazione
internazionale dei capitali ha fortemente ristretto i gradi di libertà delle politiche economiche nazionali. Inoltre, la combinazione tra instabilità finanziaria e impotenza della politica economica ha notevolmente contribuito all'inquietante divaricazione dei redditi verificatasi, sia tra i Paesi che all'interno dei singoli Paesi;
in questo quadro di crisi economica sistemica è necessario tornare alla riaffermazione dell'identità e del metodo comunitari, accompagnando la perdita della sovranità nazionale con un acquisto di «sovranità politica» da parte delle istituzioni europee: in un quadro realmente comunitario e non puramente intergovernativo;
quindi, gli strumenti di intervento sui mercati, il rafforzamento della stabilità dell'eurozona, le politiche di rigore e quelle per lo sviluppo e la crescita debbono essere parti di un medesimo accordo onnicomprensivo;
è evidente che l'introduzione di un'imposta sulle transazioni finanziarie (impropriamente indicata come Tobin tax) ha il suo valore e la sua efficacia solo se adottata da tutti i Paesi dell'Unione europea;
a tal proposito, la Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva relativa ad un sistema comune d'imposta sulle transazioni finanziarie [COM(2011)594], volta ad introdurre, appunto,un'imposta sulle transazioni finanziarie medesime in tutti i 27 Stati membri dell'Unione europea;
tale imposta si applicherebbe a tutte le transazioni di strumenti finanziari tra enti per le quali almeno una controparte della transazione sia stabilita all'interno dell'Unione europea;
lo scambio di azioni e obbligazioni sarebbe tassato con un'aliquota dello 0,1 per cento, mentre per i derivati il tasso sarebbe dello 0,01 per cento. Secondo i calcoli della Commissione europea, che propone l'entrata in vigore dell'imposta dal 1o gennaio 2014, il gettito potrebbe aggirarsi intorno ai 57 miliardi di euro ogni anno;
nell'ambito dell'esame in seno al Consiglio, è emerso il parere nettamente contrario del Regno Unito e della Svezia;
infatti, il Premier britannico David Cameron ha affermato che tale imposta, se non adottata a livello globale, potrebbe solo danneggiare l'Europa, che sarebbe abbandonata da moltissime aziende finanziarie;
è un'osservazione da considerare attentamente al fine di evitare che un'imposta sulle transazioni finanziarie, anziché stabilizzare le borse, rischi di danneggiare seriamente l'economia reale;
intanto il Parlamento europeo si dovrebbe esprimere sulla proposta nella sessione del 12 giugno 2012, ma già in una risoluzione non legislativa dell'8 marzo 2011 ha auspicato l'introduzione di una tale imposta;
si ricorda che già la mozione n. 1-00800 (approvata il 25 gennaio 2012 alla Camera dei deputati) impegna sostanzialmente il Governo a esprimere il proprio consenso all'applicazione di una tassazione sulle transazioni finanziarie a livello di Unione europea o di eurozona e a collaborare con le istituzioni europee e con gli altri Governi già favorevoli,
a rappresentare, nel quadro delle riflessioni sull'introduzione di una tassazione sulle transazioni finanziarie (impropriamente indicata come Tobin tax), la necessità inderogabile che il meccanismo di tassazione, ove stabilito, si applichi a tutti i Paesi membri dell'Unione europea e non soltanto ad alcuni e ad attivarsi per la prosecuzione di una più ampia intesa complessiva al fine di creare una piattaforma omogenea globale nelle sedi multilaterali internazionali.
(1-00852)
«Corsaro, Bernardo, Berardi, Del Tenno, Laboccetta, Leo, Misuraca, Pagano, Antonio Pepe, Savino, Ventucci».
premesso che:
negli ultimi anni il volume delle operazioni effettuate sui mercati finanziari è cresciuto in maniera esponenziale, creando un terreno fertile per la speculazione internazionale divenuta monopolista globale nell'uso di strumenti finanziari tanto volatili quanto illusori;
nell'attuale contesto economico e finanziario, caratterizzato fortemente dalla crisi dei debiti sovrani e dalla continua esigenza di denaro da parte dei Governi europei più colpiti dalle speculazioni, si è affacciata nuovamente l'idea di tassare le transazioni finanziarie, proprio allo scopo di garantire maggiore stabilità sui mercati, disincentivando le speculazioni, nella considerazione che la catena dei salvataggi, in primis quelli bancari, si traduce inevitabilmente in aumenti di debito pubblico nazionale e «globale»;
per effetto della crisi, il debito pubblico nell'area dell'euro è balzato dal 60 per cento del prodotto interno lordo nel 2007 e all'80 per cento negli anni successivi, nell'incombere di una finanziarizzazione stimata pari a 600 mila miliardi di dollari, contro un valore di economia reale di 75 mila miliardi di dollari;
i Governi hanno messo a disposizione dell'intero settore finanziario un importante sistema di sostegno economico: gli Stati membri dell'Unione europea hanno stanziato 4600 miliardi di euro per le diverse misure di salvataggio in favore del settore finanziario, il cui peso si è scaricato interamente sulle amministrazioni pubbliche e, conseguentemente, sui cittadini europei;
il settore finanziario beneficia di una tassazione particolarmente favorevole, che si traduce in un vantaggio fiscale di circa 18 miliardi di euro all'anno in ragione dell'esenzione dei servizi finanziari dal pagamento dell'imposta sul valore aggiunto;
il 28 settembre 2011 la Commissione europea ha presentato una proposta finalizzata ad introdurre, nei Paesi membri dell'Unione europea, un'imposta sulle transazioni finanziarie che andrebbe ad incidere su tutte le transazioni di strumenti finanziari tra enti finanziari per le quali almeno una controparte della transazione sia stabilita all'interno dell'Unione europea;
pertanto, a partire dal 2014 gli scambi di azioni e obbligazioni verrebbero tassati con un'aliquota dello 0,1 per cento, mentre per i derivati il tasso sarebbe dello 0,01 per cento. In tal modo, la Commissione europea ha calcolato di poter arrivare a riscuotere un gettito pari a 57 miliardi di euro ogni anno;
secondo la Commissione europea con questa imposta il settore finanziario avrebbe la possibilità di contribuire ai costi della crisi economica, di cui è, tra le altre cose, concausa, nel più ampio contesto di risanamento dei bilanci degli Stati membri, disincentivando il trading ad alto rischio e a bassa produttività;
nel corso del vertice dei leader del G20, tenutosi a Cannes nel mese di novembre 2011, è stato rinnovato l'impegno per una tassa sulle transazioni finanziarie, fortemente voluta dal Presidente francese Sarkozy e sostenuta dalla Germania, dal Parlamento europeo e dalla Commissione europea, a cui si sono aggiunte le posizioni favorevoli delle potenze emergenti quali Sud Africa, Brasile e Argentina. Gli stessi Usa, da sempre contrari a questo tipo di imposizione, hanno mostrato una certa apertura e una disponibilità nel valutare la misura, mentre resta intatta l'opposizione inglese;
