XVII LEGISLATURA

Allegato A

Seduta di Martedì 11 novembre 2014

COMUNICAZIONI

Missioni valevoli nella seduta dell'11 novembre 2014.

      Angelino Alfano, Gioacchino Alfano, Alfreider, Amici, Baldelli, Baretta, Bellanova, Bindi, Bobba, Bocci, Boccia, Michele Bordo, Borletti Dell'Acqua, Boschi, Brambilla, Bratti, Bressa, Brunetta, Caparini, Capelli, Capezzone, Casero, Castiglione, Cecconi, Cicchitto, Cirielli, Colonnese, Costa, D'Ambrosio, Dambruoso, Damiano, De Girolamo, Del Basso De Caro, Dellai, Di Gioia, Di Lello, Luigi Di Maio, Di Salvo, Epifani, Ferranti, Ferrara, Fico, Fioroni, Gregorio Fontana, Fontanelli, Franceschini, Gentiloni Silveri, Giachetti, Giacomelli, Giancarlo Giorgetti, Gozi, Guerra, La Russa, Lorenzin, Lotti, Lupi, Madia, Manciulli, Mannino, Antonio Martino, Merlo, Meta, Orlando, Pes, Gianluca Pini, Pisicchio, Pistelli, Rampelli, Ravetto, Realacci, Domenico Rossi, Rughetti, Sanga, Sani, Scalfarotto, Schullian, Scotto, Sereni, Sisto, Speranza, Tabacci, Taglialatela, Tofalo, Vargiu, Velo, Villecco Calipari, Vitelli, Vito, Zanetti.

(Alla ripresa pomeridiana della seduta).

      Angelino Alfano, Gioacchino Alfano, Alfreider, Amici, Baldelli, Baretta, Bellanova, Bindi, Bobba, Bocci, Boccia, Bonifazi, Michele Bordo, Borletti Dell'Acqua, Boschi, Brambilla, Bratti, Bressa, Brunetta, Caparini, Capelli, Capezzone, Casero, Castiglione, Catania, Cecconi, Cicchitto, Cirielli, Colonnese, Costa, D'Ambrosio, Dambruoso, Damiano, De Girolamo, Del Basso De Caro, Dellai, Di Gioia, Di Lello, Luigi Di Maio, Di Salvo, Epifani, Ferranti, Ferrara, Fico, Fioroni, Gregorio Fontana, Fontanelli, Franceschini, Gentiloni Silveri, Giachetti, Giacomelli, Giancarlo Giorgetti, Gozi, Guerra, La Russa, Lorenzin, Lotti, Lupi, Madia, Mannino, Marazziti, Antonio Martino, Merlo, Meta, Orlando, Pes, Gianluca Pini, Pisicchio, Pistelli, Rampelli, Ravetto, Realacci, Domenico Rossi, Rughetti, Sanga, Sani, Scalfarotto, Schullian, Scotto, Sereni, Sisto, Speranza, Tabacci, Taglialatela, Tofalo, Vargiu, Velo, Villecco Calipari, Vitelli, Vito, Zanetti.

Annunzio di proposte di legge.

       In data 10 novembre 2014 sono state presentate alla Presidenza le seguenti proposte di legge d'iniziativa dei deputati:
          MINARDO: «Delega al Governo per la riforma dell'ordinamento bancario mediante la separazione tra banche commerciali e banche d'affari» (2712);
          NASTRI: «Istituzione di un fondo di garanzia per il sostegno del mercato immobiliare» (2713).

      Saranno stampate e distribuite.

Annunzio di disegni di legge.

      In data 10 novembre 2014 è stato presentato alla Presidenza il seguente disegno di legge:
          dal Presidente del Consiglio dei ministri e dai Ministri degli affari esteri e della cooperazione internazionale e delle infrastrutture e dei trasporti:
              «Ratifica ed esecuzione dei seguenti Accordi:
              a) Accordo euromediterraneo nel settore del trasporto aereo tra l'Unione europea e i suoi Stati membri, da un lato, e il Governo dello Stato d'Israele, dall'altro, fatto a Lussemburgo il 10 giugno 2013;
              b) Accordo sullo spazio aereo comune tra l'Unione europea e i suoi Stati membri e la Repubblica moldova, fatto a Bruxelles il 26 giugno 2012;
%
              c) Accordo sui trasporti aerei fra l'Unione europea e i suoi Stati membri, da un lato, gli Stati Uniti d'America, d'altro lato, l'Islanda, d'altro lato, e il Regno di Norvegia, d'altro lato, con Allegato, fatto a Lussemburgo e Oslo il 16 e il 21 giugno 2011, e Accordo addizionale fra l'Unione europea e i suoi Stati membri, da un lato, l'Islanda, d'altro lato, e il Regno di Norvegia, d'altro lato, riguardante l'applicazione dell'Accordo sui trasporti aerei fra l'Unione europea e i suoi Stati membri, da un lato, gli Stati Uniti d'America, d'altro lato, l'Islanda, d'altro lato, e il Regno di Norvegia, d'altro lato, fatto a Lussemburgo e Oslo il 16 e il 21 giugno 2011» (2714).
      In data 11 novembre 2014 è stato presentato alla Presidenza il seguente disegno di legge:
          dal Presidente del Consiglio dei ministri:
              «Conversione in legge del decreto-legge 11 novembre 2014, n.  165, recante disposizioni urgenti di correzione a recenti norme in materia di bonifica e messa in sicurezza di siti contaminati e misure finanziarie relative ad enti territoriali» (2715).

      Saranno stampati e distribuiti.

Richieste di parere parlamentare su atti del Governo.

      Il Ministro della difesa, con lettera in data 5 novembre 2014, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 32, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n.  448, la richiesta di parere parlamentare sullo schema di decreto ministeriale concernente il riparto dello stanziamento iscritto nello stato di previsione della spesa del Ministero della difesa per l'anno 2014, relativo a contributi ad associazioni combattentistiche e d'arma (118).

      Questa richiesta è assegnata, ai sensi del comma 4 dell'articolo 143 del Regolamento, alla IV Commissione (Difesa) che dovrà esprimere il prescritto parere entro il 1o dicembre 2014.

      Il Ministro dell'interno, con lettera in data 6 novembre 2014, ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 1, comma 40, della legge 28 dicembre 1995, n.  49, la richiesta di parere parlamentare sullo schema di decreto ministeriale concernente il riparto dei contributi in favore delle associazioni combattentistiche vigilate dal Ministero dell'interno a valere sulle risorse iscritte nello stato di previsione della spesa del medesimo Ministero per l'anno 2014, nel capitolo 2309 – piano gestionale 1 (119).

      Questa richiesta è assegnata, ai sensi del comma 4 dell'articolo 143 del Regolamento, alla I Commissione (Affari costituzionali), che dovrà esprimere il prescritto parere entro il 1o dicembre 2014.

Atti di controllo e di indirizzo.

      Gli atti di controllo e di indirizzo presentati sono pubblicati nell’Allegato B al resoconto della seduta odierna.

MOZIONI SCOTTO ED ALTRI N.  1-00537, PISICCHIO N.  1-00609, COVELLO ED ALTRI N.  1-00612, PALESE E RUSSO N.  1-00614, BALDASSARRE ED ALTRI N.  1-00621, DE GIROLAMO ED ALTRI N.  1-00624, TAGLIALATELA ED ALTRI N. 1-00641, DE MITA ED ALTRI N. 1-00642 E ANTIMO CESARO ED ALTRI N. 1-00648 CONCERNENTI INIZIATIVE PER IL RILANCIO ECONOMICO E OCCUPAZIONALE DEL MEZZOGIORNO, CON PARTICOLARE ATTENZIONE ALLA SITUAZIONE DELLA CAMPANIA

Mozioni

      La Camera,
          premesso che:
              i dati emersi dall'ultima rilevazione del primo trimestre 2014 di Unioncamere Campania segnalano il rafforzarsi di una tendenza pesantemente negativa. Tra cessazioni di imprese, procedure fallimentari e aziende avviate alla liquidazione il saldo è di nuovo fortemente negativo nell'immediato ma con una pesante tendenziale conferma. Dati impressionanti che portano al 28 per cento (4 per cento in più della media nazionale) le procedure fallimentari e un aumento di oltre il 50 per cento di aziende in procedura di liquidazione e/o di scioglimento. Il dato ancor più negativo che colpisce è la tendenza fortemente incrementata di cessazione di attività nelle società di persone e i fallimenti nelle società di capitale;
              analogo indicatore giunge dalla relazione sull'economia campana per il 2013 realizzata da Banca d'Italia. Indicatori che confermano una tendenza all'accentuarsi dei profili di negatività delle dinamiche occupazionali ed economiche in Campania. La relazione di Banca d'Italia consente di cogliere in profondità gli elementi di regressività ormai strutturalmente indotti nel sistema economico campano e i riflessi sulle condizioni di povertà di larghissimi strati della popolazione;
              caratteristiche più puntuali sul tema dell'occupazione ovvero della disoccupazione strutturale, in netto e tendenziale aumento, pervengono dalla relazione Istat relativa al primo trimestre del 2014. Il tasso di disoccupazione sale dal 22,2 per cento del primo trimestre 2013 al 23,5 per cento del primo trimestre 2014;
              gli indicatori economici della Campania si rivelano essere drammatici;
              a questa tendenza si associano i dati sulla dinamica occupazionale, sulla cessazione dei rapporti di lavoro e sul costante aumento del livello di disoccupazione. Un tasso di occupazione stimato al 40 per cento che fa della Campania la regione al livello più basso ed inferiore di 17 punti della media nazionale;
              non servirà certo ad invertire questa tendenza consolidata il programma Youth Guarantee, che, presentato anche in Campania dall'attuale assessore regionale al lavoro, rischia di diventare, per come è stato costruito e per come sono orientate le modalità di spesa, non un'occasione di rilancio per le politiche pubbliche per il lavoro, ma un'occasione per imprese e agenzie private, che riceveranno gran parte dei finanziamenti. Il rischio reale è che sia, soprattutto in Campania e nel Mezzogiorno, un meccanismo per finanziare le agenzie private, in crisi per la caduta della domanda, piuttosto che uno strumento di orientamento e per favorire il reddito e l'occupazione dei disoccupati, in questo caso giovani;
              l'insieme di questi profili negativi porta la regione Campania a caratterizzarsi, nella vicenda economica e sociale del Paese, al punto più basso della sua storia produttiva, economica e sociale;
              eppure la Campania – e con essa l'attuale Governo regionale ormai prossimo alla scadenza naturale – possedeva tutte le condizioni per affrontare le dinamiche della crisi economica e soprattutto evitare un declino che appare oggi difficilmente recuperabile;
              come già aveva rilevato la Banca d'Italia nel suo rapporto congiunturale sulla Campania del 2013 «nuove opere previste dal Piano di azione per la coesione e un più rapido avanzamento nell'utilizzo dei fondi dell'Unione europea, concentrati in misura significativa nella realizzazione di grandi progetti infrastrutturali, potrebbero contrastare il calo degli investimenti pubblici»;
              la regione Campania nel marzo 2010, con il ricambio alla guida di Palazzo Santa Lucia da parte dell'attuale presidente, Stefano Caldoro, disponeva di una dotazione finanziaria enorme, di varia provenienza;
              non era stato approvato, per scelte politiche dell'allora maggioranza di Governo e del Ministro dell'economia e delle finanze pro tempore Tremonti, dal Cipe nell'anno precedente il programma attuativo regionale dei vecchi fondi Fas, oggi Fondo per lo sviluppo e la coesione, con una dotazione finanziaria di circa 4,3 miliardi di euro. Una dotazione finanziaria, quindi, pressoché intatta, se si esclude l'allora previsione, contenuta nel decreto-legge relativo alla chiusura dell'emergenza rifiuti, di coprire, per 350 milioni di euro, i costi di realizzazione dell'impianto di Acerra. Erogazione poi avvenuta direttamente da parte del Ministero dello sviluppo economico a valere su queste risorse;
              la dotazione finanziaria complessiva (Fondo europeo di sviluppo regionale, Fondo sociale europeo e Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale) della programmazione 2007-2013, per l'insieme dei programmi, si attestava in circa 10 miliardi di euro, comprensiva del cofinanziamento e si trovava di fatto solo allo stadio iniziale, in buona parte programmata ed impegnata su attività e progetti per la gran parte condivisa con gli attori locali. Tra di essa trovava spicco la dotazione infrastrutturale sui trasporti e alcuni programmi come il «Più Europa» e il programma per la città di Napoli;
              vi era ancora una dotazione finanziaria cospicua risalente alla programmazione 2000-2006 e fatta di risorse cosiddette liberate per l'utilizzo nell'ambito di quella programmazione dei cosiddetti progetti coerenti su cui erano finanziati, in parte, lavori che non si erano conclusi al 30 giugno 2009, data di conclusione della certificazione del programma 2000-2006;
              si tratta di una regione che veniva certamente da una fase estremamente difficile, passata attraverso la gravissima situazione dei rifiuti;
              la scelta compiuta nel 2010, con le norme contenute nel decreto-legge n.  78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n.  122 del 2010, per affrontare le procedure conseguenti allo sforamento del patto di stabilità del 2009, di fatto, hanno reso impraticabile qualsiasi utilizzo delle risorse disponibili come strumento anticiclico nella gravissima situazione economica che stava raggiungendo il suo culmine. Una scelta, quella imposta dalle norme ed applicata rigidamente dal governo regionale, che ha prodotto un disastro nell'intero territorio regionale. Sono stati bloccati, di fatto, tutti i cantieri avviati negli anni precedenti, impianti di depurazione, reti fognarie, reti ferroviarie e reti stradali, opere pubbliche dei comuni e l'intero programma dei fondi europei. Investimenti di grande impatto e si citano a titolo di esempio il blocco della commessa per la realizzazione di nuovi treni in appalto alla Firema o la costruzione nella penisola sorrentina di un modernissimo impianto di depurazione. Nello stesso tempo nuovi investimenti, come quelli che importanti gruppi industriali pensavano di realizzare, come i gruppi Ferrarelle e Doria, a cui la precedente amministrazione regionale aveva approvato, con lo strumento del contratto di programma regionale, le proposte presentate, venivano bloccati per poi essere riavviati solo nell'ultimo anno;
              è la stessa Banca d'Italia nella sua ultima relazione che coglie questo aspetto e ne segnala le conseguenze: «Un più tempestivo utilizzo delle disponibilità finanziarie provenienti dai fondi strutturali dell'Unione europea avrebbe potuto attenuare gli effetti del calo della domanda interna. Il rispetto degli ambiziosi obiettivi di potenziamento della competitività dell'economia regionale, programmati all'avvio del ciclo 2007-2013, ne avrebbe oggi rafforzato le prospettive di ripresa»; del resto, l'evidenza del blocco assoluto delle risorse europee a partire dal 2010 la si ritrova nella contrazione del prodotto interno lordo regionale che, proprio in questi anni, assume un dato che tracima, pari al 5 per cento superiore alla media nazionale;
              per non citare l'assoluta assenza di peso politico ed amministrativo in vicende come quelle che in questi anni hanno coinvolto le realtà d'impresa collegate al gruppo Finmeccanica, oltre che le polemiche nei confronti di aziende come Ansaldo, per ritardi sui lavori in corso e/o su problemi manutentivi del materiale rotabile consegnato nell'area napoletana, come puro elemento di discolpa per il dramma in cui è stato fatto precipitare l'intero sistema dei trasporti regionale. Una così pesante dinamica negativa nel settore del trasporto pubblico che diventa un ulteriore elemento aggiuntivo per i cittadini per gli elevati costi connessi all'utilizzo dei mezzi di trasporto in questa regione (mediamente il 3 per cento in più della media nazionale). Nel 2013 sono, inoltre, peggiorati i giudizi sul servizio di trasporto pubblico locale. In Campania, la quota di popolazione che ha utilizzato i trasporti pubblici locali è diminuita rispetto all'anno precedente per tutte le tipologie di mezzo: autobus (-1,7 per cento), pullman extraurbano (-2,9 per cento), treno (-1,9 per cento);
              con la sostanziale soppressione della bigliettazione integrata e il ritorno a quella di azienda, è venuta meno l'idea e la possibilità che l'integrazione tra le aziende fosse un elemento che consentiva ai cittadini e utenti di disporre di un servizio collettivo ed unitario;
              del resto, è lo stesso meccanismo che recentemente la giunta regionale ha approvato, deliberando di indire procedure di gara per l'affidamento dei servizi di trasporto, su gomma, su ferro e su mare, procedendo ad uno spacchettamento dell'offerta. Una proposta inaccettabile, che collide con ogni idea di integrazione e di riduzione delle strutture societarie ed in assoluta controtendenza con ogni ipotesi di riorganizzazione del sistema del trasporto pubblico che è in corso di realizzazione nel Paese. Si tratta di una proposta priva, inoltre, di ogni meccanismo di salvaguardia per i lavoratori e con una dotazione finanziaria assolutamente insufficiente;
              il blocco ha operato, di fatto, su lavori e sugli investimenti in corso di realizzazione, con impegni giuridicamente vincolanti assunti prevalentemente o dalla precedente amministrazione regionale e/o da una duplicità di soggetti attuatori (enti locali, Asi, strutture straordinarie di Governo ed altri). La conseguenza ulteriore è che questa decisione ha alimentato un contenzioso amministrativo e giuridico tra istituzioni e con le imprese. I costi legali che si sopporteranno per la ripresa di queste attività, come è già evidente nel settore dei trasporti, rischiano di superare, in molte occasioni, il valore degli investimenti che dovevano essere realizzati;
              nel corso di questi anni, il blocco totale degli investimenti pubblici in conto capitale ha intensificato un processo di deindustrializzazione, già presente in Campania, né è possibile ipotizzare che la politica industriale sia sinonimo di privatizzazioni, in un quadro in cui da oltre 15 anni non c’è nessuna politica industriale e pubblica che riguardi il nostro Paese, senza contare che con la crisi economica si è ulteriormente accentuato il divario tra l'industria campana e il resto del Paese. Il valore aggiunto industriale (dati Istat) è diminuito del 20 per cento, il doppio della media nazionale che è del 10,8 per cento;
              è praticamente scomparso tutto il settore degli appalti ferroviari, presenza industriale significativa a livello regionale, che invece, a ridosso degli investimenti attivati nel decennio precedente, era riuscita a tenere un suo livello di occupazione e di attività produttiva; così come, per l'assenza di politiche nazionali e regionali di sostegno, lo stesso settore del termalismo vive serie e profonde difficoltà;
              come segnala anche l'ultimo rapporto della Banca d'Italia sulla Campania, tra le realtà produttive che nel 2007 contavano almeno mille addetti, sono praticamente nulli i segnali di ripresa del settore automotive e cantieristica (che ha perduto oltre il 70 per cento dell’export). Sono crollate tutte le attività di produzione non metallifere, conseguenti al crollo dell'edilizia e nell'area della provincia di Caserta è praticamente scomparsa quasi interamente l'industria di produzione elettronica;
              paradossale, se non drammatica, appare invece tutta la vicenda collegata al porto di Napoli e alle attività collegate a questo settore. Mentre prosegue la perdita di peso commerciale delle realtà portuali campane e la costante perdita di flussi di viaggiatori, le vicende collegate alla decisione di destinare attraverso lo strumento del grande progetto risorse europee per l'adeguamento dello stesso sono inesorabilmente bloccate. Come bloccata è tutta la struttura di governo dell'autorità portuale, commissariata. Come bloccata è rimasta la stessa necessità di realizzare nell'area di Castellammare il nuovo bacino per Fincantieri. Occorre una vera politica di sostegno alla cantieristica, cosa che altre amministrazioni regionali praticano costantemente, e non sporadici spot;
              in questo quadro i segnali positivi che vengono o dall'agroalimentare (produzioni casearie, ortofrutticole e cerealicole), da preservare ed incrementare come filiera a partire dalla valorizzazione e diffusione della cultura e delle pratiche gastroeconomiche connesse alla «dieta mediterranea», o dall'abbigliamento, soprattutto quello di alta gamma, incidono poco dato il numero non elevato di addetti sul totale della regione. Mentre fa storia a sé il settore aerospaziale (Alenia in particolare), sul quale pesano le scelte del gruppo dirigente uscente di Finmeccanica e di quello costretto ad uscire a seguito di inchieste giudiziarie. Scelte segnate, in Campania come in altre parti del Paese, dall'indebolimento progressivo delle componenti industriali nel settore ferroviario;
              perfino quando con l'intervento del Ministro per la coesione territoriale pro tempore, Fabrizio Barca, nel 2012 venivano resi liberi spazi finanziari consistenti fuori al patto di stabilità e si ridefinivano e riprogrammavano le risorse europee e si riallocavano le risorse ex Fas nel Fondo per lo sviluppo e la coesione, quelle somme non sono poi state concretamente erogate ed immesse nel circuito economico regionale. Vi è un dato che segnala ulteriormente questa incapacità ed è rilevabile dall'allegato al recentissimo Documento di economia e finanza del Governo Renzi sugli interventi nelle aree sottoutilizzate. La Campania raggiunge appena l'1,22 per cento di attuazione della programmazione;
              si tratta di una regione che si è caratterizzata per un livello di inefficienza clamorosa. Basti pensare a come si è operato sul versante rifiuti. Al presidente della regione Campania, con il decreto-legge n.  196 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n.  277 del 2010, sono stati conferiti i poteri per nominare commissari per realizzare discariche, impianti di compostaggio e termovalorizzatori. Sono stati nominati circa 15 commissari. In quasi quattro anni non solo non è stato avviato un lavoro, ma, tranne in un caso, non sono state neanche aggiudicate o bandite gare e individuate aree. Si è solo prodotto un conflitto insanabile con le popolazioni e le comunità locali su annunci di possibili interventi;
              la Campania, le amministrazioni locali ed i cittadini hanno visto cumularsi agli effetti della crisi economica internazionale – con un governo regionale, detentore delle leve finanziarie pubbliche, travolto da inconsistenza ed incapacità amministrativa – faide intestine al ceto politico di centrodestra ed una vergognosa assemblea elettiva coinvolta in decine di provvedimenti giudiziari,

impegna il Governo:

          a intraprendere le opportune iniziative affinché il Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica verifichi ed esegua con continuità il monitoraggio dei programmi di attuazione e spesa della programmazione 2007-2013 della regione Campania, per evitare, nelle more dell'effettiva funzionalità dell'Agenzia per la coesione territoriale, qualsiasi possibilità di disimpegno delle risorse già assegnate;
          ad assicurare che l'istituita Agenzia per la coesione territoriale, per la programmazione 2014-2020, operi, anche con le nuove risorse umane assegnate dalle disposizioni di legge, al di fuori di ogni forma di condizionamento e nell'autonomia operativa necessaria ad assumere le funzioni previste, stabilendo che l'intero costo della tecno-struttura che i contribuenti pagano sia legato al valore che essa produce, stimabile attraverso la definizione di un sistema di indicatori che consenta di rendere realmente misurabili i risultati, al fine di evitare ulteriore spreco di danaro pubblico;
          ad assumere iniziative per predisporre un apposito documento di programmazione e finanza sul Mezzogiorno e sulla Campania che, alla luce della nuova programmazione 2014-2020 dei fondi strutturali e della programmazione 2014-2020 del Fondo per lo sviluppo e la coesione e di quanto delineato con la legge di stabilità per il 2014, dia unitarietà e coerenza a nuove politiche di sviluppo e di lavoro;
          a predisporre, nel citato documento di programmazione e finanza sul Mezzogiorno, le linee guida di salvaguardia dell'apparato produttivo ancora esistente e una nuova politica industriale nel Mezzogiorno e in Campania su cui orientare risorse ed investimenti per il prossimo decennio;
          a definire negli strumenti della programmazione 2014-2020 l'utilizzo di parte delle risorse del Fondo sociale europeo per realizzare politiche attive di lavoro e inserimento professionale nei confronti dei giovani disoccupati meridionali nei campi del turismo sostenibile, dei beni culturali e della fruizione degli stessi, dell'innovazione tecnologica e dei servizi sociali, che devono essere volti ad incrementare e ammodernare i sistemi di welfare nel rispetto della cittadinanza di genere, escludendo meccanismi di intermediazione formativa;
          a riservare in ogni caso alla regione Campania parte della dotazione disponibile nella programmazione 2014-2020 sia dei fondi strutturali che del Fondo per lo sviluppo e la coesione per le politiche per il riassetto ambientale, alla luce dell'eventuale emergenza connessa al cosiddetto rischio Vesuvio ed alle conseguenze prevedibili non soltanto sul versante della protezione civile.
(1-00537) «Scotto, Giancarlo Giordano, Ferrara, Fratoianni, Bossa».


