XVII LEGISLATURA
COMUNICAZIONI
Missioni valevoli nella seduta del 26 marzo 2014.
Angelino Alfano, Gioacchino Alfano, Alfreider, Amici, Baldelli, Balduzzi, Baretta, Bellanova, Bindi, Biondelli, Bobba, Bocci, Michele Bordo, Borletti Dell'Acqua, Brambilla, Bressa, Brunetta, Casero, Castiglione, Cicchitto, Cirielli, Costa, D'Incà, Damiano, De Girolamo, Del Basso De Caro, Dellai, Di Gioia, Di Lello, Luigi Di Maio, Epifani, Ferranti, Fico, Gregorio Fontana, Fontanelli, Formisano, Franceschini, Frusone, Galan, Giachetti, Giacomelli, Giancarlo Giorgetti, Gozi, La Russa, Legnini, Leone, Lorenzin, Lotti, Lupi, Madia, Mannino, Giorgia Meloni, Merlo, Meta, Migliore, Mogherini, Orlando, Pes, Gianluca Pini, Pisicchio, Pistelli, Portas, Ravetto, Realacci, Ricciatti, Rossi, Rughetti, Sani, Scalfarotto, Sereni, Sisto, Speranza, Tabacci, Velo, Vito, Zanetti.
(Alla ripresa pomeridiana della seduta).
Angelino Alfano, Gioacchino Alfano, Alfreider, Amici, Baldelli, Balduzzi, Baretta, Bellanova, Bindi, Biondelli, Bobba, Bocci, Michele Bordo, Borletti Dell'Acqua, Brambilla, Bressa, Brunetta, Capezzone, Casero, Castiglione, Cicchitto, Cirielli, Costa, D'Incà, Damiano, De Girolamo, Del Basso De Caro, Dellai, Di Gioia, Di Lello, Epifani, Ferranti, Fico, Gregorio Fontana, Fontanelli, Formisano, Franceschini, Frusone, Galan, Giachetti, Giacomelli, Giancarlo Giorgetti, Gozi, La Russa, Legnini, Leone, Lorenzin, Lotti, Lupi, Madia, Mannino, Giorgia Meloni, Merlo, Meta, Migliore, Mogherini, Orlando, Pes, Gianluca Pini, Pisicchio, Pistelli, Portas, Ravetto, Realacci, Ricciatti, Andrea Romano, Rossi, Rughetti, Sani, Scalfarotto, Schullian, Sereni, Sisto, Speranza, Tabacci, Velo, Vito, Zanetti.
Annunzio di proposte di legge.
In data 25 marzo 2014 sono state presentate alla Presidenza le seguenti proposte di legge d'iniziativa dei deputati:
NASTRI: «Disposizioni in materia di istituzione, a bordo degli aerei, di un servizio di assistenza sanitaria provvisto di defibrillatore semiautomatico» (2220);
PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE LACQUANITI ed altri: «Modifica all'articolo 117 della Costituzione. Introduzione del turismo nell'elenco delle materie attribuite alla competenza legislativa concorrente dello Stato e delle regioni» (2221);
BASSO: «Modifiche agli articoli 23-bis e 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e altre disposizioni in materia di trattamenti economici erogati dalle pubbliche amministrazioni nonché di compensi degli amministratori e dei dipendenti delle società controllate dalle medesime» (2222);
CAPODICASA: «Disposizioni per la copertura assicurativa dei danni subìti dalle vittime di richieste estorsive» (2223);
CAPODICASA: «Norme relative alla professione del consulente filosofico e istituzione del relativo albo professionale» (2224);
CAPODICASA: «Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sull'utilizzo di calcestruzzo depotenziato e di altri materiali di qualità non conforme ai capitolati d'appalto nella realizzazione di opere infrastrutturali e di edifici pubblici» (2225);
CAPODICASA: «Istituzione del Parco nazionale geominerario delle Zolfare di Sicilia» (2226);
PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE CIVATI ed altri: «Modifiche alla parte seconda della Costituzione in materia di semplificazione dell'organizzazione e del funzionamento delle Camere, elezione e funzioni del Senato, soppressione del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, delle province e delle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia delle regioni, nonché rideterminazione delle competenze legislative statali e regionali» (2227).
Saranno stampate e distribuite.
Adesione di deputati a una proposta di legge.
La proposta di legge CAPUA: «Disposizioni per la valorizzazione della ricerca indipendente» (1962) è stata successivamente sottoscritta dai deputati Amato, Anzaldi, Binetti, Bombassei, Bruno, Busin, Caon, Carnevali, Carrozza, Casati, Casellato, Catania, Causin, Antimo Cesaro, Cimmino, Coppola, D'Agostino, Di Gioia, Di Lello, D'Ottavio, Fitzgerald Nissoli, Fratoianni, Galan, Galgano, Gigli, Alberto Giorgetti, Kyenge, Locatelli, Malpezzi, Manzi, Marcolin, Marcon, Martella, Marzano, Matarrese, Mazziotti Di Celso, Giorgia Meloni, Molea, Monchiero, Moretti, Mosca, Naccarato, Narduolo, Nesi, Oliaro, Palmieri, Pes, Piccoli Nardelli, Prataviera, Quintarelli, Rabino, Andrea Romano, Rotta, Rubinato, Saltamartini, Sbrollini, Tinagli, Vargiu, Vecchio, Verini, Vezzali, Vignali, Vitelli, Zan, Zanetti, Zanin e Zoggia.
Assegnazione di progetti di legge a Commissioni in sede referente.
A norma del comma 1 dell'articolo 72 del Regolamento, i seguenti progetti di legge sono assegnati, in sede referente, alle sottoindicate Commissioni permanenti:
I Commissione (Affari costituzionali):
REALACCI ed altri: «Istituzione del servizio civile obbligatorio per le giovani e i giovani e delega al Governo per la sua disciplina» (2042) Parere delle Commissioni III, IV, V, VI (ex articolo 73, comma 1-bis, del Regolamento, per gli aspetti attinenti alla materia tributaria), VII, VIII, XII e della Commissione parlamentare per le questioni regionali.
VI Commissione (Finanze):
ZAPPULLA e CAUSI: «Disposizioni in materia tributaria in favore delle popolazioni delle province di Catania, Ragusa e Siracusa colpite dal sisma del 13 e 16 dicembre 1990» (1341) Parere delle Commissioni I, V, VIII e XIV.
VIII Commissione (Ambiente):
MANNINO ed altri: «Divieto dell'uso di imballaggi primari e secondari, stoviglie e cannucce non riutilizzabili per la somministrazione di alimenti e bevande, realizzati con materiali non compostabili e non biodegradabili, presso le amministrazioni e gli enti pubblici e le istituzioni del sistema educativo di istruzione e formazione» (2010) Parere delle Commissioni I, II (ex articolo 73, comma 1-bis, del Regolamento, per le disposizioni in materia di sanzioni), V, VII, X, XII, XIII, XIV e della Commissione parlamentare per le questioni regionali.
XIII Commissione (Agricoltura):
CENNI ed altri: «Disposizioni per la riorganizzazione del sistema degli enti vigilati dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, nonché in materia di promozione dell'agricoltura italiana nei mercati esteri e di accesso delle imprese agricole e di pesca ai servizi digitali delle pubbliche amministrazioni» (1145) Parere delle Commissioni I, II, V, VI, VII, IX, X, XI, XIV e della Commissione parlamentare per le questioni regionali.
Adesione di un deputato ad una proposta di modificazione al Regolamento.
La proposta di modificazione al Regolamento, Doc. II, n. 9: «Articoli 49, 53 e 65: Misure per la trasparenza dei lavori delle Commissioni parlamentari», presentata dal deputato Giachetti ed altri (annunziata nella seduta del 16 gennaio 2014), è stata successivamente sottoscritta anche dal deputato CATALANO.
Atti di controllo e di indirizzo.
Gli atti di controllo e di indirizzo presentati sono pubblicati nell’Allegato B al resoconto della seduta odierna.
ERRATA CORRIGE
Nell'Allegato A ai resoconti della seduta del 17 gennaio 2014, a pagina 3, seconda colonna, righe settima e ottava, deve leggersi: «Istituzione e disciplina della professione sanitaria» e non: «Istituzione della professione sanitaria», come stampato.
DISEGNO DI LEGGE: CONVERSIONE IN LEGGE DEL DECRETO-LEGGE 20 MARZO 2014, N. 34, RECANTE DISPOSIZIONI URGENTI PER FAVORIRE IL RILANCIO DELL'OCCUPAZIONE E PER LA SEMPLIFICAZIONE DEGLI ADEMPIMENTI A CARICO DELLE IMPRESE (A.C. 2208)
A.C. 2208 – Questioni pregiudiziali
QUESTIONI PREGIUDIZIALI
La Camera,
premesso che:
i sottoscrittori del presente atto esprimono una critica radicale al metodo con il quale viene affrontato il tema del lavoro nel nostro Paese;
a ben vedere, il Governo – che già opera in misura sempre più rilevante, se non quasi esclusivamente, attraverso la decretazione di urgenza – tende a ignorare i principi sui quali il nostro vivere sociale e produttivo è stato disegnato dai padri costituenti;
è davanti agli occhi di tutti come l'articolo 3 della Costituzione sia oramai divenuto, nelle interpretazioni dei Governi precedenti e purtroppo anche di questo ultimo, nulla più che un paragrafo di lettura dotta, svuotato e mortificato, alla prova dei fatti, dei suoi preziosi contenuti;
non vi è altra giustificazione all'emanazione del decreto-legge in esame allorquando, a conti fatti, l'improcrastinabile bisogno di investire sul lavoratore e sulla sua formazione, viene raggirato già all'articolo 1 attraverso l'emanazione di «misure di semplificazione delle disposizioni in materia di contratto di lavoro a termine» che, di fatto, incoraggiano l'uso della medesima tipologia contrattuale a tempo, quale unica forma contrattuale da effettivamente utilizzare;
viene infatti modificato l'articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, fonte di regolamentazione del contratto a termine. In particolare:
a) viene eliminato l'obbligo di indicare nel contratto di lavoro a termine le esigenze di carattere tecnico, organizzativo e produttivo, che hanno indotto il datore di lavoro ad apporre una scadenza al contratto. Viene, dunque, soppresso l'obbligo di specificare la causale (la motivazione specifica) nel corpo del contratto di lavoro;
b) è consentita l'apposizione di un termine al contratto di lavoro di durata non superiore a 36 mesi, comprensiva di eventuali proroghe, concluso tra un datore di lavoro utilizzatore e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nell'ambito di un contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato, ex articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276;
c) viene introdotto per la prima volta il limite numerico legale quale condizione di utilizzo del contratto a termine. Nello specifico, la nuova disposizione introduce un requisito percentuale generale pari al 20 per cento dell'organico complessivo del datore di lavoro per la stipulazione dei contratti a termine;
è pertanto evidente la volontà del Governo di inglobare la precarietà all'interno di una formula contrattuale più estesa temporalmente, ma del tutto priva di ingredienti che lascino presagire l'obiettivo della «stabilità» nel lavoro o il tangibile perseguimento del già richiamato dettato di cui all'articolo 3 della Costituzione;
una seria riflessione sul tema della retribuzione o, meglio, sulla definizione dei trattamenti contrattuali dei lavoratori subordinati, appare quanto mai fondamentale oggi, soprattutto se si guarda all'attuale contesto economico e sociale di crisi dell'economia globale e dell'occupazione, il cui effetto è quello di produrre una corrente svalutazione dell'elemento lavoro e della retribuzione ad esso collegata. Tali fattori sono invece ritenuti essenziali nella prospettiva delineata dai Costituenti, il primo, inteso come strumento di sviluppo individuale e di progresso sociale, la seconda, connaturata all'esigenza fondamentale del cittadino lavoratore di condurre un'esistenza in cui trova spazio la realizzazione delle proprie aspettative di vita, non solo materiali;
la sentenza della Corte Costituzionale n. 106 del 1962 evidenzia come le norme contenute ad esempio negli articoli 3, secondo comma, 35, primo, secondo e terzo comma, 36, e nell'articolo 37 della Costituzione, le quali – al fine di tutelare la dignità personale del lavoratore e il lavoro in qualsiasi forma e da chiunque prestato e di garantire al lavoratore una retribuzione sufficiente ad assicurare una vita libera e dignitosa – non soltanto consentono, ma insieme impongono al legislatore di emanare norme che, direttamente o mediatamente, incidono nel campo dei rapporti di lavoro: tanto più facilmente quanto più ampia è la nozione che la società contemporanea si è costruita dei rapporti di lavoro e che la Costituzione e la legislazione hanno accolta. Il portato della detta sentenza è stato poi ripreso dalle successive pronunce della Consulta in materia di retribuzione e tutela del lavoratore come soggetto debole;
il richiamo alla mancata considerazione dell'articolo 3 della Costituzione non risulta quindi pleonastico, anzi, a parere dei sottoscrittori del presente atto, i principi di partecipazione, libertà, uguaglianza e sviluppo della persona umana deve continuare a rappresentare in modo concreto ed effettivo l'orientamento della nostra società, costretta negli ultimi anni a piegarsi ai diktat dell'oligarchia bancaria con la penosa conseguenza di gravi lacerazioni ad un tessuto sociale dove il lavoro ed il lavoratore non sono più stati posti al centro della scena, ma sono risultati ridotti a semplice appendice di meccanismi economico/finanziari ben lontani dal rispetto della dignità dell'individuo;
del pari, perplessità sorgono guardando all'articolo 2 del decreto-legge, laddove esso reca disposizioni in materia di «Semplificazione delle disposizioni in materia di apprendistato», con la previsione, e non già più l'obbligo, del datore di lavoro, di avvalersi in via integrativa dell'offerta formativa pubblica o con la prevista abrogazione dell'obbligo di forma scritta per i piani formativi individuali, o ancora con riferimento al contratto di apprendistato, nella ambigua parte in cui viene prevista, per la qualifica e per il diploma professionale (per soggetti tra i 15 e i 25 anni), una retribuzione che tiene conto delle ore effettivamente prestate e delle ore di formazione nella misura del 35 per cento in relazione al monte ore complessivo. Quest'ultima previsione, lo si ribadisce, ambigua, stride in ogni caso con le previsione di cui all'articolo 36 della Costituzione, con particolare riferimento al principio di sufficienza della retribuzione, a tal proposito vale la pena di denunciare gli enormi squilibri nella redistribuzione dei redditi nel nostro Paese, che nel decreto-legge vengono tralasciati ed ignorati, continuando ad alimentare forti divari che sarebbe stato opportuno colmare;
peraltro il Presidente del Consiglio dei ministri ha posto la questione «lavoro» al centro di una campagna mediatica senza precedenti che avrebbe dovuto presupporre una inversione di tendenza rispetto alle politiche del lavoro degli ultimi anni, ancorché nulla di tutto ciò si legga nel decreto in esame che, viceversa, a parere dei sottoscrittori del presente atto, alimenta l'aggravarsi di un trend che conduce vieppiù a forme di precarizzazione e riduzione del reddito;
il decreto-legge in esame non appare nemmeno in grado di raggiungere l'obiettivo prefissato, e cioè la semplificazione in materia di documento di regolarità contributiva (DURC) e quasi si adagia sull'istituto della delega; infatti il Governo utilizza l'articolo 4 per introdurre surrettiziamente una vera e propria delega, affidando ad un decreto ministeriale, solitamente di mera applicazione di una norma definita, l'applicazione di un elenco di criteri cui il suddetto decreto deve attenersi per modificare la normativa vigente in materia di DURC; i Ministri del lavoro e delle politiche sociali e dell'economia e delle finanze dovranno adottare, sentiti INPS ed INAIL, un decreto che a sua volta dovrà raggiungere l'obiettivo della «dematerializzazione» del DURC; appare evidente come un piccolo e reale sforzo del Governo, avrebbe consentito l'immediata efficacia del portato di una disposizione tendente a «sburocratizzare» e che invece viene inserita nel testo senza che essa – e non sarebbe stato difficile – dispieghi immediati effetti; vieppiù tale genere di previsione è da considerarsi una sorta di summa dell'illegittimità, in quanto rende coincidente il potere legislativo con quello esecutivo;
perplessità suscita anche l'articolo 5, il quale stabilisce che, con decreto interministeriale dei Ministri del lavoro e delle politiche sociali e dell'economia e delle finanze vengano fissati i criteri per individuare le aziende eventi diritto a sgravio contributivo, allorquando si avvalgano dei contratti di solidarietà. A tal proposito va ricordato che, l'articolo 6, comma 4, del decreto-legge 1 ottobre 1996, n. 510, convertito con modificazioni dalla legge 28 novembre 1996, n. 608, già prevede, a favore dei datori di lavoro che stipulano contratti di solidarietà accompagnati dalla cassa integrazione guadagni straordinari (Cigs), una riduzione dell'ammontare dei contributi dovuti per i lavoratori per i quali sia stata pattuita una riduzione dell'orario di lavoro superiore al 20 per cento. Si deve perciò evidenziare che le predette agevolazioni, già previste stabilmente dal 1996, sono in realtà subordinate alla presenza, nel Fondo per l'occupazione, di risorse allo scopo preordinate e che pertanto non attribuiscono alla misura il carattere strutturale e risolutivo del quale invece si sentiva la necessità. Inoltre la facilitazione in esame è limitata alle imprese di grandi dimensioni che possono contare su un intervento economico pubblico (Cigs) che compensa in buona parte i lavoratori delle quote di retribuzione perse a seguito della riduzione dell'orario. Il Governo esclude ancora una volta le piccole e medie realtà imprenditoriali, che rappresentano il tessuto connettivo dell'economia nazionale, dall'adozione di misure in loro favore per superare il grave stato di crisi in cui versano. Al contrario, la questione da affrontare immediatamente doveva appunto essere quella relativa alle tipologie di imprese più deboli, le piccole e medie, che costituiscono il tessuto connettivo della nostra economia;
altresì lascia perplessi il ricorso sistematico e reiterato alla decretazione d'urgenza se si considera come sia solo di qualche mese fa l'emanazione di altro decreto-legge in materia di lavoro, proposto dall'allora Ministro Giovannini; invero ad avviso dei sottoscrittori della presente questione pregiudiziale, più acconcia sarebbe la predisposizione di una vera «Riforma» del lavoro che prenda concretamente in esame i bisogni dei lavoratori e delle aziende, affrontando le problematiche in modo complessivo e strutturale e che non agisca per il tramite o della decretazione d'urgenza o dell'istituto della delega. Queste ultime, infatti, sono prassi che producono rattoppi, non solo criticabili nel merito – vedi il caso relativo al presente decreto – ma vieppiù criticabili sul piano del metodo che risulta appalesarsi come più rispondente a criteri propagandistici che non ad un serio e realistico programma produttivo di una reale inversione di tendenza;
a pena di anacronismo, non è possibile riscontrare i necessari e straordinari requisiti della straordinarietà e dell'urgenza che, soli, autorizzano il Governo a ricorrere, ai sensi dell'articolo 77 della Costituzione, allo strumento della decretazione d'urgenza e ciò è da sottolineare non per l'assenza di urgenza di interventi relativi alle tematiche occupazionali, quanto per il pedissequo ricorso – già in questa legislatura – a provvedimenti tampone che continuano ad esautorare il Parlamento delle prerogative ad esso proprie;
il decreto-legge in esame non appare rispondente nemmeno ai requisiti stringenti in ordine alla leggibilità, alla trasparenza e alla sistematizzazione delle norme, in quanto la gran parte dei passaggi normativi risulta indecifrabile, un mero e oscuro elenco di automatici rinvii ad altra data di termini legislativi, differiti senza adeguata motivazione;
è diritto fondamentale del cittadino e rispetto del suo diritto che il Governo adempia i propri compiti, in particolare quando si tratta di settori determinanti della vita sociale quale quello che ci occupa;
considerato che:
come già evidenziato, il presente decreto legge integra palesi criticità con riguardo ai presupposti di costituzionalità (articoli 3, 36 e 77 della Costituzione), oltre ad evidenti lacune di tipo contenutistico e di merito,
delibera
di non procedere all'esame del disegno di legge n. 2208.
N. 1. Cominardi, Tripiedi, Baldassarre, Rizzetto, Rostellato, Ciprini, Bechis, Chimienti, Nuti.
La Camera,
esaminati i contenuti del decreto legge 20 marzo 2014, n. 34 (A.C. n. 2208);
premesso che:
il decreto-legge citato, liberalizzando i contratti a termine, divenuti ora sempre «acausali», estende il precariato a tutti i lavoratori, giovani ed anziani, che troveranno o cambieranno lavoro;
infatti, nel testo del decreto-legge non si distingue più tra «primo» contratto a termine e contratti successivi tra le stesse parti, e non si richiede più nessuna causale «obiettiva» né per il contratto e neanche per le sue proroghe o rinnovi;
il contratto a termine, dunque, si può utilizzare sempre per tutti senza spiegare il perché e senza collegamento ad una esigenza temporanea, così come sempre si possono utilizzare contratti di somministrazione, diventati così null'altro che contratti a termine «indiretti»;
l'unico limite è quello di non oltrepassare, nel complesso, i 36 mesi di utilizzo a termine dello stesso lavoratore, per non far scattare una trasformazione a tempo indeterminato: un limite che già esisteva. Un limite che nei fatti spesso si ritorce contro i lavoratori in quanto i datori di lavoro sono attenti a non superare questa soglia temporale;
un altro limite – questo più teorico che reale – è rappresentato dal tetto del 20 per cento per i lavoratori che un'azienda può assumere con contratti a tempo determinato sul complesso dei lavoratori occupati in azienda. Il decreto alza così il tetto già previsto dai contratti collettivi di lavoro (in media 10-15 per cento dell'organico), limite che peraltro non ha mai funzionato, giacché le aziende e i Centri per l'impiego tengono riservati e non accessibili i dati numerici relativi;
il motivo alla base di queste nuove disposizioni non è riferibile alla necessità di un periodo di prova nel corso del quale valutare le capacità professionali del lavoratore: nel contratto a tempo indeterminato il periodo di prova c’è già, e può esservi anche nei contratti a termine «regolari». Il vero motivo è un altro: con il contratto a termine il lavoratore vive e lavora sotto il ricatto permanente della mancata proroga e, dunque, mai può alzare la testa o rivendicare alcunché. Ricatto che, invece, non funziona con il contratto a tempo indeterminato, che può essere risolto solo in presenza di una giusta causa;
le disposizioni del decreto legge, sono in evidente contrasto con la normativa europea sui contratti a termine (direttiva 1999/70/CE), la quale fu recepita proprio con il decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, che ora questo decreto ha stravolto e devastato. La direttiva europea richiede infatti «ragioni obiettive» per la stipula di un contratto a termine, o, almeno per le sue proroghe o rinnovi, ed impedisce, con una «clausola di non regresso» peggioramenti della disciplina di recezione della stessa direttiva, e quindi proprio del decreto legislativo n. 368 del 2001;
emergono anche evidenti motivi di incostituzionalità, per violazione, anzitutto, con gli articoli 2 e 4 della Costituzione, che tutelano i diritti fondamentali dei lavoratori, ed anche per la «irragionevolezza» che questo decreto induce nel sistema dei rapporti di lavoro. Infatti, il contratto a tempo indeterminato viene ancora proclamato, «forma comune di rapporto di lavoro» dalla premesse dello stesso decreto legislativo n. 368 del 2001, ma, poi, al contrario, viene incentivato al massimo, con la «acausalità», proprio il contratto a termine, e in simili contraddizioni all'interno di una stessa legge la Corte ravvisa, appunto, motivo di incostituzionalità;
così come sono scritte, le disposizioni del decreto-legge verrebbero, peraltro, impugnate in ogni sede giudiziaria, dalla Corte di Giustizia dell'Unione europea, alla nostra Corte Costituzionale, ma anche di fronte ai normali giudici del lavoro, i quali potrebbero addirittura disapplicare, semplicemente, queste norme contrarie a precise previsioni del diritto europeo. Il rischio concreto è quello di innescare un contenzioso fitto ed accanito, in ogni sede giudiziaria italiana;
le modifiche dell'apprendistato (articolo 2 del decreto-legge), con l'eliminazione sia dell'obbligo di garantire formazione, sia di quello di assumere almeno un venti per cento degli apprendisti prima di avviare nuovi contratti dello stesso tipo, rappresentano un vero e proprio ritorno indietro, e viene totalmente svilita la causa mista del rapporto di apprendistato che si incentra in maniera fondamentale sulla chiara condivisione del percorso formativo, del tempo da dedicarvi, dei suoi sbocchi e degli strumenti da utilizzare;
se il progetto formativo non viene scritto, viene a mancare ogni appiglio per valutare la qualità della formazione, per non parlare del controllo sull'effettuazione della formazione stessa. La discrezionalità sull'offerta formativa pubblica ci espone al rischio di una procedura di infrazione europea, perché per le norme UE essa è obbligatoria;
considerato, inoltre che:
il Consiglio dei ministri del 12 marzo 2014 ha approvato due distinti e contraddittori provvedimenti: una proposta di legge delega che propugna un contratto a tutele crescenti ed il presente decreto-legge che stabilisce nei fatti periodi di prova lunghissimi;
lo strumento della legge delega è stato utilizzato dal Governo per «semplificare» e «riordinare» le diverse figure contrattuali, introducendo «eventualmente in via sperimentale» un contratto «a tutele crescenti per i lavoratori coinvolti»;
con il decreto-legge è ora, invece, possibile assumere per otto volte nell'arco di tre anni un lavoratore con un contratto a tempo determinato di 4/5 mesi. Una norma di questo tipo, di fatto, introduce un periodo di prova di 3 anni in cui il datore può licenziare senza pagare un'indennità, senza dare un minimo di preavviso e senza neanche motivazione;
il decreto-legge con la nuova prova triennale rende del tutto improponibile un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti come quello al quale si accenna nella proposta di legge delega. Un periodo di prova così lungo spiazza, infatti, qualsiasi altra tipologia contrattuale nel periodo di inserimento. E dopo un periodo di prova di 3 anni, non si può immaginare di avere un contratto di inserimento a tutele crescenti che allungherebbe la fase iniziale del contratto a 6 anni, quando l'anzianità aziendale media in Italia è attorno ai 15 anni. Inoltre, il decreto aumenta il dualismo nel mercato del lavoro e innalza le barriere che separano i contratti temporanei da quelli a tempo indeterminato;
il contratto di lavoro a tutele crescenti ha esattamente la filosofia opposta: ridurre le barriere, unificare laddove oggi c’è segmentazione. Invece con il decreto citato si è scelto di aumentarla ulteriormente: così il mercato del lavoro italiano sarà ancora più spaccato a metà. Le disposizioni del decreto-legge citate rendono improponibile la previsione della legge delega che introduce il contratto a tutele crescenti;
sarebbe dunque opportuna una valutazione della coerenza tra le disposizioni in merito al contratto unico a tutele crescenti contenute nella proposta di legge delega sul mercato del lavoro (cd. «Jobs Act») approvata dal Consiglio dei ministri del 12 marzo 2014 e le disposizioni dell'articolo 1 del decreto-legge al nostro esame,
delibera
di non procedere all'esame del disegno di legge n. 2208.
N. 2. Migliore, Di Salvo, Airaudo, Placido, Aiello, Boccadutri, Franco Bordo, Costantino, Duranti, Daniele Farina, Fava, Ferrara, Giancarlo Giordano, Fratoianni, Kronbichler, Lacquaniti, Lavagno, Marcon, Matarrelli, Melilla, Nardi, Nicchi, Paglia, Palazzotto, Pannarale, Pellegrino, Piazzoni, Pilozzi, Piras, Quaranta, Ragosta, Ricciatti, Sannicandro, Scotto, Zan, Zaratti.