lo stesso Presidente del Consiglio dei ministri, Mario Monti, nel corso di un suo intervento al nel mese di dicembre 2011, ha manifestato la sua posizione favorevole ad un'eventuale imposizione sulle transazioni finanziarie, allo scopo di alleggerire la pressione fiscale sulle famiglie e le imprese, in tal modo modificando la linea seguita dal precedente Governo,
contrario ad ogni misura in tal senso; infatti, appena alla fine di ottobre 2011, in una lettera al Presidente del Consiglio dei ministri pro tempore, lo stesso professor Monti aveva identificato nei debiti sovrani l'obiettivo della speculazione esortando a lavorare nella prospettiva del controllo del debito pubblico e della crescita dell'economia reale;
recentemente la Camera dei deputati ha approvato un'importante mozione inerente alla politica europea che, tra le altre cose, ha impegnato il Governo a sostenere, in sede europea, l'adozione di una Tobin tax, garantendo sul punto il più ampio confronto con i Paesi ancora contrari all'adozione di tale imposizione;
in particolare, la Gran Bretagna ha più volte ribadito la propria contrarietà ad una tassazione sistematica delle transazioni finanziarie, per il rischio di una fuga di capitali verso altre piazze finanziarie meno regolamentate;
anche Svezia, Olanda e Malta mostrano una posizione fortemente critica nei confronti di un'ipotetica Tobin tax. A Malta, in particolare, secondo un sondaggio, appena il 30 per cento dei maltesi vedrebbe di buon occhio una nuova tassa sulle transazioni finanziarie, a fronte del 65 per cento degli europei favorevoli a questa imposta secondo l'eurobarometro,
ad operare sul terreno delle regolazioni normative di indirizzo economico e sociale cui siano subordinate quelle finanziarie;
ad assumere iniziative normative volte a distinguere le banche commerciali dalle banche d'affari;
ad assumere, nella prospettiva del rinnovato prestigio dell'iniziativa italiana nelle sedi europee, una forte posizione politica per garantire la rapida adozione di un'imposizione sulle transazioni finanziarie, nella prospettiva del coinvolgimento di tutti i Paesi interessati, compresi quelli attualmente contrari, in modo da realizzare una forma di fiscalità non isolata, ma estesa all'Europa a 27, in modo tale che una coesione provata nei fatti, anziché dichiarata nei vertici, ne rafforzi il ruolo mondiale;
a consolidare, insieme agli altri Paesi europei, una spinta regolativa propizia alla crescita delle economie reali, che segni una discontinuità marcata e misurabile rispetto alla deregolamentazione che ha prodotto l'odierna crisi finanziaria globale.
(1-00853)
«Pisicchio, Mosella, Tabacci, Brugger, Lanzillotta».
premesso che:
con la risoluzione A7-0036/2011 dell'8 marzo 2011 il Parlamento europeo si è dichiarato «favorevole all'introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, che migliorerebbe il funzionamento del mercato riducendo la speculazione e contribuirebbe a finanziare i beni pubblici mondiali e a ridurre i deficit pubblici», sottolineando come la tassa (in seguito TTF) «dovrebbe essere fissata sulla base più ampia possibile e che l'Unione europea dovrebbe promuovere l'introduzione di una TTF a livello mondiale, ma che, se questo non fosse possibile, dovrebbe applicare come primo passo una TTF a livello europeo»;
con la risoluzione sopra richiamata, il Parlamento europeo invitava la Commissione europea «ad elaborare rapidamente uno studio di fattibilità, tenendo conto della necessità di una parità di condizioni a livello globale, e ad avanzare proposte legislative concrete»;
dopo aver pubblicato una valutazione di impatto che ha riconosciuto la realizzabilità e l'applicabilità di una tassa sulle transazioni finanziarie, la Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva del Consiglio [COM(2011)594] concernente un sistema comune d'imposta
sulle transazioni finanziarie, da applicarsi in tutti gli stati membri dell'Unione europea a partire dal 1o gennaio 2014;
in una mozione concernente l'azione del Governo italiano in sede comunitaria, approvata a larghissima maggioranza il 25 gennaio 2012, la Camera dei deputati ha impegnato il Governo «ad appoggiare l'introduzione di una tassazione sulle transazioni finanziarie prospettando l'opportunità che essa si applichi a tutti Paesi membri dell'Unione europea e perseguendo contemporaneamente una più ampia intesa globale anche oltre i limiti dell'Unione europea»;
pur non rappresentando uno strumento atto a risolvere la grave crisi economica e finanziaria che attraversa l'Europa, una tassa sulle transazioni finanziarie - ad aliquota bassa e basata sulla nazionalità dello strumento per evitare l'elusione e applicata senza discriminazione a tutte le attività finanziarie, per non distorcere un'allocazione efficiente della ricchezza - disincentiverebbe gli scambi finanziari ad alta frequenza e il drenaggio di liquidità dal mercato nelle fasi recessive, contribuendo al miglioramento della «resilienza» sistemica e alla stabilizzazione dei prezzi di titoli detenuti da investitori istituzionali e piccoli risparmiatori;
l'adozione a livello globale, o comunque comunitario, ridurrebbe sensibilmente il rischio di un deflusso di ricchezza verso piazze finanziarie situate in Paesi che non aderiscano alla tassa sulle transazioni finanziarie, di fatto depotenziando la portata e i possibili vantaggi derivanti dall'introduzione del nuovo schema fiscale,
a sostenere in sede europea la proposta di direttiva [COM(2011)594], in particolare adottando ogni iniziativa utile nelle sedi opportune tesa ad assicurare il pieno coinvolgimento di tutti gli Stati membri dell'Unione europea nella costruzione ed istituzione sull'intero territorio comunitario di un sistema di tassazione delle transazioni finanziarie, ad aliquota bassa, applicato a tutte le attività finanziarie e basato sulla nazionalità dello strumento;
a proporre in quella sede che il gettito della tassa sulle transazioni finanziarie sia finalizzato a progetti di sviluppo economico - anche relativi al rafforzamento delle politiche di welfare degli Stati membri, di ricerca pubblica e di incentivo all'imprenditoria - e all'abbattimento del debito sovrano;
a favorire nelle sedi opportune il dialogo tra l'Unione europea e i Governi dei maggiori Paesi del mondo, a cominciare dagli Stati Uniti, la Cina, i Paesi arabi, Singapore e le altre realtà emergenti, affinché si possa aprire un negoziato finalizzato all'istituzione su base globale di una tassa sulle transazioni finanziarie.
(1-00854)«Della Vedova, Consolo, Raisi».