      La Camera,
          premesso che:
              come rilevato a più riprese anche da parte dei più alti vertici istituzionali, tra le incompiutezze dell'unificazione perpetuatesi fino ai nostri giorni è il divario tra Nord e Sud e dunque la condizione del Mezzogiorno, che si colloca al centro delle preoccupazioni e responsabilità nazionali. Rispetto a questa questione, che tarda a ricevere risposte adeguate, pesa certamente l'esperienza dei tentativi e degli sforzi portati avanti a più riprese nei decenni dell'Italia repubblicana e rimasti senza risultati risolutivi, ma pesa anche l'oscurarsi della consapevolezza delle potenzialità che il Mezzogiorno offre per un nuovo sviluppo complessivo del Paese e che sarebbe fatale per tutti non saper valorizzare;
              purtroppo il Mezzogiorno, a pochi mesi dalla fine del 2014, è ancora il cuore del problema per la soluzione della «questione Italia»;
              nelle anticipazioni del rapporto 2014 sull'economia del Mezzogiorno, presentato a luglio 2014 alla Camera dei deputati, la Svimez, Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, disegna ancora una volta un Paese diviso e diseguale, dove il Sud scivola sempre più nell'arretratezza;
              nel 2013, infatti, il divario di prodotto interno lordo pro capite è tornato ai livelli di dieci anni fa: 16.888 euro nel 2013 contro i 16.511 del 2005. Ciò è da attribuire non tanto ai livelli di produttività dell'area, che nel periodo di crisi 2008-2013 mostrano una sostanziale stazionarietà, quanto ad una preoccupante diminuzione del tasso lordo di occupazione. Negli anni di crisi 2008-2013 i consumi delle famiglie sono crollati quasi del 13 per cento, gli investimenti nell'industria addirittura del 53 per cento, i tassi di iscrizione all'università tornano ai primi anni 2.000 e per la prima volta il numero di occupati ha sfondato al ribasso la soglia dei 6 milioni, il livello più basso dal 1977. Nel Mezzogiorno si continua a emigrare, non fare figli e impoverirsi: in cinque anni le famiglie assolutamente povere sono aumentate di due volte e mezzo, da 443 mila a 1 milione e 14 mila nuclei;
              in base alle valutazioni Svimez, nel 2013 il prodotto interno lordo è crollato nel Mezzogiorno del 3,5 per cento, approfondendo la flessione del 2015 (-3,2 per cento), con un calo superiore di quasi due punti percentuali rispetto al Centro-Nord (-1,4 per cento). Si tratta del sesto anno consecutivo in cui il prodotto interno lordo del Mezzogiorno registra segno negativo. Il peggior andamento del prodotto interno lordo meridionale è dovuto, soprattutto, ad una più sfavorevole dinamica della domanda interna, sia per i consumi che per gli investimenti;
              a livello regionale nel 2013 si è registrato un segno negativo per tutte le regioni italiane, a eccezione del Trentino-Alto Adige (+ 1,3 per cento) e della stazionaria Toscana (0 per cento). Anche le regioni del Centro-Nord sono tornate a segnare cali significativi, come l'Emilia-Romagna (-1,5 per cento), il Piemonte (-2,6 per cento), il Veneto (-3,6 per cento), fino alla Valle d'Aosta (-4,4 per cento). Nel Mezzogiorno la forbice resta compresa tra il -1,8 per cento dell'Abruzzo e il -6,1 per cento della Basilicata, fanalino di coda nazionale. In posizione intermedia la Campania (-2,1 per cento), la Sicilia (-2,7 per cento), il Molise (-3,2 per cento). Giù anche Sardegna (-4,4 per cento), Calabria (-5 per cento) e Puglia (-5,6 per cento). Guardando agli anni della crisi, dal 2008 al 2013, profonde difficoltà restano soprattutto in Basilicata e Molise, che segnano cali cumulati superiori al 16 per cento, accanto alla Puglia (-14,3 per cento), la Sicilia (-14,6 per cento) e la Calabria (-13,3 per cento). Il divario tra la regione più ricca e la più povera è stato nel 2013 pari a 18.453 euro: in altri termini, un valdostano ha prodotto nel 2013 oltre 18 mila euro in più di un calabrese;
              il rapporto 2014 Svimez, commentando i dati negativi anche del Centro-Nord, ritiene che «sicuramente non è in crisi per colpa del Sud ma rischia di non uscirne finché non si affronta e non si risolve il problema del Mezzogiorno, in quanto una domanda meridionale così depressa ha inevitabili effetti negativi sull'economia delle regioni centrali e settentrionali»;
              le due aree del Paese sono strettamente connesse; del resto, è ampiamente testimoniato dagli andamenti demografici, il Centro-Nord continua ad attrarre significativi flussi di popolazione che si spostano dalle regioni meridionali. I dati del 2013 confermano la grave crisi demografica del Sud; nel 2013 la popolazione meridionale è calata di circa 20 mila unità a causa della ripresa delle emigrazioni verso il Centro-Nord e verso l'estero, oltre al calo delle nascite che anch'esso risulta essere particolarmente rilevante. Tra il 2001 e il 2013 sono emigrati dal Sud verso il Centro-Nord oltre 1.559.100 meridionali, a fronte di un rientro di 851 mila persone, con un saldo migratorio netto di 708 mila unità. Tali flussi migratori acquistano ancora più importanza se si pensa agli effetti che avranno sulla capacità del Sud di riprendersi e di intraprendere un nuovo percorso di sviluppo e di crescita. Si allontanano dalle regioni di origine i giovani in età riproduttiva e dotati di elevate conoscenze e competenze professionali e intellettuali, quindi le conseguenze negative si rivelano su due fronti: da una parte si pregiudica l'evoluzione demografica dell'area meridionale, dall'altro il Sud viene privato di quelle competenze indispensabili per la crescita economica;
              nel 2013 il Mezzogiorno ha toccato il suo minimo storico per quanto riguarda il numero dei nati: 177 mila, il valore più basso dall'Unità d'Italia. Purtroppo il Sud perde progressivamente popolazione, anno dopo anno. La fecondità femminile si attesta a quota 1,36 figli per donna, cifra lontana dal 2,1 nati per coppia che garantirebbe la stabilità demografica. Il Centro-Nord, invece, ha visto una crescita a quota 1,46 figli per donna, grazie anche all'apporto riproduttivo elevato delle donne straniere;
              per la Svimez nel 2013 la povertà assoluta è aumentata al Sud rispetto al 2012 del 2,8 per cento contro lo 0,5 per cento del Centro-Nord. Anche per questo i consumi delle famiglie meridionali sono ancora scesi, arrivando a ridursi, nel 2013, del 2,4 per cento, a fronte del -2 per cento delle regioni del Centro-Nord. Dal 2008 al 2013 la caduta cumulata ha sfiorato nel Mezzogiorno i 13 punti percentuali (-12,7 per cento), risultando di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7 per cento). Particolarmente colpiti i consumi alimentari (-14,6 per cento contro il -10,7 per cento del Centro-Nord) e le spese per vestiario e calzature, cadute del 23,7 per cento, quasi il doppio che nel resto del Paese (-13,8 per cento);
              tutti i settori economici del Meridione hanno risentito della crisi, toccando il picco nel settore delle costruzioni, che ha ridotto il prodotto del 35,3 per cento contro il 23,8 per cento del Centro-Nord. Nel comparto terziario la perdita è stata nel 2013 del 2,3 per cento nel Sud, a fronte di una sola leggera flessione (-0,4 per cento) al Centro-Nord. L'agricoltura perde lo 0,2 per cento al Sud, mentre il Centro-Nord guadagna +0,6 per cento; l'industria crolla del 7,6 per cento al Sud e del 3,2 per cento al Centro-Nord. Dal 2008 al 2013 il settore manifatturiero al Sud ha perso il 27 per cento del proprio prodotto e ha più che dimezzato gli investimenti (-53 per cento);
              «il Sud è ormai a forte rischio di desertificazione industriale – è scritto nel rapporto Svimez – con la conseguenza che l'assenza di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie potrebbe impedire all'area meridionale di agganciare la possibile ripresa e trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente»;
              il Fondo per lo sviluppo e la coesione ha assunto la sua denominazione in forza del decreto legislativo 31 maggio 2011, n.  88, che detta disposizioni in materia di risorse aggiuntive e interventi speciali per la rimozione di squilibri economici e sociali. Il fondo ha la finalità di dare unità programmatica e finanziaria all'insieme degli interventi aggiuntivi a finanziamento nazionale rivolti al riequilibrio economico e sociale tra le diverse aree del Paese;
              in tale quadro, le risorse del fondo sono destinate al finanziamento di progetti infrastrutturali strategici – sia di carattere materiale sia di carattere immateriale – di rilievo nazionale, interregionale e regionale, che si inquadrano nell'ambito di una strategia nazionale che individua i principali interventi di interesse, in termini di miglioramento infrastrutturale, del sistema Paese, aventi natura di grandi progetti o di investimenti articolati in singoli interventi, funzionalmente connessi per consistenza progettuale ovvero realizzativa, in relazione a obiettivi e risultati quantificabili e misurabili, anche per quanto attiene al profilo temporale;
              l'articolazione pluriennale del fondo, coerente con quella dei fondi europei, è volta a garantire l'unitarietà e la complementarietà dei processi di programmazione e attivazione delle relative risorse, tenendo conto delle programmazioni. L'articolo 1, commi 6 e seguenti, della legge n.  147 del 2013 (legge di stabilità per il 2014) ha determinato in 54,810 miliardi di euro la dotazione aggiuntiva del Fondo per lo sviluppo e la coesione per il periodo di programmazione 2014-2020, disponendone l'iscrizione in bilancio per l'80 per cento di tale importo, pari a 43,848 miliardi di euro. La medesima disposizione, nel contempo, ha indicato la nuova chiave di riparto delle risorse tra le aree territoriali del Paese, assegnando al Mezzogiorno l'80 per cento dell'importo complessivo, per un valore iscritto in bilancio conseguentemente pari a 35,078 miliardi di euro e la restante quota, pari a 8,770 miliardi di euro, al Centro-Nord;
              la norma di legge non dispone, invece, in ordine al riparto tra le amministrazioni centrali e le amministrazioni regionali, né definisce più puntualmente le quote di destinazione del fondo medesimo tra diversi ambiti tematici, salvo indicare che una quota pari al 5 per cento del fondo possa essere destinata a interventi di emergenza con finalità di sviluppo (corrispondente a 2,192 miliardi di euro);
              la legge, infine, ha iscritto in bilancio, a fronte del complessivo importo, gli stanziamenti per il primo triennio, determinandoli in 50 milioni per il 2014, 500 milioni per il 2015 e 1.000 milioni per il 2016; per gli anni successivi, la quota annuale sarà determinata dalla tabella E delle singole leggi di stabilità;
              il comma 8 dell'articolo 1 della legge n.  147 del 2013 ha disposto che entro il 1o marzo 2014 il Cipe avrebbe dovuto effettuare la ripartizione programmatica tra le amministrazioni interessate della quota relativa all'80 per cento delle risorse. Adempimento che non risulta ancora attuato;
              con delibera n.  21 del 2014 è stata disposta, a valere sulla programmazione 2014-2020, una preallocazione pari a 1.143 milioni di euro, destinata alle regioni del Mezzogiorno per compensare le medesime regioni della sottrazione di disponibilità delle risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione per la programmazione 2007-2013, ad esse sottratte in relazione ai ritardi nell'assunzione delle obbligazioni giuridicamente vincolanti. Le assegnazioni di legge di cui sopra e questa assegnazione assorbono la quasi totalità delle dotazioni dei fondi assegnati in bilancio nel triennio;
              i contratti istituzionali di sviluppo sono stati introdotti dall'articolo 6 del decreto legislativo 31 maggio 2011, n.  88, quale strumento generale di attuazione della programmazione del Fondo per lo sviluppo e la coesione 2014-2020 e sono stati utilizzati anticipatamente anche nella programmazione in corso (2007-2013), in forza della delibera del Cipe n.  1 dell'11 gennaio 2011. Destinati a regolare i rapporti tra le amministrazioni centrali (con poteri di coordinamento attribuiti all'autorità politica delegata per la coesione territoriale), le regioni e i grandi concessionari nazionali (Ferrovie dello Stato italiane-Rete ferroviaria italiana ed Anas), per la realizzazione di grandi infrastrutture di rilievo strategico, essi stabiliscono: tempi e modalità di attuazione, impegni reciproci per garantire il rispetto del cronoprogramma, sanzioni e poteri sostitutivi per le ipotesi di inadempienza;
              la normativa impone che i contratti istituzionali di sviluppo siano sottoscritti, per la parte pubblica, dalle autorità politiche (Ministri e presidenti di regione), in uno con apposite intese preliminari. Nell'esperienza sin qui fatta, l'intesa che ha preceduto ciascun contratto istituzionale di sviluppo è stata sottoscritto dai Ministri per la coesione territoriale, dell'economia e delle finanze, delle infrastrutture e dei trasporti, dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e dei beni e delle attività culturali e del turismo; mentre i contratti istituzionali di sviluppo veri e propri (articolato e allegati tecnici) sono stati firmati da: Ministro per la coesione territoriale, Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, presidenti di regione (di volta in volta interessati) e concessionari nazionali (Ferrovie dello Stato italiane-Rete ferroviaria italiana, per le ferrovie; Anas, per le strade);
              allo stato, sono stati sottoscritti 4 contratti istituzionali di sviluppo, previsti dalla delibera Cipe n.  62 del 3 agosto 2011: tre per opere ferroviarie (Napoli-Bari-Lecce-Taranto; Salerno-Reggio Calabria e Messina-Catania-Palermo) ed uno per un'infrastruttura stradale (Sassari-Olbia). Soltanto per la «Salerno-Reggio Calabria» (ferroviaria) e la «strada statale Sassari-Olbia» (stradale) il fabbisogno finanziario risulta integralmente coperto;
              il 2 agosto 2012 il Ministro per la coesione territoriale, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, le regioni Campania, Basilicata e Puglia, Ferrovie dello Stato italiane e Rete ferroviaria italiana hanno sottoscritto il contratto istituzionale di sviluppo, che riguarda l'esecuzione di lavori sull'intera tratta ferroviaria Napoli-Bari-Lecce-Taranto, il cui costo è pari a 7.116 milioni di euro per 22 interventi. Le disponibilità ammontano a 3.532 milioni di euro,

impegna il Governo:

          ad affrontare con determinazione tutte le problematiche rilevate nel Mezzogiorno e ad assumere ogni opportuna iniziativa per porre in essere azioni incisive di politica economica per sostenere e rilanciare la crescita e l'occupazione del Sud dell'Italia, che appare evidente essere l'unica strada concreta per una vera ripresa che interessi tutta l'Italia;
          ad assicurare con assoluta tempestività un congruo stanziamento che permetta di completare il finanziamento necessario a realizzare il contratto istituzionale di sviluppo che riguarda l'intera tratta ferroviaria Napoli-Bari-Lecce-Taranto;
          a sollecitare la rapida adozione da parte del Cipe della ripartizione programmatica tra le amministrazioni interessate delle risorse aggiuntive del Fondo per lo sviluppo e la coesione.
(1-00609)
(Nuova formulazione) «Pisicchio».


      La Camera,
          premesso che:
              con lettera della Commissione europea al Governo italiano, del 20 dicembre 2013, le risorse comunitarie assegnate all'Italia per i Fondi strutturali ammontano, per la politica di coesione relativa al periodo 2014-2020, a circa 32, 2 miliardi di euro, di cui oltre il 95 per cento dell'intero ammontare sono destinati in favore dell'obiettivo crescita e occupazione;
              quasi il 73 per cento di queste risorse è destinato alle regioni del Mezzogiorno anche se con modulazione differente;
              i fondi strutturali rappresentano quasi il 20 per cento di tutti gli investimenti pubblici, considerato il ridimensionamento della quota degli investimenti che le politiche di contenimento della spesa pubblica hanno determinato nel corso di questi anni;
              nel Mezzogiorno vive circa il 30 per cento dell'intera popolazione italiana e nella stessa area vive oltre il 50 per cento dell'intera platea dei disoccupati di questo Paese e, in tale grave contesto, alcune realtà territoriali, quali la Campania e la Calabria, rivestono i tratti di una vera e propria emergenza sociale;
              dal 2008 il prodotto interno lordo del Sud è calato di quasi 14 punti percentuali, contro un 5 per cento del resto del Paese;
              il prodotto interno lordo pro capite meridionale rappresenta appena il 56 per cento di quello del resto del Paese, riportando l'Italia ad una condizione quale quella degli anni Cinquanta;
              gli investimenti fissi lordi meridionali sono caduti, da inizio crisi, di oltre trenta punti percentuali, con punte di quasi il 50 per cento, in particolare, nel settore industriale con una forbice che è tornata ad allargarsi con tutto ciò che ne consegue in termini di coesione;
              attualmente, la spesa in conto capitale nel Mezzogiorno è tornata indietro di ben diciotto anni ed è allo stesso livello del 1996;
              secondo dati Svimez, il volume di risorse teoricamente disponibili con riferimento ai fondi strutturali per i prossimi due anni (13,5 miliardi di euro nel 2014 e 17,5 miliardi di euro nel 2015) potrebbe garantire un impatto macroeconomico che sarebbe molto significativo; l'impatto aggiuntivo sul prodotto interno lordo meridionale sarebbe di oltre un punto percentuale (1,3 per cento); nel 2015, l'incremento addizionale di prodotto interno lordo sarebbe pari a otto decimi di punto percentuale;
              tali investimenti, sempre secondo Svimez, potrebbero attivare nel Mezzogiorno un incremento occupazionale pari a 34 mila unità nel 2014 e ad oltre 82 mila unità nel 2015;
              fino ad oggi, come richiamato anche dalla stessa Commissione europea, la dispersione delle risorse in un numero eccessivo di progetti, la mancanza delle condizionalità ex ante, che mirano a garantire efficacia ed efficienza, la scarsa capacità amministrativa e l'assenza di piani specifici settoriali sono state le criticità che hanno caratterizzato la gestione dei fondi europei nel nostro Paese;
              nei prossimi sette anni, come ha avuto modo di esplicitare il Governo per voce del Sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei ministri, Graziano Del Rio, nel corso dell'informativa urgente svolta alla Camera dei deputati in data 7 ottobre 2014, la gestione dei fondi poggerà su tre pilastri: il Fondo per lo sviluppo e la coesione, il Piano di azione per la coesione e i fondi strutturali veri e propri;
              circa il 65 per cento dei comuni meridionali ha realizzato almeno un progetto finanziato dai fondi strutturali. Infatti, i fondi strutturali sono andati sempre più sostituendosi a quelli ordinari (spesso bloccati dal Patto di stabilità interno o da altre esigenze di finanza pubblica) e si sono dispersi in mille rivoli perdendo la loro caratteristica di risorse aggiuntive in grado di imprimere una spinta al processo di sviluppo;
              come ricordato dalla stessa Commissione europea, anche per superare i precedenti limiti programmatori, appare fondamentale rafforzare una struttura centrale di coordinamento in tema di audit e controllo (con personale tecnicamente adeguato nelle autorità di gestione e negli organismi intermedi) e che, più in generale, costituisca un «presidio» forte capace di rimuovere le inefficienze della pubblica amministrazione;
              un contributo molto importante al superamento del passato può e deve arrivare dall'Agenzia per la coesione territoriale che deve essere chiamata a svolgere la sua funzione di semplificazione e deve avere anche un ruolo di coordinamento e di pungolo all'impiego di tutte le risorse a disposizione;
              occorre un rilancio delle politiche industriali nel Mezzogiorno partendo dal monitoraggio delle risorse già stanziate e non ancora impiegate legate a strumenti della programmazione negoziata, ivi compresi i contratti d'area e i contratti di localizzazione;
              è indispensabile un rilancio delle politiche di infrastrutturazione, partendo dalle importanti opere inserite nell'ambito del decreto-legge n.  133 del 2014, non trascurando le potenzialità della macroregione adriatico-jonica;
              prioritario deve essere il contrasto alle marginalità e alla povertà diffusa che al Sud riguarda un quarto della popolazione; in alcune regioni come Calabria, Basilicata e Sicilia, il 30 per cento della popolazione è al di sotto della soglia di povertà;
              va affrontata definitivamente la questione relativa agli effetti negativi della «spesa storica» che in materia di welfare incidono in maniera penalizzante sul Mezzogiorno,

impegna il Governo:

          a velocizzare l’iter per rendere pienamente operativa l'Agenzia per la coesione territoriale con adeguata dotazione di personale, al fine di migliorare la capacità di impiego dei fondi strutturali sia per quanto riguarda la parte rimanente della programmazione 2010-2013, sia in relazione alla prossima programmazione;
          a proporre al Cipe, entro 30 giorni dall'approvazione della presente mozione, l'adozione di un'apposita delibera per la formalizzazione delle questioni legate al cofinanziamento, assicurando che tutte le risorse nazionali destinate al cofinanziamento rimangano comunque a disposizione delle regioni a cui erano originariamente destinate;
          a relazionare al Parlamento semestralmente circa l'impiego delle citate risorse;
          ad attivare una procedura concertativa con le regioni volta ad individuare i meccanismi correttivi e perequativi che consentano al Mezzogiorno di superare le criticità della «spesa storica» in materia di welfare;
          a procedere rapidamente ad un censimento delle risorse ancora disponibili e non ancora utilizzate nell'ambito degli strumenti della programmazione negoziata, finalizzato alla predisposizione di un piano di rilancio industriale, improntato sulle specificità e le eccellenze produttive presenti nel Mezzogiorno, avviando una nuova stagione di utilizzo degli strumenti della programmazione negoziata, ivi compresi i contratti d'area, i patti territoriali, i contratti di programma e i contratti di localizzazione, sulla base delle migliori pratiche e delle esperienze di successo del passato;
          a rafforzare, ulteriormente, i progetti in materia di sicurezza e legalità per contrastare la presenza dei fenomeni criminali, prima vera condizione per il rilancio delle politiche di sviluppo;
          a creare un apposito osservatorio sulle infrastrutture del Mezzogiorno con l'obiettivo di velocizzare gli investimenti in atto e individuare le priorità per la connessione del Sud ai principali corridoi di comunicazione europei;
          a potenziare i progetti concernenti il contrasto alla povertà come previsto dall'Obiettivo Tematico n.  9, mettendoli in relazione agli strumenti per la realizzazione di politiche attive di lavoro ed inserimento professionale per la creazione di un nuovo welfare;
          a concentrare la dovuta attenzione, nell'ambito della prossima programmazione, nei confronti di progetti legati alla messa in sicurezza del territorio e al contrasto dei fenomeni di dissesto idrogeologico che caratterizzano il Mezzogiorno;
          a valorizzare il patrimonio culturale e paesaggistico del Sud, riservando parte della dotazione disponibile a partire dal residuo della programmazione 2007-2013 per le politiche di recupero e promozione, mettendo in rete i grandi poli di attrazione e i siti Unesco;
          a riservare alle regioni del Sud parte della dotazione disponibile per quanto riguarda la programmazione 2014-2020 per le politiche ambientali nonché per il prosieguo dei processi di bonifica e messa in sicurezza dei siti di interesse nazionale e dei siti caratterizzati da particolari lavorazioni.
(1-00612) «Covello, Famiglietti, Tartaglione, Magorno, Raciti, Palma, Manfredi, Bonavitacola, Giorgio Piccolo, Oliverio, Tino Iannuzzi, Ragosta, Valeria Valente, Valiante, Salvatore Piccolo, Rostan, Bossa, Sgambato, Stumpo, Venittelli, Cardinale, Capone, Grassi, Schirò, Taranto, Mongiello, Albanella, Iacono, Massa, Antezza, Capodicasa, Mariano».


      La Camera,
          premesso che:
              il periodo di crisi economica avviatosi nel 2008 e tuttora ancora non concluso ha provocato un duro impatto sull'economia meridionale: tra il 2007 e il 2012, il Mezzogiorno ha perso il 10 per cento del prodotto interno lordo per un valore di circa 35 miliardi di euro: in base alle stime tale perdita dovrebbe aumentare a 47,7 miliardi di euro (-13,5 per cento), considerando il periodo 2007-2013; si stima una riduzione ancora più intensa (-34,3 per cento con una perdita di circa 28 miliardi di euro) nel medesimo periodo per quanto riguarda gli investimenti fissi lordi;
              in tale ambito, le analisi che emergono dal Rapporto Svimez per il 2014 sullo stato dell'economia del Mezzogiorno, ribadiscono una situazione di estrema gravità, in cui si evidenzia un quadro nazionale diviso e disuguale tra le due aree del Paese, ove la parte meridionale scivola sempre più nell'arretratezza: nel 2013 il divario del prodotto interno lordo pro capite è tornato ai livelli di dieci anni fa, negli anni di crisi 2008-2013 i consumi delle famiglie sono crollati quasi del 13 per cento, gli investimenti nell'industria addirittura del 53 per cento, i tassi d'iscrizione all'università sono tornanti ai primi anni del 2000 e, per la prima volta, il numero di occupati ha sfondato al ribasso la soglia psicologica dei 6 milioni, il livello più basso dal 1977;
              al rischio di desertificazione industriale e umana per intere aree meridionali (dalla Campania alla Sicilia), connesso al processo emigratorio che risulta essere inarrestabile (dal 2001 al 2011, 1,5 milioni di individui sono emigrati verso il Centro-Nord, di cui 188 mila laureati), si associano elementi socioeconomici di evidente debolezza, determinati dal calo delle nascite (nel 2013 si sono registrate solo 180 mila nascite, un livello che riporta al minimo storico registrato oltre 150 anni fa, durante l'Unità d'Italia), dall'aumento della povertà assoluta (2,3 milioni di individui, pari a circa il 50 per cento del totale delle persone che vivono nella povertà assoluta in Italia, le cui conseguenze hanno determinato un calo generale della domanda interna con ulteriori effetti negativi sull'attività economica delle imprese) nonché dal persistente calo della spesa pubblica e degli investimenti, in particolare quelli infrastrutturali;
              le manovre di finanza pubblica e di politica economica, effettuate in particolare dai Governi Monti e Letta, rapportate al prodotto interno lordo, hanno pesato più nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord, (secondo le stime contenute nel medesimo documento di previsione territoriale), considerato che nel 2015 il valore cumulato della spesa pubblica nel Meridione sarà ridotto del doppio rispetto al Centro-Nord: ovvero il 6,2 per cento contro il 2,9 per cento, penalizzando le aree territoriali interessate, in particolare per quanto riguarda le spese in conto capitale, che rappresentano una delle poche variabili in grado di stimolare la crescita dell'economia meridionale, già strutturalmente meno capace di agganciare la ripresa;
              le difficoltà economiche e finanziarie determinate in particolare dagli effetti del credit crunch del sistema delle imprese e delle famiglie meridionali e la stretta dei bilanci pubblici hanno avuto riflessi sulla dinamica occupazionale;
              l'emorragia di posti di lavoro rilevata trimestralmente dai principali organismi di rilevazione statistica e di ricerca, evidenzia, nel complesso, che tra il 2007 e il 2013 il Mezzogiorno ha registrato la perdita di 617 mila occupati: un calo del numero di occupati che conferma un quadro allarmante e con pochi precedenti, proseguito anche nel corso del primo trimestre del 2014, quando sono stati registrati oltre 100 mila occupati in meno rispetto alla media del 2013 e addirittura 170 mila occupati in meno rispetto all'anno precedente;
              il tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno cresciuto al 19,7 per cento (all'11 per cento nel 2007), superiore sia al valore medio italiano (12,2 per cento) sia a quello dell'Unione Europea a 28 (10,8 per cento), nel corso dei primi tre mesi del 2014 ha fatto segnare un ulteriore peggioramento (21,7 per cento nel Mezzogiorno e 13,6 per cento in Italia); in tale ambito la fascia della popolazione maggiormente colpita dalla crisi occupazionale risulta essere quella giovanile (nel 2007, il tasso di disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno era pari al 32,3 per cento e, a differenza del 2013, è aumentato al 51,6 per cento, interessando un giovane su due) e, considerando i dati relativi al primo trimestre dell'anno che mostrano un ulteriore peggioramento (60,9 per cento per il Mezzogiorno e 46 per cento per l'Italia), emerge nel complesso uno scenario di estrema preoccupazione sia economica, sia relativa ai rischi di destabilizzazione di ogni forma di coesione e tenuta sociale per le aree territoriali del Mezzogiorno;
              il drastico calo di investimenti pubblici, manifestati dall'alleggerimento della spesa in conto capitale ridotta nel Mezzogiorno a 5 miliardi di euro (periodo 2009-2013), tornata ai livelli del 1996, che ha contribuito ad una diminuzione sia degli appalti pubblici che di quelli privati, di oltre il 34 per cento, dal 2007 al 2013, con punte superiori al 45 per cento nell'industria in senso stretto (periodo 2007-2012) secondo il check up di Confindustria-Srm (Studi e ricerche per il Mezzogiorno) sullo stato di salute dell'economia meridionale, configura una situazione paradossale, se si considerano le difficoltà economiche che suggerirebbero l'opportunità di una azione pubblica decisamente anticiclica;
              a tal fine, risulta ancor più grave il ritardo nell'utilizzo delle risorse del complesso della politica di coesione e della mancata incisività dell'Agenzia per la coesione territoriale, la cui leva tecnica utilizzata per monitorare la spesa ed intervenire in casi di inerzia, avviata dal Governo Letta e proseguita dal presente Esecutivo Renzi, prosegue con estrema lentezza ed inefficienza;
              le problematiche concernenti le risorse del Piano d'azione per la coesione e del Fondo per lo sviluppo e la coesione, che ammontano a circa 20 miliardi di euro relative al ciclo dei fondi strutturali 2007-2013 da utilizzare entro il 31 dicembre 2015, di cui 5 miliardi di euro in capo alle amministrazioni centrali, che su alcuni programmi segnano il passo al pari delle regioni Campania, Sicilia e Calabria, rendono evidenti sia le persistenti difficoltà nelle procedure di utilizzo dei fondi, sia, al contempo, l'esigenza e la necessità di introdurre in tempi rapidi misure di accelerazione volte ad utilizzare le risorse non spese a favore dell'economia del Mezzogiorno e del tessuto imprenditoriale e sociale investito da una crisi senza precedenti dopo la seconda guerra mondiale;
              il rischio della perdita di circa 6-7 miliardi di euro, secondo le recenti affermazioni del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega ai fondi comunitari, evidenzia, infatti, come nell'attuale stagione di crescita mancata, la restituzione in sede europea dei fondi non utilizzati comprometterebbe fortemente la credibilità dell'azione del Governo e dell'intero Paese, aumentando il gap di competitività con l'Europa;
              nello scenario consolidato in cui si muove il Mezzogiorno – ampiamente caratterizzato da risultati negativi: ridimensionamento della struttura imprenditoriale; perdita di occupati; ridotta capacità di produrre; ripresa dell'emigrazione (con conseguente invecchiamento della popolazione); peggioramento della qualità della vita, in un'area nella quale la spesa corrente ha ripreso a crescere e quella pubblica per gli investimenti ha proseguito il suo andamento declinante, la politica di coesione riveste un ruolo decisivo e fondamentale, in grado di invertire addirittura la tendenza da negativa a positiva;
              le elaborazioni predisposte dalla Svimez e da altri organismi di ricerca e di analisi delle politiche sociali ed economiche per il Mezzogiorno confermano, infatti, che se, per ipotesi, si riuscissero a spendere tutte le risorse tecnicamente disponibili, l'impatto potenziale sul prodotto interno lordo nelle intere macro-aree del meridione sarebbe pari all'1,3 per cento, determinando 34 mila nuovi posti di lavoro nel 2014, 82.400 nel 2015;
              un utilizzo pieno ed efficace delle risorse per la politica di coesione, comunitarie e nazionali, rappresenta a tal fine, un'occasione unica per promuovere la ripresa degli investimenti, anche e soprattutto nella prospettiva della programmazione 2014-2020, per rilanciare l'economia del Mezzogiorno, le cui regioni sono strutturalmente più legate ai flussi di domanda interna, sia pubblica (investimenti della pubblica amministrazione e consumi collettivi), sia ai consumi delle famiglie, come dimostrato i dati decrescenti in Campania e Sicilia;
              a tal fine, per favorirne l'utilizzo, appare necessario una decisione in ambito europeo, connessa alle criticità derivanti dal vincolo del Patto di stabilità, che escluda il cofinanziamento nazionale dei fondi strutturali e del Fondo per lo sviluppo e la coesione dal calcolo del Patto di stabilità interno, non conteggiando la spesa per investimenti, almeno quelli cofinanziati, nella spesa considerata per gli obiettivi di deficit;
              le pressioni e le titubanze dimostrate dal Governo Renzi, sia in ambito europeo che nazionale, sulla definizione concreta dei meccanismi di flessibilità nell'attuazione del Patto di stabilità e di una più rigorosa programmazione delle risorse del fondo sviluppo e coesione, impongono una più marcata attenzione da parte del Parlamento, affinché non si disperdano le ingenti risorse a disposizione, al fine di garantire che ogni euro speso costituisca un effettivo volano di sviluppo per l'auspicata ripresa economica delle regioni del Mezzogiorno;
              interventi da parte delle amministrazioni centrali e regionali volti ad accelerare la spesa delle risorse residue della programmazione 2007-2013, a cui affiancare, in parallelo, azioni per un rapido avvio della nuova programmazione 2014-2020 che può mobilitare risorse per oltre 60 miliardi di euro, di cui una rilevante parte per le macro-aree meridionali, risultano a tal fine urgenti e prioritari, in considerazione peraltro del semestre italiano di Presidenza del Consiglio europeo, come peraltro ribadito dall'Agenda strategica per l'Unione europea;
              il monitoraggio volto a definire la conclusione dell'accordo di partenariato con la Commissione europea unitamente a tutti i programmi operativi presentati, da parte delle regioni e delle amministrazioni centrali, al fine di avviare, concretamente, la spesa già dal 1o gennaio 2015, appare altresì indifferibile, per rivedere le strategie d'indirizzo e utilizzare il potenziale della politica di coesione in favore delle aree interessate;
              iniziative amministrative e finanziarie, per accelerare l'utilizzo delle risorse vecchie e nuove del Fondo per lo sviluppo e la coesione e del Piano d'azione per la coesione, che integrano e completano, anche dal punto di vista tematico, le risorse dei fondi strutturali, per favorire la competitività del tessuto produttivo e migliorare la dotazione infrastrutturale e di servizi, nonché per sostenere l'istruzione e le competenze dei cittadini meridionali non potranno a tal fine che innescare un processo favorevole, sebbene graduale, in termini di ripresa sociale ed economica dell'Abruzzo, della Campania, del Molise, della Puglia, della Basilicata, della Calabria, della Sicilia e della Sardegna e favorire il recupero e la valorizzazione di un patrimonio naturale, turistico e culturale che costituisce nell'insieme la maggiore risorsa inutilizzata;
              l'azione di intervento dell'Agenzia per la coesione territoriale, attualmente inefficace e ritardata, come in precedenza richiamato, necessita di essere sollecitata, non solo per assicurare la spesa dei fondi non utilizzati, necessari per il riequilibrio territoriale degli investimenti pubblici, ma per favorire la ripresa dell'intero Mezzogiorno;
              il proseguimento della ridefinizione dei programmi comunitari avviato con il Piano di azione per la coesione, concordato negli anni precedenti con la Commissione europea, dal Ministro per gli affari regionali e la coesione territoriale pro tempore, Raffaele Fitto, e proseguito dal Ministro pro tempore Fabrizio Barca, all'interno del quale indicare le priorità d'intervento e soprattutto di revisione dei meccanismi di attribuzione dei fondi, nonché di accorciare i tempi che intercorrono tra decisioni programmatiche ed attuazione degli interventi, rappresenta una linea di continuazione indispensabile per l'impatto che l'utilizzo che i fondi strutturali avrà sull'economia del Mezzogiorno,

impegna il Governo:

          ad intervenire in tempi rapidi al fine di accelerare le procedure di utilizzo dei fondi europei del ciclo 2007-2013, con specifico riferimento ai residui di spesa non utilizzati delle regioni del Mezzogiorno;
          a porre in essere misure più incisive in grado di migliorare l'attività dell'Agenzia per la coesione territoriale, le cui difficoltà operative e di monitoraggio, nell'attività di spesa e soprattutto di esercizio dei poteri sostituivi in caso di inoperosità, si sono dimostrate nel corso del 2014 evidenti;
          ad intervenire in sede comunitaria, affinché nell'ambito del pacchetto legislativo sulla coesione 2014-2020 si confermi l'esclusione dal calcolo del Patto di stabilità e crescita del cofinanziamento nazionale alla politica di coesione, in coerenza peraltro con la risoluzione approvata dal Parlamento europeo dell'8 ottobre 2013, «sugli effetti dei vincoli di bilancio per le autorità regionali e locali con riferimento alla spesa di Fondi strutturali dell'Ue negli Stati membri»;
          ad intervenire altresì in sede comunitaria, al fine di introdurre in favore della Campania e delle altre regioni del Mezzogiorno una serie di misure, anche in via temporanea, di carattere eccezionale, sia di alleggerimento fiscale e contributivo, che finanziarie in grado di rilanciare l'economia reale del meridione, in considerazione della fase socioeconomica di estrema emergenza che investe le macro-aree delle regioni interessate;
          ad adottare ulteriori iniziative, per quanto di competenza, volte a tutelare il tessuto socioeconomico delle famiglie e delle imprese, specie nel Mezzogiorno, dagli effetti del credit crunch, la cui contrazione creditizia ha contribuito a determinare un impatto sul prodotto interno lordo fortemente negativo;
          ad invertire le linee di indirizzo e di programmazione nei confronti del Mezzogiorno, ribadite peraltro dall'assenza di interventi degni d'importanza all'interno della nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza, la cui politica economica e industriale, a distanza di quasi nove mesi dall'insediamento del Governo, si sta dimostrando estremamente deludente ed inefficace come dimostrato dai principali indicatori statistici ed economici;
          a prevedere infine interventi ad hoc, in coerenza con le disposizioni comunitarie in materia di aiuti di Stato, in favore della Campania e delle altre regioni del Mezzogiorno, per sostenere le famiglie e le imprese, ed evitare che gli effetti derivanti dalle manovre di finanza pubblica degli anni precedenti, che hanno concorso a penalizzare in maniera significativa l'economia meridionale, possano configurarsi anche in questa occasione.
(1-00614)
(Nuova formulazione) «Palese, Russo».