PROPOSTA DI LEGGE: BURTONE ED ALTRI; VENDOLA ED ALTRI; FRANCESCO SANNA ED ALTRI; MICILLO ED ALTRI: MODIFICA DELL'ARTICOLO 416-TER DEL CODICE PENALE, IN MATERIA DI SCAMBIO ELETTORALE POLITICO-MAFIOSO (APPROVATA, IN UN TESTO UNIFICATO, DALLA CAMERA E MODIFICATA DAL SENATO) (A.C. 204-251-328-923-B)
A.C. 204-B – Questione pregiudiziale
QUESTIONE PREGIUDIZIALE
La Camera,
premesso che:
seppur licenziato nel solco della condivisibile esigenza di definire una più completa ed efficace azione di contrasto alla zona grigia in cui gli interessi della mafia incrociano quelli del potere istituzionale, il testo di modifica dell'articolo 416-ter del codice penale proposto dal Senato della Repubblica, che ha modificato l'impianto approvato in prima lettura alla Camera dei deputati, si espone ad ampie e fondate critiche innanzitutto a cagione della sua evidente indeterminatezza, che porta la disposizione in esame ad un'evidente violazione dell'articolo 25, comma 2, della Costituzione;
il testo unificato approvato dalla Camera il 16 luglio 2013 costituiva un provvedimento che rappresentava un buon punto di equilibrio tra la necessità di punire lo scambio elettorale politico-mafioso e quella di garantire i principi costituzionali della proporzionalità e della tassatività della legge penale, nonché della necessaria offensività del reato;
la formulazione dell'articolo 416-ter del codice penale approvata dal Senato risulta modificata, rispetto al testo Camera, sotto alcuni fondamentali aspetti; in particolare, la condotta illecita viene ora qualificata mediante l'accettazione della «promessa» di procurare voti, anticipando la soglia di punibilità del reato che viene legata ad una condotta che precede l'azione, ovvero alla citata promessa da parte del soggetto di procurare voti;
la nuova qualificazione della condotta illecita pone evidenti criticità dal punto di vista del diritto processuale penale, atteso che la scelta operata dal Senato corre il rischio di far ritenere provata la gravità indiziaria dell'accettazione della promessa sulla scorta della mera dichiarazione processuale del promittente. Anticipare la soglia di punibilità del reato alla citata promessa da parte del mafioso di procurare voti pone infatti un evidente problema dal punto di vista del diritto processuale poiché potrebbero attivarsi indagini sulla base della sola «parola» pronunciata nei confronti di un soggetto relativamente all'esistenza del patto illecito senza che, in realtà, sussistano prove concrete, attribuendo, in tal modo, un potere enorme alla magistratura inquirente;
è stato inoltre eliminato dal testo approvato dal Senato il riferimento alla consapevolezza dell'accettazione («consapevolmente») che, come emerge dal dibattito in discussione generale al Senato stesso, è stato ritenuto superfluo per un reato punito a titolo di dolo. Al riguardo, si segnala che, ai fini della punibilità del reato è indispensabile accertare, oltre alla volontà dell'evento-scambio, che il soggetto abbia piena cognizione dell'appartenenza alla associazione mafiosa di chi procaccia i voti;
si ritiene quindi preferibile la scelta originariamente operata dalla Camera di punire il procacciamento dei voti e non la mera accettazione della promessa di procurare voti; infatti tale opzione includeva, più correttamente da un punto di vista dogmatico e di offensività della condotta (articolo 56 del codice penale), la possibilità di punire anche la promessa attraverso la figura del delitto tentato;
il Senato ha inoltre modificato l'impianto sanzionatorio; il testo elaborato dalla Camera prevedeva che fosse prevista la pena della reclusione da 4 a 10 anni; i limiti edittali erano stati, quindi, ridotti rispetto a quelli attuali (reclusione tra 7 a 12 anni, ovvero la stessa pena stabilita dall'articolo 416-bis del codice penale per l'associazione mafiosa); il testo elaborato dal Senato ha reintrodotto i limiti vigenti, inasprendo quindi ingiustificatamente le sanzioni. In effetti, considerato il minore disvalore comparativo dello scambio politico mafioso rispetto sia alla partecipazione associativa che al concorso esterno, il trattamento punitivo dovrebbe essere inferiore a quello previsto dal primo comma dell'articolo 416-bis del codice penale;
al riguardo, la Corte costituzionale ha già da tempo affermato come «In linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono (...) in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale ed il dubbio di legittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell'illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all'intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato» (sentenza n. 50 del 1980);
tale affermazione è stata peraltro esito di un ricco sviluppo argomentativo, nel quale si è anzitutto precisato – «in via di principio» – che «l'individualizzazione» della pena, in modo da tener conto dell'effettiva entità e delle specifiche esigenze dei singoli casi, si pone come naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio d'uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale «, e che lo stesso principio di legalità delle pene, sancito dall'articolo 25, secondo comma, della Costituzione, “dà forma ad un sistema che trae contenuti ed orientamenti da altri principi sostanziali come quelli indicati dall'articolo 27, primo e terzo comma, della Costituzione, ed in cui l'attuazione di una riparatrice giustizia distributiva esige la differenziazione più che l'uniformità»; giungendo così a mettere in luce il «ruolo centrale» assegnato alla discrezionalità giudiziale, nell'ambito e secondo i criteri segnati dalla legge (articoli 132 e 133 del codice penale), evidenziando come «l'adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti contribuisce a rendere quanto più possibile “personale” la responsabilità penale nella prospettiva segnata dall'articolo 27, primo comma, della Costituzione; e nello stesso tempo è strumento per la determinazione della pena quanto più possibile “finalizzata”, nella prospettiva dell'articolo 27, terzo comma, della Costituzione», e segnalando – in definitiva – «l'esigenza di un'articolazione legale del sistema sanzionatorio, che renda possibile tale adeguamento individualizzato, “proporzionale”, delle pene inflitte con la sentenza di condanna» (ancora la sentenza n. 50 del 1980);
il testo modificato dal Senato prevede che l'oggetto dello scambio possa essere costituito da «qualunque utilità», dizione che pure merita riflessione ai fini della offensività della condotta, risultando tra l'altro indeterminata e indeterminabile la natura della stessa utilità (con conseguente compromissione dei principi di tassatività e di determinatezza della fattispecie ex articoli 25 e 27 della Costituzione);
è evidente quindi come la disposizione in esame presenti criticità in ordine al pieno rispetto dei principi di tipicità e determinatezza della fattispecie, nonché con riferimento al rispetto del principio di offensività;
la fattispecie penale così come delineata è così ampia che non garantisce il diritto inviolabile alla difesa di cui all'articolo 24 della Costituzione;
in particolare si segnala che il testo approvato dal Senato introduce, come corrispettivo della promessa di procurare voti, la «disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell'associazione mafiosa» prevedendo, in tal modo, una formulazione generica e indeterminata della fattispecie di reato che comporterebbe la necessità di una riflessione in ordine al contrasto con il principio di tassatività della legge penale;
per quanto attiene ai corollari del principio di legalità concernenti la formulazione del tipo penale, infatti, per orientamento consolidato si ritiene che nell'articolo 25, secondo comma, della Costituzione trovino riconoscimento implicito i principi di determinatezza e tassatività del reato, garanzie che appaiono peraltro oggetto di più diretta menzione nella più esplicita formulazione dell'articolo 1 del codice penale (ove si stabilisce che «Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto dalla legge come reato, né con pene che non siano da essa stabilite»);
quanto al principio di determinatezza, i «due obiettivi fondamentali» ad esso sottesi consistono – come anche di recente ha ribadito la Corte costituzionale – «per un verso, nell'evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri e con la riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l'illecito; e, per un altro verso, nel garantire la libera autodeterminazione individuale, permettendo al destinatario della norma penale di apprezzare a priori le conseguenze giuridico-penali della propria condotta» (sentenza della Corte costituzionale n. 327 del 2008);
le disposizioni penali devono essere «chiaramente formulate», e devono essere rese altresì conoscibili dai destinatari grazie ad una pubblicità adeguata (articolo 73, terzo comma, della Costituzione): i principi in esame comportano dunque – secondo la Corte – l'adempimento da parte dello Stato di precipui doveri costituzionali, attinenti, anzitutto, alla formulazione del divieto, che deve essere tale da consentire di distinguere tra la sfera del lecito e quella dell'illecito (si vedano, sul punto, i rilievi puntualizzati nella sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 1988);
nel caso di specie, è necessario affrontare il profilo della indeterminatezza della fattispecie (e quindi la violazione del principio costituzionale di cui all'articolo 25, secondo comma, della Costituzione), proprio con riferimento, in particolare, alla «disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell'associazione». Giova sottolineare, infatti, che già il reato associativo è oggetto di più d'una incertezza applicativa, sicché l'uso di espressioni così vaghe non può che determinare l'impalpabilità delle condotte di riferimento. Viene da chiedersi, peraltro, chi e come possa individuare quali siano gli interessi e le esigenze dell'associazione; problema ancor più serio nella misura in cui è sufficiente la mera promessa, con la conseguenza per cui ci si dovrebbe impegnare a soddisfare interessi o esigenze che non si conoscono (con le inevitabili ricadute sul versante dell'elemento soggettivo). Al contempo, una conoscenza approfondita di detti interessi ed esigenze ed un conseguente impegno al soddisfacimento degli stessi difficilmente sfuggirebbe alla integrazione della fattispecie associativa «base» (anche solo a titolo di concorso esterno) e dunque renderebbe inutile la nuova previsione. D'altronde, è nella logica della competizione elettorale e della rappresentanza politica che i candidati «promettano» di soddisfare le esigenze del proprio elettorato, sicché può diventare difficile distinguere tra una disponibilità fisiologica e quella patologica che giustamente si vuole prevenire. Il rischio è che una norma a maglie così larghe si apra ad errate interpretazioni applicative;
posta in questi termini, la questione pare assorbente e tale, dunque, da evitare di coltivare l'assai più insidioso tema della offensività. Che le condotte descritte, infatti, possano in concreto essere offensive del bene giuridico tutelato non pare discutibile: il problema, semmai, è come si possano provare. Il tema della prova, d'altro canto, è intimamente connesso a quello della determinatezza della fattispecie e dei relativi elementi costitutivi. In buona sostanza, piuttosto che discutere sulla concreta offensività di talune condotte (che quando si ha a che fare con contesti mafiosi è difficile da negare), pare preferibile segnalare come la repressione del fenomeno passi per la necessaria tipizzazione analitica delle condotte penalmente rilevanti;
un'ulteriore considerazione infatti va operata in relazione agli aspetti probatori. Il contesto in cui il reato di scambio elettorale politico-mafioso si colloca è una realtà documentata da innumerevoli procedimenti giudiziari che attestano diffuse forme di profferte di voti e altrettanto diffuse accettazioni di tali proposte (quando queste non siano addirittura sollecitate dal candidato stesso); ma è anche una realtà in cui, per la labilità dei contesti interpretativi degli elementi presupposto del reato, occorre che il legislatore fornisca indicazioni normative chiare, precise e inequivoche, connotate dall'esigenza di una definita tipizzazione dei comportamenti sanzionabili;
diversamente operando, si determinerà la creazione di una normativa equivoca, nella quale risulteranno ancora più difficili gli sforzi giudiziari e investigativi: si correrà il rischio che il «racconto» della «promessa data/promessa accettata» e la patente di «disponibilità» siano rimessi proprio nelle mani dei mafiosi che si intende combattere;
il provvedimento in esame rileva quindi una violazione esplicita del dettato costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 24, 25 e 27 della Costituzione,
delibera
di non procedere all'esame della proposta di legge nn. 204-251-328-923-B.
N. 1. Brunetta, Sisto, Chiarelli, D'Alessandro, Marotta, Parisi, Sarro, Palese, Marti, Fucci.
INTERROGAZIONI A RISPOSTA IMMEDIATA
Iniziative per sviluppare l'informatizzazione e la digitalizzazione e per l'attuazione dell'Agenda digitale – 3-00705
BERGAMINI e PALESE. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
la piena applicazione dell'Agenda digitale a livello nazionale vale più di una manovra economica quanto al taglio dei costi della pubblica amministrazione, della possibilità di sviluppo per le PMI e per la creazione di posti di lavoro, eliminando le farraginosità della burocrazia delle sue inefficienze e dei sistemi di potere che essa genera;
da una ricognizione a cura del Servizio Studi della Camera dei deputati in materia di Agenda digitale italiana del 27 maggio 2013, con dati aggiornati al 21 maggio 2013, si evince che dei 47 adempimenti considerati solo 4 sono stati adottati (per gli adempimenti non ancora adottati in 19 casi risultava già scaduto il termine per provvedere);
nel corrente mese di marzo 2014, risulta che dei 55 adempimenti considerati, ne sono stati adottati 17 (per gli adempimenti non ancora adottati in 21 casi risulta già scaduto il termine per provvedere; rispetto alla ricognizione precedente sono state prese in considerazione le misure dell'articolo 13 del decreto-legge n. 69 del 2013, decreto «Del fare», la cui legge di conversione è entrata in vigore il 21 agosto 2013, nonché ulteriori disposizioni del decreto-legge «Crescita 2.0», n. 179 del 2012, la cui legge di conversione è entrata in vigore il 19 dicembre 2012, in precedenza non considerate, ma comunque collegate all'attuazione dell'agenda digitale);
ad oggi tuttavia non risulta mai utilizzata la procedura prevista dall'articolo 13, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, del decreto-legge n. 69 del 2013, in base alla quale, per accelerare l'adozione dei provvedimenti attuativi previsti da quattordici specifiche disposizioni del decreto-legge n. 179 del 2012 si consente, per i regolamenti governativi, la loro adozione su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri e non dei ministri proponenti previsti (comma 2-bis), e per i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri e per i decreti ministeriali la loro adozione su proposta del Presidente del Consiglio anche in assenza del concerto dei ministri previsti (commi 2-ter e 2-quater);
tutti i provvedimenti attuativi in questione risultano ancora da adottare, fatta eccezione per due casi, nei quali si è però utilizzata la procedura ordinaria (si tratta nello specifico del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 agosto 2013, n. 109, attuativo dell'articolo 2, comma 1 e del decreto ministeriale 9 agosto 2013, n. 165, attuativo dell'articolo 14, comma 2-bis);
nel suo ultimo intervento alla Camera dei deputati del 19 marzo 2014, il Presidente del Consiglio Renzi ha annunciato la necessità di organizzare nel mese di luglio 2014 un importante appuntamento sull'Agenda digitale in tutti e ventotto i Paesi, immaginando di arrivarci con un lavoro ancora più approfondito da parte del Governo italiano e delle nostre istituzioni, dopo ciò che già è stato fatto dalla commissione guidata dal presidente Francesco Caio;
il Presidente Renzi ha sottolineato inoltre che una parte della competitività del sistema deriva dall'investimento sulla STI e dalla capacità delle forze politiche e dei Governi di tradurre in atti concreti tutto il grande tema dell'Agenda digitale, e ha dichiarato di averne già discusso con il Presidente Francois Hollande e il Cancelliere Angela Merkel decidendo di organizzare in luglio, a Venezia, il suddetto appuntamento ad hoc centrato su questi temi, per mostrare come un pezzo della competitività sia anche l'investimento sull'innovazione e sullo sviluppo delle reti, non solo di quelle tradizionali;
la digitalizzazione è fondamentale per incentivare anche la trasparenza delle pubbliche amministrazioni permettendo l'accessibilità totale delle informazioni concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche, sul cui tema è già intervenuto il decreto legislativo n. 33 del 2013 (Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni) diretto a sconfiggere la corruzione negli apparati burocratici –:
se il Governo intenda attivarsi fin da subito per varare tutti i regolamenti, i decreti attuativi e le circolari già previste senza attendere il semestre europeo e quali iniziative intenda intraprendere, in linea generale, per garantire lo sviluppo digitale del nostro Paese sia dal punto di vista infrastrutturale che culturale, in particolar modo intervenendo a sostegno delle aree in digital divide ed assicurando che le misure previste dalle norme vengano poi realmente – e correttamente – applicate dalla pubblica amministrazione. (3-00705)
Iniziative volte a salvaguardare i livelli produttivi e occupazionali dello stabilimento Askoll di Castell'Alfero in provincia di Asti – 3-00706
PAOLO NICOLÒ ROMANO, TRIPIEDI, RIZZETTO, BECHIS, BALDASSARRE, CHIMIENTI, CIPRINI, COMINARDI, ROSTELLATO, DA VILLA, CRIPPA, PRODANI, DELLA VALLE, FANTINATI, MUCCI, VALLASCAS, PETRAROLI, PESCO e ALBERTI. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
la Askoll è una importante holding, con sede a Dueville (Vicenza), leader mondiale nella produzione di motori elettrici sincroni che trovano applicazione in molti elettrodomestici, principalmente lavabiancheria e lavastoviglie, oltre che nel settore dell'acquario. Fondata nel 1978, con gli anni è diventata un'azienda di dimensioni internazionali con undici unità operative tra cui Italia, in cui ha sei stabilimenti, Brasile, Messico, Slovacchia, Romania e Cina. Possiede rappresentanze commerciali negli Stati Uniti e in Corea del Sud e una presenza consolidata nei mercati di 20 Paesi. Il fatturato annuo si aggira sui 400 milioni di euro e impiega oltre 2.500 addetti;
nel 2008 la Askoll, per consolidare la propria presenza internazionale, acquisisce l'americana Emerson appliance motors Europe (E.A.M.E) proprietaria in Italia di due realtà industriali di eccellenza: lo stabilimento ex Plaset di Moncalieri, in provincia di Torino, con circa 330 dipendenti e lo stabilimento ex Ceset di Castell'Alfero, in provincia di Asti, con circa 296 dipendenti. Questi due siti produttivi assumeranno la nuova denominazione di Askoll P&C;
quest'acquisizione permetterà alla Askoll di conseguire la leadership nel mercato mondiale dei motori elettrici per applicazioni domestiche (ex Ceset) e delle pompe di scarico per lavabiancheria e lavastoviglie (ex Plaset);
al momento dell'acquisizione dell'EAME la Askoll P&C presenta il nuovo piano industriale di riconversione e riqualificazione industriale dei due siti produttivi di Moncalieri (Torino) e Castell'Alfero (Asti) prevedendo nel biennio 2009/2010 investimenti per complessivi 16 milioni di euro a fronte però di una riorganizzazione dei suddetti siti piemontesi con l'avvio della cassa integrazione guadagni straordinaria per ristrutturazione (CIGS) su cui viene siglato un accordo sindacale;
in contrasto con quanto affermato, anche con comunicato stampa del 9 giugno 2009, «(...) di rimanere competitiva ed efficiente senza delocalizzare, creando valore attraverso un nuovo sistema industriale, tecnologicamente avanzato, radicato e integrato nel territorio (...)» la Askoll avvia una sistematica azione di ridimensionamento della presenza in Italia a favore degli stabilimenti esteri;
infatti, la ex Plaset di Moncalieri, dopo l'iniziale accordo dei 24 mesi di cassa integrazione guadagni straordinaria (giugno 2009-giugno 2011) per l'avvio del percorso di ristrutturazione industriale, viene chiusa per crisi e i 208 lavoratori coinvolti messi in cassa integrazione guadagni straordinaria per cessazione attività;
anche per Castell'Alfero, dove attualmente sono in forza circa 225 addetti, si sta profilando lo stesso destino della ex Plaset. Infatti, successivamente al piano di ristrutturazione e all'accordo sottoscritto il 5 giugno 2012 presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, relativo al nuovo piano industriale, la società avvia la procedura di licenziamento collettivo comunicando la necessità di dar corso, ai sensi e per gli effetti di quanto previsto dagli articoli da 4 a 24 della legge n. 223 del 1991, «Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro», ad una riduzione collettiva del personale per cessazione dell'attività. Questo a fronte di un piano industriale che prevedeva la prosecuzione della produzione a Castell'Alfero dell'Askollmotor, che ha registrato negli ultimi anni un trend produttivo molto positivo, e all'industrializzazione di altri motori elettrici evoluti, già peraltro sviluppati nei laboratori castellalferesi anche in partnership col politecnico di Torino;
infatti la Askoll è leader mondiale di motori elettrici, con 600 brevetti depositati e con circa 17 milioni annui dedicati allo sviluppo tecnologico di prodotti e componenti, con laboratori dedicati sia a Castell'Alfero che a Dueville. Inoltre, sono a un livello avanzato di sviluppo i prototipi di veicoli elettrici (minicar, scooter e biciclette elettriche) che rappresentano il futuro della mobilità urbana in Italia e nel mondo e, pertanto, l'azienda italiana, come per altri prodotti nel passato, potrebbe diventare leader mondiale di motori elettrici per la mobilità urbana;
da settimane i lavoratori di Askoll P&C sono in stato di agitazione, con presidi ai cancelli e cortei per le vie di Asti e di Dueville (Vicenza), per denunciare il comportamento elusivo e poco etico della direzione aziendale e la decisione di trasferire all'estero tecnologia e know-how italiano, nonostante i volumi produttivi nel sito astigiano siano raddoppiati rispetto lo scorso anno e il trend sia in netta crescita. Senza tener alcun conto di questo, l'Azienda ha inviato alle organizzazioni sindacali il 25 febbraio 2014 la surricordata lettera di avvio procedura per la chiusura dello stabilimento;
presso il Ministero dello sviluppo economico a Roma è stato attivato un tavolo di crisi per discutere di un piano alternativo alla cessazione dello stabilimento ex Ceset di Castell'Alfero. In particolare, nell'incontro di venerdì 21 marzo 2014 la regione Piemonte è intervenuta con un corposo piano di sostegno economico all'Azienda mettendo sul piatto 1.000.000 di euro di finanziamento a tasso agevolato per l'industrializzazione del nuovo motore Askoll Motor Evo. In più un ulteriore finanziamento sino al 40 per cento a fondo perduto su progetti di ricerca e sviluppo della mobilità elettrica, in virtù anche della partnership avviata tra la Askoll Holding e l'azienda torinese Model Master per la progettazione e realizzazione di prototipi e componenti per veicoli di case automobilistiche. Altre misure sono state presentate pur di evitare la cessazione della produzione, come la decontribuzione sino al 40 per cento di tutti gli oneri contributivi, ma da parte dell'Azienda si è sempre manifestato un netto rifiuto a qualsiasi ipotesi alternativa alla delocalizzazione;
quest'atteggiamento dei vertici di Askoll è sospetto considerando il precedente della ex Plaset di Moncalieri, in provincia di Torino, e la diffusione da parte di alcuni organi di stampa di un documento riservato relativo ad un piano per la chiusura dello stabilimento di Castell'Alfero, redatto in tempi non sospetti, che evidenziano la volontà da tempo maturata dai vertici aziendali di delocalizzare all'estero la sua produzione;
lo stabilimento Askoll P&C di Castell'Alfero si è sempre contraddistinto quale sito d'eccellenza per la progettazione e la produzione di motori elettrici e pertanto, oltre a salvaguardare i livelli occupazionali, occorre proteggere un patrimonio produttivo strategico per il nostro Paese che dovrà necessariamente conquistare una leadership mondiale nelle nuove tecnologie della mobilità urbana –:
quali iniziative il Ministro interrogato intenda intraprendere per scongiurare la chiusura dello stabilimento ex Ceset di Castell'Alfero, in provincia di Asti, oggetto, a giudizio degli interroganti, di una evidente operazione speculativa finalizzata a delocalizzare all'estero le sue attività, come è ampiamente emerso dal documento riservato diffuso dalla stampa, così da salvaguardare un sito di eccellenza nazionale nella progettazione e produzione di motori elettrici. (3-00706)
Chiarimenti in merito ai requisiti per l'accesso al pensionamento dei dipendenti di enti non commerciali operanti in aree disagiate nel settore della sanità privata e con organico superiore a 1800 unità lavorative – 3-00707
MATARRESE, CAUSIN, MONCHIERO, D'AGOSTINO, SOTTANELLI, RABINO e ANTIMO CESARO. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
l'articolo 41, comma 7, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, così come modificato dall'articolo 44, comma 9-bis, della legge 24 novembre 2003, n. 326, e, da ultimo, dall'articolo 1, comma 190, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, ha previsto che «per gli anni 2004-2017 le disposizioni di cui all'articolo 1, commi 6, 7 e 8, del decreto-legge 11 giugno 2002, n. 108, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2002, n. 172, si applicano anche ai lavoratori licenziati da enti non commerciali operanti nelle aree individuate ai sensi degli obiettivi 1 e 2 del regolamento (CE) n. 1260/1999 del Consiglio, del 21 giugno 1999, con un organico superiore alle 1.800 unità lavorative, nel settore della sanità privata ed in situazione di crisi aziendale in seguito a processi di riconversione e ristrutturazione aziendale. Il trattamento economico, comprensivo della contribuzione figurativa e, ove spettanti, degli assegni per il nucleo familiare, è corrisposto in misura pari al massimo dell'indennità di mobilità prevista dalle leggi vigenti, per la durata di 66 mesi dalla data di decorrenza del licenziamento e nel limite di 400 unità, calcolato come media del periodo. Ai lavoratori di cui al presente comma si applicano, ai fini del trattamento pensionistico, le disposizioni di cui all'articolo 11 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e relativa tabella A, nonché le disposizioni di cui all'articolo 59, commi 6, 7, lettere a) e b), e 8 della legge 27 dicembre 1997, n. 449»;
tale disposizione, nello stabilire una speciale indennità di mobilità per i lavoratori dipendenti da enti non commerciali operanti in aree disagiate, con un organico superiore alle 1.800 unità lavorative, nel settore della sanità privata, ha previsto, altresì, che gli stessi possano accedere al pensionamento con il possesso dei soli requisiti di cui «all'articolo 11 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e relativa tabella A, nonché le disposizioni di cui all'articolo 59, commi 6, 7, lettere a) e b), e 8 della legge 27 dicembre 1997, n. 449»;
i predetti requisiti sembrerebbero più favorevoli per i lavoratori rispetto a quelli stabiliti, successivamente, dalla legge n. 243 del 2004 e dal decreto-legge n. 201 del 2011 convertito con modificazioni dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, a ragione della particolare situazione economica del settore suddetto. Infatti, la legge n. 289 del 2002, dispone l'accesso al trattamento pensionistico con soli 57 anni di anzianità anagrafica e con 35 di anzianità contributiva mentre il decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, aumenterebbe questi requisiti a oltre 66 anni di anzianità anagrafica con 20 anni di anzianità contributiva;
sembrerebbe trattarsi di una norma di carattere speciale, con la conseguenza che la stessa non potrebbe ritenersi abrogata dalle successive disposizioni in materia di ordinamento pensionistico (ultima tra tutte, l'articolo 24 del decreto-legge n. 201 del 2011);
la disposizione, infatti, è stata prorogata di anno in anno (da ultimo, dall'articolo 1, comma 190, della legge 27 dicembre 2013, n. 147), senza che sia stato modificato il riferimento «all'articolo 11 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e relativa tabella A, nonché le disposizioni di cui all'articolo 59, commi 6, 7, lettere a) e b), e 8 della legge 27 dicembre 1997, n. 449»;
inoltre, al momento dell'emanazione della legge n. 289 del 2002, era all'esame della Camera dei deputati il disegno di legge A.C. 2145 (poi divenuto legge 23 agosto 2004, n. 243) e, quindi, ad avviso degli interroganti, il riferimento alla legge n. 724 del 1994 e alla legge n. 449 del 1997 non può che interpretarsi come una espressa volontà legislativa di stabilizzare tale disciplina pensionistica;
la Congregazione Ancelle della Divina Provvidenza (Opera Don Uva), ente che rientra nell'ambito di applicazione della suddetta disposizione, ha avviato, con lettera del 23 ottobre 2014, una procedura di licenziamento collettivo ex articolo 24 della legge, 23 luglio 1991, n. 223, avente ad oggetto 587 lavoratori del settore sanitario;
tale procedura si è conclusa con accordo del 22 febbraio 2013, stipulato presso la competente direzione generale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con la previsione, in particolare, del criterio di scelta costituito dalla possibilità di accedere ad un trattamento pensionistico entro la durata dell'indennità di mobilità in questione;
l'accoglimento della suddetta interpretazione consentirebbe di ridurre notevolmente l'impatto sociale della procedura di licenziamento in questione –:
se quanto esposto in premessa corrisponda al vero e, in particolare, se la suddetta interpretazione sia corretta e se, quindi, i lavoratori di cui all'articolo 41, comma 7, della legge n. 289 del 2002, possano accedere ai trattamenti pensionistici di vecchiaia e di anzianità con il possesso dei requisiti di cui all'articolo 11 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e relativa tabella A, nonché di cui all'articolo 59, commi 6, 7, lettere a) e b), e 8 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, se possano beneficiare dei ridotti requisiti pensionistici solamente i lavoratori percettori dell'indennità di cui trattasi o tutti i lavoratori dipendenti dai datori di lavoro di cui all'articolo 41, comma 7, della legge n. 289 del 2002 che siano licenziati per motivi di carattere oggettivo e se l'organico minimo di 1.800 dipendenti debba intendersi riferito al momento di entrata in vigore dell'articolo 41, comma 7, della legge n. 289 del 2002, ovvero debba sussistere in occasione dell'attivazione delle procedure di licenziamento collettivo ex articolo 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, o di licenziamento individuale ex articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604. (3-00707)
Iniziative in materia di riforma del mercato del lavoro – 3-00708
DI SALVO, AIRAUDO, PLACIDO e MIGLIORE. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
il Consiglio dei ministri del 12 marzo 2014 ha approvato due distinti e, a parere degli interroganti, contraddittori provvedimenti: un disegno di legge delega che propugna un contratto a tutele crescenti ed un decreto-legge (il decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34) che stabilisce nei fatti periodi di prova lunghissimi;
lo strumento della legge delega è stato utilizzato dal Governo per «semplificare» e «riordinare» le diverse figure contrattuali, introducendo «eventualmente in via sperimentale» un contratto «a tutele crescenti per i lavoratori coinvolti»;
con il decreto-legge citato è ora, invece, possibile assumere per otto volte nell'arco di tre anni un lavoratore con un contratto a tempo determinato di 4/5 mesi. Una norma di questo tipo, di fatto, introduce un periodo di prova di 3 anni in cui il datore può licenziare senza pagare un'indennità, senza dare un minimo di preavviso e senza neanche motivazione;
il decreto-legge con la nuova prova triennale rende del tutto improponibile un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti come quello al quale si accenna nel disegno di legge delega. Un periodo di prova così lungo spiazza, infatti, qualsiasi altra tipologia contrattuale nel periodo di inserimento. E dopo un periodo di prova di 3 anni, non si può immaginare di avere un contratto di inserimento a tutele crescenti che allungherebbe la fase iniziale del contratto a 6 anni, quando l'anzianità aziendale media in Italia è attorno ai 15 anni. Inoltre, il decreto aumenta il dualismo nel mercato del lavoro e innalza le barriere che separano i contratti temporanei da quelli a tempo indeterminato;
il contratto di lavoro a tutele crescenti ha esattamente la filosofia opposta: ridurre le barriere, unificare laddove oggi c’è segmentazione. Invece con il decreto citato si è scelto di aumentarla ulteriormente: così il mercato del lavoro italiano sarà ancora più spaccato a metà. Le disposizioni del decreto-legge citate rendono improponibile la previsione della legge delega che introduce il contratto a tutele crescenti –:
quale sia la reale politica che il Governo intende perseguire per riformare il mercato del lavoro. (3-00708)
Iniziative volte ad attuare la «staffetta generazionale» per favorire l'inserimento dei giovani nel mercato del lavoro – 3-00709
FORMISANO. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
la crisi economica degli ultimi anni ha avuto pesantissime ripercussioni sull'occupazione, in particolare su quella giovanile. I dati Istat più recenti parlano di una percentuale superiore al 42 per cento di disoccupati per i giovani dai 15 ai 24 anni di età. Si tratta di una cifra che, giustamente, il Presidente del Consiglio Renzi ha definito allucinante;
il Governo ha appena emanato il decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34 «Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell'occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese», che è certamente una prima risposta al problema della disoccupazione, in particolare per quel che riguarda i giovani;
appare, però, necessario intervenire anche con ulteriori misure che, sia pure non risolutive, diano un primo respiro ad una fascia sempre più ampia di popolazione italiana;
uno strumento importante può essere certamente la cosiddetta «staffetta generazionale», che appare utile per affrontare una situazione che, se è difficile ovunque, è particolarmente tragica nel Mezzogiorno d'Italia, cronicamente afflitto dal fenomeno della disoccupazione e ora colpito con particolare durezza dalla crisi che si sta vivendo;