premesso che:
la normativa italiana definisce rifiuto radioattivo un qualsiasi materiale in forma solida, liquida o gassosa, per il quale non è previsto alcun ulteriore utilizzo e che contiene radioattività a valori superiori ai livelli di esenzione. Per la maggior parte dei materiali, il livello di esenzione è posto a 1 Bq/g, ma nel caso di materiali con emissione di radiazioni alfa, maggiormente pericolose per l'uomo e l'ambiente, tale livello può essere sensibilmente ridotto (0,1 Bg/g o inferiore;
i rifiuti radioattivi, per il loro successivo trattamento e smaltimento sono classificati in funzione del contenuto di radioattività, da cui discende il necessario grado di isolamento dalla biosfera, quindi la tipologia e il numero di barriere di contenimento da interporre tra rifiuto ed ambiente e il tempo di decadimento, che determina il periodo di isolamento del
rifiuto dalla biosfera, affinché, attraverso il decadimento, perda il suo carico radioattivo;
nella classificazione italiana (Guida Tecnica n. 26) sono di:
a) I categoria i rifiuti che decadono in mesi o al massimo qualche anno. Per questi è sufficiente la conservazione in sicurezza, affinché dopo il decadimento, possano essere smaltiti come rifiuti speciali. La loro origine è riferibile alla produzione di energia nucleare, ma soprattutto al settore della ricerca e medico-sanitario, dove si usa la radioattività nella diagnostica e terapia medica (cura del cancro);
b) II categoria i rifiuti che hanno un contenuto di radioattività che raggiungerà valori dell'ordine delle centinaia di Bq/g entro qualche centinaio di anni, oppure contengono radionuclidi a vita molto lunga ma in concentrazione di tale ordine. Per questa categoria sono previsti interventi di trattamento e condizionamento, ovvero una serie di processi atti a convertire il rifiuto in una forma solida, stabile e duratura, tipicamente monoliti di cemento con determinate e qualificate caratteristiche, che ne permetta la manipolazione, lo stoccaggio, il trasporto e lo smaltimento, con garanzia di confinamento della radioattività in qualunque condizione. La loro provenienza è riferibile alle centrali nucleari, agli impianti del ciclo del combustibile, ma anche ad installazioni industriali, di ricerca e mediche ed alle sorgenti radioattive dismesse, usate in questi settori;
c) III categoria i rifiuti che richiedono migliaia di anni (e più) per raggiungere concentrazioni di radioattività dell'ordine delle centinaia di Bq/g. Rientrano in questa categoria i rifiuti che contengono prodotti di fissione ed elementi transuranici (emettitori di radiazioni alfa e di neutroni) prodotti nei reattori di potenza. Anche il settore industriale, medico e della ricerca apporta un lievissimo contributo con le grandi sorgenti dismesse. I rifiuti di III categoria, per l'isolamento dalla biosfera richiedono processi di condizionamento (trasformazione in monoliti di vetro o cemento) o, nel caso del combustibile esausto, d'incapsulamento in contenitori ad alta integrità;
la generazione di energia elettrica da un reattore nucleare di media taglia (1.000 megawatt elettrici) produce all'anno circa 300 metri cubi di rifiuti di I e II categoria e circa 30 tonnellate di combustibili esausto. In Italia sono presenti quindi, i rifiuti radioattivi proventi sia dall'esercizio delle centrali nucleari operative fra gli anni sessanta ed ottanta sia dalle attività di smantellamento (decommissioning) di quegli stessi impianti. Inoltre i comparti nazionali dell'industria, della ricerca e medico-ospedaliero contribuiscono con quantità significative, alcune centinaia di metri cubi l'anno, a questo inventario;
i rifiuti radioattivi prodotti in Italia e stoccati sugli impianti o nei depositi temporanei in attesa di essere smaltiti (in una ventina di siti in circa 10 regioni, di cui buona parte gestiti da soggetti pubblici), secondo l'inventario dell'autorità nazionale di controllo ammontano a circa 30 mila metri cubi, ai quali andranno a sommarsi nei prossimi 20 anni un quantitativo analogo o lievemente superiore, proveniente prevalentemente dal programma di smantellamento delle vecchie centrali e impianti del ciclo del combustibile;
tali rifiuti sono per la maggior parte di II categoria e si pone con urgenza il problema del loro smaltimento definitivo anche per completare il programma di decommissioning centrali chiuse a seguito del referendum del 1987;
i rifiuti di III categoria ammontano, tra quelli già prodotti e quelli di cui è previsto il rientro dall'estero, a circa 10.000 metri cubi. Per tali rifiuti c'è l'urgenza di immagazzinarli in un deposito centralizzato a lungo termine mentre si pone il tema delle decisioni sulle disposizioni finali da adottare;
per i rifiuti di II categoria, che per decadere necessitano di alcuni secoli, normalmente si adotta lo smaltimento in depositi superficiali, composto da sole barriere ingegneristiche sovrapposte. Al contrario, per i rifiuti di III categoria è fondamentale affidarsi non solo alle barriere ingegneristiche, la cui funzionalità non può essere garantita per periodi molto lunghi, ma a barriere geologiche di provata stabilità. In questo caso lo smaltimento avviene in formazioni geologiche, argillose, saline o granitiche, che sono quelle più adatte al contenimento della radioattività;
per i rifiuti originati dall'industria, dalle attività sanitarie e dalla ricerca industriale l'ENEA ha messo a disposizione del Paese un «Servizio integrato», prendendo in carico i rifiuti raccolti a livello nazionale da operatori qualificati da ENEA stesso, trattati, condizionati ed immagazzinati presso la società partecipata NUCLECO, in attesa di essere smaltiti. Tali rifiuti ammontano ad oggi a circa 4.500 metri cubi;
la SoGIN SpA è, invece, incaricata, oltre di portare a termine il piano di smantellamento degli impianti nucleari obsoleti e fuori servizio, di progettare e realizzare un deporto centrale superficiale per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi di II categoria e realizzare un deposito temporaneo a lungo termine per quelli di terza categoria;
il deposito, secondo le indicazioni previste nella legge n. 99 del 2009; e nel decreto legislativo n. 31 del 2010, dovrà essere corredato da un parco tecnologico;
sempre il decreto legislativo n. 31 del 2010, prevede che il parco tecnologico sia dotato di strutture comuni per i servizi e per le funzioni necessarie alla gestione di un sistema integrato di attività operative, di ricerca scientifica e di sviluppo tecnologico, di infrastrutture tecnologiche per lo svolgimento di attività connesse alla gestione dei rifiuti radioattivi e del combustibile irraggiato, tra cui la caratterizzazione, il trattamento, il condizionamento e lo stoccaggio nonché lo svolgimento di tutte le attività di ricerca, di formazione e di sviluppo tecnologico connesse alla gestione dei rifiuti radioattivi. Come già, indicato SoGIN è incaricata di realizzare il parco tecnologico, ed in particolare anche il deposito nazionale, e le strutture tecnologiche di supporto;
nell'ambito della legge n. 99 del 2009, è stata istituita l'Agenzia per la sicurezza nucleare la quale ai sensi di quanto previsto del decreto legislativo n. 31 del 2010, come modificato dal decreto legislativo n. 41 del 2011, fungeva da soggetto attuatore e di controllo sia per la realizzazione di nuovi impianti (incluso il parco tecnologico) sia per le attività di decommissioning;