      La Camera,
          premesso che:
              la crisi economica ha inciso e sta incidendo in misura significativa sulla produzione, sui consumi, sull'attività delle piccole e medie imprese, soprattutto allocate nel Mezzogiorno d'Italia;
              la crisi economica evidenzia ogni giorno di più l'esigenza di una rinnovata e prioritaria attenzione in particolare per il Sud ai problemi dell'occupazione, del lavoro, dei redditi e dell'impresa;
              ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, l'attuale politica governativa, per molti aspetti sembra non abbia ancora una strategia indirizzata al miglioramento e all'innovazione del contesto, con un evidente vuoto d'iniziativa che emerge come grave di fronte ad una crisi che colpisce particolarmente l'economia meridionale dispiegando effetti drammatici, anche se talvolta meno visibili a causa della frammentazione del tessuto imprenditoriale e del peso dell'economia cosiddetta a-legale, sospesa tra sommerso e illegalità;
              a fronte di questa situazione disastrosa l'impegno del Governo per il Mezzogiorno sembrerebbe racchiuso nell'unica promessa del raccordo dei fondi strutturali, cosa di per sé positiva ma del tutto insufficiente a risolvere l'enorme problema;
              v’è sovente inefficienza o vero e proprio spreco, nel mancato utilizzo delle risorse europee per le regioni del Sud. Ma è noto anche che non basta mettere in elenco le risorse dei fondi europei per risolvere la questione perché i dati che sono sotto i nostri occhi non possono essere modificati con le semplici buone intenzioni, né con la sola stigmatizzazione delle regioni inadempienti. Occorre viceversa comprendere che la crisi del Mezzogiorno è la crisi dell'intero Paese e occorre agire di conseguenza con interventi urgenti e prioritari;
              al Sud vi è un gap infrastrutturale, in termini di trasporti, logistica, ricerca e innovazione, rispetto al resto del Paese; le conseguenze della presenza delle associazioni mafiose nel Mezzogiorno si intrecciano in modo complesso con l'economia del Sud, stravolgendo le regole del «fare impresa» e scoraggiando gli investimenti stranieri, oltre che creando un grave e indiscusso disagio sociale. Tutto ciò appare paradossale se solo si pensa che ogni iniziativa di carattere pubblico adottata nella storia repubblicana in favore del Sud va regolarmente a patire gli effetti della corruzione e dello sperpero. A tal proposito è opportuno fare appena cenno a quanto accaduto negli ultimi decenni: il Sud ha fruito, infatti, dapprima dei fondi della Cassa per il Mezzogiorno, durata dal 1950 al 1992, la quale dal 1957 in avanti erogò contributi a fondo perduto e crediti agevolati. Nel primo ventennio circa di attività la Cassa per il Mezzogiorno sembrò funzionare, ma la qualità del suo servizio andò progressivamente declinando mano a mano che i partiti invadevano e inquinavano la vita pubblica. La Cassa per il Mezzogiorno tramontò malinconicamente, abbandonata agli scandali e rappresentò uno dei più gravi esempi di corruzione e di interrelazione fra affari, politica e malavita nel Sud;
              poi fu la volta dei fondi della legge n.  488 del 1992, oggetto di frodi e di truffe fino alla sua conclusione avvenuta nel 2008. La legge n.  488 del 1992 è stata lo strumento attraverso il quale il Ministero delle attività produttive aveva messo a disposizione delle imprese che intendevano promuovere programmi di investimento, nelle aree depresse, agevolazioni sotto forma di contributi in conto capitale («a fondo perduto»);
              nel frattempo si erano aggiunti i fondi europei, destinati dall'Unione europea alle politiche di coesione, ma anche questi non hanno fatto una fine migliore. La sintesi migliore la offrì il Governatore della Banca d'Italia pro tempore Draghi nelle «considerazioni finali» di una delle sue relazioni in Banca d'Italia: «Il Mezzogiorno ha goduto in questo decennio (1998-2008) di fondi paragonabili per entità a quelli dell'intervento straordinario e che equivalevano a circa 45 miliardi di euro o a quasi tre punti di PIL». E tuttavia non esiste evidenza di vantaggi visibili;
              un esempio su tutti è quello legato al capitolo di spesa privilegiato dalla riprogrammazione dei programmi della convergenza, ossia dell'Agenda digitale europea: 1.140 milioni di euro destinati agli investimenti nel Sud per la banda ultralarga, 118,9 milioni di euro per la banda larga fino a 2 mega, 320 milioni di euro per i data center;
              allo stesso modo si rammentano i 1.242 milioni di euro destinati esclusivamente alle quattro regioni obiettivo convergenza (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia), o i 142 milioni di euro per il credito di imposta per l'occupazione, o ancora le risorse per la rete dei trasporti, cui erano stati assegnati 1,2 miliardi di euro: per strade (866 milioni di euro) e aeroporti (28 milioni di euro);
              ma la sequenza di interventi che tardano a dispiegare effetti non finisce qui: si pensi alla legge n.  191 del 2009 che ha previsto la nascita di una banca con l'obiettivo di finanziare progetti di investimento nel Mezzogiorno, di erogare credito alle piccole e medie imprese, di favorire la nascita di nuove imprese e l'imprenditorialità giovanile e femminile, nonché di promuovere l'aumento dimensionale e l'internazionalizzazione di tali imprese, di finanziare attività di ricerca e innovazione, il tutto come detto, nelle regioni del Sud Italia. Per questo motivo, il 1o agosto 2011 Poste Italiane spa aveva acquisito, per 136 milioni di euro, il 100 per cento di Unicredit Mediocredito Centrale e, pertanto, da settembre 2011, la nuova denominazione societaria è Banca del Mezzogiorno – Mediocredito Centrale spa operativa dal 2 febbraio 2012;
              tuttavia anche in questo caso, nonostante siano i soldi pubblici a sostenere l'impresa, non pare che detto strumento abbia dato respiro alle piccole e medie imprese del Sud. Nel corso della XVII legislatura sono state già presentate diversi atti di sindacato ispettivo nei quali vengono richiesti i dettagli delle erogazioni della Banca del Mezzogiorno perché sovente destinati a gruppi industriali estranei alla «mission» meridionalista dell'istituto finanziario;
              da tali esperienze consegue che, per uscire dall'angolino dove la storia lo ha confinato, il Mezzogiorno ha bisogno di buona amministrazione, di correttezza, di lungimiranza e non di farsesche vicende di comuni, di municipalizzate e di privilegi regionali;
              è fondamentale che lo Stato rafforzi la propria presenza in tali territori, consolidando i tribunali, presidio di legalità e freno alla criminalità; occorre un intervento capace di promuovere sviluppo ed occupazione nel Mezzogiorno, al fine di favorire la ripresa dell'economia meridionale, come base per la crescita e lo sviluppo dell'intero Paese anche favorendo, sin dall'età scolare, percorsi educativi volti a stimolare un cambio culturale che determini già in età giovanile l'educazione all'impresa. In questo momento di crisi molte imprese sono costrette alla chiusura, non rientrando nei parametri degli studi di settore e il complesso scenario economico italiano, aggravato dalle conseguenze della crisi finanziaria, pone ancora una volta in primo piano la questione di un Paese con due differenti velocità di sviluppo: nel Mezzogiorno si produce solo un quarto del prodotto interno e si genera soltanto un decimo delle esportazioni italiane;
              il Mezzogiorno italiano è ancora privo di quella rete di infrastrutture essenziale per lo sviluppo e negli ultimi anni si è avvertita l'assenza, nei programmi di Governo, di un respiro strategico, volto a ridurre il gap economico, infrastrutturale e sociale del Sud;
              come già descritto nel presente atto di indirizzo, per lungo tempo si è assistito alla distorsione delle risorse destinate al Sud perché oggetto ora di dissennati tagli operati sulla dotazione del fondo per aree sottoutilizzate per finanziare interventi di diversa natura o fatti oggetto di corruttela o non sempre corrispondenti a finalità di sviluppo e quasi sempre non localizzati nel Mezzogiorno. Ed invece il Meridione, grazie alla posizione geografica ed alla dotazione di porti e aeroporti, potrebbe svolgere un ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa, Mediterraneo e Paesi del far east e raccogliere le nuove opportunità del contesto competitivo internazionale;
              altresì si consideri che oltre un terzo dei laureati del Mezzogiorno under 34 è inattivo e la differenza con le regioni settentrionali diventa enorme se si considera il tasso di inattività dei diplomati under 34; i tassi di scolarizzazione in Italia presentano divari sfavorevoli al Meridione e sono accompagnati da un parallelo aumento del tasso di abbandono, dovuto alle condizioni di degrado sociale e familiare. Negative sono anche le evidenze in termini di «qualità» della formazione, dal momento che gli studenti meridionali che terminano la loro carriera accademica hanno maggiori difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro. Si genera così un ampio fenomeno migratorio dei «cervelli» che lasciano le regioni del Sud, provocando un depauperamento del capitale umano disponibile;
              il sistema produttivo del Mezzogiorno è legato a fattori strutturali di debolezza che riguardano le dimensioni piccole o piccolissime delle imprese di quest'area, spesso a gestione familiare, operanti prevalentemente in settori a basso valore aggiunto e con una conseguente scarsa propensione a investire nell'innovazione e in ricerca e sviluppo; inoltre, come già detto, permane una forte presenza della criminalità organizzata, che tenta di infiltrarsi nei grandi appalti per opere pubbliche e tenta di condizionare l'attività di impresa, e della microcriminalità che peggiora la qualità della vita nei centri urbani, aumentando il disagio sociale;
              eppure il Sud avrebbe modo di risollevare le sorti occupazionali già solo attraverso l'industria del turismo, tuttavia i dati relativi al turismo nel Meridione sono paradossali: su 100 stranieri che visitano l'Italia, meno di 1 va in Calabria (0,9 per cento per chi ama l'esattezza), ancora meno in Molise. In Basilicata si raggiunge lo 0,1 per cento e in Abruzzo lo 0,6 per cento. Sommando le otto regioni meridionali, includendo Sicilia e Sardegna, si arriva al 13,2 per cento. Fa di più il solo Trentino Alto Adige, con il 14,2 per cento. Le politiche del turismo sono pertanto fallimentari;
              vari studi hanno tentato di quantificare, in termini di ritorno economico e occupazionale, lo sviluppo turistico del Sud anche per sollecitare un cambiamento culturale in tal senso ma nulla sembra essersi modificato in questi anni e la causa non è la mancanza di fondi (le recenti difficoltà del Programma operativo interregionale «Attrattori culturali, naturali e turismo» confermano che le criticità sono spesso politiche): i contributi europei arrivati al Sud non hanno generato virtuose sinergie tra destinazioni, operatori e investitori esterni, né hanno dato vita a poli di eccellenza che potessero «contaminare» positivamente i territori;
              è necessario promuovere lo sviluppo sostenibile del territorio e coniugare il tutto alle imprescindibili logiche di mercato del turismo che impongono prodotti, servizi e infrastrutture in grado di far fronte a una domanda che ha sempre più alternative a disposizione. Occorre selezionare, previa individuazione, le strutture, i siti, i beni di più grande interesse siti nel Meridione e abbandonati a sé stessi – ve ne sono di innumerevoli – e procedere per la loro valorizzazione sul piano nazionale,

impegna il Governo:

          ad assegnare al tema dello sviluppo economico e sociale del Mezzogiorno una valenza prioritaria nell'ambito della politica economica nazionale e di quella comunitaria di coesione;
          ad assumere politiche in grado di favorire la localizzazione delle attività produttive nelle aree del Sud, rafforzando così il tessuto produttivo e favorendo i processi di agglomerazione produttiva, i cui benefici ricadranno anche sulle imprese del Centro-Nord che non riescono a reperire aree industriali e manodopera qualificata;
          a portare la dotazione infrastrutturale del Mezzogiorno ai livelli del resto del Paese;
          a promuovere una politica di sviluppo che, sulla base della rilevata inefficacia degli interventi effettuati per il Mezzogiorno nell'ultimo decennio, tenda a privilegiare interventi infrastrutturali in una logica di concentrazione settoriale delle risorse;
          ad assumere un impegno straordinario per sconfiggere la criminalità organizzata e tutti quei fenomeni di illegalità, dal lavoro sommerso alla microcriminalità, che determinano un ambiente sfavorevole agli investimenti ed allo sviluppo;
          a favorire lo sviluppo nelle regioni meridionali di un sistema creditizio e finanziario che sia in grado di accompagnare e promuovere la crescita dimensionale, l'innovazione e l'internazionalizzazione delle imprese, anche con particolare riferimento alle iniziative in essere, quali quelle della Banca del Mezzogiorno, attraverso un chiaro utilizzo delle risorse, espressamente diretto al soccorso delle piccole e medie imprese meridionali;
          a valutare l'opportunità di definire progetti finalizzati al rientro nelle regioni di provenienza dei giovani ad alta e altissima qualificazione universitaria e post-universitaria, contribuendo in tal modo ad invertire i consistenti flussi di emigrazione che coinvolgono in modo preoccupante le migliori energie intellettuali del Mezzogiorno;
          a valutare l'opportunità di porre in essere iniziative che favoriscano e incentivino il consolidamento di un tessuto imprenditoriale meridionale, creando un contesto favorevole allo sviluppo economico ed alla crescita dell'occupazione;
          a valutare l'opportunità di operare, partendo dall'esigenza di tutelare e valorizzare le produzioni tipiche del Mezzogiorno, per l'affermazione di una filiera agricola tutta italiana, che parta proprio dalla specifica vocazione del territorio e che voglia investire sulle positività, per garantire i livelli occupazionali e dare ai produttori la giusta remunerazione;
          ad avviare con estrema urgenza un piano di interventi strutturali e infrastrutturali a sostegno della crescita e dello sviluppo dell'intera regione meridionale incentivando e promuovendo le tematiche ambientali;
          ad avviare ogni iniziativa utile a promuovere la raccolta differenziata, il riciclo e la trasformazione dei rifiuti, cogliendo tali opportunità anche a fini occupazionali;
          a valorizzare, d'intesa con le regioni, processi di infrastrutturazione sociale che stimolino – in particolare nel Mezzogiorno – il protagonismo dei soggetti locali, forme di cooperazione tra soggetti privati e pubblici, la mutualità, il microcredito, prestiti d'onore ai giovani, la realizzazione di imprese no profit e di cooperative di produzione e lavoro, l'espansione delle forme di economia civile, anche sostenendo la realizzazione di fondazioni di comunità o istituendo fondi di distretto, con una particolare attenzione alla piccola e media impresa;
          a promuovere iniziative volte a selezionare, previa individuazione, le strutture, i siti, i beni di più grande interesse ubicati nel Meridione e abbandonati e procedere alla loro valorizzazione sul piano nazionale;
          a promuovere iniziative volte a favorire, sin dall'età scolare, percorsi educativi finalizzati a stimolare un cambio culturale che determini già in età giovanile l'educazione all'impresa con particolare riferimento a quella legata alle risorse dei luoghi;
          a promuovere interventi urgenti di contrasto al lavoro nero attraverso controlli stratificati sul territorio e, nello specifico, nelle aree meridionali;
          ad utilizzare, nell'ambito delle politiche nazionali, la leva fiscale e contributiva in favore delle piccole imprese e della famiglia;
          a definire un piano nazionale di contrasto alla povertà che presti una particolare attenzione alle regioni del Mezzogiorno.
(1-00621) «Baldassarre, Currò, Rostellato, Barbanti, Tripiedi, Bechis, Chimienti, Ciprini, Cominardi, Rizzetto».


      La Camera,
          premesso che:
              la Svimez, Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, nell'anticipazione del rapporto 2014 sull'economia del Mezzogiorno, presentato a fine luglio 2014, ha sostenuto che il sud Italia sta scivolando verso il deserto industriale sociale;
              la dimensione di quello che pare un inarrestabile declino è evidenziata dalle seguenti cifre:
                  a) per il settimo anno consecutivo il prodotto interno lordo del Mezzogiorno registra segno negativo: nel 2013 il prodotto interno lordo è sceso nel Mezzogiorno del 3,5 per cento, in misura maggiore rispetto all'anno precedente (-3,2 per cento); il prodotto interno lordo pro capite è tornato ai livelli di dieci anni fa: 16.888 euro nel 2013 contro i 16.511 euro del 2005;
                  b) sono paralizzate le opere pubbliche: nel 2012 fatta pari a 100 la spesa in titolo al Centro-Nord, la spesa nelle regioni meridionali è pari a 67; si spende un quinto di quando si spendeva negli anni Settanta;
                  c) negli anni 2008-2013 il settore manifatturiero al Sud ha perso il 27 per cento del proprio prodotto e gli investimenti nell'industria sono diminuiti del 53 per cento. Il settore delle costruzioni si è contratto del 35,3 per cento, contro il 23,8 per cento del Centro-Nord. Nel solo 2013 l'industria si è contratta del 7,6 per cento (-3,2 per cento al Centro-Nord). L'agricoltura dello 0,2 per cento al Sud (+ 0,6 per cento al Centro-Nord);
                  d) gli occupati sono scesi sotto i 6 milioni (5,8 milioni) per la prima volta dal 1977;
                  e) negli anni 2008-2013 i consumi delle famiglie si sono ridotti del 13 per cento; nel solo 2013, del 2,4 per cento, risultando, tale percentuale, di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7 per cento nel periodo considerato);
                  f) nel 2013 la povertà assoluta è aumentata del 2,8 per cento contro lo 0,5 per cento del Centro-Nord; in cinque anni le famiglie meridionali in stato di assoluta indigenza sono cresciute da 443 mila a 1 milione e 14 mila nuclei;
              in questo ambito, particolarmente grave risulta la situazione della Campania dove, nel periodo di crisi:
                  a) gli investimenti pubblici sono crollati del 44,7 per cento;
                  b) i consumi delle famiglie sono diminuiti del 14,2 per cento;
                  c) il saldo occupazionale (dati Unioncamere) nel 2014-2014 registrerà un valore negativo di 33.500 unità, con un crollo dell'occupazione nelle piccole e medie imprese;
                  d) il tasso di occupazione è stimato al 40 per cento, inferiore di 17 punti della media nazionale; il tasso di disoccupazione è aumentato dal 22,2 del primo trimestre 2013 al 23,5 del primo trimestre 2014;
              la famiglie campane pagano imposte locali più alte del 20 per cento rispetto alla media nazionale;
              i servizi di welfare sono ridotti al minimo, in quanto i dai dati diffusi a maggio 2014 dal Ministero della salute, la Campania è al di sotto del punteggio minimo di 130, totalizzando invece 117, ultima tra le regioni; peraltro, la vita media dei campani è di 18 mesi più bassa di quella del resto degli italiani;
              le politiche di sviluppo basate sull'utilizzo dei fondi comunitari, molto spesso sostitutivi delle risorse statali per gli investimenti, registrano dati fortemente negativi per tutte le regioni meridionali; anche in questo caso i dati diffusi dall'Eurispes ad agosto 2014 parlano di un Paese a 2 velocità; da una parte il Nord dove sono stati spesi circa il 75 per cento dei finanziamenti; dall'altra il Sud nel quale si registrano stati di attuazione dei programmi operativi particolarmente modesti;
              per quanto riguarda il fondo europeo per lo sviluppo regionale (Fers, per il quale il tasso di utilizzo dell'Unione europea è del 61 per cento), la Campania si ferma al 33,3 per cento, la Calabria al 36,5 per cento, la Sicilia al 40,5 per cento. Quanto al fondo sociale europeo (Fse, per il quale il tasso di utilizzo dell'Unione europea è del 58,6 per cento), l'utilizzo è bloccato al 56,4 per cento in Sicilia, al 59,1 per cento in Campania, al 62 per cento in Puglia; complessivamente tra fondi europei per lo sviluppo regionale e fondo sociale europeo gli stanziamenti non spesi sono: 2,52 su 3,99 miliardi di euro in Campania, 2,4 su 4,3 miliardi di euro in Sicilia; 1,3 su 3,25 miliardi di euro in Puglia; 1,12 su 1,92 miliardi di euro in Calabria, 146 milioni di euro su 429 in Basilicata;
              le risorse originariamente programmate nel quadro strategico nazionale 2007-2013 ammontavano originariamente a oltre 60 miliardi di euro, di cui circa 28,8 miliardi di euro di fondi strutturali provenienti dall'Unione europea e circa 31,6 miliardi di euro di risorse di cofinanziamento nazionale (iscritti sul fondo di rotazione per l'attuazione delle politiche comunitarie previsto dalla legge n.  183 del 1987), destinati a finanziare tre obiettivi prioritari di sviluppo;
              la gran parte di tali risorse, 43,6 miliardi di euro, all'incirca il 75 per cento del totale, risultava destinate all'obiettivo «convergenza», che interessa le regioni Calabria, Campania, Puglia, Sicilia, cui si aggiunge la Basilicata (considerata in regime di phasing-out dall'obiettivo «convergenza»). All'obiettivo «competitività», che interessa tutto il Centro-Nord, l'Abruzzo e il Molise, nonché la Sardegna (in regime di phasing-in) erano assegnati 15,8 miliardi di euro (circa il 22 per cento delle risorse complessivamente destinate all'Italia). La quota residua, 0,8 milioni di euro, interessa i programmi dell'obiettivo «cooperazione territoriale»;
              a seguito del piano di azione per la coesione, l'ammontare complessivo delle risorse destinate ai programmi operativi (quota comunitaria più cofinanziamento nazionale) si è ridotto da 60,1 miliardi di euro (28,5 miliardi di euro di fondi comunitari e 31,6 miliardi di euro di cofinanziamento) a circa 48,5 miliardi di euro. Sulla base delle informazioni disponibili (fornite dalla Ragioneria generale dello Stato), alla data del 30 giugno 2014 le risorse ancora da spendere entro il 31 dicembre 2015 (termine ultimo per effettuare pagamenti) ammontano a circa 20 miliardi di euro, la maggior parte dei quali (15 miliardi di euro) nell'area dell'obiettivo «convergenza»;
              nelle sedi parlamentari il Sottosegretario di Stato Delrio ha denunciato come «nonostante gli sforzi enormi fatti dai miei predecessori nel cercare di recuperare il tempo perduto, la programmazione 2007-2013 è la peggiore in termini di risultato nella spesa.». Ad aprile 2014 il Governo ha effettuato una nuova riprogrammazione dei fondi dell'Unione europea 2007-2013 per evitare di perdere 5 miliardi di euro;
              il Sottosegretario di Stato Delrio ha infine annunciato che, salvo modifica delle quote di cofinanziamento, la programmazione 2014-2020 potrà contare su 32 miliardi di euro di fondi strutturali europei cui ne vanno aggiunti altrettanti di cofinanziamenti nazionali (24 miliardi di euro a carico dello Stato, il resto a carico delle regioni). Il Sottosegretario di Stato Delrio ha anche indicato tre priorità per questo nuovo programma: competitività delle imprese, occupazione e istruzione/formazione;
              nel corso degli ultimi quattro anni numerosi sono stati i tentativi di approvare norme di accelerazione di spesa dei fondi comunitari:
                  a) la delibera del Cipe n.  1 del 2011 redatta dal Governo Berlusconi ha definito le linee operative del «piano per il Sud», individuando un percorso per l'accelerazione e la riprogrammazione delle risorse destinate alle aree sottoutilizzate, sia quelle di carattere aggiuntivo, previste dal Fondo per lo sviluppo e la coesione (ex Fondo per le aree sottoutilizzate), sia quelle definite dai fondi strutturali dell'Unione europea, mediante la fissazione di target di impegno e di spesa certificata alla Commissione europea, che tuttavia non ottenne risultati significativi;
                  b) la legge finanziaria per il 2012 (l'ultima legge approvata dal Governo Berlusconi) esclude dal patto di stabilità «le spese correnti e in conto capitale per interventi cofinanziati correlati ai finanziamenti dell'Unione europea», tuttavia il mancato conteggio opera «con esclusione delle quote di finanziamento statale e regionale»;
                  c) nel novembre 2011, preso atto degli insoddisfacenti esiti del «piano per il Sud», è stato adottato il «piano di azione per la coesione», con lo scopo di superare i ritardi che si sono registrati, a cinque anni dall'avvio dell'operatività dei fondi strutturali 2007-2013. Il piano definiva un'azione strategica di concentrazione degli investimenti in quattro ambiti prioritari di interesse strategico nazionale (istruzione, Agenda digitale, occupazione e infrastrutture ferroviarie), attingendo ai fondi che si rendono disponibili, anche attraverso una riduzione del tasso di cofinanziamento nazionale degli interventi dei fondi strutturali;
              il decreto-legge n.  201 del 2011 (il cosiddetto «salva Italia» del Governo Monti), convertito, con modificazioni, dalla legge n.  214 del 2011, prevede (articolo 3, comma 1) di escludere 1.000 milioni di euro per l'anno 2012, 1.800 milioni di euro per l'anno 2013 e 1.000 milioni di euro per l'anno 2014 «delle spese effettuate a valere sulle risorse dei cofinanziamenti nazionali dei fondi strutturali comunitari»;
              l'articolo 4 del decreto-legge n.  76 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n.  99 del 2013, al fine di rendere disponibili le risorse derivanti dalla riprogrammazione dei programmi nazionali cofinanziati dai fondi strutturali 2007-2013, disponeva per le amministrazioni titolari dei programmi operativi interessati di avviare entro il 28 luglio 2013 le necessarie procedure atte a modificare i pertinenti programmi, sulla base della vigente normativa europea;
              l'articolo 9 del decreto-legge n.  69 del 2013 (cosiddetto «destinazione Italia»), convertito, con modificazioni, dalla legge n.  98 del 2013, riguarda l'accelerazione nell'utilizzazione dei fondi strutturali europei e ha disposto che le amministrazioni pubbliche debbono dare la precedenza, nella trattazione degli affari di competenza «(...) alle attività in qualsiasi modo connesse all'utilizzazione dei fondi strutturali europei (...)»; inoltre «(...) per non incorrere nelle sanzioni previste dall'ordinamento dell'Unione europea per i casi di mancata attuazione dei programmi e dei progetti cofinanziati con fondi strutturali europei e di sottoutilizzazione dei relativi finanziamenti, relativamente alla programmazione 2007-2013, in caso di inerzia o inadempimento delle amministrazioni pubbliche responsabili degli interventi, lo Stato esercita il potere sostitutivo di cui all'articolo 120 della Costituzione» (violazione di norme o di trattati internazionali);
              l'articolo 9-bis dello stesso decreto-legge n.  69 del 2013 prevede la stipula di un contratto istituzionale di sviluppo, promosso dal Ministro per la coesione territoriale o dalle amministrazioni titolari dei nuovi progetti strategici, finanziati con risorse nazionali, dell'Unione europea e del fondo per lo sviluppo e la coesione;
              l'articolo 12 del decreto-legge n.  133 del 2014, cosiddetto «sblocca Italia», interviene di nuovo sulla materia della spesa dei fondi comunitari. Si affidano nuove funzioni al Presidente del Consiglio dei ministri al fine di accelerare l'impiego delle relative risorse ed evitare il rischio di incorrere nell'attivazione delle sanzioni comunitarie; sentita la Conferenza unificata, avrà la facoltà di proporre al Cipe il definanziamento e la riprogrammazione delle risorse non impegnate. Sono poi richiamati i poteri già previsti dall'articolo 9 del decreto-legge n.  135 del 2013 (cosiddetto «destinazione Italia»), convertito, con modificazioni, dalla legge n.  9 del 2014;
              gli uffici della Commissione europea hanno studiato questa «difficoltà strutturale». La diagnosi è stata impietosa: inadeguatezza a realizzare politiche pubbliche per incapacità amministrativa. Agli enti che gestiscono i fondi europei è stato dunque imposto uno strumento, il piano di rafforzamento amministrativo, che potrebbe creare l'indispensabile discontinuità;
              tuttavia, una ragione rilevante dell'incapacità di spesa consiste nel patto di stabilità comunitario. La quota dell'Unione europea non si riesce a spendere perché le regioni, in particolare quelle del Sud, non possono mettere a bilancio le risorse di cofinanziamento, altrimenti sforerebbero il patto di stabilità. Le regioni del Nord che hanno bilanci più corposi riescono meglio nella spesa;
              nel vertice sul lavoro del 9-10 ottobre 2014 l'Italia, sostenuta dalla Francia, ha avanzato la proposta, da formalizzare per il previsto vertice del 23 ottobre 2014, di escludere dal calcolo del deficit il cofinanziamento nazionale dei fondi europei. Per cofinanziare i progetti da attivare fino al 2020, l'Italia intende proporre un proprio apporto per 24 miliardi di euro. Una somma che, divisa per i sette anni del programma (2014-2020), assegna 3,5 miliardi di euro in più l'anno da spendere senza sfondare il tetto del rapporto deficit/prodotto interno lordo del 3 per cento. In cambio, l'Italia si impegnerebbe a concentrare la spesa sugli obiettivi indicati da Bruxelles e potenziare i controlli preventivi;
              la risposta della Germania, nonostante il fatto che la crisi cominci a mordere anche l'economia tedesca, che abbisogna quindi di manovre più espansive, si è limitata a valutare la possibilità di escludere dal patto di stabilità 1,5 miliardi di euro di spese cofinanziate dagli Stati per il programma «Garanzia giovani»,

impegna il Governo:

          a rafforzare le attività in sede europea affinché vengano assicurati adeguati spazi finanziari di agibilità della spesa a titolo di concorso al cofinanziamento del fondo europeo per lo sviluppo regionale e del fondo sociale europeo, anche in concorso con altri Stati, con i quali individuare piattaforme comuni;
          ad assumere iniziative volte a rafforzare i poteri di accelerazione dell'impiego delle risorse, di controllo e sostitutivi previsti dall'articolo 9 del decreto-legge n.  69 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n.  98 del 2013, e dall'articolo 12 del decreto-legge n.  133 del 2014 e, in tale ambito, a rendere pienamente operativa l'Agenzia per la coesione territoriale eventualmente rafforzandone i poteri sostitutivi;
          a garantire che la programmazione infrastrutturale per le regioni meridionali rappresenti l'elemento centrale dei programmi dei fondi strutturali europei 2007-2013 e 2014-2020 e, in tale ambito, a promuovere una politica di investimento degli enti locali, accompagnata da iniziative per una revisione delle regole del patto di stabilità per gli enti territoriali;
          ad adottare iniziative di competenza specifiche per la regione Campania, in particolare per quel che riguarda il lavoro giovanile, il riassetto idrogeologico e la dotazione infrastrutturale.
(1-00624)
(Nuova formulazione) «De Girolamo, Dorina Bianchi, Calabrò, Alli, Bernardo, Bosco, Garofalo, Minardo, Misuraca, Pagano, Piccone, Piso, Saltamartini, Sammarco, Scopelliti, Tancredi, Vignali, Cicchitto, Pizzolante».