la staffetta generazionale non è certo un'idea peregrina o utopistica. Infatti, già la cosiddetta «legge Treu», la legge 196 del 1997, all'articolo 13, comma 4, lettera b), stabiliva che la maggiore misura della riduzione delle aliquote contributive prevista si applicava ai «contratti di lavoro a tempo parziale in cui siano trasformati i contratti di lavoro intercorrenti con lavoratori che conseguono nei successivi tre anni i requisiti di accesso al trattamento pensionistico, a condizione che il datore di lavoro assuma, con contratti di lavoro a tempo parziale e per un tempo lavorativo non inferiore a quello ridotto ai lavoratori predetti, giovani inoccupati o disoccupati di età inferiore a trentadue anni»;
successivamente, molte sono state le proposte per migliorare l'istituto della staffetta tra generazioni nel mondo del lavoro e oggi essa viene sperimentata in regioni quali il Piemonte, la Lombardia, l'Emilia-Romagna, mentre è utilizzata con successo in vari Stati europei, tra i quali la Germania, laddove lo Stato ha accettato di aiutare coloro che intendessero lasciare il lavoro, per farsi sostituire da un giovane, riconoscendo i contributi figurativi mancanti per il raggiungimento della pensione;
la Camera dei deputati ha approvato, in data 20 giugno 2013 una mozione del gruppo Misto-Centro Democratico che impegnava il Governo ad intraprendere tutte le iniziative del caso per l'implementazione della cosiddetta «staffetta generazionale»;
inoltre, durante la discussione della legge di stabilità, il 20 dicembre 2013, è stato accolto un ordine del giorno che impegnava il Governo a «riprendere concretamente ed in tempi rapidi il tema della «staffetta generazionale», in modo da consentire, anche in via sperimentale, la concreta attuazione di uno strumento utile per facilitare l'inserimento dei giovani nel mercato del lavoro» –:
se il Ministro interrogato intenda, come auspicabile, proseguire nell'opera di concreta attuazione della «staffetta generazionale». (3-00709)
Iniziative in materia di trattamento fiscale e previdenziale dei lavoratori frontalieri – 3-00710
PIZZOLANTE. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
sono circa 80.000 le lavoratrici e i lavoratori italiani che ogni giorno attraversano i confini nazionali per prestare la loro attività lavorativa all'estero con il permesso di frontalieri;
nonostante la rilevanza del fenomeno, il nostro Paese non dispone di una specifica disciplina legislativa in grado di riconoscere pienamente il valore e l'importanza del lavoro frontaliero per il contesto economico e sociale delle aree territoriali ove è presente;
i provvedimenti del Governo adottati negli ultimi anni hanno ignorato la specificità dello status di lavoratore frontaliere; a titolo esemplificativo si sono verificate controversie in ordine al riconoscimento dell'indennità di disoccupazione; non è risolta in via definitiva la questione dell'esenzione per i redditi di lavoro dipendente prodotti all'estero in zone di frontiera; a tale problema si è provveduto con misure temporanee, da ultimo con una disposizione apposita nella legge di stabilità 2014, pur permanendo problematiche relative alla previdenza;
inoltre, con riferimento a San Marino, il Protocollo sulla doppia imposizione sottoscritto a Roma il 13 giugno 2012 e ratificato con legge 19 luglio 2013, n.88 prevede che con legge ordinaria del Parlamento italiano si risolva in maniera definitiva la questione del trattamento fiscale e previdenziale dei lavoratori frontalieri; sul punto esistono proposte depositate in Parlamento –:
se, in attesa di pervenire al più presto all'approvazione di uno Statuto dei lavoratori frontalieri (presumibilmente mediante l'apertura di un tavolo di confronto con le rappresentanze delle associazioni sindacali e dei lavoratori dei territori di confine – impegno assunto dal Governo a seguito dell'approvazione presso questa Camera il 22 ottobre 2013, della mozione Braga, Pizzolante, Antimo Cesaro, Kronbichler, Plangger ed altri n. 1-00013), non ritenga opportuno dare seguito a quanto previsto dal Protocollo con San Marino ratificato con la legge 19 luglio 2013, n. 88, presentando al Parlamento le proprie proposte in materia di trattamento fiscale e previdenziale dei lavoratori frontalieri. (3-00710)
Iniziative a sostegno dei cittadini colpiti dalla crisi economica, anche attraverso l'individuazione delle risorse necessarie tra quelle destinate all'assistenza degli extracomunitari – 3-00711
FEDRIGA, GIANCARLO GIORGETTI, ALLASIA, ATTAGUILE, BORGHESI, BOSSI, MATTEO BRAGANTINI, BUONANNO, BUSIN, CAON, CAPARINI, GRIMOLDI, GUIDESI, INVERNIZZI, MARCOLIN, MOLTENI, GIANLUCA PINI, PRATAVIERA e RONDINI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
dal 2008 è presente una gravissima crisi economica internazionale che ha colpito in modo particolare anche alcuni Paesi dell'area dell'Unione europea. L'attuale congiuntura economica, superiore, per intensità, durata e diffusione nei mercati globali a quella del 1929, ha investito anche il nostro Paese;
secondo la circolare dell'8 gennaio 2014 del Ministero dell'interno - Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione, recante «Afflusso di cittadini stranieri richiedenti protezione internazionale. Individuazione di strutture di accoglienza», a qualunque clandestino che sbarchi in Italia e semplicemente presenti richiesta di protezione internazionale, anche se fittizia, deve essere garantito vitto e alloggio per un importo pari a 30 euro oltre IVA, un pocket money di 2 euro e 50 centesimi al giorno e una tessera/ricarica telefonica di 15 euro all'ingresso delle strutture di accoglienza, nonché assistenza e cure sanitarie;
considerando solo i clandestini arrivati in Italia dall'inizio del 2014, se presentassero domanda di protezione internazionale per ottenere tali benefit, i costi sarebbero di 127.500 euro di ricariche telefoniche, 21.250 euro di pocket money al giorno e 255.000 euro di vitto e alloggio al giorno, oltre a cure sanitarie;
su undici centri di identificazione ed espulsione sei sono stati chiusi nel 2013 per lavori di ristrutturazione, causati dai danneggiamenti dei clandestini ospitati, e perciò risulta che centinaia di clandestini, in questi giorni trasferiti nelle regioni del Nord, vengano alloggiati anche in alberghi a 4 stelle, come ad esempio al Riz di San Genesio, in provincia di Pavia, dove il pernottamento a notte costa dai 120 ai 140 euro; non si sa al momento quanti di essi, dove e per quanto saranno alloggiati presso le strutture alberghiere;
secondo anticipazioni di organi stampa, per affrontare il sovraffollamento delle carceri e la questione delle condanne della Corte europea dei diritti dell'uomo nei confronti dell'Italia su questo tema, il Governo sarebbe sul punto di approvare un provvedimento che stabilirà, per tutti i detenuti che hanno fatto ricorso per la carenza di spazio nelle carceri, un indennizzo di 20 euro al giorno;
la crisi economica che ha investito il nostro Paese ha fatto emergere in tutta la sua gravità le profonde criticità nella gestione pubblica delle risorse finanziarie. È palese come sia inaccettabile che lo Stato spenda per il sostegno ai migranti arrivati clandestinamente nel nostro Paese e per i detenuti, mentre nulla è stato previsto per le vittime della crisi economica: disoccupati, esodati, artigiani, commercianti e piccoli medi imprenditori –:
se il Ministro interrogato non ritenga opportuno farsi promotore di un'iniziativa finalizzata al riconoscimento ufficiale delle vittime della crisi economica esercitando le dovute iniziative atte alla protezione umanitaria e presa in carico di questa particolare categoria, anche promuovendo l'individuazione delle risorse necessarie tra quelle destinate all'assistenza degli extracomunitari, sulla base del principio di dare priorità ai cittadini del nostro Paese. (3-00711)
Chiarimenti in merito all'erogazione di pensioni di invalidità in relazione ai tagli annunciati dal Governo in ordine alla spesa pubblica – 3-00712
ARGENTIN, LENZI, AMATO, BENI, BOSSA, PAOLA BRAGANTINI, BURTONE, CAPONE, CARNEVALI, CASATI, D'INCECCO, FOSSATI, GELLI, GRASSI, IORI, MIOTTO, MURER, PATRIARCA, PICCIONE, SBROLLINI, SCUVERA, MARTELLA, ROSATO e DE MARIA. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
in un'intervista rilasciata il 16 marzo 2014 al «Quotidiano Nazionale» il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, ha indicato, fra le intenzioni governative: «Tagli alla spesa pubblica inefficiente. Ci sono tantissimi margini di manovra. Pensiamo ai 12 miliardi sulle pensioni di invalidità e accompagnamento spesi dall'Inps: hanno dei picchi in alcune zone totalmente inspiegabili, se non con il fatto che ci siano degli abusi. Per garantire controlli, equità ed evitare abusi applicheremo l'ISEE.»;
dalle dichiarazioni sembra prendere corpo l'ipotesi, in modo assai preoccupante, che il Governo intenda ridurre drasticamente la spesa per pensioni di invalidità (circa 280 euro al mese) e per l'indennità di accompagnamento (500 euro al mese) riservata – fino a oggi – a persone con grave disabilità, non autosufficienti, allettati, malati oncologici terminali;
è stata diffusa, inoltre, una tabella che sintetizza «le proposte per la revisione della spesa 2014-2016» elaborate dal commissario Carlo Cottarelli. Tra le varie voci di risparmio previste, sotto la categoria «Riduzioni trasferimenti inefficienti», compaiono la «Prova reddito per indennità accompagno» e «Abusi pensioni di invalidità»: il risparmio previsto è per entrambi pari a zero per il 2014, mentre per il 2015 e il 2016 si prevede un rientro di 0,1 e 0,2 miliardi da entrambe le voci (per un risparmio complessivo di 0.6 miliardi in due anni). Sotto la categoria «spese settori», compaiono invece sia la «Revisione pensioni di guerra» (per un risparmio di 0,2 miliardi già nel 2014, e di 0,3 nel 2015 e 2016), sia le «Pensioni reversibilità» (nessun risparmio nel 2014 e 2015, ma con un rientro di 0,1 miliardi nel 2016). Complessivamente, quindi, si parla di un rientro di spesa di 1,5 miliardi derivante da pensioni d'invalidità, indennità di accompagno, pensioni di guerra e reversibilità;
in questi ultimi anni la campagna contro i cosiddetti «falsi invalidi», quale causa principale dei disastri del bilancio italiano, è stata prima di tutto una campagna strumentale e mediatica, assumendo in alcuni momenti anche toni drammatici;
a partire dal 2008, con il decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, recante «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria», convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, si prevede, all'articolo 80, un «Piano straordinario di verifica» di 200.000 accertamenti nei confronti dei titolari di benefici economici di invalidità civile da attuarsi da parte dell'Inps nel periodo dal 1o gennaio 2009 al 31 dicembre 2009;
in questo caso l'individuazione del primo campione di 200.000 persone da sottoporre a visita fu demandata a un successivo decreto ministeriale del 29 gennaio 2009 che escluse dai controlli le persone affette dalle patologie di cui al decreto del 2 agosto 2007 (gravi patologie stabilizzate o ingravescenti), i residenti in regione Valle d'Aosta e nelle province autonome di Trento e Bolzano, ma anche le persone di età inferiore ai 18 anni e di età superiore ai 78 anni, i titolari di prestazioni sospese, gli invalidi inviati o da inviare a visita sanitaria di revisione rispettivamente dopo il 1o luglio 2007 o entro il 30 giugno 2010;
ancora in corso questi primi accertamenti, su proposta del Governo, il Parlamento approvò, nel mese di agosto del 2009, la legge 3 agosto 2009, n. 102, «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1o luglio 2009, n. 78, recante provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni internazionali» e all'articolo 20, comma 2, del decreto-legge, si predispose per il triennio 2010-2012 da parte dell'Inps, con le risorse umane e finanziarie previste a legislazione vigente, in via aggiuntiva all'ordinaria attività di accertamento della permanenza dei requisiti sanitari e reddituali, un programma di 100.000 verifiche per l'anno 2010 e di 250.000 verifiche annue per ciascuno degli anni 2011 e 2012 nei confronti dei titolari di benefici economici di invalidità civile;
in questo caso l'Inps prese a campione i titolari di indennità di accompagnamento (ciechi e invalidi) e di comunicazione, ma solo di età compresa fra i 18 e i 67 anni compiuti; i titolari di assegno mensile di assistenza (invalidi parziali), ma solo di età compresa fra i 40 e i 60 anni. Inoltre, il campione è stato estratto solo su chi percepisce assegni o indennità da prima del 1o aprile 2007 (Circolare Inps n. 76 del 22 giugno 2010). Le verifiche non riguardarono, quindi, né i minori, né gli anziani oltre i 67 anni di età (cioè la fascia più ampia dei percettori di indennità di accompagnamento), né gli invalidi al 100 per cento che ricevono la sola pensione di invalidità;
nel 2010, con il decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, recante misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, si prevede, all'articolo 10, un potenziamento dei programmi di verifica per gli anni 2011 e 2012 portandoli a 250.000 l'anno per un totale di 500.000 verifiche in due anni;
per il 2011 l'Inps prese come campione quello già evidenziato nel 2010 aggiungendo anche gli invalidi civili, ciechi civili e sordi – titolari di provvidenze economiche – il cui certificato di invalidità prevedesse una revisione fra luglio e dicembre 2011, mentre per il 2012 il campione comprese (circolare 76/2010 e messaggio 6763/2011) gli invalidi titolari di provvidenze economiche in scadenza prima della fine dell'anno (esclusi quelli per cui la scadenza era prevista entro due mesi dal messaggio), senza fissare alcun limite di età; i titolari di indennità di accompagnamento (ciechi e invalidi) e di comunicazione, ma solo di età compresa fra i 18 e i 67 anni compiuti; i titolari di assegno mensile di assistenza (invalidi parziali), ma solo di età compresa fra i 40 e i 60 anni;
infine con la legge di stabilità 2013 (legge 24 dicembre 2012, n. 228), all'articolo 1, comma 109, si predispone per il periodo 2013-2015 da realizzarsi, con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, un ulteriore piano di 150.000 verifiche straordinarie annue, aggiuntivo rispetto all'ordinaria attività di accertamento della permanenza dei requisiti sanitari e reddituali, nei confronti dei titolari di benefici di invalidità civile, cecità civile, sordità, handicap e disabilità;
in questi anni numerosi sono stati i controlli sui cosiddetti falsi invalidi, 800 mila quelli straordinari effettuati dal 2009 al 2012, e altri 450 mila in programma dal 2013 al 2015 con l'unico obiettivo di contrastare le false invalidità per recuperare la spesa che deriva da pensioni che non spettano;
secondo i dati della guardia di finanza si attestano attorno ai 1.500 all'anno i veri, reali, falsi invalidi (lo 0,06 per cento dei percettori di pensioni di invalidità) che vengono giustamente scoperti e denunciati alla fine delle procedure (visita di controllo – eventuale abbassamento della percentuale con sospensione della pensione – ricorso del disabile - giudizio della magistratura pro o contro disabile) –:
se il Governo non ritenga opportuno e doveroso tranquillizzare tutte le persone disabili e le loro famiglie sul fatto che la normativa sulle pensioni di invalidità e sugli assegni di accompagnamento non sarà modificata ed in particolare che l'erogazione di questi ultimi non sarà legata al reddito e all'ISEE, ma continuerà a dipendere solo e soltanto dall'effettivo diritto della persona disabile, nonché quali siano stati fino ad oggi i risultati ed i costi dell'attività di verifica dei vari piani approvati. (3-00712)
Tempi per l'adozione dei decreti attuativi della legge recante «Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari» – 3-00713
FAUTTILLI e SCHIRÒ. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
a distanza di tre anni dalla sua entrata in vigore non sono stati ancora emanati i decreti attuativi della legge n. 4 del 2011, recante «Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari»;
si stima che il 33 per cento della produzione complessiva dei prodotti alimentari venduti in Italia ed esportati con il marchio «made in Italy», contenga materie prime straniere. Secondo Coldiretti, due prosciutti su tre provengono da maiali allevati all'estero e tre cartoni di latte a lunga scadenza su quattro sono esteri, senza contare la pasta ottenuta da grano di indefinita provenienza, il concentrato di pomodoro cinese e l'elenco potrebbe continuare;
gli unici prodotti che hanno ottenuto l'etichettatura d'origine obbligatoria, perché provvisti di una tutela a livello europeo, sono la carne bovina (a seguito dell'emergenza «mucca pazza»), i polli (ma solo dopo l'emergenza Sars) e l'ortofrutta;
a dimostrazione di come questa situazione favorisca l'inserimento della criminalità organizzata, si segnala che dall'inizio del 2014 è stata sequestrata merce contraffatta per circa mezzo miliardo di euro;
una risoluzione del Parlamento europeo votata recentemente ha ribadito che l'obbligo relativo a un'etichettatura chiara ed esaustiva sull'origine è essenziale e può contribuire a contrastare le frodi promuovendo una maggiore trasparenza lungo la catena di approvvigionamento alimentare;
con oltre 53 miliardi di euro il «made in Italy» agroalimentare rappresenta più del 17 per cento del prodotto interno lordo e rappresenta la leva esclusiva per una competitività «ad alto valore aggiunto» e per lo sviluppo sostenibile del Paese, grazie ai suoi primati in termini di qualità, livello di sicurezza e sistema dei controlli degli alimenti, riconoscimento di denominazioni geografiche e protette e produzione biologica –:
se non ritenga opportuno procedere senza ulteriori ritardi all'emanazione dei sopra detti decreti attuativi per garantire la salute dei consumatori e per tutelare l'industria agroalimentare italiana. (3-00713)
Chiarimenti in merito alla mappatura dei terreni della Regione Campania destinati all'agricoltura – 3-00714
TAGLIALATELA. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
con il decreto-legge n. 136 del 2013, recante «Disposizioni urgenti in materia di reati ambientali e per la tutela dell'ambiente, della salute e delle produzioni agroalimentari in Campania», cd. «decreto Terra dei fuochi», per la prima volta le istituzioni nazionali hanno affrontato l'emergenza della Terra dei fuochi, introducendo nell'ordinamento italiano il reato di combustione dei rifiuti, punibile con la detenzione fino a cinque anni e col sequestro del terreno;
l'articolo 1 di tale decreto-legge ha stabilito, inoltre, che i massimi organismi scientifici in materia di ambiente, salute e agricoltura, individuati nell'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, nell'Istituto superiore di sanità, nel Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura e nell'Arpac, svolgano indagini tecniche per la «mappatura, anche mediante strumenti di telerilevamento, dei terreni della Regione Campania destinati all'agricoltura, al fine di accertare eventuale esistenza di effetti contaminanti a causa di sversamenti e smaltimenti abusivi anche mediante combustione»;
i Ministri dell'ambiente e della tutela e del territorio e del mare, della salute, e delle politiche agricole, alimentari e forestali, con apposita direttiva del 23 dicembre 2013, hanno emanato gli indirizzi comuni e le priorità cui gli enti citati devono attenersi nello svolgimento del compito assegnato;
la priorità territoriale individuata dalla citata direttiva ministeriale include numerosi comuni delle province di Napoli e Caserta, in particolare tutti i 57 comuni aderenti al cosiddetto «Patto per la Terra dei fuochi»;
in tale direttiva è stata prioritariamente richiamata la necessità della più ampia condivisione delle informazioni pertinenti, siano esse già disponibili agli enti interessati o da acquisire da parte di tutti gli altri organismi istituzionali che ne siano in possesso (come, ad esempio, i Noe, i Nas, Cfs ed altri), utilizzando a tale scopo apposite strutture informatiche;
per l'esame dei dati così raccolti, la direttiva ha individuato un gruppo di lavoro composto, oltre che ovviamente da delegati degli enti scientifici sopra elencati, anche da rappresentanti della regione Campania, degli Istituti zooprofilattici sperimentali Abruzzo e Molise (Teramo) e Campania e Calabria Portici), dell'Università Federico II di Napoli e dell'Agea, cui è stato affidato il coordinamento del gruppo stesso;
il gruppo di lavoro, come previsto dal decreto-legge, ha predisposto e consegnato, il 10 marzo 2014, la relazione finale inerente le indagini svolte e le metodologie utilizzate al fine dell'individuazione dei siti interessati da sversamenti e smaltimenti abusivi di rifiuti nel territorio della regione Campania;
detta relazione individua 5 classi di rischio dei suoli agricoli, sovrapponendo le risultanze dell'interpretazione multitemporale delle ortofoto e dei valori relativi ai superamenti delle concentrazioni soglia di contaminazione, proponendo, per ciascun livello di rischio le indagini a farsi e la relativa tempistica, fissate in una tabella allegata;
il decreto interministeriale in corso di pubblicazione prevede, tra l'altro, che il Crsa, l'Ispra, l'Iss e l'Arpac per il tramite del gruppo di lavoro, e avvalendosi delle Forze dell'ordine, stabiliscano le indagini dirette da effettuare nei terreni individuati; che per le indagini dirette, finanziate con le risorse del POR FESR Campania 2007/13 destinate alle bonifiche, gli enti richiedano alla regione il rimborso delle spese sostenute, nei limiti delle risorse stanziate dal decreto-legge, pari a complessivi 4 milioni di euro; che le indagini per i terreni con livello di rischio 5, 4, 3, 2a e 2b debbano essere effettuate nel termine di novanta giorni;
in particolar modo per i siti inseriti nelle classi di rischio 2b, 3 e 5, sarà necessario procedere, preliminarmente all'esecuzione delle indagini analitiche dirette, alla esecuzione di indagini indirette a terra, e, nel caso in cui l'esito di tali indagini dovesse confermare i sospetti, effettuare gli scavi per verificare la eventuale presenza di rifiuti interrati –:
se non ritenga che la tempistica indicata nel decreto interministeriale di cui in premessa per l'effettuazione delle indagini dirette delle matrici suolo ed acqua per i terreni classificati a rischio 5, 4, 3, 2a e 2b, che è di molto inferiore a quella proposta dal gruppo di lavoro, sia incongrua, posto che già per le sole classi di rischio 2a e 2b si tratta di migliaia di siti. (3-00714)
MOZIONI BERGAMINI ED ALTRI N. 1-00217, SCHIRÒ ED ALTRI N. 1-00345, PANNARALE ED ALTRI N. 1-00353, GIANLUCA PINI ED ALTRI N. 1-00359, COLONNESE ED ALTRI N. 1-00361, GALGANO ED ALTRI N. 1-00366 E BERLINGHIERI ED ALTRI N. 1-00384 CONCERNENTI INIZIATIVE PER UN EFFICACE UTILIZZO DEGLI STRUMENTI FINANZIARI MESSI A DISPOSIZIONE DALLA BANCA DI SVILUPPO DEL CONSIGLIO D'EUROPA E PER FAVORIRE L'INTEGRAZIONE TRA TALI RISORSE E QUELLE DELL'UNIONE EUROPEA
Mozioni
La Camera,
premesso che:
la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa (CEB) è una banca multilaterale a vocazione esclusivamente sociale e una delle più antiche istituzioni finanziarie internazionali europee. Quando venne creata, sulla base di un accordo parziale tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa, il 14 aprile del 1956, lo scopo prioritario era quello di fornire aiuti finalizzati e risolvere i problemi dei rifugiati. Da allora il suo campo d'azione si è progressivamente esteso ed oggi contribuisce in modo significativo al rafforzamento della coesione sociale in Europa;
la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa è uno strumento chiave della politica di solidarietà europea, che opera aiutando gli Stati membri – attualmente quaranta – a perseguire una crescita sostenibile ed equa, finanziando progetti di investimento sociale suddivisi in tre ambiti, stabiliti nel 2006 dal consiglio d'amministrazione dell'istituzione: il rafforzamento dell'integrazione sociale, la gestione ambientale e il sostegno alle infrastrutture pubbliche a vocazione sociale. Per la sua attività la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa non riceve aiuti o sovvenzione dagli Stati membri e basa la propria attività su fondi e riserve propri;
in particolare, interviene in favore dei 21 Paesi d'Europa centrale, orientale e del sud-est, che costituiscono, conformemente agli orientamenti strategici del piano di sviluppo 2010-2014, un obiettivo «prioritario». Nel decennio 2002-2011 sono stati approvati progetti per oltre 21 miliardi di euro ed erogati oltre 16 miliardi di euro di prestiti. Tra i principali Paesi beneficiari vi sono la Polonia, l'Ungheria e la Romania. L'interlocutore della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa è comunque sempre uno Stato membro, mai direttamente le imprese;
forte è la cooperazione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa con la Commissione europea e con altre banche regionali e istituzioni finanziarie multilaterali, come la Banca europea per gli investimenti, il Western Balkans investment framework, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, la Banca mondiale, la Nordic investment bank e la Banca Kfw;
di fronte alle difficili sfide dell'attuale contesto economico e finanziario internazionale, che implicano una crescita importante della domanda di prestiti da parte degli Stati membri, la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa è chiamata a uno sforzo straordinario volto ad assicurare, da un lato, il contenimento dei profili di rischio e, dall'altro, il completo rispetto del mandato statutario-sociale;
il 4 febbraio 2011 il consiglio di direzione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, con la risoluzione n. 386, ha approvato il sesto aumento di capitale della banca, finalizzato a sostenere i principali campi d'intervento, che ha portato il capitale totale sottoscritto da 3,3 miliardi di euro a 5,5 miliardi di euro;
con la legge 6 luglio 2012, n. 117, l'Italia ha aderito a tale aumento di capitale, per un importo complessivo di 366.078.000 euro, comprendenti l'incorporazione di riserve nel capitale liberato per 40.964.000 euro e la sottoscrizione di nuovi titoli per 325.114.000 euro, con conseguente incremento della quota di capitale detenuta fino all'ammontare di 915.770.000 euro, senza obbligo di versamento immediato, in quanto la sottoscrizione di una quota di capitale «a chiamata» non comporta esborsi finanziari effettivi;
con tale sottoscrizione l'Italia ha mantenuto la misura attuale di partecipazione e di diritto di voto e continua a svolgere un ruolo centrale nel processo decisionale: in quanto azionista della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, l'Italia partecipa alle riunioni degli organi di governo della banca stessa, con rappresentanti dei Ministeri dell'economia e delle finanze e degli affari esteri;
l'Italia, assieme a Francia e Germania, è il maggior azionista della Banca; al 31 dicembre 2012 il nostro Paese deteneva il 16,77 per cento del capitale sottoscritto, in una quota superiore rispetto alla partecipazione ad altri organismi multilaterali di intervento finanziario;
nel decennio 2002-2011 il consiglio d'amministrazione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa ha approvato prestiti a favore dell'Italia per un volume totale di 1,9 miliardi di euro, di cui 1,6 miliardi già erogati, principalmente a favore di piccole e medie imprese, per interventi di ricostruzione a seguito di catastrofi naturali, nel campo dell'istruzione, nella sanità e nelle infrastrutture locali, ma anche a favore di interventi in favore del patrimonio storico, l'edilizia sociale ed aiuti a favore di rifugiati e migranti. Tuttavia, l'ultimo progetto di sviluppo della Banca in Italia risale al biennio 2007-2009;
nel 2011, su 2,11 miliardi di euro di progetti approvati, nessuno coinvolgeva l'Italia e, su 1,85 miliardi di euro di prestiti approvati, 16 milioni di euro (0,9 per cento) riguardavano il nostro Paese. Analogamente, dei 28 progetti approvati nel 2012 dal consiglio di amministrazione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, per un totale di 1.798 milioni di euro, nessuno riguardava l'Italia;
il 2011 e il 2013 sono stati approvati 11 progetti (per 515 milioni di euro) a favore di altrettante sussidiarie banche italiane (Intesa Sanpaolo e gruppo Unicredit) in Europa centrale, orientale e sudorientale (quindi, non in Italia);
nel primo quadrimestre del 2013 sono state approvate undici richieste di finanziamento, per un importo complessivo di 613,9 milioni di euro. Di questi progetti due terzi (399 milioni) sono volti a potenziare la coesione sociale e un terzo è a supporto di infrastrutture pubbliche con fini sociali (scuole, centri di ricerca, carceri). Anche in questo caso non si registrano progetti provenienti dal nostro Paese;
nel novembre 2013 è stato approvato un progetto di soli 6 milioni di euro a favore di PerMicro, intermediario finanziario attivo a livello nazionale con 13 agenzie in 10 regioni e specializzato nel microcredito a favore di immigrati;
il dato di fatto evidente è che negli ultimi anni il nostro Paese non ha usufruito dei prestiti provenienti dalla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, al cui finanziamento contribuisce in maniera sostanziosa;
la questione della coesione sociale e del suo rafforzamento all'interno dell'Unione europea è uno dei temi centrali della strategia Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva;
la Commissione europea, il 20 febbraio 2013, nella comunicazione «Investire nel settore sociale a favore della crescita e della coesione, in particolare attuando il fondo sociale europeo nel periodo 2014-2020» (COM (2013) 83), ha elencato le sfide che la politica sociale dell'Unione europea dovrà affrontare nei prossimi anni;
tra gli obiettivi fondamentali da perseguire attraverso una piena integrazione tra utilizzo dei fondi europei, azioni ricomprese nella strategia Europa 2020 e programmi nazionali di riforma, viene ricompreso l'utilizzo con la massima efficacia dei fondi europei. In particolare, gli Stati membri sono invitati a ricercare i modi per integrare le risorse dell'Unione europea mediante finanziamenti provenienti dalla Banca mondiale, dalla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa e dal gruppo della Banca europea per gli investimenti;
allo stesso modo la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa si è posta come obiettivo strategico per la programmazione 2014-2016 l'affiancamento degli Stati membri nell'Unione europea per un migliore utilizzo dei fondi strutturali europei, a cominciare dal fondo sociale;
l'allocazione dei fondi del fondo sociale europeo prevede che una quota minima di investimenti sia riservata ad ogni Stato membro dell'Unione europea e che la distribuzione dei restanti fondi avvenga in base alle esigenze regionali e non nazionali, tenendo in questo modo conto delle differenze, anche profonde, tra i livelli di benessere presenti all'interno di uno stesso Stato;
i potenziali settori di intervento riguardano, infatti, aree che rispondono ad esigenze su cui l'attenzione è particolarmente alta in questo momento nel nostro Paese: su tutti, il tema della prevenzione di catastrofi naturali e di protezione del territorio ed interventi di ricostruzione; azioni in favore di rifugiati e migranti; istituti penitenziari; salvaguardia e protezione del patrimonio storico e culturale;
alla luce del mutato quadro europeo negli ultimi anni, in una situazione internazionale particolarmente complicata, di fronte a una crisi economico-finanziaria di portata mondiale, bisognerebbe, altresì, rivedere la strategia di intervento della stessa Banca europea per gli investimenti, che ha sempre privilegiato obiettivi calibrati su determinate aree geografiche, senza procedere, invece, per specifiche aree tematiche di azione;
gli obiettivi prioritari non dovrebbero essere fissati su base geografica, ma tematica: la Banca centrale europea dovrebbe adattare i propri obiettivi alle nuove priorità e necessità del continente europeo. La frattura della coesione sociale non segue più il confine tra oriente ed occidente, ma ha un andamento puntinato che percorre il continente nella sua totalità; l'intervento della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa deve, quindi, operare nelle situazioni e aree specifiche di maggior disagio e necessità;
in data 3 dicembre 2013, è stato audito, presso la delegazione parlamentare italiana presso l'Assemblea del Consiglio d'Europa, il professor Nunzio Guglielmino, Vice Governatore della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, che ha svolto in merito alcune dichiarazioni ed osservazioni,
impegna il Governo:
ad intervenire con determinazione, anche attraverso il coinvolgimento degli altri Stati aderenti alla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, per promuovere un cambio di rotta nella strategia di azione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, incentivando, già a partire dal 2014, programmi di intervento trasversali basati su specifiche aree tematiche e non su obiettivi territoriali, nonché per incentivare, nell'ottica di una migliore integrazione con gli strumenti finanziari dell'Unione europea, una omogeneizzazione dei criteri di allocazione dei fondi con una definizione delle aree prioritarie basata sui confini regionali e non nazionali degli Stati membri;
ad adottare ogni opportuna iniziativa per favorire una maggiore trasparenza delle attività della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, anche attraverso la pubblicazione di una mappatura chiara degli importi investiti e delle aree interessate dagli investimenti;
ad attivarsi per promuovere una migliore conoscenza della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa in Italia, al fine di incentivare e accrescere in Italia l'utilizzo degli strumenti finanziari messi a disposizione degli Stati aderenti, in particolare attraverso un idoneo orientamento e supporto dei soggetti interessati ai finanziamenti, a partire dalle regioni, nonché a rimuovere ogni possibile ostacolo amministrativo e burocratico che possa aggravare o intralciare le procedure di intervento della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa nel nostro Paese;
ad incentivare l'utilizzo di tutti quei programmi volti a creare dinamiche e prospettive d'investimento, di crescita e di occupazione a livello nazionale e regionale e che prevedono la partnership delle maggiori istituzioni politico-finanziarie europee e internazionali, con le autorità nazionali e regionali;
a dare attuazione a quanto indicato dalle istituzioni europee, favorendo il più possibile l'integrazione delle risorse dell'Unione europea, con i finanziamenti provenienti dalla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa;
a sostenere la promozione di un cambiamento degli statuti affinché la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa possa adottare politiche di sostegno ed erogare finanziamenti diretti ad istituzioni ed enti pubblici, senza ricorrere all'intermediazione degli istituti bancari privati;
ad avviare approfondimenti con la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, al fine di verificare la possibilità di interventi straordinari in Italia rivolti, in particolare, all'edilizia scolastica e carceraria, alla salvaguardia del patrimonio storico e culturale, alla prevenzione di catastrofi naturali e alla protezione del territorio.