in termini di gestione di rifiuti, a seguito del referendum popolare di giugno 2011, i compiti dell'Agenzia sono risultati circoscritti alle attività di sistemazione «definitiva» di quanto già esistente. Un'ancora più chiara definizione dei compiti dell'Agenzia, in questo senso, era avvenuta con il decreto legislativo n. 185 del 2011, di recepimento della Direttiva 2009/71/EURATOM costituendo per la prima volta, dopo molti anni, un riferimento unitario e certo per questo settore;
l'articolo 13 del decreto-legge 6 dicembre 2011 n. 201, convertito con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, dispone la soppressione dell'Agenzia per la sicurezza nucleare assegnando alcune funzioni autorizzative ai Ministeri dello sviluppo economico e dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, di fatto provocando la necessità di un riordino funzionale del settore;
per quanto attiene alle metodologie alternative di trattamento delle scorie nucleari ad alta attività ed a lunga vita, tipiche della filiera nucleare, una maggiore riduzione di queste potrebbe essere perseguita mediante trattamenti con i sistemi nucleari sottocritici guidati da acceleratori (ADS - accelerator driven system) che sono attualmente in fase di sviluppo a livello europeo e mondiale;
gli accelerator driven system, essendo reattori sottocritici con sorgente di neutroni esterna, possono essere sfruttati più efficacemente per la trasmutazione degli attinidi, che sono gli elementi maggiormente responsabili per la lunghissima durata della radiotossicità di questi materiali. Con tali sistemi, quindi, il combustibile nucleare esausto può essere trasmutato con la quasi esclusiva produzione di prodotti di fissione a breve vita, smaltibili in depositi superficiali;
l'Italia possiede un consistente patrimonio di conoscenze, infrastrutture e laboratori di prova all'avanguardia, che sono utilizzati sia per lo sviluppo del reattore veloce di quarta generazione raffreddato al piombo, sia per lo sviluppo dei sistemi (accelerator driven system, anch'essi raffreddati con piombo liquido. L'insieme di tali progetti, oltre a quelli maggiormente mirati all'aumento della sicurezza operativa nella gestione dei materiali e dei rifiuti radioattivi, potrebbe proficuamente essere sviluppato, sotto la direzione nel parco tecnologico;
il Paese è quindi impegnato, da diversi anni e mediante diversi attori, ad operare su una consistente quantità di rifiuti radioattivi provenienti sia da varie attività economiche e sociali quanto dai vecchi reattori nucleari che hanno operato nel territorio nazionale;
la modifica delle normative di riferimento operata nel corso della presente legislatura a partire dalla cosiddetta «legge sviluppo», n. 99 del 2009 e proseguita con diversi decreti legislativi ed in ultimo con il decreto-legge n. 201 del 2010 convertito con modificazioni dalla legge n. 214 del 2011, ha creato un quadro nuovo, e per certi aspetti complesso, nel settore;
esistono diversi luoghi e situazioni nel Paese in cui stoccaggi temporanei di rifiuti radioattivi (in specie ove caratterizzati da elevata radiotossicità) potrebbero destare preoccupazioni relativamente agli effetti sulla pubblica salute di eventuali danni conseguenti ad eventi calamitosi in condizioni particolarmente avversi,
premesso che:
la società Alcoa con un comunicato ufficiale ha annunciato il 9 gennaio 2012 che intende fermare le proprie produzioni in tre stabilimenti di alluminio primario in Europa nel quadro di una ristrutturazione già annunciata nella globale attività primaria;
la ristrutturazione ridurrà - secondo il comunicato ufficiale - la capacità globale di fusione della Società del 12 per cento pari a 531.000 tonnellate;
gli stabilimenti interessati da questa fermata sono quello di Portovesme in Italia, La Coruña e Avilés, in Spagna;
la fermata - secondo quanto riporta il comunicato ufficiale - dovrebbe essere completata nella prima metà del 2012;
nel comunicato ufficiale si legge: le strutture hanno tra i più alti costi dei produttori nel sistema Alcoa;
a Portovesme, Alcoa avvierà - è scritto nel comunicato - il processo di consultazione per chiudere definitivamente l'impianto. Per gli stabilimenti di La Coruña e Avilés sono previste riduzioni parziali e temporanee;
nel comunicato ufficiale si sostiene: un costo energetico non competitivo, combinato con l'aumento dei costi delle materie prime e la caduta dei di alluminio; ha portato alla fermata delle strutture;
Alcoa ha chiuso il quarto trimestre del 2011 con ricavi pari a 6 miliardi di dollari, in calo del 7 per cento rispetto ai 6,4 miliardi del trimestre precedente ma in rialzo del 6 per cento rispetto ad un anno fa quando si erano attestati a 5,7 miliardi;
la perdita netta è stata di 193 milioni di dollari, ossia 0,18 dollari per azione, rispetto ai 172 milioni, ossia 0,15 dollari per azione, del terzo trimestre e i 258 milioni (0,24 dollari per azione) dello stesso periodo dell'anno scorso. L'Ebitda rettificato trimestrale si è attestato a 445 milioni di dollari;
per quanto riguarda l'intero 2011, la società ha riportato ricavi pari a 25 miliardi di dollari contro i 21 miliardi del 2010, mentre l'utile netto è stato di 611 milioni di dollari (0,55 dollari per azione) rispetto ai 254 milioni (0,24 dollari per azione) di un anno fa;
l'alluminio è un materiale cruciale per qualsiasi sistema economico che si prefigga una crescita compatibile con il rispetto dell'ambiente;
il tasso di crescita della domanda di alluminio è attualmente superiore a quello di ogni altro metallo, oltre che del prodotto interno lordo delle diverse economie mondiali;
l'alluminio è una «commodity»: il prezzo internazionale si forma nelle negoziazioni di borsa al London Metal Exchange e le variazioni locali dei costi di produzione della materia prima non sono trasferibili sul prezzo finale del metallo;
l'andamento di detto prezzo è caratterizzato da una discreta volatilità e, in termini reali, risulta decrescente, con un tasso di riduzione annuo prossimo al 2 per cento, conseguenza anche del miglioramento dell'efficienza dei processi produttivi;
un'industria di trasformazione tecnologicamente all'avanguardia e alla capacità di innovazione e sviluppo delle applicazioni fa dell'Europa il secondo mercato mondiale dell'alluminio, con ulteriori e significativi margini di crescita;
la produzione europea di metallo primario non è stata in alcun modo in grado di contribuire allo sviluppo di detta domanda, ed il tasso di copertura sul mercato attuata con metallo autoprodotto è sceso dal 60 per cento del 1980 al 27 per cento del 2003;
l'import di alluminio primario dai Paesi extra - Unione europea è costantemente cresciuto oltre il 36,5 per cento del fabbisogno totale di alluminio ed il 56 per cento del fabbisogno di alluminio primario;
il mercato interno europeo è fortemente deficitario di alluminio e il tasso di import, è a livelli mai prima raggiunti;
l'industria europea non è in grado di coprire il deficit di metallo con una crescita delle produzioni primarie da lungo tempo a livelli stazionari;
le produzioni secondarie sono state sviluppate sino al limite massimo della disponibilità di rottame, utilizzando pienamente la generazione interna e trovando difficoltà crescenti al reperimento di rottame dall'esterno;
l'industria dell'alluminio primario è ad alta intensità di capitale con investimenti ad elevata durata di vita economica;
l'industria dell'alluminio primario è, per sua natura, un'industria energy
intensive; l'energia elettrica è la vera materia prima del processo produttivo incidendo per oltre il 30 per cento sui costi operativi;