      La Camera,
          premesso che:
              nello scenario economico italiano, aggravato dalle conseguenze della crisi finanziaria, continua a porsi in primo piano la questione di un Paese ancorato a due differenti velocità di sviluppo, la cui più diretta evidenza sono sia l'inasprimento dei divari e delle divergenze tra le regioni settentrionali e quelle meridionali, sia le diseguaglianze interne alle stesse aree del Mezzogiorno;
              è un dato di fatto che le regioni del Sud del nostro Paese hanno subito con molta più forza i segni della crisi economica e lo evidenziano i dati relativi alla disoccupazione giovanile, come anche quelli relativi al reddito e alla povertà;
              le cause primarie possono essere rinvenute in una condizione complessiva del Mezzogiorno, che è data dalle infrastrutture, dall'impianto economico produttivo, dalla crisi imprenditoriale e che rende questi territori particolarmente vulnerabili;
              il rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno del 2014 ha rilevato che: «Il lascito della peggiore crisi economica dal dopoguerra è un Paese ancor più diviso del passato e sempre più diseguale. La flessione dell'attività produttiva è stata molto più profonda ed estesa nel Mezzogiorno che nel resto del Paese. Come temuto, gli effetti appaiono non più solo transitori ma strutturali: cambia la struttura produttiva, con un peso dell'apparato industriale sempre minore; la forte riduzione degli investimenti fa diminuire lo stock di capitale, che non venendo rinnovato perde in competitività; le migrazioni e i minori flussi in entrata nel mercato del lavoro contemperano la riduzione di possibilità di occupazione. Il Mezzogiorno appare collocarsi in un equilibrio statico di minore produttività, minore occupazione e quindi, inevitabilmente, minore benessere»;
              la distanza tra il Centro-Nord e il Sud non si limita al prodotto interno lordo pro capite, ma a tanti altri indicatori, come la continua migrazione delle forze giovanili verso altri regioni e verso l'estero, l'elevato numero di giovani che abbandonano gli studi (25,5 per cento contro il 16,8 per cento del Centro-Nord), gli studenti con scarse competenze in lettura e matematica (14,2 per cento rispetto al 7 per cento del Centro-Nord), l'irrilevante capacità di attrazione di investimenti dall'estero, il peso ancor maggiore rispetto al resto del Paese della burocrazia, dell'inefficienza istituzionale, della corruzione, della lentezza giudiziaria, dell'economia sommersa, sinanche del trattamento dei rifiuti;
              il rapporto Svimez presentato il 30 luglio 2014 descrive un Paese diviso e diseguale, dove il Sud scivola sempre più nell'arretramento, con il divario di prodotto interno lordo pro capite che nel 2013 è tornato ai livelli del 2003, il crollo degli investimenti nell'industria, il calo dei consumi delle famiglie e dei tassi di iscrizione all'università, e nel quale il numero di occupati è sceso sotto la soglia dei sei milioni, il livello più basso dal 1977;
              nel Mezzogiorno d'Italia in cinque anni le famiglie assolutamente povere sono aumentate di due volte e mezzo, da 443 mila a 1 milione e 14 mila nuclei, e le previsioni 2014-2015 contenute nel rapporto di previsione territoriale Svimez 01/2014 confermano il trend negativo;
              negli anni tra il 2008 e il 2013 l'economia meridionale è calata di circa il doppio rispetto al resto del Paese (-13,3 per cento rispetto al -7 per cento del Centro-Nord), mentre negli stessi anni il Mezzogiorno ha subìto una caduta dell'occupazione del 9 per cento, quattro volte superiore a quella del Centro-Nord (-2,4 per cento); dei circa 985 mila posti di lavoro persi in Italia nello scorso sessennio, ben 583 mila sono nel Sud e l'impatto della caduta dell'occupazione è stato così forte da provocare un crollo dei consumi delle famiglie meridionali di quasi 13 punti percentuali (-12,7 per cento), più del doppio di quello registrato nel resto del Paese (-5,7 per cento);
              inoltre, a dispetto dei deboli segni di ripresa pur registrati in alcune parti d'Italia nel corso del 2013, nello stesso periodo la flessione dell'attività economica si è accentuata in Basilicata (dal -3,7 per cento del 2012 al -6,1 per cento), in Puglia (dal -2,9 per cento al -5,6 per cento), in Calabria (dal -2,1 per cento al -5 per cento) e in Molise (dal -1,8 per cento al -3,2 per cento), e restano stabili sui livelli negativi dell'anno precedente in Campania (-2,1 per cento rispetto a -2 per cento) e in Sardegna (-4,4 per cento rispetto a -4,3 per cento), mentre segnali di attenuazione della crisi rispetto al 2012 si sono avuti solo in Abruzzo (dal -2,7 per cento al -1,8 per cento) e in Sicilia (dal -4,8 per cento al -2,7 per cento);
              al contempo, i tassi di scolarizzazione, già molto inferiori nel Mezzogiorno rispetto al resto del Paese, sono accompagnati da un aumento del tasso di abbandono dovuto alle condizioni di degrado sociale e familiare, mentre negative sono anche le evidenze in termini di «qualità» della formazione, dal momento che gli studenti che terminano la loro carriera accademica hanno notevoli difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro, determinando la cosiddetta fuga dei cervelli e la progressiva desertificazione del capitale umano;
              la ripresa del Mezzogiorno non dipende dall'entità dei trasferimenti pubblici ma dal grado di efficienza delle istituzioni e dalla capacità di mobilitare le risorse disponibili, determinando una crescita delle imprese e della loro capacità concorrenziale nei mercati, nonché ristabilendo una capacità di attrazione di capitali esteri, fondamentali nel processo di generazione del reddito, oltre ad essere lo specchio della credibilità internazionale di un Paese;
              in questo quadro, i fondi dell'Unione europea, pur mantenendo un ruolo centrale nell'ambito delle politiche di sostegno ad occupazione e sviluppo dei territori, non possono costituire l'unica risorsa, ma vanno inseriti in un piano più generale, governato da Stato, regioni ed enti locali, al fine di un migliore e più spedito impiego delle risorse disponibili;
              negli anni l'esistenza di distorsioni e malfunzionamenti all'interno del sistema a supporto delle attività produttive ha dato luogo alla riforma di alcuni degli strumenti esistenti e alla creazione del fondo per le aree sottoutilizzate, secondo una linea guida di concentrazione, basata sulla riduzione delle risorse e la loro assegnazione a poche e selettive politiche di sviluppo funzionali al raggiungimento di obiettivi nel lungo periodo, nel tentativo di «responsabilizzare» le imprese sulla qualità degli investimenti proposti e garantire una ricaduta efficace sul tessuto produttivo locale in termini di occupazione;
              tra le regioni meridionali, particolare attenzione merita la Calabria, che sta vivendo una crisi dell'occupazione particolarmente significativa che la condanna al record europeo di disoccupazione giovanile;
              i dati ufficiali ci dicono, infatti, che nella regione il 65 per cento dei giovani sotto i 25 anni non trova lavoro, contro la media nazionale del 26,2 per cento ed europea del 17 per cento, che il tasso di disoccupazione femminile è al 41 per cento, mentre il dato relativo alla disoccupazione totale è pari al 17,3 per cento, con un incremento annuo di quasi il 6 per cento; al contrario, il tasso di occupazione tra i 15 e i 64 anni è il più basso tra le regioni italiane, attestandosi poco sopra al 37 per cento a fronte di una media nazionale del 55,1 per cento;
              la Calabria detiene, altresì, il triste primato del lavoro nero e irregolare, che sfiora il 28 per cento, con una differenza di circa 20 punti percentuali rispetto alla regione d'Italia più virtuosa in questo campo;
              secondo l'istituto di indagine Demoskopika, in Calabria nel 2013 poco più di 386 mila nuclei familiari – per un totale di quasi un milione di persone – vivevano in condizione di disagio economico, il che equivale a dire che circa il 48,6 per cento delle famiglie calabresi versa in uno stato di quasi o totale indigenza socio-economica;
              in modo analogo, anche la Campania ha visto negli ultimi anni un costante aumento della povertà e della contrazione della capacità di spesa della popolazione, che sta determinando uno stravolgimento del tessuto sociale;
              la base economica della Campania è stata gravemente condizionata e ridimensionata per effetto di fenomeni di crisi, contrazione produttiva e chiusura d'impianti, che trovano la prima e più evidente espressione nella crescita abnorme del ricorso agli ammortizzatori sociali, che è più che triplicato;
              la mortalità aziendale, che, nelle condizioni attuali, è arrivata a compromettere anche segmenti tradizionali e imprese di punta del sistema produttivo campano, non solo rappresenta un elemento che ha ricadute drammatiche dirette e indirette sull'occupazione e sull'offerta, ma, soprattutto, può pregiudicare seriamente la capacità di ripresa futura dell'economia regionale;
              in Campania, peraltro, pesano in modo particolare anche le difficoltà di bilancio di Napoli, ulteriormente aggravate dal taglio dei trasferimenti dal Governo centrale, difficoltà che compromettono seriamente il suo enorme patrimonio archeologico, architettonico e storico, come le impediscono di svolgere il suo ruolo come punto di riferimento per un vasto retroterra e come avamposto strategico al centro del Mediterraneo, lasciando scivolare la città sempre più verso il declino, testimoniato dalla perenne emorragia di residenti;
              la valorizzazione e il rilancio del Meridione d'Italia non possono prescindere dal rilancio del settore turistico, posto l'immenso patrimonio artistico, architettonico e culturale che detengono e che deve essere trasformato in ricchezza vitale attraverso cui creare occupazione, favorire lo sviluppo, applicare all'antico le nuove tecnologie, imprimere a ciò che è statico la velocità della modernità, aggiungere a ciò che è locale la dimensione della globalità;
              in questo ambito appaiono di fondamentale importanza sia il sostegno dell'imprenditoria legata al turismo, sia la tutela e la salvaguardia dei prodotti tipici e delle tradizioni locali di cui proprio il Meridione è così ricco, sia la salvaguardia ambientale e paesaggistica e il contrasto dell'abusivismo edilizio, anche attraverso un processo di riqualificazione delle coste realizzato con meccanismi premiali in ordine alla ricollocazione delle cubature;
              la gravissima crisi occupazionale che affligge le regioni meridionali non può essere affrontata solo con i programmi di sostegno ai giovani di derivazione europea, quali garanzia giovani o i progetti «neet», o attraverso il reimpiego o la stabilizzazione dei lavoratori socialmente utili, soprattutto se si considera che si tratta di una regione con milioni di abitanti e, quindi, con centinaia di migliaia di giovani alla ricerca di un lavoro, ma necessita di interventi mirati e strutturali;
              l'analisi delle difficoltà strutturali che opprimono il Sud italiano, sia in termini di struttura produttiva che di assetto istituzionale, evidenzia una situazione complessiva di fragilità che impone la ricerca di radicali elementi di discontinuità nelle politiche di sviluppo;
              appare indispensabile ed urgente disegnare nuove e più efficaci azioni che consentano al Mezzogiorno di intraprendere un percorso di sviluppo, autonomo e responsabile, in grado di valorizzare i tanti elementi positivi comunque presenti in questi territori, al contempo dando nuovo slancio al tessuto economico e produttivo del Mezzogiorno,

impegna il Governo:

          a valutare l'adozione di un piano di azioni coordinate per l'intera area del Meridione, nell'ambito del quale prevedere ed attuare tempestivamente meccanismi di sostegno e di incentivazione, anche attraverso l'impiego di modalità di agevolazione fiscale, mirati a salvaguardare le strutture produttive esistenti e ad attrarre nuovi investimenti;
          ad adottare le iniziative necessarie a combattere efficacemente il gravissimo problema degli abbandoni scolastici, che, di fatto, priva questi territori anche della possibilità di investire nel futuro attraverso le giovani generazioni;
          ad individuare con rapidità quali comuni, tra quelli che ne abbiano fatto richiesta, abbiano i requisiti per costituire al proprio interno le zone franche urbane di cui alla legge 24 dicembre 2007, n.  244, al fine di rafforzare la crescita imprenditoriale e occupazionale delle micro e piccole imprese;
          ad elaborare un piano di monitoraggio delle risorse destinate dallo Stato e dall'Unione europea al contrasto della disoccupazione e agli altri programmi di sviluppo in favore delle regioni dell'obiettivo convergenza, al fine di verificare che esse siano effettivamente impiegate per i fini previsti e non siano disperse e al fine di contrastare la lentezza nelle procedure di spesa;
          ad individuare politiche atte alla conservazione e alla valorizzazione delle risorse naturali delle regioni, al fine di rilanciare il turismo e la produzione ed il commercio dei prodotti tipici;
          in questo ambito a valutare di assumere iniziative per l'attivazione di procedimenti di sostituzione edilizia, in collaborazione con soggetti privati, volti ad eliminare gli edifici sorti in seguito a fenomeni di abusivismo edilizio e a ripristinare i territori, con particolare riferimento alle fasce costiere;
          a promuovere una rapida individuazione degli interventi infrastrutturali di primaria importanza, anche ai fini del rilancio turistico, e ad individuare misure per garantire la loro tempestiva realizzazione;
          ad elaborare un programma per la messa in sicurezza dei territori e degli edifici, con particolare riguardo a quelli scolastici, per il recupero dei centri urbani, attraverso opere di restauro degli edifici storici, e per il completamento dei programmi già avviati nei settori dell'edilizia sanitaria, universitaria e carceraria;
          con particolare riferimento alla Campania, ad adoperarsi al fine di rilanciare i progetti per il centro storico, la metropolitana e il porto di Napoli, per Napoli est, per l'aeroporto di Salerno, per la valorizzazione e lo sviluppo dell'ex area industriale di Bagnoli e dell'intera area flegrea, nonché per ripristinare e restituire pienamente al pubblico i siti turistici di maggiore importanza, tra i quali Pompei e la Reggia di Caserta.
(1-00641) «Taglialatela, Cirielli, Rampelli».


      La Camera,
          premesso che:
              il quadro politico-economico attuale ci presenta una crisi che, per la sua fisionomia e il tempo di durata, si presenta, chiaramente, come una crisi strutturale e non contingente, crisi che arriva a mettere in discussione il paradigma economico-produttivo occidentale, fondato su un modello cosiddetto di stampo fordista e sulla crescita dell'incidenza della finanza sull'economia reale;
              da più parti di segnala come, nell'ambito di questa epocale crisi dell'economia reale italiana, sia particolarmente negativa l'evoluzione della situazione economica e occupazionale del sud del nostro Paese;
              tale evoluzione ha radici profonde, in quanto, già a partire dall'anno 2000, si è fermata quella spinta volta a ridurre il divario tra Nord e Sud, che è invece costantemente in aumento, soprattutto negli ultimi anni;
              da uno studio dell'Università di Reggio Calabria si evince che nel periodo 2000-2010 il Centro-Nord presenta un prodotto interno pro capite quasi doppio rispetto al Mezzogiorno (in particolare, i valori del 2011 presentano per il Centro-Nord 27.490 euro contro 15.717 euro per il Mezzogiorno, che risulta avere, quindi, un prodotto interno pro capite pari al 57 per cento di quello del Centro-Nord);
              come evidenzia il rapporto della Banca d'Italia, la congiuntura è particolarmente negativa per la regione Campania, territorio nel quale si osserva un aggravarsi incessante delle condizioni economiche e, in particolare, di quelle occupazionali;
              nella relazione Istat relativa al primo trimestre del 2014 si rileva un tasso di disoccupazione altissimo, maggiore di più di dieci punti percentuali rispetto al tasso nazionale ed in costante crescita: dal 22,2 per cento del 2013 si è passati al 23,5 per cento del 2014;
              nel 2013 la Banca d'Italia, nel già citato rapporto congiunturale sulla Campania 2013, aveva prospettato «nuove opere previste dal Piano di azione per la coesione e un più rapido avanzamento nell'utilizzo dei fondi dell'Unione europea, concentrati in misura significativa nella realizzazione di grandi progetti infrastrutturali»;
              il Sottosegretario di Stato, Graziano Delrio, in audizione presso la commissione Politiche dell'Unione europea della Camera dei deputati ha affermato che ci sono ancora 15 miliardi di euro da spendere nelle regioni del Sud entro i prossimi 15 mesi, pena la loro perdita;
              tali risorse potrebbero sommarsi a quelle stanziate con il nuovo accordo di partenariato 2014-2020, che dovrebbe portare circa 40 miliardi di euro per nuovi investimenti nel nostro Paese, con particolare riguardo alle regioni meno sviluppate e che, quindi, hanno subito tutta la drammaticità di questa epocale crisi economica;
              stando ai dati Svimez, infatti, il combinato dei fondi europei di cui alla programmazione 2007-2013 e la dotazione finanziaria dei nuovi dovrebbero portare un volume complessivo teorico di circa 30 miliardi di euro di investimenti nei prossimi due anni;
              se ben utilizzati, controllando la dispersione delle risorse e monitorando lo sviluppo dei progetti approvati, si potrebbe addivenire ad un sensibile incremento del prodotto interno lordo, con consequenziale inversione di tendenza della congiuntura economica oggi così sfavorevole;
              in particolare, si potrebbe ottenere un incremento occupazionale notevole, stimato intorno alle 30.000 unità nel 2014;
              le difficoltà incontrate dalle regioni del sud Italia nell'utilizzare i fondi europei possono essere riconducibili a carenze amministrative nella gestione e nel controllo dei fondi;
              un'altra criticità in merito al deficit di efficienza della spesa dei fondi potrebbe essere riscontrata nella rigidità del patto di stabilità: le regioni, in particolare quelle del Sud, hanno difficoltà nel mettere a bilancio risorse di cofinanziamento, in quanto possono così trovarsi al di fuori del patto di stabilità;
              alcune regioni italiane hanno difatti subito le infauste conseguenze dello sforamento del patto di stabilità, rimanendo pertanto impossibilitate ad utilizzare propriamente i fondi per l'investimento strutturale;
              sarebbe pertanto auspicabile una minore rigidità in tal senso, quantomeno in relazione alla possibilità di scomputare la quota di cofinanziamento dei fondi dalle somme sottoposte al patto di stabilità;
              in una logica di rilancio dell'economia campana andrebbe rivisto l'impiego dei fondi strutturali europei, non soltanto dal punto di vista quantitativo ma anche qualitativo, si sottolinea come si siano evidenziati ritardi ed inefficienze nella spesa dei fondi – in particolare nella regione Campania – proprio a partire dalla mancata attuazione dell'Agenda 2000, peraltro messa già sotto osservazione dalla Commissione europea che ha potuto, a suo tempo, rilevare ufficialmente, in risposta all'interrogazione P-0065/09, come «La Regione Campania ha accumulato in passato considerevoli ritardi nell'attivazione della spesa di Agenda 2000»;
              anche nell'ultima programmazione relativa al periodo 2007-2013 si sono evidenziate simili criticità relative alla spesa dei fondi strutturali, come peraltro ha evidenziato lo stesso Sottosegretario di Stato Delrio in audizione presso la Camera dei deputati;
              la Commissione europea, inoltre, ha pubblicamente considerato essenziale che l'Agenzia per la coesione territoriale sia pienamente operativa fin dall'inizio della nuova programmazione al fine di monitorare l'utilizzo dei fondi, individuare tempestivamente eventuali problemi e intervenire per assistere le amministrazioni in difficoltà;
              la crescita del meridione d'Italia potrebbe rappresentare un volano di sviluppo per tutta l'economia del Paese, visto e considerato che il prodotto interno lordo meridionale – a seguito della drammatica riduzione del 20 per cento nell'ultimo quinquennio – è oggi riscontrabile al 56 per cento del prodotto interno lordo italiano: un innalzamento sensibile di tale dato – a fronte di una popolazione complessiva di circa 20 milioni di persone – potrebbe generare un significativo aumento del prodotto interno lordo complessivo;
              al fine di superare definitivamente questa crisi economica strutturale, però, andrebbero messe in atto misure di politica economica calate profondamente nel contesto di questo mutamento basale della stessa economia: va, infatti, colto il cambio di paradigma, che si fonda ormai su fattori produttivi che sono stati sottovalutati nel corso del Novecento;
              misure di crescita che, infatti, per essere davvero efficaci nel medio e lungo periodo, devono aver conto del fatto che si è ormai dimostrata la fallibilità del principio della crescita infinita: bisognerebbe quindi valutare seriamente un impegno di governance economica multilivello volto a ridisegnare un'economia basata sui concetti cardine della crescita sostenibile, dello sviluppo delle energie alternative, della ricerca scientifico-tecnologica collegata al territorio, dell'agricoltura a filiera corta basata su aziende di piccole e medie dimensioni, del turismo enogastronomico strettamente connesso all'innovazione dell'offerta artistica e culturale locale ed altro;
              le aree interne, di cui peraltro alla legge di stabilità 2014, rappresentano una parte ampia del Paese assai diversificata, distante da grandi centri abitati, dense di problemi e criticità in merito al deficit strutturale e infrastrutturale, dotate tuttavia di risorse che mancano alle aree centrali e con forte potenziale di attrazione;
              tali aree interne sono molto presenti nel sud Italia e potrebbero certamente fungere da ulteriore volano di sviluppo per il nostro Paese: come difatti un corpo non può vivere senza la struttura ossea che lo sostiene, è impossibile pensare ad uno sviluppo armonico del nostro Paese se non immagina una strategia di sviluppo dello scheletro della nostra penisola;
              infine, come sosteneva Guido Dorso, insigne storico e politico meridionalista di chiara matrice liberal-democratica, «il Mezzogiorno non ha bisogno di carità, ma di giustizia; non chiede aiuto, ma libertà. Se il Mezzogiorno non distruggerà le cause della sua inferiorità da se stesso, con la sua libera iniziativa e seguendo l'esempio dei suoi figli migliori, tutto sarà inutile»; è, quindi, necessario che le opportunità di sviluppo rese al Meridione attraverso le risorse stanziate vengano effettivamente utilizzate e che, pertanto, il Governo si adoperi a monitorare l'effettivo ragionevole utilizzo, spronando e sostenendo le amministrazioni regionali e locali in tal senso,

impegna il Governo:

          ad adottare misure per la crescita economica che tengano conto del cambio di paradigma esposto in premessa;
          ad incentivare quindi una governance economica multilivello volta a disegnare un nuovo sistema economico basato sui concetti cardine della crescita sostenibile, dello sviluppo delle energie alternative, della ricerca scientifico-tecnologica collegata al territorio, dell'agricoltura a filiera corta basata su aziende di piccole e medie dimensioni, del turismo enogastronomico strettamente connesso all'innovazione dell'offerta artistica e culturale locale, con particolare riferimento al Mezzogiorno;
          a rafforzare, pertanto, la strategia nazionale per le aree interne, che punta chiaramente a invertire il paradigma produttivo, demografico ed economico attuale e che assume, nel Meridione, un'importanza particolare;
          a sollecitare e monitorare l'utilizzo effettivo dei fondi europei di cui al presente atto di indirizzo, anche al fine di attuare pienamente questa strategia complessiva, nonché per rafforzare le capacità amministrative degli enti locali meridionali;
          ad indirizzare le politiche pubbliche di bilancio per le spese d'investimento per il Sud;
          a favorire un'interpretazione della contabilità pubblica più coerente con lo spirito dei trattati europei e dell’acquis communautaire, volta a salvaguardare ed agevolare l'investimento strutturale e l'utilizzo dei fondi;
          ad attivarsi affinché l'Agenzia per la coesione territoriale sia pienamente operativa e che operi come strumento di raccordo per la strategia complessiva di rilancio dell'economia.
(1-00642) «De Mita, Dellai, Cera, Piepoli, Caruso».


      La Camera,
          premesso che:
              le anticipazioni sulle previsioni 2014-2015 contenute nel rapporto Svimez 2014 evidenziano ancora una volta un Paese segnato da un Sud sempre più arretrato economicamente. Nel 2013 il divario di prodotto interno lordo pro capite è tornato ai livelli di dieci anni fa. Negli anni 2008-2013 i consumi delle famiglie sono crollati del 13 per cento circa, gli investimenti nell'industria addirittura del 53 per cento, i tassi di iscrizione all'università tornano ai primi anni del duemila e per la prima volta il numero di occupati ha sfondato, al ribasso, la soglia psicologica dei 6 milioni, il livello più basso dal 1977. In cinque anni le famiglie assolutamente povere sono aumentate di due volte e mezzo, da 443.000 a 1.014.000; sono in diminuzione anche i consumi (-2,4 per cento) e gli investimenti fissi lordi (-5,2 per cento);
              tra il 2008 e il 2013 l'occupazione nel Mezzogiorno è diminuita del 9 per cento, a fronte del -2,4 per cento del Centro-Nord. Delle 985.000 persone che in Italia hanno perso il posto di lavoro, 583.000 sono residenti nelle regioni meridionali. Una flessione che riporta il numero degli occupati del Sud, per la prima volta nella storia, a 5,8 milioni, il livello più basso dal 1977;
              i dati Inps sulle politiche attive per il lavoro evidenziano una sostanziale prevalenza in Campania di provvedimenti volti all'assunzione agevolata di disoccupati o beneficiari di cassa integrazione guadagni straordinaria da almeno 24 mesi o di giovani già impegnati in borse di lavoro;
              purtroppo, la Youth Guarantee – destinata ad incrementare l'occupazione dei giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni e che ha portato in dote alla Campania un tesoretto di circa 200 milioni di euro (spalmato su iniziative di vario genere) – non ha, al momento, raggiunto gli obiettivi auspicati. Ciò fa ritenere che sarebbe stato più efficace, forse, destinare questi fondi a poche ma incisive iniziative, anziché ad una frammentata serie, anche alla luce delle due negative peculiarità che incidono sul quadro occupazionale della Campania: il lavoro nero e la criminalità organizzata. In quest'ottica, meritevole di straordinaria attenzione è, da un lato, l'apprendistato scuola-lavoro che ha la precipua finalità di formare i giovani tra i banchi di scuola (in quella delicata età in cui sono più facilmente vittime delle lusinghe della criminalità organizzata), dall'altro, un oculato utilizzo della leva degli sgravi fiscali e contributivi a favore delle imprese per l'assunzione dei giovani, anche in chiave di disincentivo al lavoro nero;
              peraltro, l'attuazione della Youth Guarantee è stata per lo più affidata a strutture obsolete e talora inefficienti, anche per mancanza di risorse, come i centri per l'impiego, che riescono ad intermediare solamente il 2 per cento del lavoro in Italia. Certamente occorre anche ricordare che lo Stato investe su essi solamente circa 500 milioni di euro, contro i 5,6 miliardi di euro della Francia e i 9 miliardi di euro della Germania;
              il prodotto interno lordo dell'Italia non è più aumentato dal secondo trimestre del 2011 e anche per il secondo semestre del 2014 risulta in ulteriore diminuzione (l'Istat conferma il dato tendenziale in lieve peggioramento: dal -0,2 per cento al -0,3 per cento). Da una parte, dunque, abbiamo il nord del Paese che riparte, anche se in maniera non particolarmente incisiva, dall'altra il Sud che, pur arrestando la caduta, presenta dati ancora in negativo;
              la stessa dinamica si prevede per il 2015 e, in questo quadro generale, il Mezzogiorno perde ancora giovani e vive quasi una seconda grande migrazione: fenomeno che dal 2001 ha prodotto un saldo netto di 708.000 persone, di cui 494.000 tra 15 e 34 anni;
              in questa situazione, di per sé già grave, il rapporto Svimez sottolinea che non è solo la recessione ad accentuare il divario tra Nord e Sud, ma anche la spesa pubblica per investimenti che è calata in misura ancor maggiore. Nel 2012, la spesa aggiuntiva per la macroarea è, infatti, diminuita del 67,3 per cento del totale nazionale, ampiamente al di sotto della quota dell'80 per cento fissata per la ripartizione delle risorse aggiuntive tra aree depresse;
              nel Sud esistono poli di eccellenza da sviluppare e sostenere (si pensi, ad esempio, al CEINGE, il centro di ricerca in biotecnologie avanzate di Napoli impegnato in ricerche su un antidoto per il virus ebola). Su questi innovativi poli scientifici e tecnologici occorre investire per creare le premesse per una maggiore attrattività per il Sud, considerando anche i possibili interesso degli investitori internazionali;
              purtroppo, la crisi persistente ha determinato, invece, un processo di disinvestimento con il conseguente ridimensionamento dell'apparato produttivo che ha innescato il rischio, nel Mezzogiorno d'Italia, di una vera e propria desertificazione industriale;
              è diventato, dunque, improcrastinabile promuovere la competitività del Paese attraverso investimenti mirati in infrastrutture su tutto il territorio nazionale e, soprattutto, nel Mezzogiorno ed in Campania, ben oltre gli stanziamenti decisi dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti: su una tranche di 15 opere infrastrutturali per 1.664 milioni di euro, ricadono nel Mezzogiorno solamente 90 milioni di euro per la metropolitana di Napoli, 60 milioni di euro per la rete ferroviaria pugliese e 143 milioni di euro per la Sardegna per la sicurezza degli svincoli stradali: vale a dire appena il 17,8 per cento del totale (ciò al di là dei limiti dimostrati dalle regioni meridionali nella spesa dei fondi veicolati dalle politiche di coesione europee, come nella spesa ai fini delle opere di manutenzione per le quali è tristemente noto che, su 16.640 chilometri di rete ferroviaria in Italia, il Mezzogiorno ne detiene 5.730, ma con il più alto numero di chilometri a binario singolo e con i 41 per cento di rete non elettrificata);
              sotto altro profilo, è diventato improcrastinabile promuovere la competitività del Mezzogiorno attraverso investimenti in innovazione e formazione;
              in particolare, il Mezzogiorno si compone per la gran parte di piccole e medie imprese che, se, da un lato, brillano per la qualità dei risultati, come emerge da un recente rapporto di Confartigianato (presentato alla convention Progetto Sud), dall'altro, non tendono all'internazionalizzazione stentando, ad esempio, ad avviare importanti processi di digitalizzazione, né tantomeno investono in formazione interna, che è una fondamentale componente della produttività;
              nel dossier su «L'economia della Campania», pubblicato nel rapporto annuale della Banca d'Italia (giugno 2014), è emerso che nel settore industriale in Campania il fatturato è aumentato soprattutto per le imprese con elevata propensione all’export e gli investimenti hanno mostrato una dinamica migliore rispetto agli anni recenti, seppure limitatamente alle aziende di maggiore dimensione. Nell'edilizia il calo di attività è stato più netto per le imprese fortemente dipendenti dalla domanda di opere pubbliche;
              sul mercato del credito, la dinamica dei prestiti si presenta assai negativa e si sono acuite le difficoltà di rimborso: alla fine del 2013, oltre un terzo dei prestiti erogati alle piccole imprese campane e circa un quarto di quelli erogati alle medio-grandi imprese erano classificati in sofferenza. È emersa, tuttavia, una lieve attenuazione della restrizione nelle condizioni di accesso al credito probabilmente dovuta ad una migliorata situazione di liquidità, favorita anche dal rimborso dei crediti commerciali verso la pubblica amministrazione;
              nel 2013, più del 60 per cento delle famiglie campane ha giudicato inadeguate le proprie risorse economiche: il dato è conseguenza, soprattutto, dell'alta disoccupazione e della debolezza dei salari, con l'aggravio di un carico fiscale che, nelle componenti legate all'autonomia impositiva degli enti locali, è superiore alla media nazionale;
              secondo l'indagine campionaria sul turismo internazionale in Italia della Banca d'Italia, nel 2013 sono aumentati sia gli arrivi sia le presenze di turisti stranieri in Campania (rispettivamente 7,7 per cento e 4 per cento nell'anno precedente). Rispetto al 2012 sono tornate a crescere le presenze presso strutture alberghiere o case in affitto; inoltre, la spesa sostenuta dai viaggiatori stranieri sul territorio regionale è lievemente aumentata (1 per cento). Nel 2013 la spesa dei turisti stranieri ha rappresentato il 4,3 per cento del totale nazionale e l'1,5 per cento del prodotto interno lordo regionale (2,1 per cento in Italia). Tutto ciò rende evidente la necessità di maggiori investimenti nel settore turistico, attualmente più attrattivo rispetto ad altri settori;
              la situazione dei trasporti risulta assai problematica: limitandosi all'analisi del solo traffico passeggeri negli scali portuali campani, esso è diminuito del 6,5 per cento nel 2013 (-1,2 per cento nel 2012); contemporaneamente, è proseguito il calo dei crocieristi (-3,4 per cento), nonostante l'aumento rilevato nel porto di Salerno. Le merci movimentate sono cresciute del 3,8 per cento, mentre è diminuito del 2 per cento il traffico di container, consolidando una tendenza in atto dal 2008. La quota di mercato campana del traffico container italiano è calata negli ultimi dodici anni di 3 punti percentuali (dal 10,3 per cento del 2001 al 7,4 per cento del 2013), a fronte di una sostanziale stabilità della quota meridionale. Il calo è stato in buona parte determinato, da un lato, dal mancato adeguamento dell'infrastruttura portuale napoletana al fenomeno del gigantismo navale, dall'altro, dalla mancanza di programmi e governance in grado di consentirne un efficace ed efficiente funzionamento, rischiando in tal modo anche la dispersione dei fondi europei;
              sotto il profilo degli investimenti, secondo i dati del Sistema informativo delle operazioni degli enti pubblici (Siope), che rileva gli incassi e i pagamenti effettuati dalle pubbliche amministrazioni, nel 2013 i pagamenti per investimenti sostenuti dalle amministrazioni locali campane sono diminuiti del 3,6 per cento rispetto all'anno precedente;
              il 2013 è stato il settimo anno di attuazione del ciclo di programmazione 2007-2013: le risorse a disposizione della Campania, la cui certificazione dovrà essere completata entro la fine del 2015 pena il loro disimpegno, sono gestite nell'ambito di due Programmi operativi regionali (Por), uno relativo al Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) e l'altro al Fondo sociale europeo (Fse). Dalla fine del 2011, il sensibile ritardo nell'attuazione finanziaria dei due programmi ha reso necessaria l'adozione di interventi correttivi concordati tra Governo e regione, tra i quali ingenti riduzioni di quote di cofinanziamento nazionale. La dotazione finanziaria complessiva dei Programmi operativi regionali, inizialmente di 8 miliardi di euro, è così scesa a 5,4 miliardi di euro a dicembre del 2013 (poco meno di 4,6 miliardi di per il Fondo europeo di sviluppo regionale e di 900 milioni di euro per il Fondo sociale europeo);
              l'irrisolta questione legata al rischio ambientale in Campania – si consideri nello specifico il territorio della cosiddetta «Terra dei Fuochi» – reca grave pregiudizio per un realistico rilancio del settore industriale e turistico: risulta perciò improcrastinabile un efficace sostegno alle politiche ambientali del Mezzogiorno,