(1-00217)
(Nuova formulazione) «Bergamini, Alli, Bernardo, Ravetto, Gelmini, Gregorio Fontana, Polverini, Giammanco, Abrignani, Rotondi, Elvira Savino».
La Camera,
premesso che:
la drammatica esperienza dei due conflitti mondiali ha favorito la costruzione di un'Europa fondata sulla centralità della persona umana, sulla stabilità e sulla solidarietà. A questo processo di unificazione dell'Europa hanno contribuito organizzazioni sovranazionali, tra cui il Consiglio d'Europa;
la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa (CEB), fondata con la denominazione «Fondo per lo sviluppo sociale del Consiglio d'Europa» da otto degli Stati membri del Consiglio d'Europa nel 1956 (tra cui l'Italia), è la più antica tra le istituzioni finanziarie internazionali europee ed è lo strumento finanziario della politica di solidarietà del Consiglio d'Europa;
con l'allargamento del Consiglio d'Europa ai Paesi dell'Europa orientale si è assistito al cambiamento della mission della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa e dell'area geografica dei Paesi che ne fanno parte. Vi sono stati tre vertici (nel 1993, nel 1997 e nel 2005-2006) dei Capi di Stato e di Governo che hanno confermato il ruolo del Consiglio d'Europa come presidio dei diritti umani e come promotore della coesione sociale e dei diritti sociali ed economici dei cittadini dei Paesi che ne fanno parte. Oggi la Banca si occupa di edilizia sociale, istruzione, sanità, prevenzione e rimedio alle catastrofi naturali e, ultimamente, anche di rifugiati, ritornando con questo nuovo obiettivo alla ragione sociale originaria;
in una fase delicata quale quella che stiamo vivendo, a causa della crisi economico-finanziaria, la Banca svolge una funzione importante nella soluzione di problematiche legate al peggioramento delle condizioni economiche e sociali delle popolazioni europee in un'ottica solidaristica;
dopo aver portato a compimento con successo il piano di sviluppo della Banca stabilito nel 2010-2014, soprattutto a favore dei 21 Paesi europei con maggiori difficoltà dell'Europa centro-orientale e sud-orientale, il 22 novembre 2013, il consiglio di amministrazione ha approvato all'unanimità il nuovo piano per lo sviluppo della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa 2014-2016, impegnandosi per uno sviluppo sociale sostenibile in tre ambiti: il rafforzamento dell'integrazione sociale, la gestione dell'ambiente, il sostegno delle infrastrutture a vocazione sociale ed il sostegno alle micro, piccole e medie imprese;
la crisi economica ha causato un forte deterioramento della situazione sociale in diversi Stati membri della Banca ed un allargamento dell'area interessata dalla crisi. L'indebolimento della solidità finanziaria dei debitori della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa ha iniziato ad essere particolarmente forte dall'anno 2009/2010;
la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa ha concesso prestiti per il finanziamento di progetti per la creazione di posti di lavoro, attraverso il sostegno concesso alle micro, piccole e medie imprese nella maggior parte dei Paesi dell'Europa orientale. Tra il 2010 e il 2012, il finanziamento della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa a favore della creazione e del mantenimento dei lavori ammontava a 1,8 miliardi di euro, pari al 29 per cento del volume totale dei prestiti commerciali, seconda solo alla Banca europea per gli investimenti quanto a impegno;
alla fine del 2012, la quota di prestiti a favore dei Paesi del gruppo dei cosiddetti target countries (Albania, Bosnia, Bulgaria, Cipro, Croazia, Estonia, Georgia, Ungheria, Kosovo, Macedonia, Lettonia, Lituania, Malta, Montenegro, Moldavia, Polonia, Repubblica slovacca, Repubblica ceca, Romania, Serbia, Slovenia e Turchia) ammontava al 61 per cento del totale dell'importo di prestiti. Lo stock in favore di questi Paesi è aumentato del 25 per cento, passando da 5,87 miliardi di euro a fine 2009 a 7,35 miliardi di euro alla fine del 2012;
il capitale sottoscritto al 31 dicembre 2012 della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa ammontava a 5.466 milioni di euro suddivisi tra 40 Stati membri e con il 16,7 per cento il nostro Paese, insieme a Francia e Germania, detiene la quota di partecipazione più alta;
per allargare e sostenere la sua azione, la Banca ha rafforzato negli ultimi anni la cooperazione con tutte le maggiori istituzioni europee. Nel quadro di questa cooperazione vanno iscritti gli accordi con la Banca europea per gli investimenti e la Banca europea di ricostruzione e sviluppo e con la Commissione europea. Oggi la Banca gioca un ruolo attivo nel quadro del Western Balkans investment framework, meccanismo europeo destinato al finanziamento di progetti nei Paesi dei Balcani. Inoltre, la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa intrattiene una cooperazione con la Banca mondiale, con la quale ha in essere un accordo di cooperazione;
il nostro Paese ha partecipato all'aumento di capitale nel 2012 con un impegno importante (325 milioni di euro circa), anche se si tratta più di una garanzia che di un esborso, poiché la Banca si autofinanzia a condizioni favorevoli sul mercato dei capitali, gode del rating di tripla «A» e il suo bilancio si mantiene in equilibrio perché concede prestiti, non dà contributi a fondo perduto;
a fronte di questo aumento deliberato dal Parlamento, si lamenta la scarsa destinazione di tali fondi per progetti italiani (nel 2011, su 2,11 miliardi di euro di progetti approvati, non c’è nemmeno un progetto approvato in Italia e su 1,85 miliardi di euro di prestiti approvati solo 16 milioni (pari allo 0,9 per cento) riguardano l'Italia, mentre numerosi sono stati i progetti finanziati in altri Paesi che hanno riguardato scuole, case di riposo per anziani e carceri,
impegna il Governo:
ad attivarsi al fine di favorire la realizzazione di progetti ed interventi nell'ambito delle competenze e degli obiettivi della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa (CEB);
ad adottare misure volte a promuovere presso le nostre istituzioni, nazionali e locali, la conoscenza degli strumenti finanziari, delle iniziative e delle opportunità che la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa offre per realizzare interventi in settori che riguardano le calamità naturali, l'edilizia sociale, nonché la tutela, la valorizzazione e il potenziamento delle piccole e medie imprese;
ad attivarsi, per quanto di competenza, affinché la Banca adotti criteri basati su aree tematiche e non solo territoriali, allargando il perimetro della sua azione a fronte delle difficili sfide dell'attuale contesto economico e finanziario internazionale;
a conservare l'attuale misura di partecipazione e di diritto di voto all'interno dell'istituto, considerato il rilievo sociale e politico degli obiettivi perseguiti dalla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa.
(1-00345) «Schirò, Buttiglione, Santerini, Marazziti, Fitzgerald Nissoli, De Mita, Rossi, Caruso, Sberna, Gigli, Binetti».
La Camera,
premesso che:
la Banca di Sviluppo del Consiglio d'Europa (CEB), creata nel 1956, è la più antica tra le istituzioni finanziarie internazionali europee, l'unica a vocazione esclusivamente sociale e nasce per fornire aiuti volti a risolvere la problematica dei rifugiati; il suo campo d'azione si è progressivamente esteso ad altri settori, per contribuire in maniera sempre più incisiva al rafforzamento della coesione sociale in Europa;
la Banca di Sviluppo del Consiglio d'Europa è lo strumento finanziario della politica di solidarietà del Consiglio d'Europa;
la Banca di Sviluppo del Consiglio d'Europa, quale banca multilaterale di sviluppo, attraverso prestiti partecipa al finanziamento di progetti sociali, risponde a condizioni di emergenza, concorre al miglioramento delle condizioni di vita e alla coesione sociale nelle regioni meno avvantaggiate del continente europeo;
la Banca di Sviluppo del Consiglio d'Europa accorda i suoi prestiti in Europa, ai Paesi membri; basa la propria attività su fondi e riserve propri e non riceve dagli Stati membri alcun aiuto o sovvenzione; la Banca di Sviluppo del Consiglio d'Europa non finanzia direttamente gli individui;
i campi d'intervento, stabiliti dal consiglio d'amministrazione, riguardano ambiti sociali ben precisi: rafforzamento dell'integrazione sociale, gestione ambientale, sostegno alle infrastrutture pubbliche a vocazione sociale, sviluppo del capitale umano;
la Banca di Sviluppo del Consiglio d'Europa è composta da 41 Stati membri appartenenti al Consiglio d'Europa, tra i quali l'Italia è socio fondatore, con la maggiore percentuale di partecipazione al capitale sociale 16,735 per cento, insieme alla Francia e alla Germania;
nonostante ciò, l'Italia risulta essere tra gli ultimi beneficiari, in termini di finanziamento di progetti, tra tutti gli Stati che hanno avuto accesso ai crediti della Banca di Sviluppo del Consiglio d'Europa;
sebbene le politiche di coesione sociale siano un asse portante della strategia Europea ed un'esigenza fondamentale per il nostro Paese, l'Italia non ha avuto nessun progetto finanziato nell'ultimo triennio;
un corretto utilizzo della Banca di Sviluppo del Consiglio d'Europa, quale strumento finanziario specificamente votato alle politiche sociali, potrebbe contribuire a risolvere emergenze contingenti di particolare allarme sociale e fortemente sentite, sia dalla cittadinanza che dalle istituzioni più sensibili italiane ed europee;
essa potrebbe essere una valida leva finanziaria per sviluppare un piano di investimenti per le piccole e medie imprese che comporti la creazione di posti di lavoro per la riduzione della disoccupazione giovanile e per risolvere le emergenze costituite dalla fatiscenza degli edifici scolastici, degli edifici carcerari, degli edifici che ospitano i rifugiati e i senzatetto;
vista la specifica finalizzazione ambientale degli interventi, i finanziamenti erogati dalla Banca di Sviluppo del Consiglio d'Europa possono contribuire alla reale concretizzazione del piano di bonifiche ambientali, che riporti la speranza a quelle popolazioni doppiamente colpite dagli effetti dell'inquinamento selvaggio: colpite nella salute e nella sicurezza agroalimentare dei prodotti territoriali,
impegna il Governo
ad attivarsi al fine di promuovere e fornire adeguata assistenza presso tutti i soggetti potenzialmente destinatari dei finanziamenti erogati dalla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, per una migliore conoscenza della stessa quale istituto finanziario vocato al finanziamento di progetti di coesione sociale, al fine di permettere l'utilizzo anche di questo ulteriore importante strumento per la riduzione della disoccupazione giovanile, il miglioramento delle condizioni residenziali scolastiche, carcerarie e di rifugiati e senzatetto e la bonifica delle porzioni di Paese criminalmente inquinate.
(1-00353) «Pannarale, Migliore, Ricciatti, Di Salvo, Scotto, Marcon, Fava, Boccadutri, Aiello, Lacquaniti, Melilla, Ferrara, Matarrelli, Catalano».
La Camera,
premesso che:
la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa (CEB) è una banca multilaterale a vocazione sociale. Con i suoi 40 Stati membri, rappresenta il più importante strumento di sostegno alle politiche sociali del continente europeo;
sin dall'inizio delle sue attività, nel 1956, la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa ha sostenuto il finanziamento di progetti a carattere sociale ed interventi in situazioni di emergenza, contribuendo in tal modo al miglioramento delle condizioni di vita nelle regioni svantaggiate d'Europa;
progressivamente gli ambiti d'azione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa sono stati estesi al rafforzamento dell'integrazione sociale, alla gestione ambientale e al sostegno alle infrastrutture pubbliche a vocazione sociale;
la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa è legalmente e finanziariamente indipendente, basata su un accordo parziale tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa che ne hanno sottoscritto le quote e via via i progressivi aumenti di capitale; tuttavia, agisce in fattiva collaborazione con altre istituzioni finanziarie internazionali e regionali e con la Commissione europea;
con la legge 6 luglio 2012, n. 117, l'Italia ha aderito all'ultimo aumento di capitale della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa in ordine di tempo, per un importo complessivo di 366.078.000 euro, comprendenti l'incorporazione di riserve nel capitale liberato per 40.964.000 euro e la sottoscrizione di nuovi titoli per 325.114.000 euro, con conseguente incremento della quota di capitale detenuta fino all'ammontare di 915.770.000 euro;
oggi il nostro Paese è, insieme a Francia e Germania, uno dei maggiori azionisti, con il 16,77 per cento del capitale sottoscritto; per contro, l'ultimo progetto di sviluppo della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa in Italia risale al biennio 2007-2009;
negli ultimi anni l'azione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa si è orientata prevalentemente verso i Paesi dell'Europa dell'est, impegnati nel percorso di adesione all'Unione europea; dal 2007 in avanti, però, le condizioni economico-sociali di molti altri Paesi europei, in particolare quelli dell'area dell'euro, sono cambiate radicalmente a causa della crisi economico-finanziaria, che nei Paesi più indebitati, a seguito dell'intervento formale od informale della Commissione europea e della Banca centrale europea, ha posto e pone seriamente a rischio la possibilità di garantire i diritti sociali e di mantenere un livello accettabile di welfare;
è, oggi, anacronistico ed insostenibile che il nostro Paese continui ad essere un contribuire netto dell'Unione europea, a versare quote imponenti di capitale ai fondi cosiddetti salva Stati e alle altre istituzioni finanziarie, mentre, all'interno, si attuano politiche devastanti dal punto di vista delle spese per il welfare;
la questione della coesione sociale e del suo rafforzamento all'interno dell'Unione europea è uno dei temi centrali della strategia Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva,
impegna il Governo:
ad adoperarsi, in quanto diretto interlocutore della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, per sostenere presso la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa progetti destinati alla realizzazione delle finalità della Banca e l'impiego delle relative risorse nel nostro Paese;
a farsi promotore di una campagna informativa nazionale orientata ai soggetti potenzialmente destinatari dei finanziamenti, relativa agli strumenti e alle opportunità derivanti dall'azione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa;
a farsi promotore presso la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, nonché presso le istituzioni comunitarie e gli organismi finanziari comunitari, anche attraverso revisione dei meccanismi e delle finalità d'intervento, dell'urgenza di finanziare direttamente nel nostro Paese interventi straordinari per la ricostruzione a seguito di catastrofi naturali, per il contenimento del rischio idrogeologico e per la messa in sicurezza del territorio, nonché per l'edilizia scolastica e per l'edilizia carceraria.
(1-00359) «Gianluca Pini, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Prataviera, Rondini».
La Camera,
premesso che:
la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa (CEB) è una banca multilaterale a mission sociale istituita nel 1956 inizialmente per venire incontro ai pressanti problemi dei rifugiati;
le materie di interesse e di azione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa si sono progressivamente spostate negli anni in campo sociale in senso lato, nonché ambientale, contribuendo in modo significativo al rafforzamento della coesione sociale in Europa e delle politiche di solidarietà in Europa;
la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, comunque, non promuove progetti ma li finanzia sulla base delle domande pervenute;
nel decennio 2002-2011 sono stati approvati progetti per oltre 21 miliardi di euro; tra i principali Paesi destinatari si annoveravano Ungheria, Polonia e Romania, laddove in questi anni recenti alcuni Paesi dell'ex Europa occidentale si trovano a far fronte a situazioni di crisi altrettanto gravi in confronto con quelle di altri Paesi dell'Europa orientale;
nel 2012, tra i progetti approvati dal consiglio di amministrazione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa nessuno riguardava l'Italia;
negli ultimi anni l'attenzione della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa verso l'Italia appare essere stata scarsa se non nulla nella sua capacità di erogare fondi;
l'Italia, unitamente a Francia e Germania, è uno degli azionisti pesanti della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa ed esprime costantemente alcune figure apicali della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa; il nostro Paese partecipa ai lavori del board della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa con rappresentanti del Ministero degli affari esteri e del Ministero dell'economia e delle finanze,
impegna il Governo:
a promuovere iniziative per diffondere nel nostro Paese informazioni e conoscenze sul campo di attività della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa e sulla sua importanza in materia di coesione sociale e di sviluppo sostenibile, per fare in modo che ci sia un interesse diffuso verso la presentazione alla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa di progetti italiani, garantendo piena trasparenza delle procedure e informazioni correlate alla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa sul sito del Ministero degli affari esteri;
a favorire il più possibile la coerenza delle risorse e dei finanziamenti dell'Unione europea con i finanziamenti provenienti dalla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, in ossequio ai principi dei programmi e dei piani di azione comunitaria in materia di ambiente e di coesione sociale;
a favorire, tramite i rappresentanti istituzionali italiani nella Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, una maggiore attenzione della stessa verso il nostro Paese;
nell'ambito dei finanziamenti destinabili all'Italia, a favorire i progetti che siano inerenti alla messa in sicurezza dai rischi idrogeologici, all'integrazione sociale e al contrasto della xenofobia, nonché al rafforzamento della mobilità sostenibile a tutela anche delle fasce deboli della popolazione.
(1-00361) «Colonnese, Barbanti, Vignaroli, Cancelleri, Nesci, Carinelli, Ruocco, Villarosa, Pesco, Manlio Di Stefano, Spadoni, Fico, Alberti, Pisano».
La Camera,
premesso che:
la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa (CEB) è lo strumento finanziario della politica di solidarietà del Consiglio d'Europa;
la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa ha come finalità di aiutare i suoi 41 Stati membri a conseguire una crescita sostenibile ed equa, contribuendo alla realizzazione di progetti di investimento sociale, rispondendo a situazioni di emergenza e, in questo modo, migliorando le condizioni di vita nelle regioni meno avvantaggiate dell'Europa;
finanzia progetti di investimento in campo sociale secondo quattro linee di intervento:
a) il rafforzamento dell'integrazione sociale;
b) la gestione dell'ambiente;
c) il sostegno alle infrastrutture pubbliche a vocazione sociale;
d) il supporto alle micro, piccole e medie imprese;
la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa è legalmente e finanziariamente indipendente, basata su un accordo parziale tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa che ne hanno sottoscritto le quote e, via via, i progressivi aumenti di capitale. Tuttavia, agisce in collaborazione con altre istituzioni finanziarie internazionali e regionali e con la Commissione europea;
la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa si autofinanzia a condizioni favorevoli sul mercato dei capitali, gode del rating di tripla «A» e il suo bilancio si mantiene in equilibrio perché concede prestiti e non dà contributi a fondo perduto;
oggi il nostro Paese è, insieme a Francia e Germania, uno dei maggiori azionisti, con il 16,77 per cento del capitale sottoscritto;
con la legge 6 luglio 2012, n. 117, l'Italia ha aderito all'ultimo aumento di capitale della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa in ordine di tempo, per un importo complessivo di 366.078.000 euro, comprendenti l'incorporazione di riserve nel capitale liberato per 40.964.000 euro e la sottoscrizione di nuovi titoli per 325.114.000 euro, con conseguente incremento della quota di capitale detenuta fino all'ammontare di 915.770.000 euro;
a fronte dell'elevata quota di capitale sottoscritta, si registra una scarsissima destinazione dei fondi della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa per progetti italiani. Negli ultimi 3 anni, addirittura, non ci sono stati progetti approvati in Italia, mentre sono stati approvati numerosi progetti finanziati in altri Paesi per scuole, carceri e case di riposo. Si tratta di un dato paradossale avendo, dal 2007 in poi però, la crisi economico-finanziaria peggiorato le condizioni economico-sociali dell'Italia oltre che di altri Paesi europei;
la Commissione europea, il 20 febbraio 2013, nella comunicazione «Investire nel settore sociale a favore della crescita e della coesione, in particolare attuando il Fondo sociale europeo nel periodo 2014-2020» (COM (2013) 83) pone tra gli obiettivi fondamentali da perseguire il pieno ed efficace utilizzo dei fondi dell'Unione europea e il loro coordinamento con i finanziamenti dalla Banca mondiale, dalla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa e della Banca europea per gli investimenti;
considerato il perdurare della crisi, è insostenibile che il nostro Paese, oltre ad essere il terzo contributore netto del bilancio dell'Unione europea, continui a versare quote significative di capitale a fondi e strumenti di solidarietà istituiti nell'ambito dell'Unione europea o di altre organizzazioni e istituzioni finanziarie internazionali, che appesantiscono il debito pubblico già molto elevato e sono computati ai fini dei parametri di finanza pubblica fissati dal Patto di stabilità e crescita,
impegna il Governo:
a conservare l'attuale misura di partecipazione e di diritto di voto all'interno dell'istituto, considerato il rilievo sociale e politico degli obiettivi perseguiti dalla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa;
ad adottare misure per promuovere presso le istituzioni italiane, nazionali e locali, la conoscenza delle opportunità che la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa offre;
ad adoperarsi affinché sia data attuazione a quanto raccomandato dalla Commissione europea, favorendo il coordinamento delle risorse dell'Unione europea con gli stanziamenti della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa e di altri strumenti finanziari internazionali;
ad avviare approfondimenti con la Banca di sviluppo del Consiglio di Europa, al fine di verificare la possibilità di interventi straordinari in Italia rivolti, in particolare, all'edilizia scolastica e carceraria, alla salvaguardia del patrimonio storico e culturale, alla prevenzione di catastrofi naturali e alla protezione del territorio, allo sviluppo delle micro, piccole e medie imprese e ai contratti di riallocazione dei licenziati;
ad adoperarsi affinché i contributi alla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, nonché a fondi e meccanismi di assistenza finanziaria costituiti nell'ambito dell'Unione europea o di altre organizzazioni sovranazionali e internazionali versati da Stati membri dell'Unione europea, in particolare ove essi si trovino in situazione di recessione o abbiano un elevato indebitamento, non siano computati ai fini del calcolo delle soglie previste per il deficit e il debito pubblico dal Patto di stabilità e crescita.
(1-00366) «Galgano, Quintarelli, Vitelli, Tinagli, Capua, Rabino, Vecchio, Catania, Matarrese, Antimo Cesaro, Vargiu, Mazziotti Di Celso».