la disponibilità energetica a prezzi sostenibili è, quindi, il principale fattore di sopravvivenza economica degli impianti esistenti, ed è elemento chiave per la localizzazione dei nuovi impianti di produzione primaria (i cosiddetti smelters);
negli ultimi anni alla posizione competitiva degli impianti italiani, e di quello sardo in particolar modo, anche per le condizioni insulari della Sardegna, si è aggiunto l'aumento del costo dell'energia elettrica, indotto non solo da fattori congiunturali attinenti alle oscillazioni dei costi delle materie prime energetiche (olio e carbone), ma anche dall'attuazione delle politiche dell'Unione europea in materia di liberalizzazione dei mercati dell'energia;
il processo di liberalizzazione del mercato dell'energia in Europa è lontano dall'avere realizzato gli obiettivi di ampliamento della base produttiva, di competitività e di riduzione di prezzo attesi;
il mercato al momento non è equilibrato, funziona ancora in un regime di oligopolio, non è affatto trasparente e, conseguentemente, non è competitivo per i clienti energy intensive, quali i produttori di alluminio;
la carenza di riserva di generazione elettrica ed i vincoli di varia natura alla trasmissione dell'energia pongono un evidente limite strutturale ad uno sviluppo equilibrato dello stesso;
le attuali regole di funzionamento del mercato, che opera ancora in difetto di reale concorrenza, soprattutto in Sardegna, e di negoziazione dei prezzi, e che vedono una posizione di forza preponderante dei fornitori, non sono adeguate per negoziare acquisti di energia a lungo termine;
la formulazione del prezzo di borsa è svincolata dai fondamentali elementi di costo, o è volta a remunerare il costo marginale del produttore meno competitivo;
l'industria dell'alluminio primario, data l'intensità del consumo energetico, è di gran lunga la più esposta all'imperfetto funzionamento del mercato energetico ed ai conseguenti aumenti dei costi;
nelle condizioni attuali del mercato dell'energia, senza adeguati interventi strategici e contingenti, si prefigura il seguente scenario:
a) sarà impossibile la rinegoziazione dei contratti a condizioni e prezzi internazionalmente competitivi;
b) l'incremento del prezzo dell'energia risulterà incompatibile con la sopravvivenza economica degli impianti che conseguentemente non saranno più in condizioni di operare;
c) la produzione verrà delocalizzata in Paesi che adottano politiche energetiche compatibili con le loro ambizioni di sviluppo industriale;
d) per la natura di «capital intensive» dell'industria del primario la delocalizzazione sarà per lungo tempo irreversibile;
e) il metallo prodotto in tali aree, spesso a condizioni agevolate ed incentivate da risorse pubbliche, sarà importato nei Paesi della Comunità;
f) l'Europa pagherà i costi sociali ed economici connessi con la delocalizzazione;
g) l'Europa perderà la corrispondente occupazione diretta ed indotta;
la competitività europea sarà penalizzata in quanto:
a) l'industria di trasformazione perderà il supporto che deriva dalla disponibilità in loco di metallo primario;
b) l'industria manufatturiera perderà le ricadute tecnologiche apportate dalle attività primarie;
c) il sistema europeo si troverà a dipendere completamente da importazioni extra Unione europea con ricadute negative, nel lungo periodo, anche sui consumatori;
è indispensabile che le attuali distorsioni del mercato dell'energia vengano corrette al fine di ristabilire un bilanciamento tra fornitori e consumatori energy intensive creando un mercato competitivo che renda attraente per i produttori negoziare contratti competitivi a lungo termine con utenti «baseload»;
l'Italia, con un consumo di alluminio di oltre 1.600.000 tonnellate/annue è il secondo Paese consumatore del metallo leggero in Europa, e dispone di una industria di trasformazione (laminazione ed estrusi) ancora importante e relativamente competitiva; la produzione nazionale di primario è pari a circa 190.000 tonnellate/annue, e copre quindi solo il 12 per cento del fabbisogno interno, il valore più basso tra i Paesi industrializzati;
la produzione di alluminio secondario, derivante dal riciclo dell'alluminio, assomma a 700.000 tonnellate/annue, pari al 43 per cento dell'intera domanda;
l'import assomma a circa 764.000 tonnellate/annue, pari al 47 per cento del fabbisogno;
la produzione di alluminio primario in Italia è effettuata in due stabilimenti, entrambi appartenenti alla multinazionale Alcoa, che li ha acquistati in seguito alla privatizzazione dell'industria nazionale dell'alluminio:
a) Portovesme, nel Sulcis Iglesiente (Sardegna) con capacità di 150.000 tonnellate/annue;
b) Fusina, nel Veneto, con capacità di 45.000 tonnellate/annue;
nel caso italiano, la produzione di alluminio primario risulta particolarmente strategica per le motivazioni seguenti:
a) è integrata all'industria di trasformazione a monte e a valle della filiera produttiva, e ne costituisce una importante salvaguardia;
b) costituisce un indiretto sostegno dell'industria del secondario, la più evoluta in Europa, che incontra difficoltà crescenti nell'approvvigionamento dall'estero del rottame;
in Sardegna la produzione del primario costituisce l'attività principale del nucleo industriale del Sulcis Iglesiente, e fornisce un contributo insostituibile al tessuto socio-economico della regione;
il comparto dell'alluminio primario italiano è stato privatizzato nel 1996 con l'acquisizione degli stabilimenti da parte della multinazionale Alcoa, leader mondiale del settore;
condizione essenziale per il perfezionamento di tale privatizzazione fu la fornitura ai suddetti stabilimenti di energia elettrica ad un prezzo allineato a quello medio applicato nel resto dell'Europa per un periodo di almeno dieci anni, ossia sino al 31 dicembre 2005;
alle intese sottoscritte all'atto della privatizzazione si diede attuazione tramite il decreto del Ministero dell'industria del commercio e dell'artigianato del 19 dicembre 1995, in forza del quale i due smelter italiani usufruirono di un regime tariffario speciale restato in vigore sino a tutto il 2005;
l'accordo sul prezzo dell'elettricità fu approvato dalla Unione europea, riconoscendo i termini dell'intesa finalizzata a garantire il prezzo medio dell'energia a livello europeo senza configurare un ricorso ad «aiuti di Stato»; nel definire una durata decennale del provvedimento si era ipotizzato che il mercato dell'elettricità si sarebbe evoluto in maniera da poter offrire,
trascorso tale periodo, prezzi sostenibili da uno smelter in competizione sul mercato mondiale;
oggi si deve, invece, prendere atto del fatto che il lento e difficile processo di liberalizzazione del mercato dell'energia, (liberalizzazione ad oggi solo parziale e in Sardegna assolutamente inesistente) è ancora ben lontano dal realizzare gli effetti di riduzione dei prezzi e aumento dell'offerta giustamente auspicati;
non si intravede alcuna ragionevole possibilità di negoziare in Italia (e, più in genere, all'interno del mercato europeo) una fornitura di energia, sul cosiddetto «libero mercato», in quantitativi ed a prezzi che consentano l'esercizio economicamente sostenibile di uno smelter di alluminio;
le distorsioni al funzionamento del mercato, la sua natura essenzialmente oligopolistica, (e, spesso, di fatto ancora monopolistica, specie per quantitativi di energia particolarmente significativi) i vincoli tecnici alla produzione e distribuzione dell'energia e le inefficienze del sistema determinano una effettiva carenza di offerta, e un conseguente aumento dei costi, non giustificabile in base a quelle che sarebbero le logiche di un mercato effettivamente sviluppato;