impegna il Governo:

          ad attivare un puntuale sistema di monitoraggio sullo stato di attuazione e di avanzamento degli interventi finanziati con i fondi strutturali, al fine di impedirne la dispersione e garantirne un utilizzo efficace e rispondente alle reali esigenze territoriali;
          a promuovere un più tempestivo utilizzo delle disponibilità finanziarie provenienti dai fondi strutturali dell'Unione Europea, al fine di attenuare gli effetti del calo della domanda interna in tutto il Paese, con particolare riferimento alla regione Campania;
          a garantire con la massima tempestività risorse adeguate per le politiche di recupero e promozione del patrimonio culturale e paesaggistico del Sud, ponendo particolare attenzione ai siti Unesco e attingendo, se necessario, alla dotazione residua della programmazione 2007-2013;
          a potenziare i finanziamenti a favore della ricerca scientifica e industriale, dell'innovazione tecnologica e del settore infrastrutturale, programmando parte della dotazione prevista attraverso i fondi aggiuntivi comunitari e nazionali (Fondo europeo di sviluppo regionale, Fondo sociale europeo, Politica agricola comune, Fondo per lo sviluppo e la coesione), nel rispetto dei principi di semplificazione e di trasparenza dei procedimenti amministrativi, e provvedendo ad effettuare i controlli e ad erogare le risorse finalizzate a tali interventi;
          a predisporre programmi e risorse adeguati per mettere in sicurezza e garantire una più efficiente gestione del traffico passeggeri e merci negli scali portuali campani, in particolare in quello di Napoli, superando l'annosa questione della governance;
          ad avviare politiche di sostegno alla creazione di filiere produttive, con particolare attenzione al comparto turistico e al settore della green economy;
          a destinare con maggiore incisività i fondi strutturali a progetti legati all'innovazione, all'occupazione e all'inclusione sociale al fine di garantire una maggiore attenzione alle politiche attive del lavoro;
          a favorire la diffusione delle informazioni per un più facile accesso agli aggiornamenti sullo stato delle destinazioni più rilevanti dei finanziamenti comunitari;
          ad adottare opportune iniziative per la realizzazione di interventi che consentano la totale messa in sicurezza dei territori italiani, riservando particolare attenzione al Meridione e alla Campania, sia sul fronte del dissesto idrogeologico che su quello dell'inquinamento ambientale, garantendo, con risorse adeguate, il prosieguo dei processi di bonifica in corso;
          a porre particolare attenzione, attraverso un monitoraggio continuo, allo stato di salute delle piccole e medie imprese, attualmente in forti difficoltà, disponendo ogni utile iniziativa atta ad agevolare l'accesso al microcredito, che è quello che negli ultimi anni ha permesso di rilanciare l'economia di Paesi in crisi.
(1-00648)
(Nuova formulazione) «Antimo Cesaro, Catania, Cimmino, D'Agostino, Sottanelli, Mazziotti Di Celso, Matarrese, Vargiu, Librandi, Capua».


MOZIONI RONDINI ED ALTRI N.  1-00629, BRUNETTA ED ALTRI N.  1-00633, DORINA BIANCHI ED ALTRI N.  1-00634, BINETTI ED ALTRI 1-00640, AMATO, DORINA BIANCHI, BINETTI, LOCATELLI ED ALTRI N. 1-00643, RAMPELLI ED ALTRI 1-00646 E PALAZZOTTO ED ALTRI N. 1-00655 CONCERNENTI INIZIATIVE RIGUARDANTI I PROFILI DI PREVENZIONE SANITARIA CORRELATI AL FENOMENO MIGRATORIO

Mozioni

      La Camera,
          premesso che:
              lebbra, tubercolosi, poliomielite, scabbia e addirittura ebola. Cresce l'allarme nel nostro Paese per i casi di malattie che sembravano ormai scomparse e che ora rischiano di diventare delle epidemie, che travalicano le zone di origine e potrebbero essere trasmesse dalle persone che si spostano da aree colpite verso l'Europa;
              disposizioni governative e delle autorità sanitarie internazionali rilanciano l'allarme sulla ricomparsa anche sul territorio nazionale di malattie considerate debellate da tempo;
              accanto alla preoccupazione per il contagio che possa arrivare da fuori dai confini nazionali esistono timori relativi agli stranieri che vivono già in Italia, in situazioni alloggiative non sane e in condizioni igieniche precarie. Sono già avvenuti episodi nei quali stranieri sono arrivati al pronto soccorso affetti da tubercolosi, ma all'inizio dell'agosto 2014 all'ospedale trevisano Ca’ Foncello è stato scoperto addirittura un caso di lebbra;
              occorre ricordare come negli ultimi anni la diffusione della tubercolosi è aumentata di quasi il 50 per cento: da 4 a oltre 6 mila casi all'anno soprattutto nelle grandi città, con il 25 per cento dei casi tra Roma e Milano e la Lombardia tra le regioni più colpite. La malattia era stata praticamente debellata negli anni Ottanta, per poi tornare a crescere soprattutto a causa degli arrivi di extracomunitari da Paesi ad alta endemia;
              tra immigrati e ritorno della malattia esisterebbe una connessione. La nuova tubercolosi appartiene, peraltro, a un ceppo altamente resistente ai farmaci. Una ragione in più per vigilare. «Per chi arriva da Paesi con malattie diverse dalle nostre, è necessario fare i controlli sanitari prima dell'inserimento in comunità. Non è un atteggiamento discriminatorio, ma una pratica importante in termini di salute pubblica» secondo quanto dichiarato da Susanna Esposito, presidente della Società italiana di infettivologia pediatrica e direttore dell'unità di pediatria del Policlinico di Milano;
              la regione europea è stata dichiarata dall'Organizzazione mondiale della sanità «libera da polio» nel 2002, anche grazie alla diffusione del vaccino intervenuta subito dopo le grandi epidemie della metà del Novecento;
              il poliovirus è responsabile della terribile poliomielite, una malattia che coinvolge l'apparato neurologico dell'individuo distruggendone i tessuti nervosi e conducendo, nei casi più gravi, alla paralisi;
              nei documenti ufficiali il Ministero della salute precisa che «la recente riemergenza della polio in alcuni paesi è legata a diversi fattori, quali i conflitti bellici in corso, la debolezza dei sistemi sociali e sanitari, incapaci di garantire il raggiungimento di adeguate coperture vaccinali (come in Siria, dove si è assistito al crollo delle coperture passate dal 91 al 68 per cento) o interventi mirati in caso di reintroduzione di poliovirus selvaggi»;
              all'interno degli stessi documenti viene specificato che: «Alla fine del 2013 il 60 per cento dei casi di polio era dovuto alla diffusione internazionale del virus selvaggio, con evidenza di correlazione con viaggiatori adulti sani che avrebbero contribuito alla disseminazione del virus»;
              i Paesi maggiormente «sospettati» di essere portatori del virus sono Siria, Etiopia, Somalia. Camerun, Nigeria. Iraq, Guinea, Pakistan, Afghanistan ed Israele;
              il comitato dell'Organizzazione mondiale della sanità, riunitosi d'urgenza il 28 e 29 aprile 2014, ha emanato le «raccomandazioni internazionali» ai Paesi membri per contrastare la diffusione del virus;
              oltre ai rischi di contagio attraverso malattie «storiche», il mondo sta combattendo il virus dell'ebola che, secondo la definizione del numero uno dell'Organizzazione mondiale della sanità, Margaret Chan, «è una minaccia globale»; ad oggi, va precisato, inoltre, che, sui 8914 casi segnalati, 4447 sono state le vittime e il tasso di mortalità del 70 per cento; le previsioni dell'Organizzazione mondiale della sanità sono che l'epidemia peggiorerà prima di migliorare e richiede un aumento della risposta globale, i cui dati raccontano della più complessa epidemia di ebola nella storia del virus, «una situazione senza precedenti»;
              la presidente di Medici senza frontiere, Joanne Liu, ha tracciato un quadro fosco parlando sempre nella sede Onu: «Il mondo sta perdendo la battaglia contro l'epidemia. In Africa occidentale, i casi e le morti continuano ad aumentare. Ci sono continue rivolte, i centri di isolamento sono sopraffatti. Gli operatori sanitari che combattono in prima linea si stanno infettando e stanno morendo in numeri scioccanti. In Sierra Leone, corpi infetti marciscono nelle strade. Piuttosto che costruire nuovi centri di cura dell'ebola in Liberia, siamo costretti a costruire forni crematori. Per arginare l'epidemia, è imperativo che gli Stati implementino attività civili e militari con esperienza nel contenimento del rischio biologico»;
              l'ebola non si diffonde via aria o con contatti casuali, come sedersi vicino a una persona sull'autobus. Il modo più comune con cui si contrae il virus è toccare il sudore, la saliva o il sangue di una persona infettata o morta a causa della malattia. Anche toccare un oggetto contaminato può essere causa di infezione; l'infezione ha un esordio improvviso e un decorso acuto e non è descritto lo stato di portatore;
              l'incubazione può andare dai 2 ai 21 giorni (in media una settimana), a cui fanno seguito manifestazioni cliniche; la diagnosi clinica è difficile nei primissimi giorni, a causa dell'aspecificità dei sintomi iniziali. Può essere facilitata dal contesto in cui si verifica il caso (area geografica di insorgenza o di contagio) e dal carattere epidemico della malattia. Anche in caso di semplice sospetto, è opportuno l'isolamento del paziente e la notifica alle autorità sanitarie;
              i dati parlano di 8914 casi accertati e 4447 decessi, tra i quali, sino alla metà di settembre 2014, 1089 in Liberia, 800 in Guinea e 623 in Sierra Leone. In Nigeria, che non figura ancora nelle statistiche dell'Organizzazione mondiale della sanità, i morti sono invece 8 e 22 i casi conclamati secondo l'ultimo bilancio dell'Organizzazione mondiale della sanità del 5 settembre 2014. Un primo caso è stato, inoltre, confermato in Senegal la scorsa settimana. Al ritmo attuale di contagio, saranno necessari da 6 a 9 mesi ed almeno 490 milioni di dollari (373 milioni di euro) per riuscire a contenere l'epidemia, che secondo l'Organizzazione mondiale della sanità rischia di colpire 20.000 persone;
              in Italia, dopo Bologna, Varese, Gallarate, anche il Veneto registra i primi casi sospetti di ebola. Il settore igiene pubblica e prevenzione del Veneto ha fatto appena in tempo ad inviare a tutte le aziende sanitarie il protocollo contenente le prime indicazioni operative di risposta regionale per la prevenzione;
              pur avendo predisposto cordoni di sicurezza intorno agli Stati che sono oggetto dell'epidemia, gli esperti, però, ammoniscono che le terapie servono a poco, mentre le armi più efficaci rimangono prevenzione, contenimento dei casi, sorveglianza dei potenziali malati e comunicazione efficace dei rischi;
              il virus ebola è una grande preoccupazione. L'Organizzazione mondiale della sanità nelle nuove direttive riferisce che l'incubazione va dai due ai ventuno giorni. Di ebola si può anche guarire e nel momento in cui uno guarisce, per altri 28 giorni, mantiene il virus nel suo corpo e lo può espellere con i liquidi biologici. Questo significa che esiste un arco temporale di 50-60 giorni nel quale comunque questo virus può essere veicolato dall'uomo che lo ospita;
              come sollevato dal governatore Maroni, in Lombardia l'unico aeroporto attrezzato con un filtro sanitario adeguato ai parametri di legge è lo scalo di Malpensa, dove il servizio è strutturato in modo esemplare, ma bisogna pensare anche a Linate, Orio al Serio e Montichiari, in modo da essere pronti non solo per l'emergenza di ebola ma anche per Expo 2015, che è in arrivo l'anno prossimo e richiamerà a Milano almeno 20 milioni di passeggeri da tutti i Paesi;
              per la sua posizione geopolitica, l'Italia è stata da sempre esposta al fenomeno migratorio. In primo luogo poiché geograficamente protesa verso il mare e, di conseguenza, completamente predisposta ai flussi commerciali o migratori, sempre difficilmente controllabili nella loro interezza. In secondo luogo poiché, trovandosi al centro del Mar Mediterraneo, costituisce il confine meridionale del continente europeo, facilmente raggiungibile non solo dalla vicinissima Africa, ma anche dal più lontano Medio Oriente. Al di là delle sterili cifre, il fenomeno migratorio è progressivamente divenuto più drammatico. L'immigrazione negli ultimi anni ha fatto registrare un aumento esponenziale anche a seguito della cosiddetta «primavera araba», ma soprattutto a causa della rivoluzione economico-sociale che ha sconvolto il mondo negli ultimi venti anni;
              il progetto «mondiali sta» di rivoluzione economica, politica e sociale che ha conformato il pensiero culturale alle logiche liberiste del mercato, ha scardinato l'identità e le economie di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) su cui le popolazioni del sud del Mondo avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli e millenni, privandoli di quel tessuto di solidarietà familiare e comunitaria. In breve, il potere delle risorse prevale sul potere dell'uomo;
              basti pensare che ai primi del Novecento l'Africa era alimentarmente autosufficiente. Lo era ancora, in buona sostanza (al 98 per cento), nel 1961. Ma da quando ha cominciato ad essere aggredita dall'integrazione economica le cose sono precipitate. L'autosufficienza è scesa all'89 per cento nel 1971, al 78 per cento nel 1978;
              tutti gli «aiuti» non solo non sono riusciti a tamponare il fenomeno della fame, in Africa e altrove, ma lo hanno aggravato. Perché gli «aiuti» alle popolazioni del Terzo Mondo tendono ad integrarle maggiormente nel mercato economico mondiale. Ed è proprio questa integrazione, come dimostra la storia dell'ultimo mezzo secolo, che le fa ammalare ed esplodere;
              prima, quindi, di affrontare i problemi connessi all'emergenza sbarchi nel nostro Paese con il solito approccio buonista, si dovrebbe essere capaci di assumersi le proprie responsabilità storiche ma soprattutto si dovrebbe essere in grado di capire che è necessario un intervento in controtendenza fondato, da un lato, su un'azione forte di contrasto all'immigrazione di massa e, dall'altro lato, finalizzato a sviluppare interventi mirati di aiuto sul posto per le popolazioni sofferenti;
              il dramma dell'immigrazione e dei suoi risvolti sociali sta toccando picchi emergenziali. I poteri dello Stato si trovano spesso senza mezzi tecnici, economici e giuridici per fronteggiarne le derive più estreme, complice la legislazione schizofrenica nazionale ed europea. Come è avvenuto in passato in altre situazioni emergenziali (ad esempio, nei fenomeni di contrasto al terrorismo negli anni di piombo, di contrasto alla mafia, di contrasto al terrorismo islamico), soltanto una legislazione speciale, accompagnata da deroghe ai trattati internazionali finalizzate alla sicurezza interna (ad esempio, come avvenne durante il G8 Italia per quanto riguarda il Trattato di Schengen) e accompagnata da una politica di accordi stabili bilaterali di rimpatrio (politica già intrapresa, ad esempio, con Serbia ed Albania), può consentire la reale tutela dell'interesse dei cittadini e degli stranieri regolarmente presenti nonché diminuire realmente la pressione migratoria e, quindi, le tragedie umanitarie «degli sbarchi»;
              nel rispetto del principio costituzionale di cui all'articolo 52 della Costituzione: «la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino», in osservanza dei principi di cui agli articoli 1, 2, 3, 10 e 32 della Costituzione, è necessario che il Governo preveda interventi straordinari per garantire la sicurezza dei cittadini e la salvaguardia e la tutela del territorio nazionale minacciato da un eccezionale afflusso migratorio, motivato da particolari condizioni di instabilità politica negli Stati confinanti e nei Paesi del Nord Africa di sponda mediterranea,

impegna il Governo:

          a sospendere immediatamente l'operazione Mare nostrum al fine di scongiurare ogni rischio di contagio e diffusione dalle sopra indicate malattie tra la popolazione, con particolare riguardo agli agenti delle forze dell'ordine e agli operatori impegnati nell'operazione;
          a predisporre filtri sanitari adeguati ai protocolli internazionali presso tutti gli scali aeroportuali e portuali, oltre che presso le stazioni ferroviarie che hanno collegamenti con treni internazionali;
          ad adottare, nelle more di un intervento strutturale e strategico, coordinato dall'Onu, misure urgenti per predisporre la creazione di campi di accoglienza da collocare negli Stati africani che si affacciano sul Mediterraneo, al fine di soccorrere i migranti che arrivano dall'intero continente per cercare di arrivare in Europa sulle nuove tratte degli schiavi, di verificare i reali presupposti per la concessione di status di rifugiato, di verificare eventuali contagi del virus ebola, posto che, se una persona sospettata di essersi contagiata arriva dall'Africa senza alcun sintomo, questa persona non è contagiosa ma dovrà attendere ventuno giorni per l'eventuale comparsa dei sintomi, ed è solo alla comparsa dei sintomi che diventerà infettiva per le altre persone.
(1-00629) «Rondini, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Simonetti».


      La Camera,
          premesso che:
              diventa sempre più diffuso tra i cittadini l'allarme relativo a rischi sanitari collegati al fenomeno migratorio, vista la presenza di emergenze epidemiologiche in zone da cui si spostano quotidianamente persone che decidono di migrare in Europa;
              è, ora più che mai, evidente il bisogno di un cambio di strategia nel rispondere ai fenomeni in atto, caratterizzati da afflussi contingenti di profughi di intensità straordinaria, provenienti da situazioni di guerra o violenza generalizzata, in aree in cui spesso si associano condizioni sanitarie ad alto rischio, che necessariamente chiamano in causa la capacità di intervento e di mobilitare risorse da parte di tutta l'Unione europea;
              su tutti, l'allarme ebola; al riguardo, di recente, il presidente della Commissione dell'Unione europea, José Manuel Barroso, ha avuto modo di dichiarare: «L'Ebola può diventare una catastrofe umanitaria di grandissime dimensioni: non è solo un problema dei paesi africani che stanno soffrendo molto per il virus», l'epidemia è una «responsabilità di tutta la comunità internazionale», e ha aggiunto: «Insieme agli Usa ed ai partner internazionali va rafforzato il lavoro. L'ebola è una della priorità principali dell'agenda Ue e nel consiglio Ue sarà deciso qualcosa a riguardo»;
              l'epidemia ha preso avvio nella forest region della Guinea, ai confini con la Sierra Leone e la Liberia, e ha coinvolto successivamente la capitale Conakry. Il primo caso in Liberia è stato notificato il 30 marzo 2014 e in Sierra Leone il 25 maggio 2014; dal dicembre del 2013, ossia da quando l'epidemia avrebbe avuto effettivamente inizio, al 3 ottobre 2014 sono stati riportati dall'Organizzazione mondiale della sanità 7.470 casi probabili, confermati e sospetti, inclusi 3.431 decessi, con un tasso di letalità del 46 per cento in Guinea, Liberia e Sierra Leone;
              in Nigeria, dove il virus ebola è stato introdotto nel mese di luglio 2014 dalla Liberia, sono stati registrati 20 casi e 8 decessi. Oltre al caso indice, si sono verificati casi secondari e terziari e, dopo il focolaio iniziale di Lagos, un cluster di casi è stato registrato a Port Harcourt, nello Stato di Rivers, con tre casi confermati. In Senegal è stato registrato un solo caso di importazione dalla Guinea senza ulteriori casi secondari. Sia in Nigeria che in Senegal è stato completato il periodo di sorveglianza sanitaria di 21 giorni senza evidenza di nuovi casi di malattia;
              il focolaio attualmente in corso nella Repubblica democratica del Congo, con 70 casi, di cui l'ultimo isolato il 25 settembre 2014 e 43 decessi, è del tutto indipendente da quelli dei Paesi dell'Africa occidentale. Anche in Congo vengono messe in atto misure di sorveglianza nei confronti dei soggetti venuti in contatto con casi di malattia, che in gran parte hanno già superato il periodo di osservazione di 21 giorni senza sviluppare sintomi sospetti;
              la situazione è estremamente grave, motivo per il quale è necessario un intervento coordinato e anche estremamente rapido nei Paesi interessati per impedire che l'epidemia possa viaggiare;
              sia le Nazioni Unite sia l'Organizzazione mondiale della sanità hanno previsto che l'epidemia arriverà a un picco di 20.000 casi entro la fine del 2014, perché, ovviamente, si trasmette in modo esponenziale;
              si è passati dai pochi casi nel marzo 2014 ai dati odierni perché, come emerso nell'incontro di Washington sulla sicurezza sanitaria globale, si è di fronte ad un problema di infrastrutturazione dei sistemi sanitari nei Paesi del West Africa. Anche l'azione dell'Organizzazione mondiale della sanità, che è un'azione epidemiologica, non è riuscita a frenare il diffondersi dell'epidemia per motivi strutturali, in particolare per la mancanza di medici;
              si è in presenza di Paesi in cui c’è un medico ogni 100.000 persone, e con la popolazione sparsa in villaggi è evidente il rischio del diffondersi a macchia di leopardo dell'epidemia. Pertanto, ci sono stati anche casi di linciaggi di operatori sanitari che andavano, per esempio, a spruzzare disinfettanti. Questo è uno dei motivi per cui, per esempio, l'azione europea, in particolare quella italiana, è estremamente importante, attraverso l'opera di ong che si trovano nei territori da venti o trent'anni e sono estremamente accettate dalla popolazione;
              il livello dell'emergenza in Africa pone un tema sulla sicurezza dell'area globale e, in particolare, sulla sicurezza dei Paesi europei;
              il coordinamento delle misure sanitarie a livello europeo è sotto l'egida del Health Security Committee dell'Unione europea, che, oltre ad avvalersi della consulenza tecnica del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc), si basa anche sulle raccomandazioni fornite dall'Organizzazione mondiale della sanità, la quale, al momento, non raccomanda restrizioni di viaggi o controlli all'ingresso;
              per quanto riguarda, in particolare, l'operazione Mare nostrum, di cui il Ministro dell'interno, Angelino Alfano, ha annunciato l'imminente chiusura (da ultimo, nel corso dell'informativa urgente tenutasi alla Camera dei deputati il 16 ottobre 2014), la partecipazione del Ministero della salute con propri medici alle attività della Marina militare è volta a consentire, quando ancora i migranti sono a bordo e prima dello sbarco sul territorio italiano, i controlli sanitari per accertare la presenza e i sintomi sospetti di malattie infettive ai sensi del regolamento sanitario internazionale dell'Organizzazione mondiale della sanità;
              in caso di mancanza del medico del Ministero della salute a bordo, i controlli vengono effettuati a terra, prima dello smistamento dei migranti verso i vari centri di accoglienza;
              nonostante l'azione di prevenzione messa in campo, si sono comunque verificati casi che hanno destato l'allarme generale, in particolare per gli operatori e le forze dell'ordine quotidianamente coinvolti nelle operazioni di soccorso e di assistenza ai migranti; quest'estate, la stampa ha diffuso la notizia del caso di meningite accertato in un clandestino maliano sbarcato a Porto Empedocle ed ospite del centro d'accoglienza Villa Sikania di Siculiana, cui sono seguiti altri casi sospetti; sono stati riscontrati, hanno inoltre riassunto i media, 44 casi di scabbia, 4 di tubercolosi e, appunto, un caso di meningite;
              il pericolo di un'emergenza sanitaria non può essere sottovalutato in alcun modo, né può essere minimizzato il rischio a cui sono sottoposte in particolare le forze dell'ordine, svolgendo i servizi legati all'arrivo dei migranti: trascurare tutto questo e non portare avanti opportune iniziative di sicurezza, prevenzione e controllo è un atteggiamento che non garantisce a pieno il diritto alla tutela della salute sancito dalla Costituzione, nonché è segno di grave mancanza di rispetto e di considerazione verso gli operatori coinvolti e verso tutti i cittadini;
              il 1o novembre 2014 partirà Triton, l'operazione messa in campo da Frontex nelle acque del Mediterraneo, con un budget mensile di 2,9 milioni di euro (ovvero meno di un terzo di quanto Mare Nostrum costa all'Italia); quanto all'operatività, il mandato di Triton sembra essere il solo controllo dei confini e non il salvataggio in mare. Le navi e gli aerei impiegati potranno spingersi solo trenta miglia oltre le coste italiane e non fin davanti alle coste libiche, dove sarebbe necessario perché teatro della maggior parte dei naufragi. Non potranno, quindi, essere garantite operazioni di prevenzione come finora sono state fatte su Mare Nostrum. Il personale impiegato non potrà, infatti, come fa la Marina militare italiana, operare screening sanitari a bordo;
              è di tutta evidenza che, vista l'emergenza sanitaria, che non riguarda solo l'ebola, urge la necessità, a partire dall'operazione Triton, di un coinvolgimento e di un rafforzamento dei sistemi di controllo, sia con un'incentivazione delle procedure di sicurezza, sia con azioni di informazione più dettagliata nei confronti dei cittadini;
              è importante avviare un sistema di sorveglianza epidemiologica coordinata a livello globale, a partire dal livello europeo; è una questione di rilievo, soprattutto per l'area mediterranea, tutelare la sicurezza e la salute di quest'area geografica che ha delle esigenze particolari legate al continuo flusso di migranti provenienti da Paesi già colpiti da epidemie e ad alto rischio di contagio;
              la terrificante epidemia di ebola in almeno tre paesi dell'Africa occidentale (Nuova Guinea, Liberia e Sierra Leone) impone non soltanto di dare una risposta immediata per fermarne la diffusione, ma anche di ripensare le politiche legate alla sanità pubblica globale;
              la riunione svoltasi a Bruxelles il 16 ottobre 2014 dei Ministri della salute dell'Unione europea ha posto in evidenza l'incompletezza delle politiche sanitarie e la necessità di un maggior coordinamento tra gli Stati membri,

impegna il Governo:

          ad adottare le opportune iniziative volte a:
              a) provvedere all'interruzione dell'operazione Mare Nostrum, come già dichiarato dal Ministro dell'interno, Angelino Alfano, che ha annunciato, nel corso della recente informativa alla Camera dei deputati, la convocazione di un prossimo Consiglio dei Ministri nel corso del quale sarà stabilita e deliberata la conclusione dell'operazione;
              b) garantire, nell'ambito dell'operazione Triton, adeguati controlli sanitari direttamente a bordo delle navi;
              c) garantire massima tutela, in particolare per gli operatori sanitari e le forze dell'ordine quotidianamente coinvolti nelle operazioni di soccorso e accoglienza dei migranti, attraverso il rafforzamento delle procedure di sicurezza e dei sistemi di prevenzione e controllo del rischio sanitario, relazionando al Parlamento circa le attività portate avanti in merito;
              d) prevedere, in relazione al rischio sanitario, azioni di informazione più dettagliata nei confronti degli operatori coinvolti nelle operazioni di soccorso e accoglienza dei migranti e di tutti i cittadini;
              e) implementare il coordinamento dell'attività dei singoli Ministeri della salute dei Paesi europei, che coinvolga i Ministeri degli esteri, della cooperazione e dello sviluppo e i sistemi di difesa nazionale, per attività di prevenzione e controllo del rischio sanitario;
              f) prevedere, al fine di garantire il diritto costituzionale alla salute dei cittadini, che non può essere certamente considerato inferiore al diritto di libertà di circolazione dei migranti, misure di controllo sanitario più stringenti nei confronti dei migranti e dei richiedenti asilo provenienti dai Paesi attualmente focolaio del virus ebola, quali Liberia, Sierra Leone e Nuova Guinea;
              g) potenziare, in accordo con l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, la rete dei campi di accoglienza esistenti nei Paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo, rafforzando in particolare le procedure interne delle operazioni di sicurezza e controllo per la prevenzione del rischio sanitario;
              h) prevedere l'utilizzo di monitor e strumentazione adeguata negli aeroporti, al fine di attuare operazioni di prevenzione e controllo sanitario dei passeggeri.
(1-00633) «Brunetta, Ravetto, Bergamini, Centemero, Palese».