La Camera,
premesso che:
il nostro Paese partecipa a numerose banche multilaterali, tra cui rilevano alcune banche di sviluppo e d'investimento o a vocazione sociale, operanti specificamente in ambito europeo;
il ruolo di tali banche assume un particolare rilievo, alla luce della fase attuale caratterizzata da una grave crisi economico-finanziaria, con le sue ricadute sull'economia reale, in termini di perdita di competitività e di occupazione in tutto lo spazio Europeo, ma con proporzioni più preoccupanti per il nostro Paese;
la crescita mondiale, sorretta dalle economie emergenti, si è infatti fortemente ridotta nel 2012 nell'insieme dei Paesi dell'Unione europea (-0,3 per cento) e ancor più in quelli dell'area dell'euro (0,6 per cento), i quali hanno avuto una crescita negativa e – come rileva il rapporto Svimez 2013 – il prodotto interno lordo è fortemente diminuito nei paesi del sud Europa, come Grecia (-6,4 per cento), Portogallo (-3,2 per cento), Spagna (-1,4 per cento), mentre in Italia la recessione ha colpito l'economia più che nel resto d'Europa (-2,4 per cento);
un ruolo fondamentale nell'utilizzo di leve finanziarie che incentivino prospettive di investimento, sviluppo e crescita, può svolgerlo la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, una banca multilaterale dalle peculiari finalità sociali, istituita nel 1956 con la denominazione «Fondo per lo sviluppo sociale del Consiglio d'Europa» e dal 1999 rinominata «Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa» (CEB). La Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, nata sulla base di un accordo parziale tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa e con piena autonomia finanziaria, ha progressivamente ampliato il suo campo d'azione rispetto ai suoi originari scopi (fornire aiuti in favore dei rifugiati), per contribuire in modo sempre più determinante al rafforzamento delle politiche di coesione sociale, al miglioramento delle condizioni di vita nelle regioni più svantaggiate, combattendo il crescente fenomeno della povertà e del disagio sociale nel continente europeo;
la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa è, dunque, diventata lo strumento chiave delle azioni di solidarietà europea, con le sue finalità precipue di supportare i suoi Stati membri nel conseguire politiche orientate alla crescita sostenibile ed equa e contribuisce alla realizzazione di progetti di investimento sociale, attraverso tre linee di intervento settoriale: rafforzamento dell'integrazione sociale, gestione ambientale e sostegno alle infrastrutture pubbliche a vocazione sociale;
per estendere la sua azione la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa ha potenziato negli ultimi anni la cooperazione con le maggiori istituzioni europee, in particolare con la Commissione europea, e con altre banche regionali e istituzioni finanziarie multilaterali, tra cui la Banca europea per gli investimenti (Bei), il Western Balkans Investment Framework (WBIF), la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers), la Banca mondiale, la Nordic Investment Bank e la Banca Kfw;
la Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa attualmente conta 40 Stati membri, che coprono un'area geografica che si estende dalla Turchia all'Islanda e dal Portogallo alla Georgia. L'Italia, con una quota percentuale di partecipazione pari a circa l'11 per cento, assieme a Francia e Germania rientra tra i cosiddetti «grandi pagatori»;
il nostro Paese ha sottoscritto tutti gli aumenti di capitale della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa intervenuti negli anni 1978, 1982, 1988, 1991, 2001 e 2012, continuando a svolgere un ruolo centrale nel processo decisionale, partecipando agli organi di governo della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa con propri rappresentanti dei Ministeri dell'economia e delle finanze e degli affari esteri. Con l'ultimo aumento di capitale della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa (sesto aumento che ha portato il capitale totale sottoscritto da 3,3 a 5,5 miliardi di euro nel 2012) l'Italia ha aderito all'aumento con sottoscrizione di nuovi titoli, con conseguente incremento della quota detenuta pari a 915.770.000 euro, mantenendo inalterata la misura di partecipazione e il diritto di voto;
tuttavia, l'Italia negli ultimi anni non ha colto le opportunità offerte dalla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa e non ha usufruito dei prestiti della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, al cui finanziamento contribuisce in modo cospicuo, e non risultano al 2013 progetti provenienti dall'Italia al fine di ottenere i relativi sostegni finanziari;
in ambito europeo rilevano anche altre banche di garanzia e investimento, tra cui spicca la Banca europea per gli investimenti (Bei), di proprietà dei paesi membri dell'Unione europea, alla quale l'Italia partecipa per il 16 per cento. Tale Banca ha fra i suoi compiti quello di sostenere il finanziamento di progetti volti a migliorare infrastrutture, approvvigionamento energetico o sostenibilità ambientale all'interno dell'Unione europea; contribuisce allo sviluppo economico e sociale di tutti i Paesi membri e di quelli limitrofi con rapporti di vicinato, con particolare priorità alle regioni meno sviluppate e con maggiori carenze strutturali (Europa meridionale e orientale), anche attraverso investimenti congiunti con i finanziamenti programmati per gli interventi dei fondi strutturali e di altri strumenti finanziari della Comunità europea;
nel 2012, il Consiglio europeo ha approvato l'aumento del capitale sociale della Banca europea per gli investimenti, rafforzando la sua attività con effetto anticiclico sull'economia europea, contribuendo in tal modo ad integrare le risorse del bilancio europeo, fortemente ridimensionate nell'ambito del nuovo quadro finanziario pluriennale dell'Unione europea (QFP 2014-2020);
a partire da giugno 2013, la Banca europea per gli investimenti costituisce, dunque, la maggiore finanziatrice del nuovo sviluppo europeo per uscire dalla crisi, in favore di linee di credito per le piccole e medie imprese, per finanziare project bond o progetti complessi, come progetti di grandi dimensioni, project financing (nei settore energetico e autostradale); il primo project bond è stato realizzato in Spagna (gas storage), mentre in Italia ancora è in fase di definizione la collaborazione fra Cassa depositi e prestiti e Banca europea per gli investimenti per la realizzazione di project bond in Italia;
secondo i dati forniti dal Ministro dell'economia e delle finanze pro tempore, nel 2013 il sostegno finanziario della Banca europea per gli investimenti in Italia ha riguardato progetti del valore totale di circa 30 miliardi di euro (+50 per cento) e oltre 8.400 piccole e medie imprese, che hanno ricevuto finanziamenti per 3,3 miliardi di euro, pari al 34 per cento del totale; la Banca europea per gli investimenti è intervenuta su energia, telecomunicazioni e trasporti, industria, acqua e sanità, ha sostenuto progetti di ricerca e di sviluppo e per l'ammodernamento infrastrutturale del nostro Paese, compreso lo sviluppo della banda larga. Sono stati avviati anche nuovi settori di attività, tra cui il primo finanziamento del social housing in Italia, in favore di progetti di edilizia sociale e di «abitare equo»; si tratta di passi in avanti importanti ma è necessario rafforzare l'uso di tali strumenti finanziari per sfruttarne pienamente le potenzialità;
il ruolo che dovranno svolgere le banche europee è particolarmente evidente alla luce delle sfide impegnative che l'Europa è chiamata ad affrontare nei prossimi anni. La comunicazione della Commissione europea – Strategia Europa 2020 – ha definito una strategia ambiziosa che mira a trasformare l'Unione europea in un'economia intelligente, sostenibile e inclusiva, caratterizzata da alti livelli di occupazione, produttività e coesione sociale. Tuttavia, la riduzione della spesa complessiva delle risorse del bilancio europeo (per l'Unione europea a 28 è del 3,4 per cento in termini reali rispetto al periodo 2007-2013 e con un budget di circa 960 miliardi di euro), congiuntamente al contenimento dei bilanci a livello nazionale, rischia di mettere in seria difficoltà il perseguimento degli stessi obiettivi (cosiddette «iniziative faro») della Strategia Europa 2020, con il pericolo di aggravare la situazione di spirale di recessione-depressione esistente in molti Stati membri, tra cui l'Italia;
il peggioramento della situazione economica e sociale interna a molti Stati membri, in particolare della fascia del sud Europa, in assenza di interventi mirati, potrebbe compromettere in futuro la stessa partecipazione alla stessa Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, indebolendone la solidità finanziaria e pregiudicando quantità e qualità degli interventi improntati all'integrazione nelle aree di crisi in ambito europeo,
impegna il Governo:
ad attivarsi per adottare ogni iniziativa utile volta a favorire e ad accrescere l'utilizzo da parte dell'Italia, quale «grande pagatore» e sottoscrittore di quote di capitale della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, degli strumenti finanziari messi a disposizione dalla Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, anche rimuovendo gli eventuali ostacoli burocratici e amministrativi che impediscono il ricorso alle sue procedure di finanziamento;
a promuovere iniziative in ambito nazionale, locale e territoriale per informare e far conoscere opportunità e potenzialità offerte dagli strumenti finanziari della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, in particolare per ciò che riguarda i finanziamenti di progetti in grado di favorire la creazione di nuovi posti di lavoro e il mantenimento in vita di micro e piccole imprese, di sostenere l'integrazione sociale, infrastrutturale a vocazione sociale (case di riposo per anziani, carceri, scuole), ambientale (protezione del territorio da catastrofi naturali, bonifiche e salvaguardia del patrimonio storico e culturale), di tutelare le fasce più deboli della popolazione, anche mediante il contrasto di fenomeni di xenofobia;
a sostenere il coordinamento con i diversi strumenti di leva finanziaria dell'Unione europea, intervenendo, altresì, per semplificare i meccanismi di assistenza finanziaria e pervenire ad una maggiore accessibilità ai finanziamenti della Banca di sviluppo del Consiglio d'Europa, allo scopo di favorire in via prioritaria gli Stati membri che versano in una situazione di grave crisi economica e di perdurante spirale recessiva;
ad adoperarsi affinché siano intensificate le iniziative congiunte fra le diverse banche europee di garanzia e di investimento, con un pacchetto di misure volto a rafforzare i programmi della Commissione europea;
ad attivarsi in tutte le sedi opportune per sostenere ed estendere alcune forme pilota di garanzia, tra cui lo strumento di condivisione dei rischi, attuate in particolare mediante azione congiunta di Banca europea per gli investimenti e il Fondo europeo per gli investimenti e la Commissione europea, per incoraggiare le banche a erogare prestiti alle piccole e alle medie «imprese innovative», in sostegno di attività di ricerca e sviluppo.
(1-00384) «Berlinghieri, Pastorino, Battaglia, Bonomo, Casellato, Chaouki, Culotta, Gianni Farina, Giachetti, Giulietti, Giuseppe Guerini, Iacono, Mosca, Moscatt, Nardella, Picierno, Scuvera, Vaccaro, Ventricelli, Alfreider».
MOZIONI CASTELLI ED ALTRI N. 1-00348, MARCON ED ALTRI N. 1-00362, GUIDESI ED ALTRI N. 1-00363, GIORGIA MELONI ED ALTRI N. 1-00372 E MARCHI ED ALTRI N. 1-00386 CONCERNENTI LO SCOSTAMENTO DAI PARAMETRI EUROPEI IN MATERIA DI DEFICIT PUBBLICO
Mozioni
La Camera,
premesso che:
gli articoli 99 e 104 del Trattato di Roma istitutivo della Comunità economica europea (così come modificato con il Trattato di Maastricht e dal Trattato di Lisbona) trovano attuazione attraverso il rafforzamento delle politiche di vigilanza sui deficit ed i debiti pubblici, nonché un particolare tipo di procedura di infrazione;
la procedura per deficit eccessivo (pde), che ne costituisce il principale strumento, è stata implementata dal Patto di stabilità e crescita (psc). Stipulato nel 1997, il Patto di stabilità e crescita ha rafforzato le disposizioni sulla disciplina fiscale nell'unione economica e monetaria, di cui agli articoli 99 e 104, ed è entrato in vigore con l'adozione dell'euro, il 1o gennaio 1999;
in base al Patto di stabilità e crescita, gli Stati membri devono continuare a rispettare nel tempo i parametri di deficit pubblico (3 per cento) e di debito pubblico (60 per cento del prodotto interno lordo);
l'articolo 104 del Trattato di Roma prevede 3 fasi, nel caso in cui un Paese non rispetti i parametri:
a) se il deficit di un Paese membro si avvicina al tetto del 3 per cento del prodotto interno lordo, la Commissione europea propone, ed il Consiglio dei ministri europei in sede di Ecofin approva, un «avvertimento preventivo» (early warning), al quale segue una raccomandazione vera e propria in caso di superamento del tetto;
b) se a seguito della raccomandazione lo Stato interessato non adotta sufficienti misure correttive della propria politica di bilancio, esso viene sottoposto ad una sanzione che assume la forma di un deposito infruttifero, da convertire in ammenda dopo due anni di persistenza del deficit eccessivo. L'ammontare della sanzione presenta una componente fissa pari allo 0,2 per cento del prodotto interno lordo ed una variabile pari ad 1/10 dello scostamento del disavanzo pubblico dalla soglia del 3 per cento. È comunque previsto un tetto massimo all'entità complessiva della sanzione, pari allo 0,5 per cento del prodotto interno lordo;
c) se invece lo Stato adotta tempestivamente misure correttive, la procedura viene sospesa fino a quando il deficit non viene portato sotto il limite del 3 per cento. Se le stesse misure si rivelano, però, inadeguate, la procedura viene ripresa e la sanzione irrogata;
la legge n. 243 del 2012, «Disposizioni per l'attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell'articolo 81, sesto comma, della Costituzione», all'articolo 6, comma 2, «Eventi eccezionali e scostamenti dall'obiettivo programmatico strutturale», prevede che: «Ai fini della presente legge, per eventi eccezionali, da individuare in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, si intendono:
a) periodi di grave recessione economica relativi anche all'area dell'euro o all'intera Unione europea;
b) eventi straordinari, al di fuori del controllo dello Stato, ivi incluse le gravi crisi finanziarie nonché le gravi calamità naturali, con rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria generale del Paese»;
il comma 3, invece, prevede che: «Il Governo, qualora, al fine di fronteggiare gli eventi di cui al comma 2, ritenga indispensabile discostarsi temporaneamente dall'obiettivo programmatico, sentita la Commissione europea, presenta alle Camere, per le conseguenti deliberazioni parlamentari, una relazione con cui aggiorna gli obiettivi programmatici di finanza pubblica, nonché una specifica richiesta di autorizzazione che indichi la misura e la durata dello scostamento, stabilisca le finalità alle quali destinare le risorse disponibili in conseguenza dello stesso e definisca il piano di rientro verso l'obiettivo programmatico, commisurandone la durata alla gravità degli eventi di cui al comma 2»;
da più parti si è sottolineata l'eccessiva rigidità del Patto, perché questa, se non applicata considerando l'intero ciclo economico, genera rischi involutivi derivanti dalla contrazione della politica degli investimenti;
in passato anche l'allora Presidente della Commissione europea, Romano Prodi, definì il Patto «inattuabile» per la sua rigidità;
molti critici affermano, poi, che il Patto di stabilità e crescita non promuoverebbe né la crescita, né la stabilità, dal momento che finora esso è stato applicato in modo incoerente, come dimostrato, ad esempio, dal fatto che il Consiglio non è riuscito ad applicare le sanzioni, malgrado ne sussistessero i presupposti;
l'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha in diversi studi fatto presente come il prodotto interno lordo non sia un indicatore esaustivo per parametrare il benessere di un Paese e dei suoi cittadini (vedi rapporto Ocse How's Life 2013), ma che bisogna tener conto anche di altri indicatori, come la qualità e il costo delle abitazioni, salari, sicurezza dell'impiego e disoccupazione, l'educazione, la coesione sociale, la qualità dell'ambiente, la salute, la sicurezza e altri;
recenti studi condotti da ricercatori universitari (vedi: Italy from economic decline to current crisis, Università Roma 3, Tridico 2013) suggeriscono come negli ultimi anni le misure di austerità adottate in Italia, e non solo, non hanno prodotto gli effetti positivi sperati, anzi hanno acuito gli effetti negativi;
le misure di austerità introdotte dal Governo Monti e prima dal Governo Berlusconi avevano come scopo di diminuire la spesa pubblica e miravano a equilibrare il bilancio, con l'ovvia conseguenza di ridurre ulteriormente la spesa nazionale senza risultati notevoli in termini di crescita, recupero, nonché in termini di riduzione del rapporto debito/prodotto interno lordo;
tali politiche di austerità hanno prodotto come risultato una riduzione della domanda aggregata e, direttamente e indirettamente, hanno indebolito il potere d'acquisto dei lavoratori (ad esempio, riducendo la spesa per servizi pubblici, sanità e istruzione);
le cattive performance dell'Italia, stando ai dati, sono da ricercarsi nelle cattive politiche legislative e, in particolare, relative alla non tutela dei posti di lavoro;
la Corte di giustizia europea, inoltre, nel 2004 stabilisce con una sentenza che la procedura di deficit eccessivo richiamata dal Patto non è obbligatoria; appare ormai evidente quanto sia difficile far valere i vincoli del Patto di stabilità e crescita nei confronti dei «grandi» dell'Unione europea, che, tra l'altro, ne furono gli stessi promotori. Invero, taluni Paesi registrano da anni deficit «eccessivi» secondo la definizione del Patto, ma ciò nonostante, malgrado gli avvertimenti e le raccomandazioni ricevute, non si sono poi visti applicare alcuna sanzione;
nel marzo 2005, quindi, in risposta alle crescenti perplessità, l'Ecofin decise di ammorbidirne le norme per renderlo più flessibile. Decisione richiamata e ribadita dall'asse franco-tedesco nel 2008, per far fronte alla gravissima crisi finanziaria che ha investito i mercati e le economie di tutto il mondo in seguito alla cosiddetta crisi dei mutui americana del 2006;
ulteriori istanze di riforma, nel senso di sospendere il diritto di voto dei Paesi che non rispettino i propri obblighi di bilancio, sono state manifestate, in particolare, dalla Germania, in occasione degli aiuti stanziati dai Paesi dell'eurozona per la grave crisi finanziaria della Grecia nel maggio 2010,
impegna il Governo
a discostarsi temporaneamente dall'obiettivo programmatico di cui alle premesse, particolarmente per le questioni urgenti riguardanti la disoccupazione, la qualità e il costo delle abitazioni, i salari, la sicurezza dell'impiego, l'educazione, la coesione sociale, la qualità dell'ambiente, la salute e la sicurezza.
(1-00348) «Castelli, Sorial, Caso, D'Incà, Nesci, Sibilia».
La Camera,
premesso che:
la politica economica europea in generale, e fiscale in particolare, non è stata capace di risolvere gli enormi problemi sociali sopraggiunti dopo la crisi del 2007. Una crisi che per profondità e lunghezza è più lunga della grande crisi del 1929;
le politiche e le misure adottate dall'Unione europea per contrastare la crisi intervenuta nel 2007 hanno disegnato un quadro abbastanza stringente di obiettivi finanziari, in particolare la solidità dei bilanci pubblici, a discapito di misure (economiche e finanziarie) che potessero realmente implementare la strategia «Europa 2020». Mentre i vincoli di finanza pubblica, indebitamento e debito pubblico, sono stringenti, gli impegni per la crescita e lo sviluppo sono per lo più delle (buone) raccomandazioni e non prevedono sanzioni in caso di mancante raggiungimento. Il quadro che emerge è una serie di strumenti potenzialmente coerenti per coordinare le politiche fiscali europee tese a costruire un'agenda economica rafforzata, la stabilità dell'euro e la «regolamentazione» del settore finanziario, ma gerarchicamente slegata dalle policy per la crescita. Non a caso i vincoli-squilibri macroeconomici e di competitività sono emersi con tutta la loro violenza. Se anche la Germania ha ricevuto un richiamo dalla Commissione europea per il suo eccessivo surplus commerciale, c’è veramente qualcosa che non funziona nella politica economica europea;
il Patto di stabilità è stato, peraltro, definito «Patto di stabilità e crescita», dunque non solo di stabilità; va sottolineato come, da solo, il crollo del prodotto interno lordo nel 2009 di 5,5 punti è responsabile matematicamente dell'aumento del rapporto debito/prodotto interno lordo di 7 punti e del rapporto della spesa pensionistica sul prodotto interno lordo di un punto;
il vincolo del 3 per cento sul disavanzo deriva dal Patto di stabilità e crescita (Psc), che introduceva regole di disciplina fiscale poi rafforzatesi nel tempo attraverso i cosiddetti «Six-pack», «Fiscal Compact» e «Two-pack»: fino a creare un sistema assai complesso di procedure, vincoli e sanzioni. Il mancato rispetto del limite fa scattare la «procedura per disavanzo eccessivo» (Pde);
peraltro, il cosiddetto «Fiscal compact» rappresenta solo un accordo fra Paesi e di rango inferiore nella gerarchia delle fonti rispetto al «Six-pack» e al «Two-pack», che sono parte dei Trattati che regolano l'Unione europea; il «Fiscal Compact», anche se di fatto applicato da quasi tutti i Paesi (ma no nel Regno Unito e nella Repubblica ceca) potrebbe dunque più facilmente essere abbandonato;
in realtà, non esiste una valida teoria economica che giustifichi il rigido vincolo del 3 per cento, soglia massima nel rapporto deficit/prodotto interno lordo;
la storia di quella percentuale «scolpita nella pietra» è complicata, opaca e misteriosa. Risale al 1991, quando viene firmato nella città olandese di Maastricht l'omonimo Trattato, fondamento per l'Unione monetaria da realizzarsi nel 1999. Economisti e giuristi che lavorano a quei testi, sotto l'autorevole influenza di Tommaso Padoa Schioppa, esplorano le condizioni per «un'area monetaria ottimale». In cerca di criteri di stabilità, finiscono per accordarsi sui seguenti parametri per l'accesso all'euro:
a) inflazione non più alta di 1,5 punti rispetto ai tre Paesi con il tasso d'inflazione più basso;
b) deficit statale non superiore al 3 per cento del Pil;
c) debito pubblico non superiore al 60 per cento del prodotto interno lordo;
d) stabilità del tasso di cambio nei due anni precedenti l'ingresso nell'unione monetaria;
e) tassi d'interesse di lungo termine non superiori di oltre due punti rispetto ai tre Paesi dai tassi più bassi;
ci si trova in pieno «regno del simbolismo», a proposito della soglia deficit/prodotto interno lordo, la cui validità non è mai stata dimostrata. Nessuno, infatti, è mai riuscito a dare una spiegazione plausibile sul perché quelle cifre furono scelte;
di tutti questi criteri, alcuni non sono mai stati veramente applicati, come quello sul debito; altri hanno perso rilevanza con la creazione dell'euro: i tassi d'interesse e la parità di cambio li decide la Banca centrale europea a Francoforte, non sono più oggetto di politiche nazionali. È rimasto in piedi il tetto del 3 per cento per il fabbisogno del consolidato delle pubbliche amministrazioni; il rapporto deficit/prodotto interno lordo è il criterio che può far scattare (se non rispettato) una procedura d'infrazione, trasformare il Paese in vigilato speciale e così lanciare segnali d'allarme ai mercati, fino a quando, con severe politiche di austerità, il Paese sotto procedura per disavanzo eccessivo non rientra nei parametri;
queste misure e le politiche di austerità stanno distruggendo l'economia europea sottraendole domanda interna, stabilità dei conti, occupazione e speranza. L'austerità, lungi dall'assicurare il risanamento dei conti pubblici, rischia, al contrario, di peggiorarli poiché i moltiplicatori fiscali fanno sì che tagliare un miliardo di euro riduce il reddito nazionale fino a 1,7 miliardi di euro, facendo così aumentare il rapporto debito/prodotto interno lordo. La stabilità dei conti pubblici, in questa crisi che tanto assomiglia a quella degli anni Trenta, si nutre di crescita e l'austerità uccide sia la crescita che la stabilità;
gli obiettivi della strategia «Europa 2020» prevedono l'impegno per i Paesi europei dell'innalzamento al 75 per cento del tasso di occupazione e della riduzione di almeno 20 milioni del numero dei poveri. Viceversa, le politiche degli ultimi anni e la crisi si sono accompagnate ad una riduzione dell'occupazione e all'aumento del numero dei poveri che allontanano i Paesi europei, e l'Italia in particolare, dagli obiettivi comuni concordati, rendendo indispensabile una ridefinizione, sia pur temporanea, degli obiettivi sui saldi di bilancio, obiettivamente in conflitto con altri obiettivi sui quali il Paese si è formalmente impegnato a livello europeo, ad esempio con il «Fiscal Compact»;
le conseguenze di questa politica sono sotto gli occhi di tutti: oggi, quasi 27 milioni di persone sono disoccupate nell'Unione europea, di cui più di 19 milioni nell'eurozona. La disoccupazione nell'eurozona è salita dal 7,8 per cento del 2008 al 12,1 per cento del novembre 2013. In Grecia, dal 7,7 per cento al 24,4 per cento e in Spagna dall'11,3 per cento al 26,7 per cento nello stesso periodo. In Europa, i disoccupati con meno di 25 anni sono 4,5 milioni;
questi milioni di disoccupati nell'Unione europea, al 2013, comportano una riduzione del prodotto interno lordo potenziale dell'intera Unione europea dell'ordine del 5 per cento l'anno, corrispondente a circa 800 miliardi di euro; per l'Italia, si tratta di 80 miliardi di euro di ricchezza reale che non viene creata. Inoltre, la disoccupazione di lunga durata genera ulteriori costi derivanti dalla perdita di produttività del lavoro e comporta costi sociali quali povertà, perdita della casa, criminalità, denutrizione, abbandoni scolastici, antagonismo etnico, crisi familiari e tensioni sociali potenzialmente esplosive;
in Italia, dopo il calo del 2,4 per cento nel 2012, anche nel 2013 il prodotto interno lordo è diminuito dell'1,9 per cento; nel frattempo, il debito pubblico ha registrato un nuovo record arrivando al 132,6 per cento del prodotto interno lordo;
la disoccupazione è salita al 12,9 per cento ed i consumi sono crollati del 2,6 per cento malgrado la drastica riduzione (-4 per cento) già registrata nel 2012, raggiungendo così il loro minimo storico dal 1990;
nel nostro Paese, tra il 2006 e il 2012, il numero dei poveri (la linea di povertà è definita come il 60 per cento del reddito mediano equivalente familiare) è aumentato di ben 3,9 milioni di persone, portando il numero complessivo dei poveri a circa 13,5 milioni (fissando la soglia di povertà nel 2006, aggiornandola, per gli anni successivi, solo in base al tasso di inflazione);
il cosiddetto «Fiscal Compact» costringerà il Governo italiano, a partire dal 2016, a procedere al taglio del debito pubblico per 50 miliardi di euro all'anno per i prossimi 20 anni: un vero massacro sociale;
viceversa, il Presidente degli Stati Uniti Obama ha varato, nel primo biennio, una maximanovra di investimenti pubblici. Nel primo biennio della presidenza Obama, il rapporto deficit/prodotto interno lordo arrivò a sfiorare il 12 per cento. La cura ha funzionato. Sia nel bilancio federale, sia in quelli della finanza locale, i conti pubblici americani oggi migliorano in modo spettacolare grazie alla ripresa (+3 per cento del prodotto interno lordo, più 8 milioni di posti di lavoro);
come documentato da diversi economisti e dallo stesso Fondo monetario internazionale, le politiche di austerità decrementano il prodotto interno lordo, provocando una crescita del rapporto con il debito pubblico. Infatti, come rilevato dal Fondo monetario internazionale, per la gran parte dei Paesi i moltiplicatori fiscali hanno prodotto una caduta del prodotto interno lordo superiore alla riduzione del debito;
i Paesi dell'eurozona, non essendo in grado di allineare il cambio con i propri fondamentali, sono giocoforza costretti per recuperare competitività ad agire attraverso la leva salariale. Questo scenario sta comportando una deflazione salariale (dovuta alle politiche cosiddette di «svalutazione interna») che, conseguentemente, ha ripercussioni sui consumi e sui prezzi dei beni (i dati Ocse prevedono un peggioramento delle dinamiche salariali nel corso del 2014 rispetto al 2013 per Italia e Spagna, rispettivamente del meno 0,4 per cento e del meno 1,2 per cento annuo);
occorre esser consapevoli che, proseguendo con le politiche di «austerità» e affidando il riequilibrio alle sole «riforme strutturali», il destino dell'euro sarà segnato e l'esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo;
di fronte ad una domanda scarsa e ad una spesa privata non sufficiente a sfruttare la capacità produttiva disponibile, il mercato è diventato un ostacolo al benessere di gran parte della popolazione. Anche molti di coloro che fino a ieri si sarebbero definiti seguaci del liberismo, davanti al dilemma tra aiutare un sistema capitalistico inefficiente o gettarlo nel disordine generale, sollecitano ora un intervento straordinario dello Stato nel sistema economico per salvare dal fallimento banche e imprese;
nel Consiglio europeo del 24 e 25 ottobre 2013, la Commissione europea ha presentato una comunicazione «Potenziare la dimensione sociale dell'Unione economica e monetaria», fatta propria nelle conclusioni del Consiglio, come si può leggere nei seguenti punti:
«37. Il Consiglio europeo accoglie con favore la comunicazione della Commissione europea sulla dimensione sociale dell'unione economica e monetaria, che giudica un'iniziativa positiva, ribadisce l'importanza degli sviluppi occupazionali e sociali nel contesto del semestre europeo. Occorre perseguire l'uso di un quadro di valutazione delle tematiche occupazionali e sociali nella relazione comune sull'occupazione e di indicatori occupazionali e sociali, in linea con quanto proposto dalla Commissione e sulla scorta degli opportuni lavori dei comitati competenti, in vista della decisione da parte del Consiglio in dicembre, confermata dal Consiglio europeo con l'obiettivo di usare questi nuovi strumenti già nel semestre europeo 2014. Tale più vasta gamma di indicatori ha lo scopo di permettere una maggiore comprensione degli sviluppi sociali.
38. Il coordinamento delle politiche economiche, occupazionali e sociali sarà ulteriormente potenziato secondo le procedure esistenti, pur nel pieno rispetto delle competenze nazionali. Ciò richiede maggiore impegno per rafforzare la cooperazione tra le diverse formazioni del Consiglio, al fine di assicurare la coerenza di tali politiche in linea con i comuni obiettivi.