in tutti i Paesi dell'Unione europea la produzione di alluminio, sia primario che secondario, come detto, risulta fortemente deficitaria rispetto al fabbisogno interno generando un deficit strutturale, sia in relazione sia allo sviluppo della domanda, sia per la struttura del costo dei fattori produttivi in Europa, con particolare riferimento alla disponibilità ed al costo dell'energia, fattori a loro volta negativamente influenzati dall'imperfetto e distorto funzionamento del «libero mercato» dell'energia;
il mantenimento in produzione della ridotta capacità di primario in Italia (12 per cento della domanda nel Paese) non può quindi togliere quote di mercato a nessun concorrente europeo, né può ostacolare l'ingresso di nuovi operatori sul mercato;
il mantenimento per la produzione italiana di alluminio di un prezzo dell'energia equiparato alla media della concorrenza non può influenzare in alcun modo il corso del prezzo del metallo;
il mantenimento di tale prezzo dell'energia non può danneggiare alcun concorrente europeo sotto il profilo del prezzo praticabile negli scambi intracomunitari;
il mantenimento di condizioni di fornitura dell'energia elettrica a condizioni competitive, apporta dei concreti benefici al mercato ed al sistema socio economico non solo della Sardegna ma dell'intera nazione;
il mantenimento della produzione dell'alluminio primario in Italia riduce il rischio di delocalizzazione delle produzioni (gli annunci della Hydro in Germania evidenziano quanto questa eventualità sia reale) a vantaggio di produzioni effettuate in Paesi dove l'energia è fornita sottocosto, e dove le tutele legali sociali ed ambientali sono a livelli infinitamente più bassi rispetto agli standard comunitari, e tali da consentire spesso l'importazione in dumping all'interno del mercato comunitario di metallo prodotto al di fuori dell'Unione;
il mantenimento della produzione evita la conseguente distruzione e/o depauperamento sia di risorse private (per sostenere i costi di chiusura degli impianti e la loro delocalizzazione) che pubbliche (per la riconversione del personale, gli ammortizzatori sociale ed il sostegno alle economie dei territori interessati alle chiusure), a danno del mercato europeo ed a vantaggio di produzioni extra-Unione europea;
il mantenimento delle produzioni evita la perdita di competitività del sistema industriale nel suo complesso sul mercato globale, perdita che conseguirebbe inevitabilmente alle ricadute di varia natura connesse con la rinuncia ad una forma di
approvvigionamento interna di metallo, con la conseguente totale dipendenza economica da importazioni extra-Unione europea, e con la crescente carenza di materia prima, sempre più destinata ai consumi interni, che scaturisce dallo sviluppo dei Paesi tradizionalmente esportatori (tra cui la Cina, la Russia, ed il Sud-est asiatico);
la Commissione europea in data 19 novembre 2009 ha adottato la decisione relativa agli aiuti di Stato n. C 38/A/2004 (ex NN 58/2004) e n. C 36/B/2006 (ex NN 38/2006) cui l'Italia ha dato esecuzione a favore di Alcoa Trasformazioni;
all'inizio degli anni novanta, nel quadro della liquidazione del conglomerato statale EFIM, il produttore italiano di alluminio Alumix era stato ristrutturato, privatizzato e venduto ad Alcoa. Alumix operava due smelter di alluminio primario, uno a Portovesme (Sardegna) e uno a Fusina (Veneto);
l'acquisizione di Alumix da parte di Alcoa era stata subordinata alla concessione da parte di ENEL, ente statale fornitore dell'energia elettrica, di una tariffa agevolata per le forniture di energia elettrica ai due smelter;
la tariffa agevolata a favore di Alcoa era stata istituita con decreto ministeriale del 19 dicembre 1995 (in prosieguo: «il decreto del 1995»). Tale decreto stabiliva che Alcoa avrebbe beneficiato del trattamento agevolato di cui alla delibera CIP 13/1992 fino alla fine del 2005. Successivamente a tale data, il trattamento applicato ad Alcoa sarebbe stato allineato a quello applicato agli altri utenti di energia elettrica;
la tariffa ridotta era stata valutata in base alle norme sugli aiuti di Stato nel contesto del caso C 38/1992;
nella decisione adottata il 4 dicembre 1996 (in prosieguo: «la decisione Alumix»), la Commissione aveva concluso che non costituiva aiuto di Stato sulla base delle considerazioni riassunte di seguito:
nel quadro del regime in oggetto, lo Stato fissava la tariffa da applicare ad Alcoa, ed ENEL, l'unico fornitore di energia elettrica esistente all'epoca in Italia, forniva ad Alcoa l'energia elettrica alla tariffa stabilita. I prezzi per entrambi gli smelter erano stati fissati per dieci anni. Per la Sardegna, era stata fissata a 36,3 ITL/kWh nel 1996 e sarebbe stata gradualmente aumentata fino a raggiungere 39,6 ITL/kWh nel 2005. Per il Veneto la tariffa doveva raggiungere 39,90 ITL/kWh nel 2005. Convertiti in euro, questi prezzi oscillano tra 18 e 20 euro/MWh;
all'epoca ENEL era un ente pubblico che erogava energia elettrica in regime di monopolio. Pertanto la Commissione aveva valutato se ENEL agisse come un operatore di mercato razionale nell'applicare ad Alcoa il prezzo stabilito;
la Commissione aveva valutato la situazione dell'offerta di energia elettrica nelle due regioni interessate nell'arco dei dieci anni di applicazione della tariffa agevolata. Aveva osservato che in Sardegna e Veneto il mercato dell'energia elettrica era caratterizzato da una sovraccapacità di produzione di energia che non era verosimile sparisse nei successivi dieci anni. Aveva inoltre osservato che era impossibile per i produttori esportare energia elettrica da queste regioni, a causa dell'insufficiente interconnessione con l'Italia continentale nel caso della Sardegna e per mancanza di domanda da parte di regioni limitrofe nel caso del Veneto;
in tale situazione, la Commissione aveva ritenuto che un grande cliente industriale come Alcoa avesse un notevole potere di negoziazione rispetto ad ENEL dal momento che la chiusura dei due smelter, che erano tra i migliori clienti di ENEL in Italia, avrebbe comportato una sovraccapacità ancora più elevata ed avrebbe peggiorato la struttura dei costi dell'ENEL. Pertanto, era nell'interesse economico di ENEL fornire energia elettrica ad un prezzo particolarmente contenuto agli smelter di Portovesme e Fusina;
la Commissione aveva ritenuto che un fornitore razionale di energia elettrica
sarebbe stato disposto a vendere ad un prezzo che copriva i suoi costi marginali medi di produzione, calcolati sulla base dell'effettivo mix di combustibili utilizzato dalle centrali elettriche nelle regioni interessate, più un modesto contributo verso i costi fissi. Risultava che il prezzo stabilito per Alcoa (18/20 euro MW/h) rispondeva a tali criteri. Per quanto riguarda i modesti incrementi annui del prezzo di Alcoa previsti per i dieci anni successivi, la Commissione li aveva considerati giustificati in base alla previsione che il costo di produzione marginale di ENEL sarebbe diminuito nel corso degli anni grazie a miglioramenti nel mix di combustibili e nelle tecnologie di produzione;
la Commissione aveva pertanto concluso che nel concedere la tariffa (18/20 euro MW/h) ENEL si comportava come un operatore di mercato razionale e aveva quindi dichiarato che la misura non costituiva aiuto di Stato ai sensi dell'articolo 87, paragrafo 1, del trattato CE;