      La Camera,
          premesso che:
              diventa sempre più diffuso tra i cittadini l'allarme relativo a rischi sanitari collegati al fenomeno migratorio, vista la presenza di emergenze epidemiologiche in zone da cui si spostano quotidianamente persone che decidono di migrare in Europa;
              è, ora più che mai, evidente il bisogno di un cambio di strategia nel rispondere ai fenomeni in atto, caratterizzati da afflussi contingenti di profughi di intensità straordinaria, provenienti da situazioni di guerra o violenza generalizzata, in aree in cui spesso si associano condizioni sanitarie ad alto rischio, che necessariamente chiamano in causa la capacità di intervento e di mobilitare risorse da parte di tutta l'Unione europea;
              su tutti, l'allarme ebola; al riguardo, di recente, il presidente della Commissione dell'Unione europea, José Manuel Barroso, ha avuto modo di dichiarare: «L'Ebola può diventare una catastrofe umanitaria di grandissime dimensioni: non è solo un problema dei paesi africani che stanno soffrendo molto per il virus», l'epidemia è una «responsabilità di tutta la comunità internazionale», e ha aggiunto: «Insieme agli Usa ed ai partner internazionali va rafforzato il lavoro. L'ebola è una della priorità principali dell'agenda Ue e nel consiglio Ue sarà deciso qualcosa a riguardo»;
              l'epidemia ha preso avvio nella forest region della Guinea, ai confini con la Sierra Leone e la Liberia, e ha coinvolto successivamente la capitale Conakry. Il primo caso in Liberia è stato notificato il 30 marzo 2014 e in Sierra Leone il 25 maggio 2014; dal dicembre del 2013, ossia da quando l'epidemia avrebbe avuto effettivamente inizio, al 3 ottobre 2014 sono stati riportati dall'Organizzazione mondiale della sanità 7.470 casi probabili, confermati e sospetti, inclusi 3.431 decessi, con un tasso di letalità del 46 per cento in Guinea, Liberia e Sierra Leone;
              in Nigeria, dove il virus ebola è stato introdotto nel mese di luglio 2014 dalla Liberia, sono stati registrati 20 casi e 8 decessi. Oltre al caso indice, si sono verificati casi secondari e terziari e, dopo il focolaio iniziale di Lagos, un cluster di casi è stato registrato a Port Harcourt, nello Stato di Rivers, con tre casi confermati. In Senegal è stato registrato un solo caso di importazione dalla Guinea senza ulteriori casi secondari. Sia in Nigeria che in Senegal è stato completato il periodo di sorveglianza sanitaria di 21 giorni senza evidenza di nuovi casi di malattia;
              il focolaio attualmente in corso nella Repubblica democratica del Congo, con 70 casi, di cui l'ultimo isolato il 25 settembre 2014 e 43 decessi, è del tutto indipendente da quelli dei Paesi dell'Africa occidentale. Anche in Congo vengono messe in atto misure di sorveglianza nei confronti dei soggetti venuti in contatto con casi di malattia, che in gran parte hanno già superato il periodo di osservazione di 21 giorni senza sviluppare sintomi sospetti;
              la situazione è estremamente grave, motivo per il quale è necessario un intervento coordinato e anche estremamente rapido nei Paesi interessati per impedire che l'epidemia possa viaggiare;
              sia le Nazioni Unite sia l'Organizzazione mondiale della sanità hanno previsto che l'epidemia arriverà a un picco di 20.000 casi entro la fine del 2014, perché, ovviamente, si trasmette in modo esponenziale;
              si è passati dai pochi casi nel marzo 2014 ai dati odierni perché, come emerso nell'incontro di Washington sulla sicurezza sanitaria globale, si è di fronte ad un problema di infrastrutturazione dei sistemi sanitari nei Paesi del West Africa. Anche l'azione dell'Organizzazione mondiale della sanità, che è un'azione epidemiologica, non è riuscita a frenare il diffondersi dell'epidemia per motivi strutturali, in particolare per la mancanza di medici;
              si è in presenza di Paesi in cui c’è un medico ogni 100.000 persone, e con la popolazione sparsa in villaggi è evidente il rischio del diffondersi a macchia di leopardo dell'epidemia. Pertanto, ci sono stati anche casi di linciaggi di operatori sanitari che andavano, per esempio, a spruzzare disinfettanti. Questo è uno dei motivi per cui, per esempio, l'azione europea, in particolare quella italiana, è estremamente importante, attraverso l'opera di ong che si trovano nei territori da venti o trent'anni e sono estremamente accettate dalla popolazione;
              il livello dell'emergenza in Africa pone un tema sulla sicurezza dell'area globale e, in particolare, sulla sicurezza dei Paesi europei;
              il coordinamento delle misure sanitarie a livello europeo è sotto l'egida del Health Security Committee dell'Unione europea, che, oltre ad avvalersi della consulenza tecnica del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc), si basa anche sulle raccomandazioni fornite dall'Organizzazione mondiale della sanità, la quale, al momento, non raccomanda restrizioni di viaggi o controlli all'ingresso;
              per quanto riguarda, in particolare, l'operazione Mare nostrum, di cui il Ministro dell'interno, Angelino Alfano, ha annunciato l'imminente chiusura (da ultimo, nel corso dell'informativa urgente tenutasi alla Camera dei deputati il 16 ottobre 2014), la partecipazione del Ministero della salute con propri medici alle attività della Marina militare è volta a consentire, quando ancora i migranti sono a bordo e prima dello sbarco sul territorio italiano, i controlli sanitari per accertare la presenza e i sintomi sospetti di malattie infettive ai sensi del regolamento sanitario internazionale dell'Organizzazione mondiale della sanità;
              in caso di mancanza del medico del Ministero della salute a bordo, i controlli vengono effettuati a terra, prima dello smistamento dei migranti verso i vari centri di accoglienza;
              nonostante l'azione di prevenzione messa in campo, si sono comunque verificati casi che hanno destato l'allarme generale, in particolare per gli operatori e le forze dell'ordine quotidianamente coinvolti nelle operazioni di soccorso e di assistenza ai migranti; quest'estate, la stampa ha diffuso la notizia del caso di meningite accertato in un clandestino maliano sbarcato a Porto Empedocle ed ospite del centro d'accoglienza Villa Sikania di Siculiana, cui sono seguiti altri casi sospetti; sono stati riscontrati, hanno inoltre riassunto i media, 44 casi di scabbia, 4 di tubercolosi e, appunto, un caso di meningite;
              il pericolo di un'emergenza sanitaria non può essere sottovalutato in alcun modo, né può essere minimizzato il rischio a cui sono sottoposte in particolare le forze dell'ordine, svolgendo i servizi legati all'arrivo dei migranti: trascurare tutto questo e non portare avanti opportune iniziative di sicurezza, prevenzione e controllo è un atteggiamento che non garantisce a pieno il diritto alla tutela della salute sancito dalla Costituzione, nonché è segno di grave mancanza di rispetto e di considerazione verso gli operatori coinvolti e verso tutti i cittadini;
              il 1o novembre 2014 partirà Triton, l'operazione messa in campo da Frontex nelle acque del Mediterraneo, con un budget mensile di 2,9 milioni di euro (ovvero meno di un terzo di quanto Mare Nostrum costa all'Italia); quanto all'operatività, il mandato di Triton sembra essere il solo controllo dei confini e non il salvataggio in mare. Le navi e gli aerei impiegati potranno spingersi solo trenta miglia oltre le coste italiane e non fin davanti alle coste libiche, dove sarebbe necessario perché teatro della maggior parte dei naufragi. Non potranno, quindi, essere garantite operazioni di prevenzione come finora sono state fatte su Mare Nostrum. Il personale impiegato non potrà, infatti, come fa la Marina militare italiana, operare screening sanitari a bordo;
              è di tutta evidenza che, vista l'emergenza sanitaria, che non riguarda solo l'ebola, urge la necessità, a partire dall'operazione Triton, di un coinvolgimento e di un rafforzamento dei sistemi di controllo, sia con un'incentivazione delle procedure di sicurezza, sia con azioni di informazione più dettagliata nei confronti dei cittadini;
              è importante avviare un sistema di sorveglianza epidemiologica coordinata a livello globale, a partire dal livello europeo; è una questione di rilievo, soprattutto per l'area mediterranea, tutelare la sicurezza e la salute di quest'area geografica che ha delle esigenze particolari legate al continuo flusso di migranti provenienti da Paesi già colpiti da epidemie e ad alto rischio di contagio;
              la terrificante epidemia di ebola in almeno tre paesi dell'Africa occidentale (Nuova Guinea, Liberia e Sierra Leone) impone non soltanto di dare una risposta immediata per fermarne la diffusione, ma anche di ripensare le politiche legate alla sanità pubblica globale;
              la riunione svoltasi a Bruxelles il 16 ottobre 2014 dei Ministri della salute dell'Unione europea ha posto in evidenza l'incompletezza delle politiche sanitarie e la necessità di un maggior coordinamento tra gli Stati membri,

impegna il Governo:

          ad adottare le opportune iniziative volte a:
              a) provvedere all'interruzione dell'operazione Mare Nostrum, come già dichiarato dal Ministro dell'interno, Angelino Alfano, che ha annunciato, nel corso della recente informativa alla Camera dei deputati, la convocazione di un prossimo Consiglio dei Ministri nel corso del quale sarà stabilita e deliberata la conclusione dell'operazione;
              b) garantire, nell'ambito dell'operazione Triton, adeguati controlli sanitari direttamente a bordo delle navi;
              c) garantire massima tutela, in particolare per gli operatori sanitari e le forze dell'ordine quotidianamente coinvolti nelle operazioni di soccorso e accoglienza dei migranti, attraverso il rafforzamento delle procedure di sicurezza e dei sistemi di prevenzione e controllo del rischio sanitario, relazionando al Parlamento circa le attività portate avanti in merito;
              d) prevedere, in relazione al rischio sanitario, azioni di informazione più dettagliata nei confronti degli operatori coinvolti nelle operazioni di soccorso e accoglienza dei migranti e di tutti i cittadini;
              e) continuare nel lavoro di implementazione del coordinamento dell'attività dei singoli Ministeri della salute dei Paesi europei, che coinvolga i Ministeri degli esteri, della cooperazione e dello sviluppo e i sistemi di difesa nazionale, per attività di prevenzione e controllo del rischio sanitario;
              f) prevedere, al fine di garantire il diritto costituzionale alla salute dei cittadini, che non può essere certamente considerato inferiore al diritto di libertà di circolazione dei migranti, misure di controllo sanitario più stringenti nei confronti dei migranti e dei richiedenti asilo provenienti dai Paesi attualmente focolaio del virus ebola, quali Liberia, Sierra Leone e Nuova Guinea;
              g) potenziare, in accordo con l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, la rete dei campi di accoglienza esistenti nei Paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo, rafforzando in particolare le procedure interne delle operazioni di sicurezza e controllo per la prevenzione del rischio sanitario;
              h) prevedere, recuperando nuove risorse, l'utilizzo di monitor e strumentazione adeguata negli aeroporti, al fine di attuare operazioni di prevenzione e controllo sanitario dei passeggeri.
(1-00633)
(Testo modificato nel corso della seduta) «Brunetta, Ravetto, Bergamini, Centemero, Palese».


      La Camera,
          premesso che:
              il fenomeno migratorio ha assunto, ormai, dimensioni epocali; è in costante crescita ed è soggetto a continue mutazioni sia per quanto riguarda i motivi che lo generano sia per le modalità nelle quali si manifesta. Gli Stati europei, e più di tutti il nostro Paese, si trovano ad affrontare, dunque, un problema estremamente complesso, che assume sempre più carattere strutturale, che richiede risposte la cui enorme difficoltà non sfugge a nessuno;
              in Italia il peso assoluto e relativo degli stranieri sulla popolazione residente è aumentato notevolmente nel tempo e si prevede che tale trend proseguirà nei prossimi anni. Le implicazioni sociali e sanitarie sono considerevoli. I flussi migratori interessano, infatti, una moltitudine di popolazioni e di categorie di persone che, alle più comuni problematiche di carattere sociale, sollecitano risposte sul piano di quelle che attengono al tema della salute, dei bisogni, dei suoi rischi e dei vari livelli di vulnerabilità;
              la salute dei migranti e le tematiche di salute associate alle migrazioni sono dunque, al momento, questioni cruciali per l'agenda internazionale dei Governi e della società civile;
              lo stato di salute dei migranti, determinato in larga parte dalle condizioni sociali ed igienico-sanitarie del Paese di provenienza, può risentire anche delle precarie condizioni di vita e di lavoro e del difficile accesso ai servizi sanitari del Paese ospite. I timori legati alla condizione di irregolarità e la scarsa conoscenza del diritto di accesso ai servizi sanitari, delle modalità di fruizione degli stessi e della lingua locale sono, infatti, alcuni tra i principali fattori che impediscono ai migranti di accedere a percorsi di prevenzione, di diagnosi precoce e di terapia ambulatoriale in Italia e li spingono piuttosto a rivolgersi al Servizio sanitario nazionale in condizioni di urgenza (presso il pronto soccorso);
              una situazione che può favorire l'insorgenza e lo sviluppo di patologie di diversa complessità e gravità: questo aspetto è particolarmente rilevante per le malattie infettive, patologie che si diffondono più facilmente in condizioni di scarsa igiene e di sovraffollamento;
              si sa bene che la prevenzione gioca un ruolo fondamentale nell'evitare l'insorgenza e la diffusione di malattie infettive nella popolazione e che, per molte di queste patologie, sono disponibili terapie mirate risolutive: è evidente, pertanto, che combattere le problematiche relative all'accesso ai servizi sanitari ed intervenire sugli aspetti fondamentali della salute è particolarmente rilevante dal punto di vista della sanità pubblica;
              gli interventi di salute pubblica per ridurre il rischio di patologie infettive devono avere, dunque, sia una prospettiva di breve periodo (occupandosi dei migranti appena giunti in Italia e ospitati nei centri di accoglienza) sia una a lungo termine (rivolgendosi alle persone che si sono stabilite e cominciano a integrarsi nel nostro Paese). Tra le prime misure rientrano: un sistema di sorveglianza e di allerta precoce che preveda una valutazione dello stato di salute dei migranti all'ingresso e un suo monitoraggio nei centri di immigrazione; procedure che favoriscano l'accesso ai servizi sanitari per le popolazioni migranti che consentano la diagnosi precoce di eventuali patologie e una continuità di cura e strategie vaccinali in grado di proteggere bambini ed adulti, nonché assicurare una continuità con la loro pregressa storia vaccinale;
              tra le strategie a lungo periodo diventa fondamentale favorire l'accesso alle vaccinazioni previste nel calendario vaccinale e per categorie professionali, per riuscire a raggiungere obiettivi di sanità pubblica e permettere una maggiore sicurezza sui luoghi di lavoro;
              la tutela della salute in Italia è sancita dall'articolo 32 della Costituzione che, identificando la salute come «fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività» non la vincola alla cittadinanza italiana o allo status (regolare o irregolare) di residenza. Da questo principio deriva la legislazione attualmente in vigore che sancisce il diritto di qualunque cittadino straniero in Italia di usufruire dei servizi sanitari pubblici a prescindere dalla sua situazione;
              per quanto riguarda le misure di prevenzione, il Ministero della salute e lo Stato maggiore della Marina militare hanno concluso un accordo con il quale si prevede che dal 21 giugno 2014 il personale sanitario del Ministero della salute, con specifica formazione per la gestione delle problematiche quarantenarie, che competono direttamente allo Stato, sarà stabilmente a bordo delle unità navali che partecipano all'operazione Mare Nostrum al fine di effettuare le operazioni di controllo sanitario già prima che i migranti arrivino nei porti italiani, utilizzando il lasso di tempo che intercorre tra il recupero e l'arrivo in porto. Il Ministero della salute prosegue, pertanto, nell'opera di rafforzamento del dispositivo di sorveglianza sanitaria nei confronti di potenziali rischi infettivi connessi ai flussi migratori ed ha avviato tale iniziativa volta a rispondere in maniera efficace all'incremento numerico delle persone da controllare: si opera così per la prima volta una proiezione in mare degli uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera del Ministero della salute. Medici ed altro personale sanitario della Marina militare imbarcato sulle stesse unità continuano ad effettuare gli interventi sanitari curativi che si rendono necessari. L'operazione, pertanto, contribuisce ad elevare il livello di tutela dei cittadini residenti nel nostro Paese e quella dei migranti stessi;
              grazie all'operazione scrupolosa di applicazione delle norme di prevenzione sanitaria e dei dispositivi individuali di protezione, l'operazione Mare Nostrum (interpretata e sostenuta con encomiabili perizie e spirito umanitario dalle forze dell'ordine, ed affiancata dalla Croce Rossa e da organizzazioni non governative che operano a bordo delle navi italiane), si è in grado di stabilire in anticipo l'identità di chi entra in Italia e soprattutto le sue condizioni di salute;
              il nostro Paese ha un sistema sanitario universalistico: cura tutti indistintamente senza eccezioni; il Governo sta mettendo in campo un programma straordinario di assistenza ai minori che arrivano sul territorio italiano. Questi impegni sono sostenuti dall'Italia con le sue risorse: ma, rispetto all'evidenza di un fenomeno che coinvolge un intero continente, risulta opportuno, giusto e indispensabile che l'Europa intera sostenga tale sforzo. Sarebbe, infatti, opportuno realizzare una task force a livello europeo proprio per affrontare il tema della salute dei migranti (includendo anche il tema dei rapporti bilaterali con i Paesi da cui provengono i flussi migratori) in un momento in cui il «fenomeno ebola» sta creando un giustificato allarme nel continente e nel mondo intero;
              il rischio di importazioni di malattie da virus ebola, per l'Italia come per gli altri Paesi europei, appare, al momento, sotto controllo. Infatti, il Ministero della salute ha posto in essere ogni necessaria iniziativa volta a potenziare la vigilanza sanitaria sia sul territorio nazionale che nei punti di ingresso transfrontalieri marittimi ed aerei. A tal fine, sono state emanate specifiche circolari e raccomandazioni alle regioni e alle province autonome, agli uffici di sanità marittima, alle aree di frontiera, alle amministrazioni interessate ed al Ministero della difesa;
              l'istituzione delle misure di sorveglianza presso porti, aeroporti e punti d'ingresso internazionali del nostro Paese, continuerà, pertanto, fino alla dichiarazione di cessazione dell'epidemia. Si ribadisce, ancora una volta, che le caratteristiche del Sistema sanitario nazionale e l'efficienza dei sistemi di sorveglianza a livello locale, regionale e nazionale sono in grado di evitare la presenza di fenomeni epidemici;
              è stata, tra l'altro, costituita una task force interministeriale (Ministeri della salute, della difesa, degli affari esteri e della cooperazione internazionale, delle infrastrutture e dei trasporti e dell'interno) per far fronte ad eventuali rischi legati all'epidemia da virus ebola. L'obiettivo è di un rafforzamento dei controlli in porti ed aeroporti, ma anche dell'avvio di una campagna di informazione tra i viaggiatori;
              in relazione all'esperienza della gestione sul territorio nazionale dei casi sospetti di malattia da virus ebola, il Ministero della salute ha stabilito un protocollo centrale proprio in merito ai casi sospetti, probabili e confermati, nonché ai contatti cui fare riferimento nell'organizzazione della preparazione e della risposta al verificarsi degli stessi. In particolare, il protocollo prevede la gestione dei casi di virus ebola indicati a livello centrale, con il coinvolgimento delle regioni e, ove necessario, delle altre amministrazioni dello Stato ed enti privati e l'eventuale trasferimento in modalità protetta presso uno dei centri nazionali di riferimento per la gestione clinica del paziente;
              in Italia, le segnalazioni dei casi sospetti che si sono intensificate nei mesi di luglio ed agosto del 2014, determinate anche da un sistema di allerta attivato nel Paese, e pervenute sino ad oggi al Ministero della salute, sono state oggetto di apposite indagini epidemiologiche e di approfondimento diagnostico, come previsto dalle circolari emanate, riportando un esito negativo. Il Ministero della salute ha fornito, con successive circolari, disposizioni per il rafforzamento delle misure di sorveglianza nei punti di ingresso internazionale (porti ed aeroporti). Da ultimo, con la circolare del 1o ottobre 2014 ed aggiornata il 6 ottobre successivo, sono state fornite indicazioni, non solo sui centri di riferimento nazionali e sui centri clinici a livello di regioni e province autonome, in cui possono essere gestiti casi sospetti e confermati di infezioni da virus ebola. Si è fatto riferimento anche alle modalità di stratificazione del criterio epidemiologico in base al rischio di esposizione, alla valutazione iniziale ed alla gestione di casi sospetti o confermati da virus ebola, alle modalità per il trasporto, alle precauzioni da adottare per la protezione degli operatori sanitari e alle misure nei confronti di coloro che vengono a contatto con tale malattia,

impegna il Governo:

          a proseguire nell'opera di monitoraggio, con particolare riguardo al controllo anche nelle sedi aeroportuali con specifico riferimento agli scali di Milano Malpensa e di Roma Fiumicino, al fine di scongiurare che l'Italia, per la sua peculiare collocazione geografica e per il suo ruolo nell'ambito del Mediterraneo, possa trovarsi in una situazione di maggiore difficoltà rispetto ad un fenomeno tanto grave e complesso;
          a rafforzare e potenziare le procedure per l'individuazione dei soggetti che potrebbero essersi infettati già nei Paesi africani colpiti dall'epidemia da virus ebola prima del loro imbarco sugli aeromobili, con destinazione in uno degli aeroporti europei;
          a promuovere l'attivazione di una campagna informativa in modo omogeneo in tutta l'Unione europea, al fine di garantire la più corretta e totale informazione ai cittadini circa i comportamenti da tenere nell'ipotesi in cui inizino a manifestarsi i sintomi di una possibile infezione;
          ad adottare attività di sostegno ai Paesi interessati che coinvolgano gli Stati membri e le strutture della Commissione europea, in modo da supportare gli stessi Paesi nelle iniziative di ricostruzione dei sistemi sanitari duramente colpiti da questa emergenza.
(1-00634) «Dorina Bianchi, Calabrò, Roccella».


      La Camera,
          premesso che:
              l'articolo 32 della Costituzione italiana tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo ed interesse della collettività. Con il termine «individuo» si include nell'ambito della tutela non solo il cittadino italiano, ma chiunque si trovi all'interno dei confini della Repubblica, operando così secondo una logica di tutela e prevenzione collettiva;
              il fenomeno migratorio, pur essendo presente nella storia dell'umanità fin dai suoi albori, è oggi divenuto una realtà globale, strutturale e dalla velocità estremamente rapida. Secondo l'Onu, nel 2010, 191 milioni di persone vivevano fuori dal loro Paese d'origine: ovvero il 2,9 per cento della popolazione mondiale (6 miliardi e 464 milioni). Il 59 per cento di queste persone è diretto nei Paesi ad alto reddito, mentre la restante parte migra nei Paesi meno sviluppati. In Italia la presenza di stranieri ha raggiunto il numero di 3.772.000 persone (includendo circa 800 mila irregolari) all'inizio del 2009: si tratta di oltre il 7 per cento della popolazione totale. Uno ogni cinque stranieri è un minore e un decimo di loro è nato in Italia da genitori stranieri;
              nel fenomeno migratorio appare evidente anche l'ampliamento delle disuguaglianze di salute (health divide) generate dal contesto sociale a sfavore delle fasce deboli della popolazione. Tra gli immigrati le malattie possono essere il risultato di fattori ambientali nel loro Paese d'origine, nel Paese di destinazione o del processo migratorio in sé. Se, da un lato, i migranti non hanno necessariamente una salute peggiore del resto della popolazione, dall'altro essi tendono ad essere esposti ad un rischio maggiore di andare incontro a problemi di salute associati alla povertà, alla scarsità di condizioni igieniche, ad una alimentazione diversa da quella a cui sono abituati. Gli immigrati più vulnerabili ai problemi di salute legati alla povertà sono: le donne, i giovani e gli anziani, ma anche migranti con problemi di lavoro, alcuni gruppi etnici, i richiedenti asilo, i rifugiati e gli immigrati irregolari ed altri;
              appare, quindi, necessario proporre una attività di ricerca, diagnosi, cura e formazione che affrontino questo tema e promuovano le azioni di contrasto. Parallelamente occorre costruire una rete con i centri internazionali, a partire dall'Organizzazione mondiale della sanità, che affrontano queste tematiche emergenti nel contesto più vasto dell'Europa e dei Paesi dell'Est, come anche di quelli in via di sviluppo;
              la salute è stata riconosciuta non solo come un bene prezioso per l'essere umano, ma anche una ricchezza fondamentale per il progresso sociale, economico ed individuale che supera i confini territoriali dello Stato. Dal momento che lo stato di salute non è legato soltanto al settore sanitario, ma è influenzato da numerosi fattori, politici, economici, sociali, culturali, ambientali, biologici e comportamentali. È opportuno considerarli tutti se si vuole raggiungere l'obiettivo prefissato;
              l'ultimo «Rapporto povertà» di Caritas Europa descrive e analizza le condizioni socio-economiche e i bisogni dei migranti e identifica i fattori chiave che nei Paesi di accoglienza possono metterli in difficoltà, fino a ridurli in povertà. Si interessa particolarmente delle condizioni degli irregolari e dei richiedenti asilo perché sono i gruppi più vulnerabili e più a rischio non solo di povertà economica e sociale ma anche di malattia, e proprio per una migliore tutela della salute evidenzia fino a che punto i migranti siano a rischio di esclusione per ciò che concerne il lavoro, l'alloggio e l'istruzione;
              le condizioni di salute degli immigrati emergono misurando lo stato di salute con indicatori di percezione, sia analizzando le informazioni raccolte sulle malattie. Tuttavia, si osservano, per alcune etnie, situazioni di criticità che andrebbero approfondite e monitorate. La domanda di salute espressa con il ricorso ai servizi sanitari evidenzia complessivamente un minore accesso rispetto a quello degli italiani, a parità di età, sebbene con alcune peculiarità;
              i comportamenti di prevenzione adottati dalle persone immigrate risentono della forte eterogeneità di questa popolazione, sia in termini di differenze culturali, che di genere. Considerando alcuni dei principali indicatori che consentono di cogliere l'attitudine alla prevenzione di carattere generale, si evince, infatti, che le donne straniere fanno più controlli dei loro coetanei maschi, ma i livelli rispetto alla popolazione italiana sono decisamente più contenuti;
              la crescente presenza di migranti provenienti da Paesi ad alta incidenza di patologie infettive ha prodotto il rischio della ricomparsa di malattie comunemente considerate debellate, come dimostrano i recenti fatti di cronaca che hanno visto un presunto contagio di tubercolosi tra i militari impegnati nell'operazione Mare Nostrum e così come sta avvenendo con l'epidemia di ebola, che da Guinea, Sierra Leone e Liberia rischia di diffondersi nel resto del mondo;
              l'epidemia di ebola rappresenta una «emergenza di salute pubblica di livello internazionale», come ha stabilito il comitato di emergenza istituito dall'Organizzazione mondiale della sanità, ed è «la peggiore che si sia avuta in almeno 40 anni e serve uno sforzo coordinato a livello internazionale per fermare la diffusione del virus»;
              il 18 settembre 2014, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha riconosciuto lo «scoppio» ebola come «una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale» e ha adottato all'unanimità la risoluzione 2177/2014, per la creazione di un'iniziativa a livello Onu per coordinare le attività di tutte le agenzie delle Nazioni Unite per affrontare la crisi;
              il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale ha stanziato circa 1,5 milioni di euro per contrastare l'epidemia di ebola che sta colpendo alcuni Paesi dell'Africa occidentale;
              la cooperazione italiana ha stanziato un contributo di 240.000 euro per l'Organizzazione mondiale della sanità per l'invio di medici, la fornitura di medicine e di attrezzature, il rafforzamento dei sistemi di sorveglianza epidemiologica e il coordinamento e supporto logistico delle attività di risposta all'emergenza;
              nel corso della discussione dell'atto Camera n.  2498, recante «Disciplina generale sulla cooperazione internazionale per lo sviluppo», il 17 luglio 2014, è stato accolto un ordine del giorno che impegnava il Governo ad assicurare la possibilità che le amministrazioni possano prevedere l'immissione in servizio di figure professionali di pari livello, con contratto a tempo determinato e comunque fino alla durata del periodo di aspettativa richiesto dal titolare, mantenendo a carico del progetto di cooperazione i contributi previdenziali per il personale espatriato,

impegna il Governo:

          a garantire l'adozione di adeguate misure di sicurezza legate al rischio di importazione di casi di ebola, attraverso l'identificazione precoce dei sospetti, evitando pericoli di ritardata diagnosi e conseguente applicazione delle misure necessarie;
          a predisporre l'attivazione o il potenziamento delle strutture atte a gestire questa specifica emergenza sanitaria;
          a valutare l'opportunità di incrementare le risorse destinate a programmi per contrastare l'epidemia di ebola anche attraverso l'invio di medici e la fornitura di medicine e di attrezzature;
          a dar seguito all'impegno preso con l'ordine del giorno citato in premessa per favorire l'espatrio dei dipendenti della pubblica amministrazione che intendono partecipare a progetti di collaborazione internazionale connesse all'emergenza sanitaria;
          a garantire l'accesso ai servizi sanitari a tutti i migranti, regolari e irregolari, prevedendo nei servizi sanitari la presenza di mediatori culturali e a non procedere all'espulsione dei migranti irregolari malati e che non hanno possibilità di accedere alle cure necessarie nel loro Paese di origine;
          a prevedere servizi tempestivi di screening analoghi per quelli che si fanno per i cittadini italiani per le principali patologie previste;
          ad assicurare ai rifugiati, richiedenti asilo e a quanti hanno subito eventi traumatici, come torture, guerre o persecuzioni, adeguate cure mediche e psicologiche e a garantire il diritto per tutti gli immigrati, compresi coloro che risiedono illegalmente, ad un alloggio dignitoso.
(1-00640) «Binetti, Buttiglione, Gigli, De Mita, D'Alia, Cera, Adornato, Piepoli, Sberna, Fitzgerald Nissoli, Caruso».