39. Il coordinamento rafforzato delle politiche economiche e le ulteriori misure per potenziare la dimensione sociale nella zona euro sono facoltative per gli Stati che non aderiscono alla moneta unica e saranno pienamente compatibili con tutti gli aspetti del mercato unico»;
ma, nei mesi scorsi, si è assistito a continue prese di posizione della Commissione europea in cui si minacciava l'applicazione all'Italia della procedura per deficit eccessivo, dalla quale l'Italia era appena uscita, anche per lo sforamento di un solo decimale. La Commissione europea, anche per ragioni di reputazione, è molto rigida verso un Paese con un rapporto debito/prodotto interno lordo che ha ormai superato il 130 per cento;
il rientro nella procedura per deficit eccessivo non avrebbe, di per sé, significative conseguenze. Questo perché le normali procedure di controllo dei conti pubblici nazionali da parte della Commissione europea sono divenute così penetranti che, di fatto, essere o no sotto la procedura di deficit eccessivo non fa molta differenza. Il cosiddetto «semestre europeo» comporta già una serie di passaggi stringenti. La legge annuale di stabilità, il piano pluriennale di stabilità (che delinea gli obiettivi di medio termine della finanza pubblica), il piano nazionale di riforme (che determina gli obiettivi economici di medio termine) sono sottoposti al vaglio della Commissione europea e del Consiglio europeo;
la procedura per disavanzi eccessivi comporta solo la possibilità di multe, che però non sono mai state applicate e quindi non sono granché credibili. Prima di arrivarci ci sono diversi passaggi che richiedono tempo. Sulla carta, la procedura sanzionatoria è stata accelerata dai «pack», ma al momento nessuno è in corso, anche perché molti Paesi hanno ricevuto un'estensione del periodo di aggiustamento. Paradossalmente, Paesi che di recente hanno goduto di una certa flessibilità sono proprio quelli sotto la procedura per deficit eccessivo: ad esempio, Spagna, Portogallo e Francia, che hanno ottenuto dilazioni per rientrare nel limite del 3 per cento. Attualmente, i Paesi sotto procedura per deficit eccessivo sono 17;
certo, proprio perché le sanzioni non sono mai state applicate, nessun Paese vuole essere il primo a riceverle. L'unico vero pericolo della procedura per deficit eccessivo è, infatti, l'effetto di reputazione sui mercati finanziari. Un Paese ad alto debito come il l'Italia, che emette titoli ogni settimana per molti miliardi di euro, non può permettersi che il rientro nella procedura venga letto come un segno di lassismo sul fronte dei conti pubblici;
ma un eventuale re-ingresso nella procedura per deficit eccessivo potrebbe far parte di una strategia precisa: mettere in opera misure realmente efficaci di contrasto all'evasione, abbassando allo stesso tempo le tasse, ridurre la spesa pubblica e rilanciare gli investimenti pubblici con un vero e proprio piano per il lavoro; l'eventuale temporaneo sfioramento del 3 per cento si deve accompagnare ad azioni capaci di aumentare l'occupazione ed il potenziale di crescita, rendendo perfino più credibile la riduzione del rapporto debito/prodotto interno lordo nel lungo periodo. Solo a queste condizioni la procedura per deficit eccessivo resterebbe un mero passaggio burocratico, senza alcun contenuto informativo e senza alcun significato politico. Anche il vincolo del pareggio strutturale presente nella Costituzione non sarebbe un ostacolo insormontabile su questo percorso, vista la fase negativa del ciclo e la discrezionalità della definizione;
viceversa, non sembra auspicabile la strada dei cosiddetti «accordi contrattuali» (contractual arrangement), proposti dalla Commissione europea nel marzo 2013. Si tratta di programmi di riforma concordati tra un Governo nazionale e la stessa Commissione europea, che dovrebbero essere approvati dal Parlamento nazionale e dal Consiglio europeo, per poi essere attuati secondo una tabella di marcia prefissata. In cambio di questi impegni, un Paese potrebbe ricevere assistenza finanziaria dall'Unione europea, per coprire i costi delle riforme programmate nel breve periodo. La proposta della Commissione europea è stata approvata in linea di massima dal Consiglio europeo del dicembre 2013, che però ha rinviato all'ottobre 2014 la finalizzazione del nuovo strumento e la definizione dei relativi dettagli;
un'altra strada suggerita dagli economisti Roberto Perotti e Enrico Marro è quella che prevede la possibilità di superare il limite del 3 per cento per il deficit e di scambiare il contributo che l'Italia versa al bilancio dell'Unione europea con le somme che l'Unione europea versa all'Italia per aiutare le regioni dell'obiettivo convergenza del nostro Paese (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) prevedendo, però, di concentrare gli interventi in queste cinque regioni;
secondo i dati più recenti, l'Italia continuerà a non crescere e l'Unione europea è sulla soglia della deflazione (mentre il debito continua a salire). In queste condizioni, proseguire con gli impegni del «Fiscal Compact» evidentemente porterebbe al collasso del Paese, quindi, altrettanto evidentemente, non potendo pensare ad una finanziaria addizionale di 50 miliardi di euro l'anno per i prossimi 20 anni, è assai probabile che l'Italia non potrà rispettarlo. In queste condizioni di moltiplicatori fiscali, crescita e inflazione, insistere sul vincolo del 3 per cento, di fatto, rende impossibile pensare in qualche modo di potere mai rispettare quello del 60 per cento del rapporto debito/prodotto interno lordo. Di fatto, un vincolo esclude l'altro, il che rende contraddittorio da un punto di vista logico, ancora prima che economico, il proseguire su questa strada;
servirebbe soprattutto una politica economica europea coerente con lo sviluppo dell'area euro, indicando le policy tese ad aumentare la domanda e, in particolare, gli investimenti. L'asse portante è quello della strategia «Europa 2020», a cui dovrebbe far seguito un bilancio pubblico europeo coerente e sganciato dai trasferimenti degli Stati. Servirebbe un bilancio pubblico europeo non inferiore al 4 per cento del prodotto interno lordo europeo, un'imposta europea capace di finanziare il bilancio pubblico senza mediazione degli Stati, degli investimenti (eurobond) tesi a industrializzare la così detta green economy e il ripristino della piena e buona occupazione come orizzonte della società europea;
in attesa di un riordino normativo europeo teso a promuovere lo sviluppo e la buona occupazione attraverso un autonomo bilancio pubblico europeo, con un'imposta sul valore aggiunto, il Governo italiano, in ambito di semestre europeo, potrebbe sostenere delle misure una tantum per i Governi dell'area euro, con il concorso della Banca centrale europea, tese a rilanciare lo sviluppo via investimenti che anticipano i cosiddetti obiettivi europei 20-20-20;
in particolare, si dovrebbe operare uno scorporo di alcune tipologie di spese e di investimenti dal calcolo dei saldi validi al fine del rispetto del Patto di stabilità e crescita. Tale scorporo, più volte proposto da autorità politiche ed esperti economici in Italia e in Europa, permetterebbe una ripresa della domanda pubblica che è necessaria – in assenza di un'adeguata dinamica della domanda per consumi, investimenti ed export – per condurre l'economia fuori dall'attuale depressione. Gli investimenti nei suddetti settori sono rilevanti, in primo luogo, per gli effetti aggregati sull'economia, che vedrebbe un aumento del prodotto interno lordo e, quindi, un miglioramento degli indicatori di sostenibilità del debito. In secondo luogo, l'investimento in tali settori condurrebbe l'Italia ad avvicinarsi in misura significativa agli obiettivi della strategia «Europa 2020», in una varietà di campi sociali ed ambientali,
impegna il Governo:
a scorporare, nel bilancio 2014, gli investimenti pubblici relativi ai settori sotto elencati dal computo dell'indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni rilevante per i vincoli dei Trattati europei:
a) messa in sicurezza degli edifici scolastici;
b) pubblica istruzione, università e ricerca;
c) riqualificazione delle periferie attraverso piani di recupero;
d) interventi di salvaguardia dell'assetto idrogeologico dei territori;
e) recupero, salvaguardia e sviluppo del patrimonio artistico e ambientale;
f) interventi di risanamento delle reti di distribuzione delle acque potabili;
g) potenziamento del trasporto pubblico locale con particolare riguardo al pendolarismo regionale e al trasporto su ferro;
h) interventi di risparmio energetico attraverso l'utilizzo delle energie rinnovabili;
a verificare in parallelo la possibilità che tali investimenti – da realizzarsi anche negli altri Paesi dell'eurozona – siano finanziati a livello europeo per consentire all'insieme dell'Unione europea di uscire dal ristagno economico proponendo:
a) la concessione di crediti da parte della Banca centrale europea al tasso di interesse più basso riservata a istituzioni finanziarie pubbliche – in Italia la Cassa depositi e prestiti – impegnate a realizzare il programma di investimenti pubblici necessario all'uscita dalla crisi;
b) l'emissione di titoli garantiti dall'eurozona finalizzati alla realizzazione di tali investimenti;
c) l'emissione di liquidità in modalità non convenzionali da parte della Banca centrale europea a copertura di tale programma di investimenti;
a superare – in assenza delle misure precedentemente elencate – il tetto del 3 per cento per l'indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni nel bilancio 2014, giustificando tale azione politica con le condizioni di gravissima crisi economica e sociale del Paese;
ad attivarsi in sede europea per il superamento di tutti i trattati e regolamenti che, imponendo rigide regole di bilancio, sono causa delle politiche di austerità e a promuovere politiche, misure e strumenti di politica economica, fiscale e di spesa, di carattere espansivo a favore dell'occupazione, dello sviluppo sostenibile e del welfare.
(1-00362)
(Nuova formulazione) «Marcon, Boccadutri, Melilla, Migliore, Di Salvo, Ricciatti, Pannarale, Scotto, Fava, Paglia, Lavagno, Airaudo, Placido».
La Camera,
premesso che:
il Patto di stabilità e crescita trova il suo fondamento politico nella risoluzione del Consiglio europeo adottata dai Capi di Stato e di Governo all'unanimità ad Amsterdam il 17 giugno 1997 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale C. 236 del 2 agosto 1997;
il fondamento legale del Patto di stabilità e crescita si trova invece negli articoli 121 e 126 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea; mentre l'articolo 121 fonda la fase preventiva del Patto di stabilità e crescita, l'articolo 126 costituisce il riferimento per gli strumenti correttivi; la procedura per deficit eccessivo ed il Protocollo 12 fissano infine i valori di riferimento: 3 per cento del prodotto interno lordo per il deficit e 60 per cento del prodotto interno lordo per il debito;
con la risoluzione del 17 giugno 1997 tutti gli Stati firmatari si sono impegnati a rispettare l'obiettivo a medio termine di un saldo di bilancio vicino al pareggio o attivo e ad adottare i provvedimenti correttivi di bilancio necessari per conseguire gli obiettivi dei loro programmi di stabilità o di convergenza; gli Stati devono, inoltre, procedere senza indugio agli aggiustamenti correttivi del bilancio che ritengano necessari non appena ricevano informazioni indicanti il rischio di un disavanzo eccessivo e correggere al più presto gli eventuali disavanzi eccessivi; la risoluzione impegna, inoltre, gli Stati a non appellarsi al carattere eccezionale di un disavanzo conseguente ad un calo annuo del prodotto interno lordo inferiore al 2 per cento, a meno che non registrino una grave recessione (calo annuo del prodotto interno lordo reale di almeno lo 0,75 per cento);
la Commissione europea, da parte sua, in forza del diritto d'iniziativa conferitole dal Trattato dell'Unione europea: redige una relazione quando vi sia il rischio di un disavanzo eccessivo o quando il debito pubblico previsto o effettivo superi il valore di riferimento del 3 per cento del prodotto interno lordo; fornisce al Consiglio i motivi giustificativi della sua posizione quando ritenga non eccessivo un disavanzo superiore al 3 per cento; elabora, a richiesta del Consiglio, una raccomandazione di principio in base alla quale il Consiglio stesso decide se un disavanzo è eccessivo o meno;
il terzo attore di questo sistema, il Consiglio, composto dai Capi di Stato e di Governo, è «invitato» dalla risoluzione a decidere sistematicamente d'infliggere sanzioni e ad applicare rigorosamente tutta la gamma delle sanzioni previste se uno Stato membro partecipante non prende i provvedimenti necessari per porre fine ad una situazione di disavanzo eccessivo;
ormai 17 anni fa, in un contesto economico profondamente diverso dall'attuale, si adottò questo sistema di regole aventi lo scopo dichiarato di salvaguardare le finanze pubbliche degli Stati contraenti, ponendo come idea fondante che le politiche economiche dei singoli Stati dovessero essere oggetto di interesse (e preoccupazione) condiviso dei membri dell'Unione europea;
i presupposti fondanti del Patto di stabilità e crescita si sono tradotti, nel corso degli anni, in numerosi strumenti attuativi che, tuttavia, per inadeguatezza o per un'applicazione non adeguata, non hanno né impedito né contrastato il verificarsi della più grave crisi economica degli ultimi 50 anni in tutta Europa, che al momento non è avviata al superamento;
il dibattito sulle necessità di riforma del Patto di stabilità e crescita è acceso da tempo, ma ha prodotto modifiche che hanno accresciuto le procedure per la formazione dei bilanci pubblici senza tramutarsi né in un sostegno alla ripresa né nella garanzia di bilanci più solidi da parte degli Stati membri;
già nel 2004 la Commissione europea ha adottato una comunicazione sul rafforzamento della governance economica e sul chiarimento dell'attuazione del Patto di stabilità e di crescita. Tale comunicazione propone una serie di possibili miglioramenti del Patto stesso, concentrandosi soprattutto sulle evoluzioni dei fattori economici negli Stati membri e sulla sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche;
le istituzioni comunitarie si sono date, nel dicembre 2012, una «tabella di marcia» per la realizzazione di un'autentica Unione economica e monetaria (Uem), che contempla ulteriori interventi volti a realizzare, a trattati vigenti o mediante modifica dei medesimi, un coordinamento effettivo e più stringente delle politiche economiche e di bilancio, mediante una maggiore condivisione di sovranità tra gli Stati membri;
il nuovo sistema si articola, infatti, in un complesso di misure, di natura legislativa e non legislativa, intese, per un verso, a rafforzare i vincoli di finanza pubblica introdotti sin dalla creazione, nel 1993, dell'Unione economica e monetaria e, per altro verso, ad introdurre una cornice comune anche per le politiche economiche degli Stati membri ed, in particolare, per le misure finalizzate alla crescita e all'occupazione;
il nuovo sistema si articola in:
a) un meccanismo per il coordinamento ex ante delle politiche economiche nazionali, mediante un ciclo di procedure e strumenti europei e nazionali concentrato nel primo semestre di ogni anno (cosiddetto semestre europeo, già operativo dal 2011);
b) il Patto euro plus, che impegna gli Stati membri dell'area euro e alcuni altri Stati aderenti a porre in essere ulteriori interventi in materia di politica economica, il cui eventuale inadempimento non comporta l'adozione di sanzioni;
c) il Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell'unione economica e monetaria («Fiscal Compact») entrato in vigore il 1o gennaio 2013;
d) le modifiche al Patto di stabilità e crescita («Six-pack» e «Two-pack»);
e) la sorveglianza sugli squilibri macroeconomici (già applicata in base a due regolamenti del cosiddetto («Six-pack»);
f) i meccanismi di stabilizzazione dell'eurozona;
g) il Patto per la crescita e l'occupazione (cosiddetto «growth pact», accordo non vincolante stipulato dal Consiglio europeo di giugno 2012);
nel novembre 2011 il Consiglio dell'Unione europea e Parlamento europeo hanno adottato un pacchetto di atti legislativi (il cosiddetto («Six-pack»), che mira ad un'applicazione ancora più rigorosa del Patto di stabilità e crescita, stabilendo:
a) l'obbligo per gli Stati membri di convergere verso l'obiettivo del pareggio di bilancio con un miglioramento annuale dei saldi pari ad almeno lo 0,5 per cento;
b) l'obbligo per i Paesi il cui debito supera il 60 per cento del prodotto interno lordo di adottare misure per ridurlo ad un ritmo soddisfacente, nella misura di almeno 1/20 dell'eccedenza rispetto alla soglia del 60 per cento calcolata nel corso degli ultimi tre anni;
c) un semi-automatismo delle procedure per l'irrogazione delle sanzioni per i Paesi che violano le regole del Patto di stabilità e crescita. Le sanzioni sono, infatti, raccomandate dalla Commissione europea e si considerano approvate dal Consiglio, a meno che esso non la respinga con voto a maggioranza qualificata («maggioranza inversa») degli Stati dell'area euro;
d) ai Paesi che registrano un disavanzo eccessivo si applicherebbe un deposito non fruttifero pari allo 0,2 per cento del prodotto interno lordo realizzato nell'anno precedente, convertito in ammenda in caso di non osservanza della raccomandazione di correggere il disavanzo eccessivo;
a fronte di una così rigida costruzione procedurale, la concreta applicazione dei criteri è stata più volte subordinata a considerazioni di carattere politico. In passato, nel 2004, nessuna sanzione è stata comminata a Germania e Francia i cui disavanzi avevano superato per entrambe i limiti previsti e per i quali la Commissione europea aveva accertato l'incompatibilità con il Patto di stabilità e crescita;
di fatto, nessuna procedura per disavanzo eccessivo fino ad oggi ha prodotto l'applicazione di sanzioni;
sia nel 2012 sia nel 2013 la Commissione europea ha ritenuto necessario procedere all'indagine approfondita nei riguardi, rispettivamente, di 12 e 13 Paesi membri dell'Unione europea (tra cui l'Italia); in entrambi i casi, tuttavia, non si è dato corso alle fasi successive della procedura per squilibri macroeconomici, dal momento che, anche laddove – come nel caso della Spagna e della Slovenia nel 2013 – gli squilibri macroeconomici erano valutati come eccessivi, sono stati ritenuti soddisfacenti gli impegni assunti dagli Stati con i rispettivi piani correttivi;
sulla base della relazione presentata il 13 novembre 2013, la Commissione europea ha stabilito che nel 2014 16 Stati su 28 (Belgio, Bulgaria, Croazia, Francia, Danimarca, Germania, Italia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Finlandia, Regno Unito, Spagna, Slovenia, Svezia e Ungheria) saranno sottoposti ad un'indagine approfondita, i cui esiti verranno pubblicati in primavera;
è evidente, dunque, che i limiti stabiliti nel 1997 non sono oggi più compatibili con la reale situazione economica dei Paesi membri e la necessità di perseguire politiche economiche che abbiano come linea guida l'interesse dei cittadini;
accanto ai vincoli posti a carico degli Stati membri, esiste un sistema di vincoli interno conosciuto come «patto di stabilità interno», concepito come concorso degli enti locali e territoriali al rispetto del Patto di stabilità e crescita a livello statale; nel corso degli anni, ciascuno dei Paesi membri dell'Unione europea ha implementato internamente il Patto di stabilità e crescita seguendo criteri e regole proprie, in accordo con la normativa interna inerente la gestione delle relazioni fiscali fra i vari livelli di governo. Dal 1999 ad oggi, l'Italia ha formulato il proprio Patto di stabilità interno esprimendo gli obiettivi programmatici per gli enti territoriali ed i corrispondenti risultati ogni anno in modi differenti, alternando principalmente diverse configurazioni di saldi finanziari a misure sulla spesa per poi tornare agli stessi saldi. Le continue ridefinizioni del Patto di stabilità interno si sono tramutate in incertezza ed impossibilità di programmazione da parte degli enti;
allo stesso tempo, le manovre di riduzione della spesa pubblica imposte allo Stato centrale sono state scaricate per larghissima parte sugli enti locali, procedendo con tagli lineari dei trasferimenti che non hanno mai tenuto conto dei comportamenti più o meno virtuosi delle singole amministrazioni, né di alcun criterio che privilegiasse la buona gestione, la qualità dei servizi resi, il numero di dipendenti o il rapporto tra spesa corrente ed investimenti in conto capitale decisi dagli enti locali e territoriali; il risultato è stato una compressione indistinta delle spese, soprattutto quelle per investimento, e la creazione di un enorme debito verso i fornitori;
accanto ad amministrazioni che si sono attenute alle regole razionalizzando i bilanci e ristrutturando le spese, altre hanno creato enormi disavanzi per i quali è stato chiesto, e spesso ottenuto, l'intervento a carico del bilancio pubblico;
in questo quadro diventa essenziale, come evidenziato anche nel corso dei lavori parlamentari, la disponibilità di strumenti di intervento diretti a supportare l'azione degli Stati membri che, versando in situazioni di particolare difficoltà sul piano economico e finanziario, dispongono di più limitati margini di intervento per porre in atto riforme volte ad accrescere la competitività e l'occupazione e a contrastare gli effetti sociali della crisi economica;
la gravità della crisi economico-finanziaria che ha investito l'Unione europea e, in particolare, molte delle economie dell'area euro, impone l'adozione di risposte adeguate che non sacrifichino sull'altare del mero rigore contabile le condizioni concrete di vita dei cittadini, legate alle possibilità di lavoro, di salute, di benessere e di fiducia;
in ogni caso, ulteriori evoluzioni della governance economica dovranno essere realizzati con modalità in grado di garantire la massima legittimità e la possibilità di controllo democratico sulle decisioni assunte e le procedure adottate a livello europeo;
si osserva che nella risoluzione approvata il 23 maggio 2013, il Parlamento europeo ha ribadito che la governance nell'Unione europea non deve violare le prerogative del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali e che la previsione di accordi bilaterali tra l'Unione europea e gli Stati membri appare suscettibile di ledere il principio dell'ordinamento giuridico unico europeo;
il Parlamento, attraverso vari atti di indirizzo e proposte emendative, ha più volte segnalato l'urgenza di intervenire finanziariamente per prevenire e contrastare tempestivamente il verificarsi di sciagure legate al rischio sismico ed idrogeologico, come anche all'incuria di molte strutture pubbliche come gli edifici scolastici, nonché di permettere soprattutto agli enti locali di potere effettuare investimenti legati all'esigenza di maggiore sicurezza per i cittadini;
questi interventi devono ritenersi prioritari rispetto a qualunque obiettivo finanziario o di bilancio, perché prevengono la perdita di vite umane;
recentissimamente, il 5 marzo 2014, il Commissario europeo per agli affari economici e monetari, Olli Rehn, ha pubblicamente invitato il nuovo Governo «ad affrontare gli squilibri che richiedono urgenti politiche e a fare le riforme per rafforzare crescita e occupazione»,
impegna il Governo:
a negoziare in sede comunitaria la possibilità di effettuare investimenti in alcuni settori chiave di immediata ed inderogabile urgenza, quali il rischio idrogeologico, la messa in sicurezza degli edifici scolastici, la crisi occupazionale, la ripresa e la crescita economiche, la sicurezza dei cittadini, anche derogando temporaneamente ed entro percentuali concordate al limite del 3 per cento nel rapporto deficit/prodotto interno lordo;
a promuovere in sede comunitaria ed intergovernativa con i partner dell'eurozona una revisione urgente dei vincoli derivanti dalla governance economica europea, anche sottoponendoli ad un confronto democratico e al voto popolare, al fine di graduare tali vincoli alla luce della necessità di attuare riforme in risposta ad una crisi economica di gravità e durata non prevista al momento della definizione delle regole attualmente in vigore;
ad attuare una revisione della declinazione interna del Patto di stabilità e crescita, cambiando radicalmente l'approccio nei confronti degli enti locali e territoriali, stabilendo una declinazione dei vincoli direttamente proporzionale al grado di virtuosità degli enti, con meccanismi premiali per le amministrazioni virtuose e imponendo vincoli inderogabili per gli enti in dissesto, collegando qualunque intervento statale per il risanamento a programmi precisi di ripianamento.
(1-00363) «Guidesi, Borghesi, Giancarlo Giorgetti, Allasia, Attaguile, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Grimoldi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini».
La Camera
impegna il Governo:
a negoziare in sede comunitaria la possibilità di effettuare investimenti in alcuni settori chiave di immediata ed inderogabile urgenza, quali il rischio idrogeologico, la messa in sicurezza degli edifici scolastici, la crisi occupazionale, la ripresa e la crescita economiche, la sicurezza dei cittadini, anche derogando temporaneamente ed entro percentuali concordate al limite del 3 per cento nel rapporto deficit/prodotto interno lordo;
a promuovere in sede comunitaria ed intergovernativa con i partner dell'eurozona una revisione urgente dei vincoli derivanti dalla governance economica europea, anche sottoponendoli ad un confronto democratico e al voto popolare, al fine di graduare tali vincoli alla luce della necessità di attuare riforme in risposta ad una crisi economica di gravità e durata non prevista al momento della definizione delle regole attualmente in vigore;
a valutare una revisione della declinazione interna del Patto di stabilità e crescita, cambiando radicalmente l'approccio nei confronti degli enti locali e territoriali, stabilendo una declinazione dei vincoli direttamente proporzionale al grado di virtuosità degli enti, con meccanismi premiali per le amministrazioni virtuose e imponendo vincoli inderogabili per gli enti in dissesto, collegando qualunque intervento statale per il risanamento a programmi precisi di ripianamento.
(1-00363)
(Testo modificato nel corso della seduta e risultante dalla votazione per parti separate) «Guidesi, Borghesi, Giancarlo Giorgetti, Allasia, Attaguile, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Grimoldi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini».
La Camera,
premesso che:
il Trattato sull'Unione europea firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, e da allora noto semplicemente come «Trattato di Maastricht», costituiva il fondamento per l'unione monetaria da realizzarsi nel 1999 e conteneva i cosiddetti parametri economici di convergenza, che ciascun Paese avrebbe dovuto rispettare per passare alla fase finale della stessa unione;
i parametri da rispettare per l'accesso all'euro erano un tasso di inflazione non più alto di 1,5 punti rispetto ai 3 Paesi con il tasso d'inflazione più basso, un deficit statale non superiore al 3 per cento del prodotto interno lordo, un debito pubblico non superiore al 60 per cento del prodotto interno lordo, la stabilità del tasso di cambio nei due anni precedenti l'ingresso nell'unione monetaria, l'applicazione di tassi d'interesse di lungo termine non superiori di oltre due punti rispetto a quello dei tre Paesi dai tassi più bassi;
nella realtà, alcuni di questi criteri non sono mai stati applicati, come quello sul debito, mentre altri hanno perso rilevanza con la creazione dell'euro, come, ad esempio, le decisioni sui tassi d'interesse, ormai sottratte alle singole politiche nazionali ed affidate alla Banca centrale europea a Francoforte;
nel 1997 i Paesi membri dell'Unione Europea hanno stipulato e sottoscritto il Patto di stabilità e crescita (psc) inerente al controllo delle rispettive politiche di bilancio pubbliche, al fine di mantenere fermi i requisiti di adesione all'unione economica e monetaria dell'Unione europea (eurozona) e, quindi, rafforzare il percorso d'integrazione monetaria intrapreso nel 1992 con la sottoscrizione del Trattato di Maastricht;
in base al il Patto di stabilità e crescita, gli Stati membri che, soddisfacendo tutti i cosiddetti parametri di Maastricht, hanno deciso di adottare l'euro, devono continuare a rispettare nel tempo quelli relativi al bilancio dello stato, ossia un deficit pubblico non superiore al 3 per cento del prodotto interno lordo (rapporto deficit/prodotto interno lordo inferiore al 3 per cento) e un debito pubblico al di sotto del 60 per cento del prodotto interno lordo, o, comunque, un debito pubblico tendente al rientro (rapporto debito/prodotto interno lordo inferiore al 60 per cento);
a tale scopo, il Patto di stabilità e crescita ha implementato la procedura di deficit eccessivo di cui all'articolo 104 del Trattato di Maastricht, la quale nello specifico consta di tre fasi: avvertimento, raccomandazione e sanzione;
in particolare, se il deficit di un Paese membro si avvicina al tetto del 3 per cento del prodotto interno lordo, la Commissione europea propone – ed il Consiglio dei ministri europei, in sede di Ecofin, approva – un avvertimento preventivo (early warning), al quale segue una raccomandazione vera e propria in caso di superamento del tetto; se, a seguito della raccomandazione, lo Stato interessato non adotta sufficienti misure correttive della propria politica di bilancio, esso viene sottoposto ad una sanzione che assume la forma di un deposito infruttifero, da convertire in ammenda dopo due anni di persistenza del deficit eccessivo; l'ammontare della sanzione presenta una componente fissa pari allo 0,2 per cento del prodotto interno lordo ed una variabile pari ad un decimo dello scostamento del disavanzo pubblico dalla soglia del 3 per cento ed è comunque previsto un tetto massimo all'entità complessiva della sanzione pari allo 0,5 per cento del prodotto interno lordo; se invece lo Stato adotta tempestivamente misure correttive, la procedura viene sospesa fino a quando il deficit non ritorna sotto il limite del 3 per cento, ma se le misure si rivelano inadeguate la procedura viene ripresa e la sanzione irrogata;
in alternativa, il superamento del valore del 3 per cento per il disavanzo pubblico può essere considerato un fatto eccezionale e, quindi, esulare dalla procedura sanzionatoria, laddove sia determinato da un evento inconsueto non soggetto al controllo dello Stato membro interessato che abbia rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione, oppure sia determinato da una grave recessione economica;
il superamento del valore di riferimento è considerato temporaneo se le previsioni di bilancio elaborate dalla Commissione europea indicano che il disavanzo diminuirà al di sotto del valore di riferimento dopo che siano cessati l'evento inconsueto o la grave recessione economica;
la procedura per i disavanzi eccessivi è solo uno dei due elementi di cui si compone il Patto di stabilità e crescita, mentre l'altro è a carattere preventivo ed impone agli Stati membri di presentare ogni anno, insieme al programma nazionale di riforma, un programma di stabilità (per i Paesi dell'area dell'euro) o di convergenza (per gli altri Paesi dell'Unione europea), nell'ambito del quale ciascuno Stato membro illustra come intenda mantenere o ristabilire una sana situazione delle proprie finanze pubbliche nel medio termine, e in relazione al quale la Commissione europea può formulare raccomandazioni (a giugno, nell'ambito del semestre europeo) ed eventualmente invitare il Consiglio a emettere un avvertimento per deficit eccessivo;
al fine di consentire il raggiungimento dei più generali obiettivi di finanza pubblica assunti dal nostro Paese in sede europea con l'adesione al Patto europeo di stabilità e crescita, ogni anno vengono adottate le regole del Patto di stabilità interno, funzionali al conseguimento degli obiettivi finanziari fissati per le regioni e gli enti locali;
la definizione delle regole del Patto di stabilità interno avviene durante la predisposizione ed approvazione della manovra di finanza pubblica, momento in cui si analizzano le previsioni sull'andamento della finanza pubblica e si decide l'entità delle misure correttive da porre in atto per l'anno successivo e la tipologia delle stesse;
dal 1999 ad oggi il Patto di stabilità interno è stato formulato esprimendo gli obiettivi programmatici per gli enti territoriali ed i corrispondenti risultati ogni anno in modi differenti, alternando principalmente diverse configurazioni di saldi finanziari a misure sulla spesa per poi tornare agli stessi saldi;
come sin qui esaminato, il mancato rispetto del limite del 3 per cento nel rapporto tra indebitamento netto della pubblica amministrazione e prodotto interno lordo può far scattare una procedura d'infrazione, trasformando un Paese in vigilato speciale e così lanciando segnali d'allarme e di instabilità ai mercati, fino a quando, in esito a severe terapie di austerity, il Paese oggetto della procedura non rientri nell'ambito dei parametri previsti dalla legislazione europea;
nel corso degli anni sono state proposte delle modifiche per rafforzare il Patto di stabilità e crescita, volte a consentire all'elemento correttivo di tenere più conto del legame tra debito e deficit, specie nei Paesi che presentano un debito pubblico elevato (superiore al 60 per cento del prodotto interno lordo), accelerare la procedura per i disavanzi eccessivi e rendere l'imposizione delle sanzioni agli Stati membri semiautomatica e definire meglio il quadro di riferimento per i bilanci nazionali, affrontando questioni contabili e statistiche, nonché di tecnica di previsione;
al contrario, soprattutto nell'ultimo decennio, da più parti si è sottolineata l'eccessiva rigidità delle regole di politica fiscale derivanti dal Patto di stabilità e crescita e la necessità di applicarlo considerando l'intero ciclo economico e non un singolo bilancio di esercizio, anche in considerazione dei rischi involutivi derivanti dalla politica degli investimenti troppo limitata che esso comporta;
inoltre, molte critiche mosse al vincolo del 3 per cento affermano che la sua rigorosa applicazione non promuoverebbe né la crescita né la stabilità e che, anzi, le procedure promosse dall'Unione europea nei confronti dei Paesi inadempienti danneggerebbero ulteriormente sistemi economici che già versano in stato di sofferenza;
peraltro, considerato che la procedura per disavanzo eccessiva richiamata dal Patto di stabilità e crescita non è obbligatoria, appare evidente come sia difficile far valere i suoi vincoli nei confronti dei «grandi» dell'Unione europea, come dimostrato anche dal fatto che il Consiglio non è riuscito ad applicare le sanzioni in esso previste contro la Francia e la Germania, malgrado ne sussistessero i presupposti;
in Italia, già nel 1998 l'economista Luigi Pasinetti, in un saggio pubblicato sul Cambridge Journal of Economics nel 1998 (un anno prima della nascita dell'euro) attaccò duramente «mito e follia del 3 per cento», contestando una soglia deficit/prodotto interno lordo «la cui validità non è mai stata dimostrata» e stigmatizzando il fatto che «nessuno è mai riuscito a dare una spiegazione plausibile sul perché quelle cifre furono scelte»;
nel primo quindicennio di vigenza del Patto di stabilità e crescita, i Paesi dell'area euro hanno registrato il tasso di crescita medio più basso tra le principali aree economiche mondiali dopo quella dell'America latina, e nello stesso periodo il deficit del bilancio pubblico è più che raddoppiato, passando dall'1,3 per cento del 1998 al 2,7 per cento del 2003;
nel 2012, dei diciassette Paesi appartenenti all'eurozona solo cinque avevano un indice deficit/prodotto interno lordo inferiore al 3 per cento, ai quali va aggiunta l'Italia, assestata esattamente su quel valore;
nell'ultimo quinquennio, da quando l'economia europea è entrata in una fase di perdurante stagnazione e recessione, i dubbi e le perplessità nei confronti delle regole del Patto di stabilità e crescita si sono rafforzati ed estesi;
sulla capacità delle politiche di austerity di rimettere in equilibrio la zona euro, lo scetticismo sembra ormai prevalente, come segnalato anche dal «monito degli economisti», pubblicato sul Financial Times nel settembre 2013, nel quale esponenti delle più diverse scuole di pensiero economiche concordano nel ritenere che le attuali politiche di rigore stiano in realtà pregiudicando la sopravvivenza dell'Unione europea;
persino il Fondo monetario internazionale ha espresso perplessità in merito alla pretesa di riequilibrare l'eurozona, puntando tutto su pesanti dosi di austerity a carico dei Paesi debitori;
sia nel caso della Grecia sia in quello del Portogallo, infatti, il Fondo monetario internazionale ha ammesso i limiti delle politiche di austerity confessando – nel caso greco – di aver sottostimato i danni all'economia greca causati dalle rigidità imposte nel piano di aiuti, mentre, con riferimento al caso portoghese, nel settembre del 2013 è stato pubblicato un rapporto interno del Fondo monetario internazionale nel quale si legge non solo che l’austerity deve avere un «limite di velocità», ma anche che alcune delle politiche imposte hanno presentato rischi di «autodistruzione» per l'economia locale;
volendosi allontanare dalla dimensione solo teorica del dibattito, non va dimenticato che negli Stati Uniti, nel pieno della recessione del 2009, il neopresidente Barack Obama ha intrapreso una politica di investimenti pubblici che, dopo aver inizialmente portato il rapporto deficit/prodotto interno lordo a sfiorare il 12 per cento, ha determinato una spettacolare ripresa del prodotto interno lordo di oltre il tre per cento;
nel nostro Paese, pur avendo il dogma del 3 per cento avuto tanti sostenitori in buona fede – perché applicare la disciplina dell’austerity sembra un vincolo esterno salvifico per impedire all'Italia di praticare vizi nazionali distruttivi quali spese pubbliche parassitarie, clientelari, fonti di sprechi e corruzione – appare sempre più evidente il fatto che esso impedisce un risanamento che passi attraverso una politica di investimenti e possa, quindi, determinare una ripresa dell'economia,
impegna il Governo:
a valutare l'opportunità di un temporaneo scostamento dalla soglia massima nel rapporto deficit/prodotto interno lordo prevista dal Patto di stabilità e crescita, al fine di realizzare una consistente riduzione della pressione fiscale sul lavoro che possa restituire potere d'acquisto alle famiglie e rilanciare la crescita, nonché con riferimento alla realizzazione di infrastrutture strategiche, a misure per l'innovazione tecnologica e all'azzeramento del digital divide, alle politiche di sostegno al reddito, alle politiche di sostegno alla famiglia, alle misure volte a ridurre la pressione fiscale a carico delle imprese e di tutte le realtà produttive, alle misure in materia di protezione civile, per la messa in sicurezza dei territori e la prevenzione dei rischi idrogeologici, alla gestione dei flussi migratori, all'edilizia scolastica ed all'edilizia carceraria, al rilancio della competitività del tessuto produttivo nazionale, attraverso politiche di sostegno alle industrie e alle imprese e alle misure in favore della ricerca e dello sviluppo tecnologico;
ad adottare le iniziative necessarie affinché il Patto di stabilità interno preveda adeguati meccanismi premiali in favore degli enti locali e delle regioni che si siano dimostrate virtuose;
a promuovere nelle competenti sedi a livello europeo un confronto sulle regole del Patto di stabilità e crescita, che ne permetta un'eventuale revisione nell'ottica di fornire risposte più efficaci, sotto il profilo delle politiche economiche e fiscali, alla perdurante situazione di crisi e stagnazione che affligge parte delle economie dell'eurozona, al fine di consentire l'applicazione di misure che favoriscano un reale rilancio di tali economie.