nel 1999, quando l'Italia ha recepito la prima direttiva di liberalizzazione UE, l'ENEL ha cessato di essere il fornitore di energia elettrica monopolista in Italia ed è stata divisa in vari soggetti;
nel 2000 l'Italia ha deciso di includere la tariffa Alumix tra gli «oneri generali del sistema elettrico». Questo nuovo status ha portato al primo significativo cambiamento nel meccanismo di finanziamento della tariffa Alumix. Mentre ENEL in precedenza aveva venduto l'energia elettrica direttamente al prezzo agevolato ad Alcoa, in base al nuovo meccanismo, ENEL, riceveva il prezzo pieno ordinario applicato a grandi clienti industriali, e gli altri consumatori di energia elettrica fornivano i fondi necessari a garantire che Alcoa continuasse a pagare il prezzo Alumix (18/20 euro MW/h). In pratica, ad Alcoa veniva nominalmente applicato il prezzo pieno, ma l'impresa fruiva di uno sconto diretto in bolletta. ENEL finanziava tale sconto grazie ai ricavi di un nuovo onere parafiscale prelevato mediante la componente A4 della tariffa elettrica e pagato dalla generalità dell'utenza. Nel 2002 Alcoa ha stipulato un contratto bilaterale con ENEL ad un prezzo nominale corrispondente all'incirca alla tariffa standard applicata da ENEL per le forniture in alta tensione;
per quanto riguarda il caso specifico di Alcoa, la Commissione ha sottolineato che la nuova tariffa sembrava diversa dalla tariffa Alumix in quanto quest'ultima era stata concessa da ENEL, l'operatore italiano di energia elettrica in regime di monopolio, mentre la nuova tariffa comportava l'intervento selettivo dello Stato per compensare
la differenza tra il prezzo di mercato concordato con un produttore di elettricità e il prezzo agevolato fissato nel 1996;
i Governi di vari Stati membri incoraggiano la conclusione di contratti di fornitura a lungo termine orientati ai costi tra i consumatori industriali elettro-intensivi e i produttori di energia elettrica, tenuto conto del fatto che i mercati elettrici non funzionano adeguatamente. Tali soluzioni sono considerate necessarie quali misure provvisorie per garantire prezzi equi e per impedire chiusure di industrie;
in gran parte dei Paesi europei i contratti bilaterali costituiscono la soluzione adottata per affrontare il problema ed in particolare le misure adottate nei vari paesi sono così sinteticamente individuate: Finlandia (consorzi che investono in un nuovo reattore nucleare, con diritti di prelievo ad un prezzo basato sui costi di produzione), Germania (sconto del 35-50 per cento sui costi di trasmissione, più una riduzione degli oneri connessi alle energie rinnovabili per i grandi utenti industriali), Spagna (tariffe regolamentate), Francia (consorzi di grandi utenti che investono in nuove centrali nucleari, tariffe regolamentate «di ritorno»), Svezia (consorzi per investimenti in nuove centrali), Belgio (consorzio di acquisto);
nel rispondere alle osservazioni della Commissione europea lo Stato italiano
ha reiteratamente richiamato «la sovraccapacità di generazione di elettricità prevalente in Sardegna» e sottolinea che in siffatta situazione Alcoa normalmente avrebbe un notevole potere di negoziazione e otterrebbe un prezzo concorrenziale soltanto leggermente superiore al costo di produzione marginale del produttore. Il fatto che ciò non sia possibile in Sardegna è da imputarsi, - secondo le dichiarazioni riportate dalla Commissione europea - al comportamento dell'operatore dominante, che può fissare il prezzo in Sardegna e non ha alcun interesse commerciale a vendere a un prezzo inferiore, sapendo che Alcoa non può acquistare altrove l'elettricità di cui ha bisogno. Inoltre, in situazione di duopolio (ENEL e ENDESA-oggi E.ON) entrambi gli operatori possono avere interesse ad applicare un prezzo superiore al prezzo economicamente ottimale, onde evitare di creare «un cattivo precedente» nel resto d'Italia. Considerato il notevole potere di mercato conservato dall'ex monopolista ENEL, l'Italia conclude che non vi è alcuna differenza sostanziale fra il prezzo (18/20 euro MW/h) accordato ad Alcoa in una situazione di monopolio (approvato dalla Commissione nella decisione Alumix) e la tariffa applicabile nelle attuali, alquanto imperfette, condizioni di mercato;
la Commissione, nella decisione ultima fa presente che il metodo utilizzato nel caso Alumix riguardava una situazione molto specifica. In Alumix, la tariffa era accordata da ENEL, che all'epoca era l'ente pubblico che erogava elettricità in regime di monopolio, in un mercato dell'elettricità che non era ancora stato liberalizzato. Data la situazione, la Commissione aveva dovuto appurare se ENEL praticasse un prezzo artificiosamente basso, oppure se si comportasse come un operatore di mercato razionale. Considerato il monopolio detenuto da ENEL per la generazione e la distribuzione di elettricità, non vi era alcun prezzo di mercato cui la Commissione potesse fare riferimento per valutare la presenza di un vantaggio. Pertanto, la Commissione aveva messo a punto un metodo per individuare il prezzo di mercato teorico più basso al quale un fornitore razionale sarebbe stato disposto a vendere al suo «miglior cliente» (il maggiore consumatore con un profilo di consumo piatto) nelle circostanze specifiche del mercato sardo e veneto. In effetti, un fornitore razionale avrebbe cercato di coprire quanto meno i suoi costi marginali di produzione, più una frazione dei costi fissi;
un esame dei fatti dimostra che il meccanismo tariffario che la Commissione aveva autorizzato nel caso Alumix ha subito un fondamentale cambiamento, ossia il passaggio da una tariffa praticata da un fornitore di elettricità a condizioni di mercato ad una tariffa che di tale ha solo il nome e che è il risultato di una sovvenzione statale;
nel caso Alumix la valutazione verteva sul comportamento del fornitore di elettricità ENEL. Il prezzo agevolato non recava un vantaggio ad Alcoa in quanto, sulla base del test dell'operatore in economia di mercato la Commissione riteneva che fosse razionale per ENEL vendere elettricità al prezzo in questione (18/20 euro MW/h). Tuttavia, il test dell'operatore in economia di mercato perde di significato in una situazione in cui la tariffa non è più offerta volontariamente da ENEL (che percepisce il prezzo ordinario), ma è il risultato di un pagamento compensativo da parte dello Stato. Nel nuovo sistema il comportamento del fornitore di energia elettrica non ha più alcuna rilevanza;
il mercato italiano dell'energia elettrica è generalmente altamente concentrato, anche se meno nella zona nord. L'operatore dominante in tutte le zone è l'ex monopolista ENEL, eccetto in Sardegna dove detiene un duopolio con E.ON. ENEL detiene un notevole potere di mercato di cui l'autorità italiana garante della concorrenza ha constatato che ha abusato nel 2004-2005. I prezzi dell'energia elettrica in Italia sono generalmente elevati, per effetto di un mix produttivo in gran parte basato sui combustibili fossili (essenzialmente gas), l'assenza di capacità
nucleare e la congestione nei collegamenti verso il resto d'Europa;
in Sardegna, che rappresenta il 4,1 per cento della potenza installata in Italia l'elettricità è prodotta prevalentemente in centrali termoelettriche utilizzando combustibili fossili (carbone, olio combustibile, tar di raffineria). L'isola non ha un'infrastruttura di distribuzione del gas naturale;