      La Camera,
          premesso che:
              secondo un rapporto pubblicato il 20 giugno 2014, dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale il numero di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni in tutto il mondo ha superato i 50 milioni di persone. Alla fine del 2013 si contavano 51,2 milioni di migranti forzati, quasi 6 milioni di persone in più rispetto al 2012 dovute al massiccio esodo dalla Siria;
              il fenomeno migratorio è in costante crescita ed è soggetto a continue mutazioni sia per i motivi che lo generano che le modalità con cui si manifesta: in Europa i Paesi che hanno il maggior numero di rifugiati sono la Germania (589.737; 0,72 per cento sulla popolazione residente), la Francia (217.865; 0,33 per cento) il Regno Unito (149.765; 0,23 per cento) la Svezia (92.872; 0,97 per cento) e l'Olanda (74.598; 0,44 per cento). L'Italia con oltre 65.000 rifugiati, 0,11 per cento sulla popolazione residente si colloca al sesto posto;
              il numero delle vittime e delle violazioni dei diritti umani da parte dei trafficanti, negli anni, è considerevolmente aumentato (in generale, dal 2000 al 2013, sono morti più di 23 mila migranti nel tentativo di fuggire dai conflitti e di raggiungere l'Europa via mare o attraversando i confini del vecchio continente via terra: in media più di 1.600 l'anno);
              nonostante lo straordinario impegno del Governo italiano con l'operazione di soccorso denominata Mare Nostrum che ha salvato migliaia di vite umane, i drammi e le violazioni dei diritti umani continuano a perpetrarsi;
              la Marina militare, all'interno dell'operazione Mare Nostrum, dal 18 ottobre 2013, ha assicurato il costante pattugliamento aeronavale del Mediterraneo e dello Stretto di Sicilia: 5 unità navali, circa 5 mila uomini impegnati, uomini e donne che hanno assistito direttamente 149 mila migranti, che hanno recuperato a bordo di navi che stavano affondando 93 mila persone e che hanno consegnato alla giustizia più di 500 scafisti;
              l'articolo 32 della Costituzione italiana tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo ed interesse della collettività; la salute dei migranti e le tematiche della salute associate alle migrazioni hanno al momento un ruolo nodale per l'agenda internazionale dei Governi e della società civile; la salute rappresenta, non solo diritto dell'essere umano ma ricchezza fondamentale per il progresso sociale ed economico che supera i confini territoriali dello Stato;
              a partire da giugno 2014 sono stati 80.000 i controlli sanitari a bordo svolti da medici della Marina militare e del servizio sanitario nazionale sulle imbarcazioni di migranti soccorse nell'ambito dell'operazione Mare Nostrum e, ove questo non è stato possibile, i controlli sono stati svolti da medici a terra prima dello smistamento nei centri di accoglienza;
              tale operazione dovrebbe terminare a novembre, sostituita dall'operazione Triton che Frontex farà partire il 1o novembre con il contributo di 26 Stati, operazione coordinata dalla stessa Italia e con un budget di 2,9 milioni di euro al mese;
              la gestione dell'accoglienza, dell'identificazione e dell'assistenza da parte di molti Paesi dell'Unione europea presenta numerose criticità, data la consistenza del fenomeno e considerate le talvolta difficili condizioni sociali ed economiche dei Paesi riceventi, difficoltà che si riflettono sia sulle popolazioni accoglienti che sui rifugiati e richiedenti asilo;
              con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le materie concernenti l'asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea hanno acquisito la qualifica di politica comune dell'Unione europea (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea); pertanto, la concreta regolamentazione di tali materie risulta un'applicazione del Trattato; tra il 2007 e il 2013 l'Unione europea ha speso quasi 2 miliardi di euro per proteggere le frontiere esterne e solo 700 milioni di euro per il miglioramento della situazione di richiedenti asilo e rifugiati;
              nell'ambito dell'accoglienza, il tema della tutela della salute è certamente importante tenendo conto della provenienza, dei motivi della migrazione spesso forzata e del percorso migratorio di queste persone, delle condizioni di viaggio e delle possibilità di inserimento sociale;
              se da una parte tutte le aziende sanitarie interessate sono state in vario modo coinvolte, sorprende che il dibattito veicolato dai mass media più che sulle tutele si sia focalizzato sui pericoli. Man mano che il fenomeno degli sbarchi si è consolidato nei numeri, i giornali hanno riportato con grande enfasi il rischio delle «solite» (da almeno 30 anni ci si confronta con questi allarmismi) tubercolosi e scabbia, ma soprattutto il pericolo dell'importazione dell'Ebola, Lebbra e Vaiolo;
              in relazione all'esperienza della gestione sul territorio nazionale dei casi sospetti di malattia da virus Ebola, il Ministero della salute ha stabilito un protocollo centrale in merito a casi sospetti, probabili e confermati, nonché ai contatti a cui fare riferimento nel percorso protetto diagnostico-terapeutico e di osservazione precauzionale;
              la tendenza a fare delle malattie infettive uno strumento di discriminazione è parte della nostra storia recente per l'Aids e oggi per Ebola. L'uso di parole come nuova peste e catastrofe sanitaria, pandemia, malattia che non dà scampo vengono utilizzate spesso strumentalmente per evocare paure nella gente e concentrare le paure sugli stranieri come se un virus potesse distinguere un migrante da un turista, come veicolo di contagio;
              se è assolutamente corretto far risalire l'allerta, attivarsi e chiedere risorse per un'azione internazionale oltre a risolvere i focolai epidemici, è anche necessario passare attraverso una corretta informazione. Il panico, la paura dello straniero, il cordone di difesa rispetto ai flussi migratori non sono funzionali a questo obiettivo;
              le priorità di azione rispetto ad un focolaio epidemico, qualunque esso sia, sono la cura dei malati, l'isolamento del focolaio ed il controllo del percorso di contaminazione; l'isolamento del focolaio necessita, prioritariamente, di un'azione medica diretta sul focolaio, non di pura difesa dei confini;
              l'intensificazione dei protocolli di ricerca, l'accelerazione del ritmo di lavoro per la realizzazione del vaccino, la risoluzione dell'epidemia del Senegal, i test negativi da oltre venti giorni in Nigeria e in Senegal, la sopravvivenza di personale sanitario contagiato in Spagna e in Norvegia, l'avvio di controlli di massa negli aeroporti internazionali sono il segno dell'attivazione organizzativa e dell'azione della medicina del mondo occidentale;
              diventa quindi, fondamentale, accelerare la ricerca di cure efficaci e di vaccini preventivi; contribuire alla revisione della politica dell'Organizzazione mondiale della sanità sugli aiuti all'Africa, anche a sostegno del miglioramento dell'efficienza dei sistemi sanitari di quei Paesi poveri; chiedere l'intervento della FAO, perché non sia la fame a completare la strage che sta già compiendo Ebola;
              la risposta ad un'epidemia, la risposta ad un virus, la risposta alla diffusione di una malattia sono fatte di medicina, affiancate a misure di polizia sanitaria, e corrette ed idonee procedure di manipolazione, diagnosi e cura. I virus, siano l'Ebola, l'HIV o gli altri agenti patogeni, non si combattono né con i confini né con la paura: c’è solo uno strumento efficace ed è la scienza,

impegna il Governo:

          a predisporre, in tempi rapidi, una campagna capillare e chiara di poche e semplici informazioni sul virus, sulle modalità di contagio e sulle precauzioni igieniche, sulle disposizioni precise e tempestive che operatori della sanità devono utilizzare nel sospetto di infezione e sull'approvvigionamento dei presidi da utilizzare nei casi sospetti dall'accettazione al trasferimento nella struttura di riferimento; a garantire l'accesso dei migranti ai servizi sanitari facilitandoli con la presenza di mediatori culturali;
          a proseguire nell'opera di monitoraggio e di controllo sanitario nei principali porti e aeroporti, per scongiurare ogni rischio di diffusione di malattia anche in relazione alla particolare collocazione geografica dell'Italia e del suo ruolo nell'ambito del Mediterraneo;
          a predisporre una rivisitazione su base scientifica delle campagne vaccinali;
          a rafforzare la rete delle unità operative di malattie infettive nel disegno già utilizzato con successo dalla campagna contro l'AIDS e, successivamente, depotenziato a seguito di riorganizzazioni e di tagli alla spesa, nonché a potenziare gli ambulatori di prima accoglienza degli immigrati;
          ad attivarsi in sede europea affinché l'operazione «Triton», pur attuata nel pieno rispetto degli obblighi internazionali e dell'Unione europea, tra cui il rispetto dei diritti fondamentali e del principio di non respingimento, che esclude le espulsioni, preveda anche il «salvataggio di vite umane» attraverso compiti di ricerca e soccorso;
          a predisporre in tempi rapidi un programma di interventi di emergenza per contrastare l'epidemia di Ebola che sta colpendo alcuni Paesi dell'Africa, prevedendo non solo adeguati stanziamenti economici ma anche l'invio di medici specializzati, di forniture di medicine e di attrezzature nonché il rafforzamento dei sistemi di sorveglianza;
          ad adoperarsi affinché i rifugiati e richiedenti asilo e quanti hanno subito eventi traumatici come torture, guerre o persecuzioni, abbiano adeguate cure mediche e psicologiche.
(1-00643)
(Nuova formulazione)  «Amato, Dorina Bianchi, Binetti, Locatelli, Lenzi, Burtone, Albini, Beni, Carnevali, D'Incecco, Grassi, Patriarca, Miotto, Calabrò, Roccella, Buttiglione, Gigli, De Mita, D'Alia, Cera, Adornato, Piepoli, Sberna, Fitzgerald Nissoli, Caruso».


      La Camera,
          premesso che:
              il 20 ottobre 2014, il Consiglio dei Ministri degli affari esteri a Lussemburgo ha affrontato il tema dell'adozione di misure coordinate per contrastare la diffusione del virus ebola, che, secondo le ultime stime dell'Organizzazione mondiale della sanità, ha già causato oltre 4.500 vittime nei Paesi dell'Africa occidentale colpiti;
              l'idea sarebbe quella di articolare gli aiuti internazionali attorno a tre Paesi leader: gli Stati Uniti per la Liberia, la Gran Bretagna per la Sierra Leone e la Francia per la Guinea, mentre Francia e Germania insistono per la messa a punto di un dispositivo coordinato di evacuazione sanitaria, giudicato indispensabile per assicurare il flusso dei rinforzi europei;
              il virus Ebola ha un tasso di mortalità del cinquanta per cento e si sta diffondendo in modo epidemiologico principalmente in Guinea, Sierra Leone e Liberia, ai quali si sono aggiunti casi isolati in altri Paesi, l'ultimo dei quali in Spagna;
              dai dati in merito ai precedenti casi di diffusione del virus, nel 1995 e nel 2007, in cui i morti complessivamente sono stati meno di trecento, si evince la particolare gravità della situazione in atto;
              già nei mesi scorsi sia gli Stati Uniti sia diversi Paesi europei hanno deciso di alzare il livello di allerta, adottando misure precauzionali in materia sanitaria e di trasporto, soprattutto aereo;
              secondo l'Organizzazione mondiale della sanità la priorità deve proprio essere quella dei controlli aeroportuali in partenza dai Paesi africani colpiti;
              secondo il sito del Ministero della salute «In Italia sono state attivate tutte le possibili misure di preparazione e risposta a livello nazionale, regionale e locale, nell'evenienza che si debba gestire un sospetto caso di EVD», e «anche nel caso di particolari minacce per la salute, il sistema di sanità pubblica è in grado di rispondere, in base alle indicazioni centrali, al loro contenimento, essendo presenti, sul territorio, due strutture dotate di laboratori di massima sicurezza e di stanze ad alto isolamento, nonché il protocollo per il trasporto in alto biocontenimento di pazienti affetti da febbri emorragiche virali»;
              appena un paio di giorni fa, tuttavia, il segretario nazionale del sindacato delle professioni infermieristiche ha denunciato come gli infermieri italiani non siano adeguatamente preparati «a fare fronte ad eventuali casi di Ebola: non hanno ricevuto una formazione specifica né rispetto alla malattia né circa l'utilizzo dei dispositivi di protezione», dispositivi che, peraltro, in molti ospedali mancano ancora;
              il nostro Paese è particolarmente esposto ad un rischio di contagio se si tiene conto del costante flusso di immigrati che arrivano proprio da Paesi africani attraverso gli sbarchi di clandestini sulle coste italiane;
              in occasione di uno sbarco di migranti irregolari avvenuto a Trapani nel mese di maggio 2014 si era già ipotizzata la presenza di una persona affetta dal virus ebola, come anche di alcuni casi di tubercolosi;
              a parte il personale delle navi che effettuano i salvataggi in mare, ad ogni sbarco di clandestini sulle banchine dei porti si trovano ad attenderli carabinieri, agenti di polizia, militari della guardia costiera e della guardia di finanza, nonché associazioni di volontariato e protezione civile, tutti esposti al rischio di contagio per qualunque tipo di infezione che abbia colpito i migranti, ma solitamente dotati solamente di guanti in lattice e mascherine;
              è un fatto che l'alto numero di migranti che arrivano quasi quotidianamente sulle coste italiane e la mancanza di controlli preventivi operati a bordo delle navi militari fanno si che questi migranti costituiscano un evidente rischio epidemiologico, e non è da escludere che qualche migrante possa sfuggire al calcolo probabilistico legato ai tempi d'incubazione dell'ebola;
              oltre al possibile contagio da ebola, a preoccupare gli operatori dell’«emergenza immigrazione» c’è anche la tubercolosi, la cui diffusione negli ultimi anni è aumentata di quasi il 50 per cento, passando da quattro a seimila casi all'anno, dopo che negli anni Ottanta era stata quasi debellata;
              la causa di tale aumento è la crescente immigrazione da Paesi ad alta endemia, unita al fatto che la terapia seguita sin qui nel contrasto alla malattia, basata su massicce dosi di antibiotici, sta selezionando ceppi batterici che diventano sempre più resistenti alle cure;
              nel nostro Paese l'incidenza di tubercolosi tra gli immigrati si ipotizza che sia di cinquanta casi su centomila persone, circa cinque volte superiore all'incidenza nella popolazione italiana;
              secondo gli studi condotti sullo stato di salute degli immigrati che arrivano in Italia, su di essi si può osservare il cosiddetto «effetto migrante sano», che dipende dal fatto che solo i soggetti più forti e sani tendono a optare per il difficile percorso migratorio, auto-selezionandosi quindi già nei Paesi di origine, ma, ciononostante, «lo stato di benessere di questi migranti “pionieri” può esaurirsi nel tempo a causa di condizioni di vita e di lavoro precarie e dello scarso accesso ai servizi sanitari nel Paese ospite»;
              sempre secondo gli studi effettuati in merito dal Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute è tuttavia «verosimile che nel tempo la rilevanza dell’“effetto migrante sano” in Italia tenda a diminuire. Infatti, con la stabilizzazione del fenomeno migratorio, i nuovi immigrati giungeranno seguendo percorsi già attuati da parenti o amici che si trovano in Italia. Questo tragitto, più semplice e meno rischioso, richiede una minore autoselezione iniziale ed è motivato, oltre che dalla ricerca di lavoro, anche dall'opportunità di ricongiungimento familiare. I nuovi arrivi presenteranno quindi caratteristiche più eterogenee dal punto di vista demografico e dello stato di salute»;
              alcune patologie ad alta endemia in Paesi a forte spinta migratoria, come l'epatite B e la tubercolosi, possono essere asintomatiche al momento dell'arrivo in un Paese di immigrazione, ma manifestarsi in seguito a causa delle cattive condizioni di vita dell'individuo, abitative, igieniche o alimentari, che esercitano un ruolo rilevante nel favorirne la progressione;
              nonostante l'introduzione da numerosi anni di un vaccino sicuro ed efficace, l'epatite B rimane ancora oggi una patologia associata ad elevate morbilità e mortalità, con una diffusione globale di circa 400 milioni di persone infettate cronicamente e con un'incidenza in alcune aree geografiche pari o oltre l'otto per cento;
              tra le regioni a più alta endemia per l'infezione da epatite B figura la Cina, posto che, secondo gli ultimi dati epidemiologici, la prevalenza di tale infezione nella popolazione cinese e del sud-est asiatico va dall'otto al venti per cento ed è una delle principali cause di morte;
              tra le popolazioni immigrate nel nostro Paese quella cinese è sicuramente ben rappresentata e, anzi, in alcune aree si è assistito ad una crescita esponenziale della popolazione cinese, giunta nel dicembre 2013 a contare oltre trecentoventimila persone, e mancano informazioni riguardo agli individui non regolarizzati;
              recentemente il sindacato di polizia Consap ha lanciato l'allarme per il contagio da tubercolosi occorso a numerosi poliziotti impiegati nell'ambito della gestione dell'immigrazione clandestina;
              al momento degli sbarchi gli immigrati sono sottoposti ad una visita medica, a dir poco approssimativa, di pochi minuti, nel corso della quale è possibile accertare solo patologie già conclamate e visibili ad occhio nudo;
              dopo lo sbarco i clandestini, una volta assegnati ai diversi centri di accoglienza dislocati nel territorio nazionale, vengono trasportati, prevalentemente in pullman, verso tali centri, sempre accompagnati da alcuni agenti di polizia;
              nel corso di tutte le operazioni che si svolgono sia nell'ambito del servizio immigrazione, sia all'interno dei centri di identificazione ed espulsione e dei centri di accoglienza per i richiedenti asilo, i poliziotti, come anche tutti gli altri operatori impiegati e coinvolti, non sono dotati di un equipaggiamento idoneo, ai fini della protezione sanitaria;
              il citato sindacato di polizia, insieme ad Assotutela, ha anche promosso una class action contro il Ministero dell'interno per chiedere l'interruzione dell'operazione Mare nostrum perché «il nostro sistema sanitario e i mezzi di cui disponiamo non ci permettono di affrontare tali rischi»;
              sarebbero, infatti, già circa quaranta i poliziotti che hanno contratto la tubercolosi nello svolgimento del proprio servizio nell'ambito dell'operazione Mare nostrum;
              il segretario nazionale della Consap ha stigmatizzato come la profilassi per la salvaguardia e la tutela dei poliziotti non solo sia insufficiente ma sia anche «ben al di sotto degli standard di altri Paesi», mentre Assotutela ha sottolineato come vi sia stata, da parte degli organi preposti, una «reiterata violazione della normativa in materia di protezione del personale impegnato nelle attività di Mare Nostrum o comunque per ragioni di servizio costantemente a contatto con fonti epidemiologiche, con un danno alla salute, morale e biologico del soggetto colpito e della propria famiglia, ma anche erariale ed economico in un Paese dove la Sanità ha già ritardi cronici irreversibili»,

impegna il Governo:

          a disporre, in concomitanza dell'avvio dell'operazione Triton promossa in ambito europeo, la definitiva cessazione delle attività dell'operazione Mare nostrum;
          a fornire tempestivamente ogni elemento circa gli esiti del Consiglio dei Ministri degli affari esteri del 20 ottobre 2014 con riferimento al contrasto della diffusione del virus ebola;
          ad adottare con urgenza tutte le misure precauzionali necessarie a contrastare la diffusione del virus ebola e di ogni altra patologia infettiva sul territorio nazionale, con particolare riferimento alla gestione dei flussi di immigrati irregolari;
          ad elaborare, nell'ambito di tale quadro, un sistema di sorveglianza e di allerta precoce, che preveda una valutazione dello stato di salute dei migranti all'ingresso e un suo monitoraggio nei centri di immigrazione, nonché ad individuare procedure che favoriscano l'accesso ai servizi sanitari per le popolazioni migranti che consentano la diagnosi precoce di eventuali patologie ed una efficace strategia vaccinale;
          a disporre l'adozione di ogni misura utile a prevenire il rischio di contagio da patologie per tutti i soggetti impiegati nelle attività di accoglienza e gestione degli immigrati, soprattutto nella primissima fase del loro arrivo sul territorio nazionale, provvedendo, altresì, alla redazione delle norme di prevenzione e profilassi a ciò necessarie e prevedendo la dotazione di un adeguato equipaggiamento.
(1-00646) «Rampelli, Cirielli, Giorgia Meloni, Corsaro, La Russa, Maietta, Nastri, Taglialatela, Totaro».


      La Camera,
          premesso che:
              il 20 ottobre 2014, il Consiglio dei Ministri degli affari esteri a Lussemburgo ha affrontato il tema dell'adozione di misure coordinate per contrastare la diffusione del virus ebola, che, secondo le ultime stime dell'Organizzazione mondiale della sanità, ha già causato oltre 4.500 vittime nei Paesi dell'Africa occidentale colpiti;
              l'idea sarebbe quella di articolare gli aiuti internazionali attorno a tre Paesi leader: gli Stati Uniti per la Liberia, la Gran Bretagna per la Sierra Leone e la Francia per la Guinea, mentre Francia e Germania insistono per la messa a punto di un dispositivo coordinato di evacuazione sanitaria, giudicato indispensabile per assicurare il flusso dei rinforzi europei;
              il virus Ebola ha un tasso di mortalità del cinquanta per cento e si sta diffondendo in modo epidemiologico principalmente in Guinea, Sierra Leone e Liberia, ai quali si sono aggiunti casi isolati in altri Paesi, l'ultimo dei quali in Spagna;
              dai dati in merito ai precedenti casi di diffusione del virus, nel 1995 e nel 2007, in cui i morti complessivamente sono stati meno di trecento, si evince la particolare gravità della situazione in atto;
              già nei mesi scorsi sia gli Stati Uniti sia diversi Paesi europei hanno deciso di alzare il livello di allerta, adottando misure precauzionali in materia sanitaria e di trasporto, soprattutto aereo;
              secondo l'Organizzazione mondiale della sanità la priorità deve proprio essere quella dei controlli aeroportuali in partenza dai Paesi africani colpiti;
              secondo il sito del Ministero della salute «In Italia sono state attivate tutte le possibili misure di preparazione e risposta a livello nazionale, regionale e locale, nell'evenienza che si debba gestire un sospetto caso di EVD», e «anche nel caso di particolari minacce per la salute, il sistema di sanità pubblica è in grado di rispondere, in base alle indicazioni centrali, al loro contenimento, essendo presenti, sul territorio, due strutture dotate di laboratori di massima sicurezza e di stanze ad alto isolamento, nonché il protocollo per il trasporto in alto biocontenimento di pazienti affetti da febbri emorragiche virali»;
              appena un paio di giorni fa, tuttavia, il segretario nazionale del sindacato delle professioni infermieristiche ha denunciato come gli infermieri italiani non siano adeguatamente preparati «a fare fronte ad eventuali casi di Ebola: non hanno ricevuto una formazione specifica né rispetto alla malattia né circa l'utilizzo dei dispositivi di protezione», dispositivi che, peraltro, in molti ospedali mancano ancora;
              il nostro Paese è particolarmente esposto ad un rischio di contagio se si tiene conto del costante flusso di immigrati che arrivano proprio da Paesi africani attraverso gli sbarchi di clandestini sulle coste italiane,

impegna il Governo:

          a disporre, in concomitanza dell'avvio dell'operazione Triton promossa in ambito europeo, la definitiva cessazione delle attività dell'operazione Mare nostrum;
          a fornire tempestivamente ogni elemento circa gli esiti del Consiglio dei Ministri degli affari esteri del 20 ottobre 2014 con riferimento al contrasto della diffusione del virus ebola;
          ad adottare con urgenza tutte le misure precauzionali necessarie a contrastare la diffusione del virus ebola e di ogni altra patologia infettiva sul territorio nazionale, con particolare riferimento alla gestione dei flussi di immigrati irregolari;
          ad elaborare, nell'ambito di tale quadro, un sistema di sorveglianza e di allerta precoce, che preveda una valutazione dello stato di salute dei migranti all'ingresso e un suo monitoraggio nei centri di immigrazione, nonché ad individuare procedure che favoriscano l'accesso ai servizi sanitari per le popolazioni migranti che consentano la diagnosi precoce di eventuali patologie ed una efficace strategia vaccinale;
          a disporre l'adozione di ogni misura utile a prevenire il rischio di contagio da patologie per tutti i soggetti impiegati nelle attività di accoglienza e gestione degli immigrati, soprattutto nella primissima fase del loro arrivo sul territorio nazionale, provvedendo, altresì, alla redazione delle norme di prevenzione e profilassi a ciò necessarie e prevedendo la dotazione di un adeguato equipaggiamento.
(1-00646)
(Testo modificato nel corso della seduta) «Rampelli, Cirielli, Giorgia Meloni, Corsaro, La Russa, Maietta, Nastri, Taglialatela, Totaro».


      La Camera,
          premesso che:
              gli ultimi dati pubblicati dall'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati evidenziano che il numero di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni ha superato il livello di 50 milioni di persone. È la prima volta dalla seconda guerra mondiale che tale soglia viene superata;
              secondo il rapporto annuale dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati «Global trends», pubblicato a giugno del 2014, che si basa su dati raccolti da Governi, organizzazioni non governative partner dell'Agenzia e dallo stesso Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, rivela che alla fine del 2013 si contavano 51,2 milioni di migranti forzati, ben 6 milioni in più rispetto ai 45,2 milioni del 2012;
              questo massiccio incremento è principalmente dovuto alla guerra in Siria, che alla fine del 2013 aveva già costretto 2,5 milioni di persone a diventare rifugiati e altri 6,5 milioni sfollati interni. Anche in Africa si è assistito a nuovi casi gravi di esodo forzato, in particolare nella Repubblica Centrafricana e, verso la fine del 2013, anche in Sud Sudan;
              esiste un evidente legame tra il numero di persone nel mondo costrette alla fuga da guerre e violenza e l'aumento degli arrivi via mare. Oltre il 50 per cento delle persone in arrivo in Italia nel 2014 sono in fuga dall'Eritrea e dalla Siria. Questo trend è iniziato a giugno/luglio 2013, prima che l'operazione Mare Nostrum venisse istituita in risposta alle tragedie in cui persero la vita 600 rifugiati, un anno fa;
              da ottobre 2013 sono state soccorse in mare circa 150.000 persone dalle unità navali Mare Nostrum, Guardia costiera e da mercantili, mentre si stima che le persone che hanno perso la vita siano quasi 4,000. In totale nel 2014 gli arrivi via mare nel Mediterraneo sono stati più di 170.000;
              ad oggi non ci sono alternative sicure per cercare protezione internazionale in Europa. La via mare è l'unica opzione per migliaia di persone, vittime di violenza e torture, persone disabili, donne e bambini;
              nell'ambito dell'operazione ci sono stati più di 80 mila controlli sanitari svolti dai medici della Marina militare e del servizio sanitario nazionale a bordo delle imbarcazioni. Sempre sono stati, poi, svolti controlli sanitari da medici e personale specializzato a terra, prima dello smistamento nei centri di accoglienza;
              preoccupanti appaiano i casi di discriminazione e psicosi collettiva, a volte aggravati dall'atteggiamento di alcune forze politiche, le quali, come accaduto nella manifestazione del 18 ottobre 2014 a Milano richiamano l'equazione «operazione Mare nostrum-operazione ebola nostrum», riferendosi alla presunta correlazione tra salvataggio delle vite in mare e propagazione del virus;
              l'epidemia del virus ebola rappresenta una seria minaccia alla salute da considerarsi come una minaccia globale. La lenta e inadeguata risposta della comunità internazionale ha amplificato le dimensioni di un dramma che poteva essere contenuto;
              la stessa Organizzazione mondiale della sanità ha per troppo tempo sottovalutato gli appelli che provenivano dalle organizzazioni non governative e dai Paesi colpiti dall'epidemia;
              ad oggi, nonostante gli appelli rivolti alle Nazioni unite e agli Stati membri, alcuni Paesi si sono impegnati con risorse umane ed economiche che rappresentano soltanto un primo passo ma che sono ben lontani dagli impegni presi;
              è importante ora reagire prontamente, inviando personale sanitario esperto per curare i malati e rintracciare i casi sospetti, nonché materiale medico e dispositivi di protezione;
              i Paesi colpiti dall'epidemia, Liberia, Sierra Leone e, con un'estensione contenuta, Nigeria e Senegal, vanno supportati e va, soprattutto, scongiurato il loro isolamento per non compromettere lo sforzo degli aiuti internazionali e non aggravare la frattura sociale ed economica;
              l'impatto di questa epidemia si protrarrà ben oltre la sua fine, i sistemi sanitari avranno bisogno di essere ricostruiti e la fiducia ristabilita, la sorveglianza epidemiologica ridefinita, le perdite economiche risanate;
              a questo fine va supportata l'indispensabile ricerca clinica di terapie e di un vaccino, così come va rivisto l'approccio alla malattia attraverso la sensibilizzazione delle comunità con una corretta informazione sui rischi e sull'atteggiamento da seguire;
              è necessario che le strutture specializzate nel nostro Paese, prime fra tutte il centro Spallanzani di Roma e l'ospedale Sacco di Milano, vengano potenziate e allestite per gestire eventuali emergenze, preparando gli operatori sanitari e fornendo loro capacità conoscitive, d'intervento e materiali idonei;
              ad ogni modo occorre evidenziare, riguardo la correlazione tra migranti in fuga e rischio di propagazione del virus ebola nel nostro Paese, quanto dichiarato da uno dei massimi esperti nel nostro Paese, il dottor Giuliano Rizzardini dell'ospedale Sacco di Milano a la Repubblica il 26 ottobre 2014 rispetto ai probabili ricoveri di migranti affetti dal virus: «Se intendente i migranti che arrivano dai barconi, sicuramente mai. Troppo lungo il viaggio per raggiungere le nostre coste, troppo breve il tempo di incubazione, da due a venti giorni. Per il resto non abbiamo scali diretti con le zone calde del virus, cioè la striscia di occidente africano dalla Guinea alla Liberia e gli aeroporti direttamente interessati come Parigi o Bruxelles sono ben presidiati. Molto improbabile, dunque, che un malato conclamato raggiunga l'Italia. Al massimo potrà capitare un volontario che lavora nelle zone a rischio, come i due medici appena rientrati dalla Sierra Leone e attualmente in quarantena precauzionale. Ma io scommetterei, con la prudenza dell'esperienza, che non succederà»;
              alla luce delle parole riportate occorre stabilire le priorità e quali sono le emergenze umanitarie complessive a cui a cui il nostro Paese deve far fronte, tenendo presente che l'isolamento del focolaio necessita, in via prioritaria, di un'azione medica diretta sul focolaio e non, quindi, di pura difesa dei confini;
              il panico, la paura dello straniero, la difesa militare dei confini rispetto ai flussi migratori non è funzionale agli obiettivi sopra evidenziati ed è necessario far partire, a questo fine, una campagna informativa affinché si debellino parole usate in queste settimane in maniera strumentale, come «peste», «catastrofe», «pandemia», «malattia senza scampo», utilizzate troppo spesso solo per evocare paure nella gente e concentrare le paure sugli stranieri come se un virus potesse distinguere un migrante da un cittadino italiano, europeo, asiatico, africano, da un turista, come veicolo di contagio;
              come affermato più volte dal Governo, l'operazione Mare Nostrum dovrebbe terminare a novembre 2014 ed essere sostituita dall'operazione Triton che sarà gestita a partire dal 1o novembre 2014 dall'agenzia europea Frontex;
              tuttavia, Triton non avrà il mandato di svolgere attività di ricerca e soccorso in mare, ma soltanto di pattugliare i confini marittimi, costituendo una risposta soltanto parziale al problema;
              in questo modo, operazioni di ricerca e soccorso limitate alle acque sotto la giurisdizione italiana metteranno a rischio migliaia di vite, determinando un pesante impatto umanitario con il rischio di rivedere tragedie come quelle vissute il 3 ottobre 2013 a Lampedusa,

impegna il Governo:

          a organizzare una campagna capillare e chiara di poche e semplici informazioni sul virus ebola, sulle modalità di contagio e sulle precauzioni igieniche, sulle disposizioni precise e tempestive che operatori della sanità devono utilizzare nel sospetto di infezione e sull'approvvigionamento dei presidi da utilizzare nei casi sospetti dall'accettazione al trasferimento nella struttura di riferimento;
          a potenziare le strutture specializzate sanitarie esistenti, prime fra tutte, l'Istituto nazionale malattie infettive-Spallanzani di Roma e l'ospedale Sacco di Milano, dotandole delle opportune attrezzature e di un adeguato supporto medico;
          ad attivarsi, anche in sede europea, affinché l'operazione Triton comprenda le attività di salvataggio di vite umane in mare con compiti di ricerca e soccorso, in caso contrario a non sospendere l'operazione Mare Nostrum;
          a supportare, con adeguati finanziamenti, la ricerca clinica di terapie e di un vaccino, anche in collaborazione con i partner internazionali;
          ad incrementare, anche attraverso la collaborazione con le organizzazioni non governative, ulteriormente l'invio di risorse, personale medico specializzato nei Paesi africani dove si sono evidenziati casi di ebola, dotato di attrezzature idonee e medicine.
(1-00655) «Palazzotto, Nicchi, Matarrelli, Duranti, Piras, Scotto».