(1-00372) «Giorgia Meloni, Maietta, Taglialatela, Totaro».
La Camera,
premesso che:
la crisi economica e finanziaria, registrata a partire dal 2009, ha spinto l'Unione europea verso un'ampia revisione della propria governance che ha rafforzato gli strumenti e le procedure per una più rigorosa politica di bilancio, promosso la solidità finanziaria dell'area europea, ma trascurato le politiche per lo sviluppo e il lavoro;
se le condizioni finanziarie nell'area dell'euro sono oggi molto meno tese rispetto alla fine del 2011, nell'eurozona e in Italia una ripresa in grado di riassorbire la disoccupazione non è in vista e il raggiungimento di un equilibrio stabile è ancora lontano, poiché continua a mancare un meccanismo di riduzione delle divergenze nelle strutture economiche dei Paesi dell'area euro, in assenza del quale non sarà possibile dare definitiva soluzione neanche ai problemi dei debiti sovrani;
approvando con una larga maggioranza il rapporto Gualtieri-Trzaskowski sui problemi costituzionali della governance multilivello nell'Unione europea, il Parlamento europeo è entrato con forza nel dibattito sul futuro delle istituzioni europee e del governo dell'euro: il rapporto, infatti, sottolinea la necessità di avviare da subito le riforme possibili sulla base degli attuali trattati e dell'utilizzo dei numerosi strumenti di flessibilità presenti al loro interno, a partire dalla costituzione di una «capacità fiscale» aggiuntiva per l'eurozona da collocare all'interno del bilancio dell'Unione europea;
se va vista con favore la cosiddetta investment clause (sancita dal Consiglio europeo su proposta italiana), sulla base della quale può essere consentito ai Paesi non sottoposti a una procedura per disavanzo eccessivo, ovvero a un programma di aiuti, di versare la quota di cofinanziamento nazionale dei fondi strutturali dell'Unione europea, in deroga all'obiettivo di pareggio del bilancio, continua ad essere assente una vera e propria golden rule estesa all'insieme degli investimenti che possano esercitare un impatto positivo sulla crescita territoriale e sulla riduzione della disoccupazione;
lo sforzo per correggere l'andamento dei conti pubblici è stato imponente negli ultimi due anni, con un aggiustamento fiscale di circa 3 punti percentuali in termini strutturali grazie al quale la soglia del 3 per cento non è stata superata;
l'uscita dalla procedura per disavanzi eccessivi dell'Unione europea è uno dei risultati visibili di quest'azione. Il calo dello spread sotto i 200 punti base testimonia come gli sforzi del Paese siano stati importanti e riconosciuti;
è necessario cogliere il risultato dal significativo sforzo di consolidamento fiscale che ha interessato la gran parte dei Paesi europei tra cui l'Italia: ora che i conti pubblici presentano margini di sostenibilità ben più ampi rispetto alla situazione pre-crisi, occorre porre il tema centrale della crescita e del sostegno all'occupazione al centro del dibattito politico in sede europea, anche in vista delle prossime elezioni e del pericolo che si affermino formazioni anti-euro;
questo significa che non può essere messo in discussione l'impegno al rispetto del tetto del -3 per cento dell'indebitamento netto, ma solamente che, qualora necessario ai fini del sostegno alla crescita, sarebbe eventualmente possibile peggiorare l'obiettivo di indebitamento netto dal -2,6 per cento, fermo restando il suo contenimento entro i limiti previsti dal Patto di stabilità e crescita;
la Commissione europea ha pubblicato il 5 marzo 2014 le conclusioni scaturite dagli esami approfonditi relativi alle economie di 17 Stati membri, secondo le quali «la Germania dovrebbe orientare le priorità strategiche verso il rafforzamento della domanda interna e della crescita a medio termine, mentre la Francia e l'Italia dovrebbero affrontare gli ostacoli alla crescita a medio termine pur dedicandosi alle riforme strutturali e al risanamento di bilancio»;
il programma di riforme annunciato dal Presidente del Consiglio dei ministri è in linea con le indicazioni emerse dall'analisi della Commissione europea e consentirebbe di rilanciare la domanda interna e, per questa via, il tasso di crescita e, quindi, anche gli obiettivi di finanza pubblica, poiché l'andamento dell'economia ha effetti sul rispetto dei parametri di finanza pubblica, i cui risultati derivano prevalentemente dal denominatore del rapporto, cioè dalla crescita modesta degli anni precedenti la crisi e poi dalla profonda recessione;
occorre, altresì, completare alcuni aspetti dell'unione economica e monetaria rimasti sinora singolarmente ai margini del dibattito istituzionale, quali la mutualizzazione del debito sovrano degli Stati dell'area euro e l'emissione di titoli europei per finanziare grandi progetti in grado di rilanciare stabilmente l'economia europea,
impegna il Governo:
a promuovere in ambito europeo il contemperamento, in sede di applicazione delle regole vigenti o prospettando appropriate modifiche normative, tra la stabilità delle finanze pubbliche e l'adozione di misure per il rilancio della crescita e dell'occupazione, soprattutto giovanile, e per il contrasto della povertà e della discriminazione sociale;
a sostenere il proseguimento della tabella di marcia per un'autentica unione economica e monetaria, con particolare riferimento all'introduzione di meccanismi per la mutualizzazione del debito sovrano dei Paesi dell'area euro, anche delle forme, proposte in diverse sedi, in base alle quali ciascun Paese deve farsi carico del pagamento della propria quota di interessi, alla creazione di un'autonoma capacità fiscale dell'eurozona e all'emissione in comune di titoli per finanziare grandi progetti in grado di rilanciare stabilmente l'economia europea;
a promuovere l'estensione della golden rule in modo da permettere lo scomputo di alcune voci di spesa per investimenti che possano esercitare un impatto a breve positivo sulla crescita territoriale e sulla riduzione della disoccupazione dai parametri finanziari rilevanti nel processo europeo di coordinamento dei bilanci pubblici nazionali;
a favorire l'introduzione di meccanismi asimmetrici e anticiclici incardinati nel bilancio europeo per il finanziamento dei sussidi alla disoccupazione e per il sostegno dell'occupazione, in particolare giovanile, e per il finanziamento di infrastrutture di rilevanza europea;
a farsi promotore di una politica economica della zona euro che possa assicurare un aggiustamento più equilibrato tra i Paesi in deficit e i Paesi in surplus.
(1-00386) «Marchi, Causi, Boccia, Bonavitacola, Paola Bragantini, Capodicasa, Censore, De Micheli, Fanucci, Fassina, Cinzia Maria Fontana, Giampaolo Galli, Giulietti, Guerra, Laforgia, Losacco, Marchetti, Melilli, Misiani, Parrini, Preziosi, Rubinato, Fabbri».
MOZIONI BRUNETTA ED ALTRI N. 1-00290, ROBERTA AGOSTINI ED ALTRI N. 1-00273, VEZZALI ED ALTRI N. 1-00319, PRATAVIERA ED ALTRI N. 1-00379, DORINA BIANCHI ED ALTRI N. 1-00381, SANTERINI ED ALTRI N. 1-00393 E ROBERTA AGOSTINI, CENTEMERO, SCOPELLITI, VEZZALI, SANTERINI, MATTEO BRAGANTINI, PELLEGRINO, LOCATELLI ED ALTRI N. 1-00409 CONCERNENTI INIZIATIVE PER PROMUOVERE LA PARITÀ DI GENERE NEL SETTORE DELLO SPORT
Mozioni
La Camera,
premesso che:
la Carta europea dello sport del Consiglio d'Europa recita: «Per sport si intende qualsiasi forma di attività fisica che, attraverso una partecipazione organizzata o meno, abbia per obiettivo l'espressione e il miglioramento della condizione fisica e mentale, con la promozione della socializzazione e con il perseguimento di risultati in competizioni a tutti i livelli»;
la pratica sportiva, dunque, coinvolge dimensioni diverse dell'esistenza individuale e collettiva: tempo libero, modelli di comportamento e aspetti economici, interessando tutti i cittadini indipendentemente da genere, razza, età, disabilità, religione e convinzioni personali, orientamento sessuale e provenienza sociale o economica. Come detto da Pierre de Coubertin, padre dei giochi olimpici moderni, lo sport «è parte del patrimonio di ogni uomo e di ogni donna e la sua assenza non potrà mai essere compensata»;
i numerosi benefici dell'attività fisica e dell'esercizio fisico nel corso della vita sono ben documentati e, più in generale, contribuiscono alla qualità della vita, come confermato dall'Organizzazione mondiale della sanità. I ricercatori confermano il ruolo che lo sport e l'attività fisica hanno nello sviluppo dei bambini e degli adolescenti e rilevano che la partecipazione a un'attività fisica e sportiva nell'adolescenza è positivamente associata a livelli di attività fisica in età adulta;
sono, inoltre, sempre più numerose le prove che attestano la positiva correlazione tra esercizio fisico e salute mentale, sviluppo mentale e processi cognitivi. Nell'Unione europea, i livelli di attività fisica sono in correlazione positiva con la speranza di vita, il che significa che in quei Paesi, dove i livelli di attività fisica sono più elevati, l'aspettativa di vita tende a essere più lunga;
secondo l'Eurobarometro speciale sullo sport e l'attività fisica (2010), il 34 per cento degli uomini e il 43 per cento delle donne in Europa non praticano attività fisiche ricreative. Esistono delle enormi differenze circa la partecipazione allo sport e all'esercizio fisico tra i vari Paesi europei, che dipendono, tra le altre cose, dalla cultura e dalle opportunità. Nei Paesi scandinavi, dove sia gli Stati che gli individui stessi sostengono uno stile di vita attivo, la percentuale della popolazione attiva è molto alta, mentre la maggioranza della popolazione nei Paesi dell'Europa meridionale preferisce una vita sedentaria;
già nel 1996 tutti i Ministri dello sport europei siglarono un accordo in cui manifestarono con forza a favore dello «sport per tutti», ponendosi l'obiettivo di offrire le stesse opportunità di pratica sportiva a tutti i cittadini;
nella «Dichiarazione di Nizza», sottoscritta dai Governi dell'Unione europea nel dicembre 2000, ad esempio, si definisce lo sport come un «nuovo diritto di cittadinanza» mettendone in luce le sue caratteristiche transnazionali, che vanno oltre le pur forti radici nelle tradizioni e nelle culture delle popolazioni;
in un'eccellente ricerca sulle federazioni sportive in provincia di Torino, pubblicata nel 2003, veniva riportato che, a livello europeo, da più parti, iniziava a diffondersi e a consolidarsi una concezione di sport come «diritto a stare bene»;
nel 2011 la Commissione europea ha adottato una strategia per sviluppare la dimensione europea dello sport. Lo sport aiuta a superare le barriere sociali e a mettere in contatto persone di qualsiasi estrazione. L'Unione europea, in particolare, incoraggiò i 28 Stati membri a proporre iniziative che avrebbero ricorso allo sport per migliorare l'inclusione sociale;
più recentemente, la relazione del novembre 2011 della Commissione europea sulla dimensione europea dello sport ricorda che lo sport contribuisce alla realizzazione degli obiettivi strategici dell'Unione europea, poiché pone in rilievo valori pedagogici e culturali fondamentali e costituisce un vettore di integrazione, nella misura in cui si rivolge a tutti i cittadini, senza alcuna distinzione;
nonostante il sempre più crescente valore riconosciuto alle pratiche sportive, risulta, infatti, ancora persistente una forte segregazione verticale delle donne nello sport, specie all'interno delle organizzazioni sportive dove latitano in maniera preoccupante le donne che occupano posizioni direttive, e sono spesso tutti di genere maschile i dirigenti di federazioni in cui, pur in proporzioni ridotte, sono presenti anche donne praticanti;
anche le fasce tecniche (arbitri e allenatori), guardate con attenzione nella composizione di genere, si rivelano ambiti dove le donne sono presenti in modo frastagliato ed in misura minore di quanto ci si potrebbe aspettare, sulla base della semplice composizione della platea di praticanti;
dietro la tradizionale separazione tra uomini e donne nella pratica dello sport riappare, inoltre, in maniera prepotente lo spettro della «diversa retribuzione a parità di lavoro» che, almeno formalmente ed esplicitamente, in molti ambiti di lavoro non è praticabile e che, invece, divide drasticamente e «per scritto» il destino di due atleti, differenti solo nel genere;
come è stato più volte denunciato, inoltre, la gran parte degli atleti svolge attività lavorativa in forma, si potrebbe dire, «atipica», senza la copertura dei contratti collettivi e comunque fuori dalle normali tutele del lavoro dipendente. Questa atipicità diviene drammatica quando a farne le spese sono le donne, che troppo spesso sottoscrivono con i club contratti di natura privata che non ne tutelano condizioni ed aspettative, essendo, peraltro, assente nelle società sportive femminili la soglia di passaggio dall'attività professionale alla professionistica. Sull'argomento, peraltro, non esistono informazioni chiare ed è per questo che si avverte sempre di più la necessità di maggiore attenzione in materia, specialmente da parte delle istituzioni interessate;
per cercare di dare risalto alla situazione descritta, comune a molti Paesi europei, presso l'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere con sede a Vilnius, si è svolto i primi di dicembre 2013 un incontro promosso in collaborazione con la Commissione europea per fare il punto sulla condizione delle donne nei Paesi dell'Unione europea;
l'obiettivo dell'appuntamento di Vilnius è stato quello di dare risalto alla Carta europea dei diritti delle donne nello sport, una proposta relativa a una strategia specifica sulla parità di genere e lo sport per il 2015-2020, avviata grazie al lavoro del dipartimento internazionale ed al progetto europeo Olympia, con il quale si è avuta la possibilità di rivedere e ridisegnare la Carta europea dello sport, partendo dalle esperienze di attività, dall'analisi della pratica sportiva delle donne in Europa e dal confronto tra diversi soggetti associativi ed istituzionali;
come ricordato dai maggiori gruppi dell'associazionismo sportivo, la Carta europea dei diritti delle donne nello sport dà un fondamentale apporto alla diffusione delle buone pratiche nello sport e alla promozione delle pari opportunità nei diversi ambiti che interessano lo sport, come la pratica sportiva, la formazione e ricerca, l'informazione e comunicazione, la leadership. La Carta europea dei diritti delle donne nello sport ha, inoltre, il pregio ulteriore di muovere i suoi passi dall'esperienza diretta di un gruppo di esperti di organizzazioni sportive governative e non governative,
impegna il Governo:
a porre in essere tutte le possibili iniziative volte ad incoraggiare una reale parità di genere nei board dirigenziali degli organismi federali delle varie discipline sportive;
a porre in essere tutte le opportune iniziative, anche normative, per ridurre il gender pay gap tra atleti di sesso diverso e per implementare ogni forma di tutela possibile ai fini di una paritaria contrattualizzazione, senza discriminazioni legate al genere, anche incentivando il riconoscimento nelle competenti sedi del professionismo sportivo delle donne;
ad attivarsi in tutte le sedi istituzionali europee affinché sia dato adeguato seguito alla Carta europea dei diritti delle donne nello sport presentata il 25 maggio 2011.
(1-00290) «Brunetta, Centemero, Carfagna, Bergamini, Calabria, Castiello, Faenzi, Gelmini, Giammanco, Milanato, Petrenga, Polidori, Polverini, Prestigiacomo, Sandra Savino, Elvira Savino, Abrignani, Palese».
La Camera,
premesso che:
lo sport ricopre un ruolo sociale fondamentale, riconosciuto anche dal Libro bianco sullo sport dell'11 luglio 2007 (COM(2007)391), presentato dalla Commissione europea al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato delle regioni e al Comitato economico e sociale europeo, che ha messo al centro il tema dell'inclusione, della sostenibilità e delle pari opportunità per lo sport per tutti;
il trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1o dicembre 2009, ha riconosciuto lo sport come un settore di competenza dell'Unione europea in cui essa può sostenere, coordinare e integrare le attività dei suoi Stati membri. Promuovendo una crescita sostenibile, intelligente e inclusiva, nonché la creazione di posti di lavoro, lo sport contribuisce anche al conseguimento degli obiettivi della strategia Europa 2020. Esso ha, inoltre, effetti positivi sull'inclusione sociale, l'istruzione e la formazione, nonché sulla salute pubblica e l'invecchiamento attivo;
lo sport nei Paesi europei è cambiato ed è cambiata la domanda di pratica sportiva da parte delle donne;
nel 1985, l'Unione italiana sport per tutti (Uisp), associazione di sport che ha l'obiettivo di estendere il diritto allo sport a tutti i cittadini, in quanto lo sport per tutti è un bene che interessa la salute, la qualità della vita, l'educazione e la socialità e per questo deve essere meritevole di riconoscimento e di tutela pubblica, ha presentato la Carta europea dei diritti delle donne nello sport, per promuovere le pari opportunità tra uomini e donne nella pratica sportiva;
nel 1987, il Parlamento di Strasburgo ha fatto propria la Carta europea dei diritti delle donne nello sport per invitare i Paesi europei a mettere in atto azioni per la promozione dello sport tra le donne e, nel contempo, diversi comuni e province hanno approvato una propria Carta europea dei diritti delle donne nello sport, per cercare di mettere in pratica azioni concrete per le pari opportunità;
la Carta europea dei diritti delle donne nello sport ha avuto uno sviluppo e una rivisitazione, grazie al lavoro dell'Unione italiana sport per tutti e di altre associazione europee, per evidenziare la trasformazione, i cambiamenti della domanda di sport e per includere le esigenze di un'Europa allargata ad altri Paesi e culture;
la nuova proposta di Carta europea dei diritti delle donne nello sport elaborata dall'Unione italiana sport per tutti, in collaborazione con altri partner europei nell'ambito del progetto «Olympia – Equal opportunities via and within sport» è indirizzata da tutti gli operatori sportivi, alle associazioni ed organizzazioni sportive, alle istituzioni, ai Paesi dell'Unione europea, tifoserie e media, ed è stata presentata al Parlamento europeo il 25 maggio 2011;
a tutt'oggi, la nuova Carta europea dei diritti delle donne nello sport non è stata ancora approvata dal Parlamento europeo, nonostante l'interesse e l'impegno di diverse parlamentari italiane e non solo;
a distanza di quasi 30 anni dalla presentazione della prima Carta europea dei diritti delle donne nello sport, nonostante i progressi e l'incremento della partecipazione delle donne nella pratica sportiva e motoria, permangono delle differenze in termini di pari opportunità, sia per quanto riguarda il coinvolgimento delle donne in ambito dirigenziale, di leadership nelle società sportive, nelle federazioni, nelle associazioni, sia per quanto riguarda la persistenza di stereotipi di genere nella pratica sportiva;
i più recenti dati Istat disponibili (indagine multiscopo 2011, utilizzata da Tangos: «Tavolo nazionale per la governance nello sport») evidenziano che rispetto agli anni Novanta la quota di praticanti è cresciuta tra le donne, ma che l'aumento della pratica femminile è sostanzialmente dovuto alle bambine di 6-10 anni, alle donne tra i 45 e i 54 anni e a quelle nella fascia tra i 60 e i 64 anni. Prendendo i dati dei praticanti in modo continuativo nella fascia di età tra i 20 e i 44 anni, le sportive sono intorno al 20 per cento contro l'oltre 30 per cento dei coetanei maschi. Il divario massimo di circa il 24 per cento è nella fascia tra i 20 ed i 24 anni;
la stessa indagine evidenzia che i sedentari, cioè coloro che non svolgono alcuna attività sportiva ma nemmeno una qualche attività fisica nel tempo libero, sono il 39,8 per cento tra gli uomini e ben il 44,4 per cento tra le donne;
utilizzando un'altra fonte, i dati dell'Eurobarometro speciale sullo sport e l'attività fisica (2010), è interessante osservare come le donne italiane (dai 15 ai 54 anni) citino la «mancanza di tempo» quale causa della mancata pratica sportiva in misura maggiore rispetto alla media europea;
la Carta europea dei diritti delle donne nello sport riconosce: il diritto delle donne e degli uomini ad avere le stesse opportunità di praticare sport in tutte le età e condizioni, senza distinzioni di provenienza sociale e culturale, in ambienti sani e che rispettino la dignità umana; il diritto di donne e di uomini ad avere pari opportunità nella partecipazione ai processi dirigenziali a tutti i livelli delle associazioni e federazioni e ad essere rappresentati in maniera equa nei diversi organismi dirigenziali e in tutti i ruoli decisionali e di potere del mondo dello sport; il diritto di donne e uomini a praticare diversi sport a qualsiasi età e sviluppare competenze nell'ambito dello studio dello sport e della pratica motoria, affinché, senza distinzione di genere, sia possibile ad entrambi sviluppare il proprio impegno sportivo durante tutto l'arco della vita; il diritto di donne e uomini ad un pari trattamento a tutti i livelli e in ogni campo delle scienze sportive affinché possano diventare membri delle comunità scientifiche e influenzare teorie, metodi e sistemi di ricerca anche nel mondo dello sport; il dovere degli insegnanti di educazione fisica, degli educatori sportivi, degli allenatori e delle altre figure educative che lavorano nelle diverse sedi e agenzie formative di combattere le discriminazioni di genere nello sport e di adottare ed implementare i principi dell'uguaglianza di genere e di valorizzazione delle differenze. Donne e uomini, nell'esprimere la propria attitudine sportiva ai massimi livelli, devono avere le stesse opportunità, anche attraverso un'equa distribuzione delle risorse, degli investimenti e degli incentivi economici destinati alla promozione dello sport di alto livello; donne e uomini devono, inoltre, avere le stesse opportunità nel manifestare ed esprimere la propria passione sportiva di tifose e tifosi e partecipare alla vita associativa dei gruppi organizzati di tifoserie. Il tifo femminile deve essere rispettato e le donne devono avere l'opportunità di ricoprire ruoli di responsabilità nei gruppi e non essere considerate semplicemente spettatrici, anche attraverso una rappresentazione da parte dei media rispettosa delle differenze e che attribuisca ai risultati delle atlete una visibilità equa rispetto a quelli conseguiti dai colleghi maschi;
nel mese di dicembre 2013 si è svolto a Vilnius un appuntamento europeo promosso dalla Commissione europea per fare il punto sull'attività sportiva delle donne nei Paesi dell'Unione europea. Obiettivo della conferenza era discutere una proposta relativa a una strategia specifica sulla parità di genere e lo sport per il 2015-2020 da prepararsi a cura di un gruppo di esperti delle organizzazioni sportive governative e non governative. La conferenza è concentrata su temi quali la parità di genere nelle posizioni di responsabilità, le modalità per promuovere la partecipazione delle ragazze e delle donne allo sport, la prevenzione della violenza e delle molestie sessuali nello sport nonché l'eliminazione degli stereotipi di genere a valenza negativa,
impegna il Governo:
ad attivarsi in tutte le sedi istituzionali europee affinché la nuova Carta europea delle donne nello sport presentata il 25 maggio 2011 sia al più presto approvata;
a recepire nell'ordinamento italiano la Carta europea delle donne nello sport approvata nell'ambito del progetto «Olympia» e presentata al Parlamento europeo il 25 maggio 2011, predisponendo tutte quelle iniziative economiche e normative necessarie affinché vi sia un'effettiva promozione delle pari opportunità nella pratica sportiva, nella fruizione paritaria degli impianti sportivi, nella ricerca di strumenti utili a promuovere la partecipazione femminile alle varie discipline sportive e ai processi decisionali, attraverso l'inclusione delle donne nelle posizioni di dirigenza degli organismi federali delle varie discipline sportive.