la Sardegna risente di una situazione di sovraccapacità di produzione, soprattutto nel segmento ad alto costo (centrali alimentate a olio combustibile) imputabile ai piani del governo, mai realizzatisi, di concentrare nell'isola l'industria pesante italiana. Ciò aveva portato a sovrainvestimenti da parte di ENEL nelle centrali di produzione elettrica. Oltre ad essere strutturalmente più costose, siffatte centrali stanno rapidamente diventando obsolete sotto il profilo tecnico. Le esportazioni di energia elettrica sarda verso la penisola sono anche limitate dalla modesta capacità dell'interconnettore, che è soggetto a congestione;
due società elettriche, ENEL e E.ON, detengono congiuntamente una quota di mercato pari al 95 per cento delle forniture di energia elettrica in Sardegna (circa il 58 per cento per E.ON e il 42 per cento per ENEL). Secondo l'indagine sullo stato di concorrenza nel settore elettrico, in termini concorrenziali la Sardegna può essere classificata come un duopolio a dominanza collettiva;
la concentrazione di mercato è elevata, benché non sia la più elevata in Italia. Dato il loro controllo su praticamente tutti gli impianti mid-merit e di punta, E.ON e ENEL determinano il prezzo praticamente per tutte le ore;
secondo i dati riportati dalla Commissione europea emerge il seguente quadro: «i prezzi all'ingrosso dell'elettricità in Italia sono fra i più elevati in Europa, e i prezzi in Sardegna sono fra i più elevati in Italia. Nel 2007 il prezzo medio nazionale (PUN) è stato di 70,99 euro al MW/h mentre il prezzo zonale sardo medio è stato di 75 euro al MW/h, rispetto agli 80 euro al MW/h del 2006. Nel 2008 e 2009 è continuata la tendenza al rialzo del prezzo medio zonale sardo. Nella prima metà del 2009 la Sardegna si è attestata costantemente al di sopra della media nazionale (con un prezzo medio di 106,60 euro al MW/h rispetto a un PUN di 60,50 al MW/h). Non sono disponibili i prezzi relativi ai contratti bilaterali in Sardegna, in quanto tali dati non sono di pubblico dominio e l'Italia non ha inteso fornirli»;
secondo la Commissione europea «il mercato dell'energia elettrica in Sardegna presenta una serie di problemi (alcuni dei quali, tuttavia, sono comuni al resto d'Italia) che possono essere riassunti come segue: prezzi elevati, forte grado di concentrazione del mercato, potere di mercato degli operatori dominanti, capacità di produzione eccedentaria nel segmento ad alto costo, relativa inefficienza delle centrali di produzione che stanno diventando obsolete, assenza di accesso all'infrastruttura del gas naturale, carenza di interconnessione»;
la Commissione europea per quanto riguarda la natura del problema di concorrenza in Sardegna rileva quanto segue: «I prezzi elevati in Sardegna sono il frutto di una combinazione di fattori: l'insufficiente interconnessione, la struttura dei costi dei portafoglio di generazione e il potere di mercato dei due principali generatori»;
la relazione dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas sullo stato del mercato dell'energia elettrica e del gas naturale e sullo stato di utilizzo ed integrazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili del 29 gennaio 2010 riscontra un livello di competizione piuttosto scarso, dovuto principalmente ad insufficienze di tipo infrastrutturale. Le situazioni più critiche si registrano nelle zone Sicilia e Sardegna (isole), dovute principalmente alla inadeguatezza delle interconnessioni tra il sistema elettrico delle Isole e quello dell'Italia peninsulare (continente);
l'andamento dei prezzi zonali di vendita nel mercato del giorno prima
(MGP) dal 2005 al 2009 testimonia tali differenze strutturali. Il 2009 registra un brusco calo dei prezzi ma in misura nettamente inferiore in Sardegna rispetto alle altre zone (-11 per cento Sardegna rispetto ad una diminuzione compresa fra il 26 per cento e il 32 per cento nelle altre zone). L'andamento degli ultimi anni sembra così consolidare il divario fra i prezzi nelle isole e nel continente. Assumendo a riferimento i livelli dei prezzi del 2005, nel 2009 i prezzi nel continente sono aumentati - a seconda della zona - fra lo zero e il 5 per cento mentre i prezzi in Sardegna sono aumentati del 36 per cento;
le situazioni di Sicilia e Sardegna - secondo l'autorità - destano particolare preoccupazione in quanto caratterizzate dalla compresenza di due operatori (o raggruppamenti di operatori nel caso della Sicilia) entrambi dotati di un notevole potere di mercato unilaterale. Esso è misurato dalla indispensabilità della capacità produttiva riferibile ad un medesimo operatore (o raggruppamento di operatori) ai fini del soddisfacimento del fabbisogno di energia e di riserva di potenza (necessaria a Terna per garantire la sicurezza del sistema);
le isole, del resto, come già evidenziato, ribadisce la relazione, sono strutturalmente caratterizzate da livelli di prezzo sensibilmente superiori a quelli delle altre aree del Paese. Dette differenze nei livelli dei prezzi - secondo l'autorità - non sono riconducibili interamente a differenze nella struttura di costo del rispettivo parco produttivo quanto, piuttosto, al potere di mercato unilaterale di cui godono i produttori in Sardegna,
a superare, con tutte le iniziative persuasive o istituzionali che riterrà opportune, la situazione che lo Stato Italiano rileva nelle dichiarazioni riportate nella decisione della Commissione Europea del 29 novembre 2009, dove si sostiene che: «con la sovraccapacità di generazione di elettricità prevalente in Sardegna Alcoa normalmente avrebbe un notevole potere di negoziazione e otterrebbe un prezzo concorrenziale soltanto leggermente superiore al costo di produzione marginale del produttore. Il fatto che ciò non sia possibile in Sardegna è da imputarsi, al comportamento dell'operatore dominante, che può fissare il prezzo in Sardegna e non ha alcun interesse commerciale a vendere a un prezzo inferiore, sapendo che Alcoa non può acquistare altrove l'elettricità di cui ha bisogno. Inoltre, in situazione di duopolio (ENEL e ENDESA-oggi E.ON) entrambi gli operatori possono avere interesse ad applicare un prezzo superiore al prezzo economicamente ottimale, onde evitare di creare "un cattivo precedente" nel resto d'Italia»;
a porre in essere tutte le autorevoli ed urgenti iniziative necessarie a scongiurare la decisione annunciata dalla società Alcoa;
ad attivare urgentemente un tavolo di confronto con la multinazionale e con la stessa amministrazione americana per affrontare senza riserve e con urgenza la vertenza Alcoa Italia;
al fine di definire un piano strategico di rilancio dell'industria dell'alluminio primario in Italia, a proporre alla Commissione europea un vertice dei Ministri competenti per definire con sollecitudine una strategia che scongiuri la delocalizzazione dall'Europa dell'industria primaria di alluminio, non solo attivando quelle azioni indispensabili per favorire il mantenimento degli asset produttivi in Europa;
a promuovere attraverso le opportune e persuasive iniziative la definizione di accordi bilaterali decennali con le società di produzione elettrica al fine di riequilibrare il mercato che risulta distorto da posizioni dominanti e monopoliste;
a promuovere un apposito contratto di programma per la filiera dell'alluminio primario con una dotazione minima di 300 milioni di euro che consenta la razionalizzazione del processo produttivo sia
per quanto riguarda la produzione elettrica che la ripresa produttiva dello stabilimento Eurallumina.
(7-00775)
«Garagnani, Pili, Gibiino, Nizzi, Mazzocchi, De Corato».