(1-00273) «Roberta Agostini, Beni, Centemero, Coccia, Coscia, Fossati, Fragomeli, Molea, Nicchi, Vezzali, Fabbri, Malisani».
La Camera,
premesso che:
la Carta europea dei diritti delle donne nello sport è stata proposta per la prima volta dalla l'Unione italiana sport per tutti (Uisp) nel 1985 e trasformata nella risoluzione delle donne nello sport nel 1987 dal Parlamento europeo;
la Carta europea dei diritti delle donne nello sport rappresenta il primo tentativo per il riconoscimento e la rivendicazione delle pari opportunità di uomini e donne nello sport in ambito europeo;
la Carta europea dei diritti delle donne nello sport del 1985 evidenziava una grave disparità numerica tra uomini e donne impiegate in questo settore e sottolineava la necessità di rimuovere le enormi barriere culturali che impedivano il reale coinvolgimento delle donne nello sport;
a distanza di quasi 30 anni, nonostante i progressi e l'incremento della partecipazione femminile al mondo dello sport, permangono delle differenze in termini di pari opportunità: sia per quanto riguarda il coinvolgimento delle donne in ruoli e posizioni di vertice e leadership all'interno di enti, federazioni e società sportive, sia per la persistenza di stereotipi di genere nella stessa pratica sportiva;
la Carta europea dei diritti delle donne nello sport è articolata in capitoli tematici: la pratica dello sport; la leadership; il mondo dell'educazione; la ricerca e le comunità scientifiche; donne, sport e media; spettatori e tifosi;
l'Unione italiana sport per tutti ha messo a punto una nuova Carta europea dei diritti delle donne nello sport, dove il documento del 1985 è stato rivisitato e aggiornato con una particolare attenzione al superamento di tutte le forme di discriminazioni culturali, religiose e relative all'orientamento sessuale e al tema della multiculturalità e della disabilità;
nella risoluzione approvata dal Parlamento europeo il 2 febbraio 2012 sulla dimensione europea dello sport si invita la Commissione europea e gli Stati membri a sostenere gli organismi europei per la promozione e l'attuazione delle raccomandazioni della Carta europea dei diritti delle donne nello sport;
una nuova risoluzione, approvata dal Parlamento europeo il 12 marzo 2013, individua inoltre nell'attività motoria e sportiva un'importante risorsa per la promozione della salute, nonché il superamento degli stereotipi di genere;
ognuno ha il diritto di praticate sport in ambienti sani che garantiscano la dignità umana. Donne e uomini di età differenti e di diverse provenienze sociali e culturali devono avere le stesse opportunità di praticare sport;
le donne devono avere le stesse opportunità degli uomini di partecipare ai processi decisionali a tutti i livelli e nell'intero sistema sportivo e devono essere rappresentate con la pari eguaglianza nei diversi organismi dirigenziali e in tutte le posizioni di potere;
le donne devono avere le stesse possibilità degli uomini di diventare membri delle comunità scientifiche e influenzare teorie, metodi e sistemi di ricerca, nonché avere un uguale trattamento a tutti i livelli e in ogni campo delle scienze sportive;
l'Italia deve avvertire la stessa necessità dell'Europa di votare un atto di indirizzo al fine di superare le barriere culturali e gli stereotipi che ancora dominano il mondo dello sport e i preconcetti oggi ancora esistenti nei confronti del giornalismo sportivo femminile,
impegna il Governo:
a valorizzare la pratica dello sport da parte delle donne;
ad adottare ogni iniziativa di competenza finalizzata a favorire un'equilibrata rappresentanza di genere in seno agli organismi dirigenziali e decisionali delle organizzazioni sportive;
a coordinare, insieme agli Stati membri, una campagna per la promozione e l'adozione della Carta europea dei diritti delle donne nello sport;
a promuovere iniziative al fine di incoraggiare maggiormente la partecipazione delle donne alla pratica sportiva, garantendo la parità di accesso alle attività sportive, in particolare per le ragazze e le donne, inclusi i gruppi svantaggiati;
a promuovere iniziative per far sì che alle donne sia garantito lo stesso trattamento economico degli uomini, sia negli organismi dirigenziali e decisionali di enti e organizzazioni sportive, sia nelle discipline sportive praticate.
(1-00319) «Vezzali, Balduzzi, D'Agostino, Galgano, Matarrese, Mazziotti Di Celso, Monchiero, Oliaro, Sottanelli, Vargiu, Vecchio, Adornato, Binetti, Bonaccorsi, Bossa, Buttiglione, Carocci, Carrescia, Coppola, Costantino, Coccia, D'Ottavio, Cinzia Maria Fontana, Lodolini, Moscatt, Narduolo, Pastorino, Porta, Quintarelli, Raciti, Rampi, Rocchi, Rossi, Sanga, Francesco Sanna, Giovanna Sanna, Santerini, Sbrollini, Molea, Malisani».
La Camera,
premesso che:
nel 1985 l'Unione italiana sport per tutti (Uisp), in collaborazione con altri partner internazionali nell'ambito del progetto «Olympia – Equal opportunities via and within sport», ha elaborato «La Carta europea dei diritti delle donne nello sport», trasformata in Risoluzione delle donne nello sport nel 1987 dal Parlamento Europeo, evidenziando una grave disparità numerica tra uomini e donne impiegate in questo settore;
la Carta europea dei diritti delle donne nello sport aveva lo scopo di incentivare campagne a favore delle pari opportunità fra uomini e donne nello sport e di rimuovere le barriere culturali che impediscono il reale coinvolgimento delle donne;
a distanza di quasi 30 anni, nonostante i progressi e l'incremento della partecipazione femminile al mondo dello sport, permangono delle differenze in termini di pari opportunità: sia per quanto riguarda il coinvolgimento delle donne in ruoli e posizioni di vertice e leadership all'interno di enti, federazioni e società sportive, sia per la persistenza di stereotipi di genere nella stessa pratica sportiva;
sotto il profilo della pratica sportiva, la Carta europea dei diritti delle donne nello sport specifica che «donne e uomini devono avere lo stesso diritto di praticare diversi sport e di sviluppare competenze nell'ambito di studio dello sport», sottolineando che «entrambi i sessi devono essere in grado di sviluppare il proprio impegno sportivo nell'arco della vita»;
sotto il profilo della leadership, donne e uomini devono avere le stesse opportunità di partecipare ai diversi livelli decisionale nell'intero sistema sportivo; devono essere rappresentati in maniera equa nei diversi organismi dirigenziali e in tutti i posti di potere;
nel gennaio 2011, la Commissione europea ha presentato la comunicazione «Sviluppare la dimensione europea dello sport», in cui individua azioni ed iniziative per la valorizzazione del ruolo dello sport nell'ambito delle singole politiche dell'Unione europea ed evidenzia i temi prioritari dell'agenda dell'Unione europea per lo sport: la promozione dell'attività fisica a vantaggio della salute; la lotta al doping; l'istruzione e la formazione; il volontariato e le organizzazioni sportive senza scopo di lucro; l'inclusione sociale nello sport e attraverso lo sport, compreso lo sport per i disabili e la parità dei sessi nello sport; il finanziamento sostenibile dello sport di base e la buona governance;
il 2 febbraio 2012 il Parlamento europeo ha approvato la risoluzione sulla comunicazione della Commissione europea «Sviluppare la dimensione europea dello sport», in cui richiama espressamente la Carta europea dei diritti delle donne nello sport facendo proprie alcune delle indicazioni in essa contenute e dando ampio spazio, nella parte relativa al ruolo sociale dello sport, al tema delle donne e delle pari opportunità sotto il profilo di genere nello sport;
nella risoluzione approvata dal Parlamento europeo il 2 febbraio 2012 sulla dimensione europea dello sport si invita la Commissione europea e gli Stati membri a sostenere gli organismi europei per la promozione e l'attuazione delle raccomandazioni della Carta europea dei diritti delle donne nello sport;
una nuova risoluzione, approvata dal Parlamento europeo il 12 marzo 2013, individua, inoltre, nell'attività motoria e sportiva un'importante risorsa per la promozione della salute, nonché il superamento degli stereotipi di genere,
impegna il Governo:
a farsi promotore, nelle competenti sedi europee, di una campagna per la promozione e l'adozione della Carta europea dei diritti delle donne nello sport;
a mettere in atto ogni iniziativa idonea a valorizzare ed incoraggiare la pratica dello sport da parte delle donne, garantendo la parità di accesso alle attività sportive;
a creare, con gli appositi strumenti, le condizioni affinché, all'interno degli organismi dirigenziali e decisionali delle federazioni sportive, sia favorita un'equa presenza delle donne e un trattamento economico, a parità di incarico, uguale a quello degli uomini;
a porre in essere tutte le opportune iniziative, anche normative, per ridurre la disparità di trattamento economico tra atleti di sesso diverso e per implementare ogni forma di tutela possibile ai fini di una paritaria contrattualizzazione senza discriminazioni legate al genere.
(1-00379) «Prataviera, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Rondini».
La Camera,
premesso che:
le riflessioni ed i confronti sull'assetto e sullo sviluppo dell'Unione europea si concentrano, soprattutto, su questioni di alto spessore economico-sociale che riguardano il presente ed il futuro dei suoi Paesi membri;
un elemento che, però, riveste un'importanza sempre crescente nel tessuto economico-sociale e negli stessi rapporti tra i popoli europei è lo sport;
l'attività sportiva ha, infatti, da sempre rappresentato un momento di aggregazione ed integrazione tra classi sociali distinte e diverse, popoli culturalmente e geograficamente lontani tra loro e continua, ancora oggi, a svolgere questa funzione;
è per questo motivo che, nel dicembre 2000, la dichiarazione del Consiglio europeo ha sancito proprio come caratteristica peculiare dello sport la naturale propensione all'inclusione sociale e, di conseguenza, a favorire un maggiore ed inarrestabile avvicinamento tra i popoli;
è da ricordare, a tal proposito, come l'11 luglio 2007 la Commissione europea abbia presentato il Libro bianco sullo sport al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato delle regioni e al Comitato economico e sociale europeo, con lo scopo di sottolineare il valore dell'attività sportiva e la sua funzione educatrice;
il Libro bianco sullo sport recita testualmente: «Lo sport è una sfera dell'attività umana che interessa in modo particolare i cittadini dell'Unione europea e ha un potenziale enorme di riunire e di raggiungere tutti, indipendentemente dall'età o dall'origine sociale»;
il Libro bianco sullo sport invita, quindi, gli Stati membri a considerare il ruolo dello sport come mezzo per favorire l'inclusione, l'integrazione e le pari opportunità tra uomini e donne, nel contesto della programmazione del Fondo sociale europeo e del Fondo europeo di sviluppo regionale, continuando a promuovere tali azioni nel quadro del Fondo europeo per l'integrazione;
il Libro bianco sullo sport, dunque, spinge gli Stati membri ad operare una vera e propria rivoluzione all'interno del mondo dello sport, in precedenza caratterizzato più dalla presenza maschile rispetto a quella femminile;
per questi motivi, nel 1985, l'Unione italiana sport per tutti (Uisp) ha opportunamente proceduto alla presentazione della Carta europea dei diritti delle donne nello sport, in seguito trasformata nella risoluzione delle donne nello sport dal Parlamento europeo nel 1987;
la Carta europea dei diritti delle donne nello sport ha costituito un primo passo per riconoscere ufficialmente la rivendicazione di pari opportunità tra donne e uomini nello sport all'interno dell'Unione europea;
è stata la stessa Carta europea dei diritti delle donne nello sport del 1985, infatti, a mettere in risalto il gran numero di diseguaglianze fra donne e uomini nel campo dello sport nonché l'importanza di rimuovere le barriere culturali che impediscono il reale coinvolgimento delle donne;
il 25 maggio 2011 è stata, quindi, presentata la nuova proposta di Carta europea dei diritti delle donne nello sport, che evidenzia come, nonostante i progressi e l'incremento della partecipazione femminile in questo settore della società, permangano ancora delle differenze in termini di pari opportunità, soprattutto con riguardo al coinvolgimento delle donne in ruoli e posizioni di vertice all'interno di enti, federazioni e società sportive;
la nuova Carta europea dei diritti delle donne nello sport dimostra come uomini e donne debbano avere le stesse opportunità di partecipare ai processi decisionali a tutti i livelli dirigenziali e nell'intero sistema sportivo e debbano, altresì, essere rappresentati in maniera equa nei diversi organismi dirigenziali e in tutte le posizioni di leadership;
nel 2011, la Commissione europea ha adottato una strategia per sviluppare la dimensione europea dello sport prevedendo, nell'ambito del programma di azioni da intraprendere, proprio la promozione della parità tra uomo e donna;
nel nostro Paese, non sussiste soltanto la questione delle «quote rosa» nello sport (assenza o parziale assenza dei dirigenti donna), ma, più in generale, vi sono elementi di difficoltà che riguardano la presenza stessa nella società e nei suoi sistemi di discriminanti di tipo contrattuale, economico e di tutela delle donne che devono essere risolti con urgenza;
è, quindi, necessario avviare politiche che possano permettere a donne e uomini di avere le stesse opportunità e di sviluppare le proprie competenze anche nel settore sportivo,
impegna il Governo:
ad adottare iniziative dirette a promuovere un'effettiva parità di genere negli organi dirigenziali delle varie discipline sportive;
ad adottare iniziative in grado di colmare il notevole divario esistente tra le retribuzioni percepite dagli uomini e quelle ancora oggi destinate alle donne anche nell'ambito sportivo;
ad attivarsi in tutte le sedi perché sia dato seguito a quanto previsto nella Carta europea dei diritti delle donne nello sport adottata nel maggio 2011.
(1-00381) «Dorina Bianchi, Bernardo, Bosco».
La Camera,
premesso che:
«lo sport è parte del patrimonio di ogni uomo e di ogni donna e la sua assenza non potrà mai essere compensata», secondo quanto Pierre de Coubertin, fondatore dei Giochi olimpici moderni, affermava;
la Carta europea dei diritti delle donne nello sport del 1985, promossa dall'Unione italiana sport per tutti ed inserita in un'apposita risoluzione del Parlamento europeo del 1987, è stata il primo reale tentativo di riconoscimento e rivendicazione di pari opportunità di uomini e donne nello sport;
l'Unione europea, nel luglio 2007 attraverso il Libro bianco sullo sport e successivamente attraverso il Trattato di Lisbona, in vigore dal 1o dicembre 2009, ha confermato lo sport quale proprio settore di competenza in cui la stessa può sostenere, coordinare ed integrare le attività dei suoi Stati membri;
il Libro bianco sullo sport lo riconosce quale «fenomeno sociale ed economico d'importanza crescente che contribuisce in modo significativo agli obiettivi strategici di solidarietà e prosperità perseguiti dall'Unione europea», «sfera dell'attività umana che interessa in modo particolare i cittadini dell'Unione europea e ha un potenziale enorme di riunire e raggiungere tutti, indipendentemente dall'età o dall'origine sociale»;
nel gennaio 2011, la Commissione europea ha adottato una comunicazione per sviluppare la dimensione europea dello sport, per disciplinare il ruolo sociale dello sport, la dimensione economica e la sua organizzazione nonché i compiti della Commissione europea e degli Stati membri attraverso l'approvazione di standard comuni e lo scambio di buone prassi;
il 25 maggio 2011 è stata presentata al Parlamento europeo una nuova proposta della Carta dei diritti delle donne nello sport, elaborata italiana sport per tutti in collaborazione con altri partner europei nell'ambito del progetto «Olympia – Equal opportunities via and within sport» e indirizzata a tutti gli operatori sportivi, alle associazioni ed organizzazioni sportive, alle istituzioni, ai Paesi dell'Unione europea, alle tifoserie e ai media;
la nuova Carta europea dei diritti delle donne nello sport intende favorire la leadership e l'educazione nello sport fondato sulla parità di genere, tenendo conto dei media e del loro impatto culturale per abbracciare politiche di genere e consentire alle donne le stesse opportunità degli uomini di esprimere la propria passione sportiva. Altresì, prevede il riconoscimento di incarichi dirigenziali nei gruppi sportivi, senza alcuna discriminazione;
nel febbraio 2012, il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione in cui si invita la Commissione europea e gli Stati membri a sostenere gli organismi europei per la promozione e l'attuazione delle raccomandazioni della Carta europea dei diritti delle donne nello sport;
nel marzo 2013 il Parlamento europeo ha individuato nell'attività sportiva una risorsa importante per la promozione della salute ed il successivo superamento degli stereotipi di genere;
lo sport ha un ruolo sociale fondamentale nella coesione sociale e nelle pari opportunità per tutti e contribuisce a rendere effettivo e compiuto il godimento del diritto alla salute, sancito dall'articolo 32 della Costituzione. Altresì, ha un valore pedagogico, decisivo per facilitare l'integrazione e il rispetto dell'altro;
la pratica sportiva femminile si è progressivamente diffusa con una maggiore velocità rispetto a quella maschile; dai dati Istat del 2011 (indagine multiscopo 2011, utilizzata da Tangos: «Tavolo nazionale per la governance nello sport») emerge un aumento della pratica femminile tra le bambine tra i 6 e i 10 anni, tra le donne tra i 45 e i 54 anni e tra quelle nella fascia tra i 60 e i 64 anni;
nella pratica e nelle istituzioni sportive, tuttavia, persiste un'evidente segregazione verticale delle donne nello sport, in particolare non sono presenti in ruoli direttivi, né in ruoli tecnici, quali arbitri e allenatori;
tra i praticanti di attività sportiva in modo continuativo, nella fascia di età tra i 20 e i 44 anni, le sportive sono intorno al 20 per cento contro l'oltre 30 per cento dei coetanei maschi. I sedentari, ovvero coloro i quali non svolgono alcuna attività sportiva nel tempo libero, sono il 39,8 per cento tra gli uomini e ben il 44,4 per cento tra le donne che, secondo i dati dell'Eurobarometro speciale sullo sport e l'attività fisica (2010), attribuiscono alla «mancanza di tempo» la responsabilità della mancata pratica sportiva in misura maggiore rispetto alla media europea,
impegna il Governo:
ad attivarsi in tutte le sedi istituzionali europee affinché la nuova Carta europea delle donne nello sport presentata il 25 maggio 2011 sia al più presto approvata;
ad adottare le necessarie misure positive di carattere economico e normativo, recependo nell'ordinamento italiano la Carta europea dei diritti delle donne nello sport, per la promozione effettiva delle pari opportunità di genere nelle attività sportive, nell'utilizzo paritario degli impianti sportivi, nonché per favorire una maggiore partecipazione femminile alle varie discipline sportive e ai processi decisionali attraverso l'inclusione delle donne nelle posizioni di dirigenza degli organismi federali delle varie discipline sportive.
(1-00393) «Santerini, Binetti, Schirò, Fitzgerald Nissoli, Gigli, De Mita, Sberna, Marazziti, Caruso, Fauttilli».
La Camera,
premesso che:
la Carta europea dello sport del Consiglio d'Europa recita: «Per sport si intende qualsiasi forma di attività fisica che, attraverso una partecipazione organizzata o meno, abbia per obiettivo l'espressione e il miglioramento della condizione fisica e mentale, con la promozione della socializzazione e con il perseguimento di risultati in competizioni a tutti i livelli»;
lo sport ricopre un ruolo sociale fondamentale e coinvolge dimensioni diverse dell'esistenza individuale e collettiva: tempo libero, modelli di comportamento e aspetti economici, interessando tutti i cittadini indipendentemente da genere, razza, età, disabilità, religione e convinzioni personali, orientamento sessuale e provenienza sociale o economica. Come detto da Pierre de Coubertin, fondatore dei giochi olimpici moderni, lo sport «è parte del patrimonio di ogni uomo e di ogni donna e la sua assenza non potrà mai essere compensata»;
la Carta europea dei diritti delle donne nello sport è stata proposta per la prima volta dalla Unione italiana sport per tutti (Uisp) nel 1985 e trasformata nella risoluzione delle donne nello sport nel 1987 dal Parlamento europeo;
la Carta europea dei diritti delle donne nello sport rappresenta il primo tentativo per il riconoscimento e la rivendicazione delle pari opportunità di uomini e donne nello sport in ambito europeo;
nel gennaio 2011, la Commissione europea ha adottato una comunicazione per sviluppare la dimensione europea dello sport, per disciplinare il ruolo sociale dello sport, la dimensione economica e la sua organizzazione nonché i compiti della Commissione europea e degli Stati membri attraverso l'approvazione di standard comuni e lo scambio di buone prassi;
il 25 maggio 2011 è stata presentata la nuova proposta di Carta europea dei diritti delle donne nello sport, elaborata dall'Unione italiana sport per tutti, in collaborazione con altri partner europei nell'ambito del progetto «Olympia – Equal opportunities via and within sport» ed indirizzata da tutti gli operatori sportivi, alle associazioni ed organizzazioni sportive, alle istituzioni, ai Paesi dell'Unione europea, tifoserie e media;
la nuova Carta evidenzia come, nonostante i progressi e l'incremento della partecipazione femminile in questo settore della società, permangano ancora delle differenze in termini di pari opportunità, soprattutto con riguardo al coinvolgimento delle donne in ruoli e posizioni di vertice all'interno di enti, federazioni e società sportive;
la nuova Carta europea dei diritti delle donne nello sport intende favorire la leadership e l'educazione nello sport fondato sulla parità di genere, tenendo conto dei media e del loro impatto culturale per abbracciare politiche di genere e consentire alle donne le stesse opportunità degli uomini di esprimere la propria passione sportiva. Altresì, prevede il riconoscimento di incarichi dirigenziali nei gruppi sportivi, senza alcuna discriminazione. La Carta riconosce il diritto di donne e uomini ad un pari trattamento a tutti i livelli e in ogni campo delle scienze sportive affinché possano diventare membri delle comunità scientifiche e influenzare teorie, metodi e sistemi di ricerca anche nel mondo dello sport; il dovere degli insegnanti di educazione fisica, degli educatori sportivi, degli allenatori e delle altre figure educative che lavorano nelle diverse sedi e agenzie formative di combattere le discriminazioni di genere nello sport e di adottare ed implementare i principi dell'uguaglianza di genere e di valorizzazione delle differenze. Donne e uomini, nell'esprimere la propria attitudine sportiva ai massimi livelli, devono avere le stesse opportunità, anche attraverso un'equa distribuzione delle risorse, degli investimenti e degli incentivi economici destinati alla promozione dello sport di alto livello; donne e uomini devono, inoltre, avere le stesse opportunità nel manifestare ed esprimere la propria passione sportiva di tifose e tifosi e partecipare alla vita associativa dei gruppi organizzati di tifoserie;
il 2 febbraio 2012 il Parlamento europeo ha approvato la risoluzione sulla comunicazione della Commissione europea «Sviluppare la dimensione europea dello sport», in cui richiama espressamente la Carta europea dei diritti delle donne nello sport facendo proprie alcune delle indicazioni in essa contenute e dando ampio spazio, nella parte relativa al ruolo sociale dello sport, al tema delle donne e delle pari opportunità sotto il profilo di genere nello sport; la risoluzione invita la Commissione europea e gli Stati membri a sostenere gli organismi europei per la promozione e l'attuazione delle raccomandazioni della Carta europea dei diritti delle donne nello sport;
a tutt'oggi, però, la nuova Carta europea dei diritti delle donne nello sport non è stata ancora approvata dal Parlamento europeo;
a distanza di quasi 30 anni dalla presentazione della prima Carta europea dei diritti delle donne nello sport, nonostante i progressi e l'incremento della partecipazione delle donne nella pratica sportiva e motoria, permangono delle differenze in termini di pari opportunità, sia per quanto riguarda il coinvolgimento delle donne in ambito dirigenziale, di leadership nelle società sportive, nelle federazioni, nelle associazioni, sia per quanto riguarda la persistenza di stereotipi di genere nella pratica sportiva;
per cercare di dare risalto alla situazione descritta, comune a molti Paesi europei, presso l'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere con sede a Vilnius, si è svolto i primi di dicembre 2013 un incontro promosso in collaborazione con la Commissione europea per fare il punto sull'attività sportiva delle donne nei Paesi dell'Unione europea. Obiettivo della conferenza era discutere una proposta relativa a una strategia specifica sulla parità di genere e lo sport per il 2015-2020 da prepararsi a cura di un gruppo di esperti delle organizzazioni sportive governative e non governative. La conferenza è stata concentrata su temi quali la parità di genere nelle posizioni di responsabilità, le modalità per promuovere la partecipazione delle ragazze e delle donne allo sport, la prevenzione della violenza e delle molestie sessuali nello sport nonché l'eliminazione degli stereotipi di genere a valenza negativa;
nonostante il sempre più crescente valore riconosciuto alle pratiche sportive risulta ancora persistente una forte segregazione verticale delle donne nello sport specie all'interno delle organizzazioni sportive dove mancano in maniera preoccupante le donne che occupano posizioni direttive e sono spesso tutti di genere maschile i dirigenti di federazioni in cui in posizioni ridotte sono presenti anche donne praticanti,
impegna il Governo
ad attivarsi in tutte le sedi istituzionali europee affinché la nuova Carta europea delle donne nello sport presentata il 25 maggio 2011 sia al più presto approvata;
a coordinare, insieme agli Stati membri, una campagna per la promozione e l'adozione della Carta europea dei diritti delle donne nello sport;
a porre in essere tutte le opportune iniziative, anche normative, per ridurre il gender pay gap tra atleti di sesso diverso e per implementare ogni forma di tutela possibile ai fini di una paritaria contrattualizzazione senza discriminazioni legate al genere anche incentivando il riconoscimento nelle competenti sedi del professionismo sportivo delle donne;
a recepire nell'ordinamento italiano e a favorire il recepimento nell'ordinamento sportivo dei principi della Carta europea delle donne nello sport, predisponendo tutte quelle iniziative economiche e normative necessarie affinché vi sia un'effettiva promozione delle pari opportunità nella pratica sportiva, nella fruizione paritaria degli impianti sportivi, nella ricerca di strumenti utili a promuovere la partecipazione femminile alle varie discipline sportive e ai processi decisionali, attraverso l'inclusione delle donne nelle posizioni di dirigenza degli organismi federali delle varie discipline sportive.
(1-00409) «Roberta Agostini, Centemero, Scopelliti, Vezzali, Santerini, Matteo Bragantini, Pellegrino, Locatelli, Fossati, Coccia, Amoddio».
(Mozione non iscritta all'ordine del giorno ma vertente su materia analoga)
Risoluzione
La Camera,
premesso che:
in Italia circa 35 milioni di persone esercitano costantemente una qualche pratica sportiva e che su tutto il territorio nazionale ci sono circa 95.000 punti di riferimento facenti capo a società sportive e organizzazioni territoriali;
nel corso dell'ultimo ventennio lo sport ha rappresentato per l'infanzia e l'adolescenza il terzo pilastro educativo dopo le famiglie e la scuola, esprimendo valori quali: spirito di squadra, disciplina, solidarietà, rispetto delle regole. Il 66,5 per cento dei ragazzi e delle ragazze tra gli 11 ed i 14 anni pratica una disciplina sportiva;
dal Piano nazionale per la promozione dell'attività sportiva emerge che la popolazione che non esercita alcuno sport è pari al 39,8 per cento, percentuale che sale però al 44 per cento se si fa riferimento alla sola popolazione femminile, mentre la percentuale delle donne che praticano in modo continuativo un'attività sportiva e pari al 25,9 per cento rispetto al 38,6 per cento degli uomini;
il Comitato olimpico nazionale italiano (CONI), secondo quanto disciplinato dalla legge 23 luglio 1999, n. 242, ha tra i compiti primari quello di assumere opportune iniziative contro ogni forma di discriminazione e di violenza nello sport, comprendendo dunque anche le discriminazioni e le violenze di genere;
nel 1985 l'Unione italiana sport per tutti propose la Carta dei diritti delle donne nello sport, che nel 1987 fu trasformata dal Parlamento europeo nella Risoluzione delle donne nello sport. Questa carta fu il primo passo per riconoscere ufficialmente le pari opportunità tra uomini e donne nel contesto sportivo;
l'11 luglio 2007 la Commissione europea presentò il Libro bianco sullo sport a cui nel 2011 seguì una comunicazione dal titolo «Sviluppare la dimensione europea dello sport», all'interno della quale ampio spazio è dedicato al tema dell'inclusione sociale, con particolare attenzione alle pari opportunità tra uomini e donne nel contesto del Fondo europeo per l'integrazione;
la Carta dei diritti della UISP è stata negli anni aggiornata e nel maggio 2011 è stata presentata al Parlamento europeo che però, ad oggi, non l'ha ancora approvata;
la Carta dei diritti sottolinea, tra l'altro, che «donne e uomini di qualunque età devono avere lo stesso diritto di praticare diversi sport e sviluppare competenze nel campo dello studio dello sport» e ancora «donne e uomini devono avere le stesse opportunità di partecipare ai processi decisionali a tutti i livelli e nell'intero sistema sportivo; devono essere rappresentati in maniera equa nei diversi organismi dirigenziali e in tutte le posizioni di potere»;
l'Italia esprime eccellenze femminili nello sport in grado di indirizzare la cultura sportiva se supportate da una opportuna funzione e visibilità,
impegna il Governo
a recepire nell'ordinamento italiano la Carta dei diritti delle donne nello sport e ad adottare tutte le misure necessarie affinché si realizzi una vera parità di genere nel mondo dello sport, sia nella pratica sportiva, agonistica e amatoriale, sia nei ruoli decisionali a tutti i livelli dirigenziali e nelle diverse posizioni di potere;
ad assumere tutte le iniziative opportune perché la nuova Carta europea dei diritti delle donne nello sport sia al più presto approvata dal Parlamento europeo.
(6-00061) «Locatelli, Di Lello, Di Gioia, Pastorelli».