      La Camera,
          premesso che:
              gli ultimi dati pubblicati dall'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati evidenziano che il numero di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni ha superato il livello di 50 milioni di persone. È la prima volta dalla seconda guerra mondiale che tale soglia viene superata;
              secondo il rapporto annuale dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati «Global trends», pubblicato a giugno del 2014, che si basa su dati raccolti da Governi, organizzazioni non governative partner dell'Agenzia e dallo stesso Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, rivela che alla fine del 2013 si contavano 51,2 milioni di migranti forzati, ben 6 milioni in più rispetto ai 45,2 milioni del 2012;
              questo massiccio incremento è principalmente dovuto alla guerra in Siria, che alla fine del 2013 aveva già costretto 2,5 milioni di persone a diventare rifugiati e altri 6,5 milioni sfollati interni. Anche in Africa si è assistito a nuovi casi gravi di esodo forzato, in particolare nella Repubblica Centrafricana e, verso la fine del 2013, anche in Sud Sudan;
              esiste un evidente legame tra il numero di persone nel mondo costrette alla fuga da guerre e violenza e l'aumento degli arrivi via mare. Oltre il 50 per cento delle persone in arrivo in Italia nel 2014 sono in fuga dall'Eritrea e dalla Siria. Questo trend è iniziato a giugno/luglio 2013, prima che l'operazione Mare Nostrum venisse istituita in risposta alle tragedie in cui persero la vita 600 rifugiati, un anno fa;
              da ottobre 2013 sono state soccorse in mare circa 150.000 persone dalle unità navali Mare Nostrum, Guardia costiera e da mercantili, mentre si stima che le persone che hanno perso la vita siano quasi 4,000. In totale nel 2014 gli arrivi via mare nel Mediterraneo sono stati più di 170.000;
              ad oggi non ci sono alternative sicure per cercare protezione internazionale in Europa. La via mare è l'unica opzione per migliaia di persone, vittime di violenza e torture, persone disabili, donne e bambini;
              nell'ambito dell'operazione ci sono stati più di 80 mila controlli sanitari svolti dai medici della Marina militare e del servizio sanitario nazionale a bordo delle imbarcazioni. Sempre sono stati, poi, svolti controlli sanitari da medici e personale specializzato a terra, prima dello smistamento nei centri di accoglienza;
              preoccupanti appaiano i casi di discriminazione e psicosi collettiva, a volte aggravati dall'atteggiamento di alcune forze politiche, le quali, come accaduto nella manifestazione del 18 ottobre 2014 a Milano richiamano l'equazione «operazione Mare nostrum-operazione ebola nostrum», riferendosi alla presunta correlazione tra salvataggio delle vite in mare e propagazione del virus;
              l'epidemia del virus ebola rappresenta una seria minaccia alla salute da considerarsi come una minaccia globale. La lenta e inadeguata risposta della comunità internazionale ha amplificato le dimensioni di un dramma che poteva essere contenuto;
              la stessa Organizzazione mondiale della sanità ha per troppo tempo sottovalutato gli appelli che provenivano dalle organizzazioni non governative e dai Paesi colpiti dall'epidemia;
              ad oggi, nonostante gli appelli rivolti alle Nazioni unite e agli Stati membri, alcuni Paesi si sono impegnati con risorse umane ed economiche che rappresentano soltanto un primo passo ma che sono ben lontani dagli impegni presi;
              è importante ora reagire prontamente, inviando personale sanitario esperto per curare i malati e rintracciare i casi sospetti, nonché materiale medico e dispositivi di protezione;
              i Paesi colpiti dall'epidemia, Liberia, Sierra Leone e, con un'estensione contenuta, Nigeria e Senegal, vanno supportati e va, soprattutto, scongiurato il loro isolamento per non compromettere lo sforzo degli aiuti internazionali e non aggravare la frattura sociale ed economica;
              l'impatto di questa epidemia si protrarrà ben oltre la sua fine, i sistemi sanitari avranno bisogno di essere ricostruiti e la fiducia ristabilita, la sorveglianza epidemiologica ridefinita, le perdite economiche risanate;
              a questo fine va supportata l'indispensabile ricerca clinica di terapie e di un vaccino, così come va rivisto l'approccio alla malattia attraverso la sensibilizzazione delle comunità con una corretta informazione sui rischi e sull'atteggiamento da seguire;
              è necessario che le strutture specializzate nel nostro Paese, prime fra tutte il centro Spallanzani di Roma e l'ospedale Sacco di Milano, vengano potenziate e allestite per gestire eventuali emergenze, preparando gli operatori sanitari e fornendo loro capacità conoscitive, d'intervento e materiali idonei;
              ad ogni modo occorre evidenziare, riguardo la correlazione tra migranti in fuga e rischio di propagazione del virus ebola nel nostro Paese, quanto dichiarato da uno dei massimi esperti nel nostro Paese, il dottor Giuliano Rizzardini dell'ospedale Sacco di Milano a la Repubblica il 26 ottobre 2014 rispetto ai probabili ricoveri di migranti affetti dal virus: «Se intendente i migranti che arrivano dai barconi, sicuramente mai. Troppo lungo il viaggio per raggiungere le nostre coste, troppo breve il tempo di incubazione, da due a venti giorni. Per il resto non abbiamo scali diretti con le zone calde del virus, cioè la striscia di occidente africano dalla Guinea alla Liberia e gli aeroporti direttamente interessati come Parigi o Bruxelles sono ben presidiati. Molto improbabile, dunque, che un malato conclamato raggiunga l'Italia. Al massimo potrà capitare un volontario che lavora nelle zone a rischio, come i due medici appena rientrati dalla Sierra Leone e attualmente in quarantena precauzionale. Ma io scommetterei, con la prudenza dell'esperienza, che non succederà»;
              alla luce delle parole riportate occorre stabilire le priorità e quali sono le emergenze umanitarie complessive a cui a cui il nostro Paese deve far fronte, tenendo presente che l'isolamento del focolaio necessita, in via prioritaria, di un'azione medica diretta sul focolaio e non, quindi, di pura difesa dei confini;
              il panico, la paura dello straniero, la difesa militare dei confini rispetto ai flussi migratori non è funzionale agli obiettivi sopra evidenziati ed è necessario far partire, a questo fine, una campagna informativa affinché si debellino parole usate in queste settimane in maniera strumentale, come «peste», «catastrofe», «pandemia», «malattia senza scampo», utilizzate troppo spesso solo per evocare paure nella gente e concentrare le paure sugli stranieri come se un virus potesse distinguere un migrante da un cittadino italiano, europeo, asiatico, africano, da un turista, come veicolo di contagio;
              come affermato più volte dal Governo, l'operazione Mare Nostrum dovrebbe terminare a novembre 2014 ed essere sostituita dall'operazione Triton che sarà gestita a partire dal 1o novembre 2014 dall'agenzia europea Frontex;
              tuttavia, Triton non avrà il mandato di svolgere attività di ricerca e soccorso in mare, ma soltanto di pattugliare i confini marittimi, costituendo una risposta soltanto parziale al problema;
              in questo modo, operazioni di ricerca e soccorso limitate alle acque sotto la giurisdizione italiana metteranno a rischio migliaia di vite, determinando un pesante impatto umanitario con il rischio di rivedere tragedie come quelle vissute il 3 ottobre 2013 a Lampedusa,

impegna il Governo:

          a organizzare una campagna capillare e chiara di poche e semplici informazioni sul virus ebola, sulle modalità di contagio e sulle precauzioni igieniche, sulle disposizioni precise e tempestive che operatori della sanità devono utilizzare nel sospetto di infezione e sull'approvvigionamento dei presidi da utilizzare nei casi sospetti dall'accettazione al trasferimento nella struttura di riferimento;
          a potenziare le strutture specializzate sanitarie esistenti, prime fra tutte, l'Istituto nazionale malattie infettive-Spallanzani di Roma e l'ospedale Sacco di Milano, dotandole delle opportune attrezzature e di un adeguato supporto medico;
          a continuare ad attivarsi, anche in sede europea, affinché l'operazione Triton comprenda le attività di salvataggio di vite umane in mare con compiti di ricerca e soccorso, in caso contrario a non sospendere l'operazione Mare Nostrum;
          a supportare, con adeguati finanziamenti, la ricerca clinica di terapie e di un vaccino, anche in collaborazione con i partner internazionali;
          a verificare la possibilità di incrementare, anche attraverso la collaborazione con le organizzazioni non governative, ulteriormente l'invio di risorse, personale medico specializzato nei Paesi africani dove si sono evidenziati casi di ebola, dotato di attrezzature idonee e medicine.
(1-00655)
(Testo modificato nel corso della seduta) «Palazzotto, Nicchi, Matarrelli, Duranti, Piras, Scotto».


MOZIONI TINAGLI, CARFAGNA, GIULIANI, DORINA BIANCHI, BINETTI, DI SALVO ED ALTRI N.  1-00272, MUCCI ED ALTRI N.  1-00611, NICCHI ED ALTRI N.  1-00613, SPERANZA ED ALTRI N.  1-00615 E RONDINI ED ALTRI N.  1-00620 CONCERNENTI INIZIATIVE A SOSTEGNO DELLE POLITICHE DI GENERE

Mozioni

      La Camera,
          premesso che:
              non si può non sottolineare come – secondo quanto sostenuto anche dai più alti vertici istituzionali – valorizzare le donne non sia solo una questione etica, ma comporti anche importanti effetti sul piano economico, come dimostra la capacità delle donne di affermarsi e di dare il proprio contributo in tutti i campi, una volta che siano liberate da vincoli giuridici e da pregiudizi sociali;
              secondo il Global Gender Gap Report 2013 del World Economic Forum che ha esaminato il problema delle pari opportunità in diversi ambiti, dalla sanità, alle possibilità di sopravvivenza, all'accesso all'istruzione, alla partecipazione alla vita lavorativa, sociale e politica, l'Italia è all'ultimo posto tra Paesi europei e 71esima sui 136 Paesi analizzati;
              nonostante l'aumento dell'occupazione femminile riscontrato dal rapporto Istat 2013 e ascrivibile, in parte alla crescita delle occupate straniere, in parte alla concentrazione della forza lavoro femminile nel part-time involontario e nelle mansioni a bassa specializzazione, la quota di donne occupate in Italia rimane di gran lunga inferiore a quella dell'Unione europea (47,1 per cento contro 58,6 per cento). Inoltre, le donne continuano a essere pagate meno rispetto agli uomini. Il differenziale di genere italiano nelle retribuzioni è stato misurato dall'Unione europea di 5,8 per cento in Italia, come evidenziato dalla relazione pubblicata nella primavera 2013 sulla parità di genere. Svantaggio che si ritrova anche nelle retribuzioni di chi ha una laurea: gli uomini che hanno un titolo di studio elevato guadagnano in media il 19,6 per cento in più rispetto a chi ha il diploma, per le donne lo scarto tra i diversi livelli di istruzione si riduce al 14,9 per cento;
              la minore partecipazione delle donne al mondo del lavoro, soprattutto in questa fase prolungata di crisi economica, è una perdita di opportunità per l'economia e la società. Come già evidenziato nel 2010 da uno studio condotto dalla Banca d'Italia «l'aumento del tasso di occupazione femminile influenzerebbe positivamente il Pil. Nel nostro Paese, ad esempio, il conseguimento dell'obiettivo del Trattato di Lisbona di un tasso di occupazione femminile al 60 per cento comporterebbe un aumento del Pil fino al 7 per cento, che toccherebbe i 12 punti se l'occupazione femminile eguagliasse quello maschile in ciascuna ripartizione geografica»;
              la difficoltà di inserimento delle donne nel mondo del lavoro è legata anche a problemi di conciliazione tra lavoro e famiglia e al fatto che, rispetto agli uomini, le donne impiegano una parte maggiore del loro tempo in attività di cura non retribuite. Secondo recenti dati dell'Ocse, una donna italiana lavora in media 58,6 ore a settimana, contro le 47,7 di un uomo. Di queste, quasi i due terzi (36,1 ore) sono però di lavoro non retribuito – cura di bambini e anziani, pulizie domestiche, cucina e altri lavori legati alla casa e alla famiglia – mentre solo poco più di 22 ore sono retribuite. Una situazione nettamente opposta rispetto a quella degli uomini, per cui il lavoro retribuito rappresenta oltre 33 ore su 47 (quasi undici in più delle donne), mentre quello non retribuito è di sole 14,5 ore, oltre 21 in meno rispetto alla parte femminile;
              questo gap colloca l'Italia al primo posto tra i 34 Paesi Ocse per differenza tra uomini e donne nella distribuzione del lavoro non pagato, nettamente davanti a Francia (12,6 ore non retribuite in più per le donne), Gran Bretagna (12,2 ore), Usa (9,5 ore) e Germania (6,6 ore);
              i divari nella partecipazione femminile al mercato del lavoro possono essere ridotti considerevolmente attraverso politiche mirate di welfare, con efficaci servizi all'infanzia e alla famiglia, come dimostrano esperienze di altri Paesi europei. Tuttavia, dati Istat evidenziano come l'offerta pubblica sul territorio di asili nido sia non solo mediamente insufficiente, ma abbia visto nel 2012 anche enormi disparità geografiche, andando dall'80 per cento di comuni coperti dal servizio in regioni come l'Emilia-Romagna, il Friuli Venezia Giulia e la Valle d'Aosta al 13 per cento della Calabria, che presenta il livello regionale più basso di copertura;
              flessibilità degli orari di lavoro ed imprenditorialità sono due strumenti fondamentali per l'inclusione delle donne nel mercato del lavoro, la loro affermazione professionale e la crescita complessiva dell'economia. Tuttavia, sul fronte dei programmi di flessibilità, si rileva un forte ritardo italiano: se nei Paesi europei più avanzati il 36 per cento può accedere a strumenti di flessibilità, in Italia solo il 10 per cento ha questa possibilità;
              con la legge di stabilità per il 2013 (articolo 1, comma 339, legge 24 dicembre 2012, n.  228) è stata introdotta, dando attuazione alla direttiva dell'Unione europea n.  2010/18/UE, la possibilità di frazionare ad ore la fruizione del congedo parentale. In merito alle modalità di fruizione del congedo su base oraria, ai criteri di calcolo e all'equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa, è stato demandato il tutto alla contrattazione collettiva di settore;
              sul fronte imprenditoriale si rilevano alcuni passi in avanti, anche grazie a numerose iniziative e a incentivi per l'imprenditorialità femminile: secondo dati Unioncamere tra marzo 2012 e marzo 2013 le imprese al femminile hanno allungato il passo, aumentando il loro numero di oltre 10 mila unità. Tuttavia, gli stessi dati evidenziano una maggiore fragilità finanziaria delle imprese femminili rispetto alla media: il 72 per cento di esse, infatti, opera con un capitale sociale di meno di 10 mila euro, contro il 67 per cento della media delle imprese;
              la necessità di un maggior supporto all'imprenditoria femminile è legata non solo e non tanto ad esigenze di parità, ma soprattutto ad esigenze di rafforzamento del tessuto economico e produttivo del Paese. Un'indagine McKinsey nei Paesi dell'Unione europea ha rilevato come le performance economiche delle imprese dove ci sono molte donne in azienda è migliore rispetto alle altre: il ritorno sul capitale investito è superiore del 10 per cento alla media e l'utile, prima di togliere le tasse, quasi raddoppia;
              una maggiore integrazione delle donne nel mercato del lavoro e l'eliminazione delle differenze di genere sono, inoltre, uno degli obiettivi chiave dell'Unione europea, che ha attivato numerosi strumenti in tale direzione. Il Trattato sul funzionamento dell'Unione europea nell'articolo 8 pone come obiettivo della sua azione l'eliminazione di discriminazioni e la promozione della parità tra uomini e donne: con gli articoli 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, la parità fra uomini e donne in tutti i settori viene considerata a pieno titolo quale principio fondamentale del diritto comunitario, principio da applicarsi ovviamente anche in materia di occupazione e di impiego;
              tra i programmi comunitari per il periodo 2014-2020, l'Unione europea ha deciso di stanziare 439 milioni di euro per progetti legati alla lotta contro la discriminazione e la parità fra donne e uomini e le priorità sono: pari indipendenza economica, pari retribuzione, parità nel processo decisionale e contrasto alla violenza di genere;
              nella raccomandazione specifica per Paese rivolta nel 2012 dalla Commissione europea all'Italia si legge l'invito ad «Adottare ulteriori provvedimenti per incentivare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, in particolare fornendo servizi per l'infanzia e l'assistenza agli anziani (...)»; nella raccomandazione del 2013 sul programma di stabilità dell'Italia 2012-2017 la Commissione europea afferma che: «La partecipazione delle donne al mercato del lavoro resta modesta e l'Italia presenta uno dei maggiori divari di genere nell'occupazione a livello di UE»;
              anche nelle previsioni di stanziamento per il quadro finanziario pluriennale 2014-2020 per l'erogazione dei fondi comunitari del quadro strategico comune, la Commissione europea ha proposto un nuovo approccio per l'utilizzo dei fondi stessi, in linea con le priorità politiche dell'Agenda Europa 2020, suggerendo in particolare all'Italia di porre tra gli obiettivi di priorità di finanziamento la parità tra uomini e donne e la conciliazione tra vita professionale e vita privata/familiare;
              nel nostro Paese la definizione di politiche per le pari opportunità è stata avviata con consistente ritardo rispetto ad altri Paesi europei: solo negli anni Settanta i legislatori hanno riconosciuto il principio della parità nelle diverse sfere della vita sociale; è poi con la legge n.  125 del 1991, che dispone di «rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità», che prendono il via alcune importanti disposizioni che mirano a creare le condizioni per il riequilibrio dei ruoli sociali e familiari di uomini e donne: sul lavoro a tempo parziale (decreto legislativo n.  61 del 2000), sulla conciliazione (legge n.  53 del 2000) e quote rose nei consigli di amministrazione delle società per azioni quotate (legge n.  120 del 2011);
              con decreto del Ministro per le pari opportunità del 12 maggio 2009, furono erogati 40 milioni di euro, da distribuire alle regioni, per la realizzazione di «un sistema di interventi per favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro» inerente alla ripartizione delle risorse del fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità per l'anno 2009. Sulla base dell'esperienza maturata nell'ambito di tale piano d'intesa 2010, il 25 ottobre 2012 la Conferenza unificata Stato-regioni ha approvato l'intesa relativa alla «Conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per il 2012». Le regioni, con il coordinamento del dipartimento per le pari opportunità e grazie alle risorse stanziate dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, hanno avuto l'opportunità di realizzare un sistema di interventi per favorire la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro e per consolidare, estendere e rafforzare sui territori regionali iniziative volte a promuovere l'equilibrio tra vita familiare e partecipazione delle donne e degli uomini all'interno del mercato del lavoro, favorendo le pari opportunità e contribuendo ad accrescere la produttività delle imprese;
              l'articolo 4, comma 24, lettera b), della legge n.  92 del 2012, ha previsto, per il triennio 2013-2015, la possibilità per le madri lavoratrici di richiedere, al termine del congedo di maternità e in alternativa al congedo parentale, un contributo di 300 euro mensili per l'acquisto di voucher e per i servizi di babysitting e asili nido pubblici o privati. La legge istitutiva della misura ha garantito 20 milioni di euro a copertura dell'operazione per il triennio sopra indicato che, secondo la relazione tecnica, avrebbe dovuto soddisfare per l'anno 2013 la domanda di 11.111 beneficiari. Tuttavia, all'avvio della misura il contributo ha riscosso pochissimo successo, come testimoniano le poche richieste pervenute: a fronte di potenziali 11.111 beneficiari, solo 3.762 lavoratrici, secondo dati Inps, sono state ammesse al beneficio, mentre dal punto di vista delle strutture accreditate per il servizio, meno di un terzo degli asili pubblici o privati nazionali si sono convenzionati con lo Stato. Tra le principali cause si deve sicuramente annoverare la scarsa pubblicizzazione dell'iniziativa lasciata soltanto a comunicati stampa, senza un'adeguata promozione sui luoghi di lavoro e senza coinvolgimento di sindacati e associazioni datoriali;
              l'Ufficio nazionale della consigliera di parità del Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha stanziato e usato il piccolo fondo a disposizione per organizzare e realizzare ben 20 incontri territoriali per donne disoccupate e inoccupate su varie città in tutta Italia, 12 seminari informativi sempre territoriali anche in collaborazione con gli ispettori del lavoro, i consulenti del lavoro e le consigliere di parità, 23 incontri nelle scuole medie superiori e distribuzione di piccole guide per gli studenti per affrontare il mercato del lavoro;
              nonostante l'impegno di molti soggetti ed operatori e le numerose iniziative messe in campo negli ultimi anni, i dati sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro, sulla loro opportunità di crescita professionale e di conciliazione tra vita e lavoro restano ancora molto bassi, come testimoniato dalla percentuale crescente di donne che non tornano più a lavoro a due anni dal parto: 22,3 per cento nel 2012 contro il 18,4 per cento del 2005 secondo dati Istat. Un dato che si ripercuote sulle donne, rendendole più fragili, più soggette a pressioni economiche, psicologica e purtroppo anche di violenza, ma che, soprattutto, si ripercuote sulle possibilità di crescita, di tenuta economica e sociale del nostro Paese,

impegna il Governo:

          a sostenere, nel contesto del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea, le politiche di genere quale priorità per la crescita sostenibile e l'occupazione, supportando gli investimenti in capitale umano e strumentale;
          ad effettuare, entro il primo semestre del 2015, un puntuale monitoraggio sullo stato effettivo delle risorse attualmente impiegabili e disponibili in un'ottica di genere;
          ad applicare una prospettiva di genere nella programmazione e nelle politiche di bilancio, a partire dai futuri esercizi di bilancio e comunque dai prossimi provvedimenti utili di allocazione di risorse e di programmazione di attività;
          ad assumere ogni iniziativa di competenza affinché le parti sociali procedano a una rapida definizione delle modalità di fruizione del congedo parentale su base oraria;
          ad assumere iniziative per una razionalizzazione e valorizzazione degli organismi di parità italiani come indicato dalle direttive europee;
          a sensibilizzare, anche in sede di rinnovo del contratto Rai, il servizio pubblico radiotelevisivo ad una maggiore attenzione in merito alla diffusione e alla promozione delle buone pratiche e delle iniziative, anche normative, intraprese sia dallo Stato sia dall'Unione europea a favore dell'occupazione femminile, in collaborazione con gli organismi di pari opportunità;
          a mettere in campo tutti gli strumenti necessari per incentivare le politiche di conciliazione attraverso il potenziamento delle politiche attive per l'occupabilità femminile e dei servizi per il welfare, con particolare attenzione alla realizzazione di un numero adeguato di asili nido su tutto il territorio nazionale, al telelavoro, al part-time e alla promozione degli orari di lavoro flessibili;
          a sostenere lo sviluppo dell'imprenditoria femminile attraverso il sostegno all'accesso al credito delle imprese femminili e una valutazione attenta delle politiche economiche attuate e dei loro risultati, nell'ottica di un costante miglioramento e potenziamento della loro efficacia.
(1-00272)
(Nuova formulazione)  «Tinagli, Carfagna, Giuliani, Dorina Bianchi, Binetti, Di Salvo, Amendola, Bergamini, Biffoni, Calabria, Capua, Centemero, Antimo Cesaro, Cimmino, D'Agostino, D'Alessandro, De Maria, Faenzi, Ferranti, Gasparini, Gelmini, Giammanco, Giulietti, Gribaudo, Laffranco, Locatelli, Martelli, Mattiello, Marzano, Milanato, Moretti, Nesi, Oliaro, Paris, Piccoli Nardelli, Polverini, Prestigiacomo, Andrea Romano, Rossomando, Rotta, Sandra Savino, Tartaglione, Vargiu, Vecchio, Venittelli, Verini, Vezzali, Iori, Raciti, Cominelli, De Micheli, La Marca, Gregori, Marchetti, Malpezzi, Lodolini, Tidei, Sbrollini, Scuvera, Carlo Galli, Giampaolo Galli, Chaouki, Saltamartini, Gebhard».


      La Camera,
          premesso che:
              tra le varie forme di violenza e discriminazione vi sono sovente attacchi alla donna. Suscita allarme il fatto che gli episodi di abuso e violenza contro le donne siano in perdurante crescita, nonostante siano state introdotte fondamentali leggi, come quella per il contrasto della violenza di genere (decreto-legge 14 agosto 2013, n.  93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n.  119) o la ratifica della Convenzione del Consiglio d'Europa per la prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, meglio nota come Convenzione di Istanbul; in particolare, occorre rilevare che l'articolo 7 della suddetta Convenzione prevede che lo Stato ratificante adotti misure legislative, e di altro tipo, necessarie per predisporre e attuare politiche nazionali efficaci, globali e coordinate, comprendenti tutte le misure adeguate destinate a prevenire e combattere ogni forma di violenza che rientri nel campo di applicazione della predetta Convenzione ed a fornire una risposta globale al problema della violenza contro le donne. In buona sostanza, gli Stati che hanno ratificato la Convenzione di Istanbul devono mettere in campo adeguate risorse finanziarie ed umane tali da realizzare i programmi e le politiche volte a combattere il fenomeno della violenza sulle donne, essendo altresì tenuti ad istituire un organismo che coordini e monitori tutte le misure destinate allo scopo in quanto previste della Convenzione medesima;
              fatta questa dovuta premessa appare chiaro che il terreno di coltura della violenza e del sopruso affondi le radici sul piano culturale e alla luce di ciò vada pertanto aggredito e sconfitto attraverso la definitiva emancipazione della donna in tutti gli ambiti del vivere comune e sociale, con specifico riferimento non solo alla famiglia, ma anche e sopratutto al lavoro. Le pari opportunità nel mondo del lavoro costituiscono, tra le altre cose, l’humus necessario a contrastare ogni forma di violenza a danno della donna, in quanto trattasi di violenza psicologica finalizzata alla subordinazione e alla prevaricazione, che nella maggior parte dei casi costituisce l'incubatore della violenza fisica vera e propria;
              si tenga conto che la violenza psicologica a danno della donna attecchisce in primis in ambito familiare con comportamenti del partner, solitamente l'uomo, caratterizzati da una sottile, ripetuta e perversa forma di violenza, appunto, psicologica, che, protratta nel tempo, tende ad annullare la personalità della vittima sino al suo annientamento; si tratta di una fattispecie poco esplorata sia dalla sociologia che dalla giurisprudenza, a cui non si è prestata sufficiente attenzione, ma che riveste, sotto il profilo della incidenza sociale, significativo rilievo e che deve essere urgentemente affrontata con tutti i mezzi a disposizione. Di più, tale tipologia di violenza si interseca con quella perpetrata sui luoghi di lavoro dove la figura della donna appare ancora in molti casi posta in una posizione di fragilità e/o subordinazione rispetto all'uomo. La normativa giuslavoristica non pare sia riuscita ad oggi a valicare i vari problemi legati alle ipotesi di mobbing, talora basate sul ricatto, che ruotano attorno alla figura femminile e sarebbe pertanto opportuno determinare delle fattispecie normative ad hoc, tanto in relazione alla violenza psicologica endofamiliare quanto rispetto a quella che si perpetra nei luoghi di lavoro;
              anche sulla base dei sopraddetti retaggi sociologici e culturali, proliferano le criticità legate alle opportunità occupazionali nell'universo femminile che risultano palesemente più limitate rispetto a quelle offerte alle figure maschili. Si consideri che in Italia sono donne soltanto il 6,5 per cento degli ambasciatori, il 31,3 per cento dei prefetti, il 14,6 per cento dei primari, il 20,3 per cento dei professori ordinari e – nei ministeri – il 33,8 per cento dei dirigenti di prima fascia. Sempre in Italia, più di 5 donne su 10 sono senza reddito da lavoro e, per quelle che il reddito lo hanno, la retribuzione media pro capite (calcolata tra impiegate e operaie) si ferma sotto i 25 mila euro annui, mentre quella di un uomo sfonda il tetto dei 31 mila euro. Peraltro, ostacoli e pregiudizi, talora inconsapevoli, condizionano le scelte formative delle ragazze e, di conseguenza, il loro inserimento nel mercato del lavoro. Pure la ricerca di un lavoro coerente con il proprio percorso di studi è molto più ardua per le donne: a fronte di un 18 per cento dei maschi che non ha trovato un impiego coerente con il proprio ambito di studi, la percentuale sale di oltre dieci punti percentuali nel caso delle donne. V’è da sottolineare che gli indirizzi scolastici universitari privilegiati dalle donne risultano essere spesso disallineati rispetto alle opportunità offerte dal mondo del lavoro. Un problema serio è anche quello relativo all'orientamento scolastico e universitario laddove gli indirizzi scolastici e universitari privilegiati dalle donne presentano tassi di occupazione ridotti e salari modesti (circa 1.200 euro netti al mese a 5 anni dalla laurea), mentre solo il 20-30 per cento opta per una formazione tecnico scientifica (1.500 euro netti mensili a 5 anni dalla laurea) che attualmente schiude in misura maggiore le opportunità occupazionali;
              in questo quadro, già di per sé tutt'altro che confortante, si inseriscono discriminazioni nelle discriminazioni che colpiscono le donne residenti nel Sud d'Italia: basti pensare che quasi la metà (il 48 per cento) dei residenti nel Mezzogiorno è a rischio di povertà. Nel Meridione e nelle Isole il 50 per cento delle famiglie percepisce meno di 20.129 euro (circa 1.677 euro mensili), il reddito medio delle famiglie che vivono nel Mezzogiorno è pari al 73 per cento di quello delle famiglie residenti al Nord. Da varie indagini si evince che la situazione lavorativa del Sud Italia è molto più difficile rispetto a quella del Centro e del Nord Italia, sia dal punto di vista occupazionale sia da quello retributivo; in particolare, si registra un elevato differenziale tra la disoccupazione del Sud e del Nord, un aumento del flusso migratorio dalle regioni del Sud verso Nord ed una significativa disparità retributiva, atteso che, per chi lavorava al Nord, la retribuzione risulta superiore dell'8,2 per cento rispetto a chi lavorava nel Meridione;
              ancora con riferimento alla principio di parità di genere nel mondo del lavoro, si osserva che la perdurante carenza di effettive politiche di conciliazione tra vita familiare e lavoro ha concorso all'aumento della disoccupazione femminile, con effetti negativi per lo sviluppo e la competitività del nostro Paese;
              i dati illustrati nel rapporto Save the children del 2012 evidenziano che, già nel biennio 2008-2010, l'occupazione femminile è fortemente diminuita a fronte di un incremento dell'occupazione non qualificata rispetto a quella qualificata; in particolare:
                  a) il dato dell'occupazione delle donne e mamme nel 2010 si attesta al 50,6 per cento per le donne senza figli – ben al di sotto della media europea pari al 62,1 per cento – ma scende al 45,5 per cento già al primo figlio (di età inferiore ai 15 anni), per perdere quasi 10 punti (35,9 per cento) se i figli sono 2 e toccare quota 31,3 per cento nel caso di 3 o più figli;
                  b) se l'interruzione del rapporto di lavoro per nascita di un figlio è tra le ragioni principali della fuoriuscita dal mercato del lavoro delle donne, bisogna considerare che spesso non si tratta di una loro libera scelta: nel solo periodo tra il 2008 e il 2009 ben 800.000 mamme hanno dichiarato di essere state licenziate o di aver subito pressioni in tal senso in occasione o a seguito di una gravidanza, anche grazie all'odioso strumento delle «dimissioni in bianco»;
                  c) le interruzioni del lavoro poste in essere in concomitanza della nascita di un figlio, che erano il 2 per cento nel 2003, sono quadruplicate nel 2009, diventando l'8,7 per cento del totale delle interruzioni di lavoro;
              i predetti allarmanti dati trovano triste continuità nei recenti dati forniti da Istat e riferiti al primo trimestre del 2014, che confermano il progressivo aumento della disoccupazione delle donne: a fronte di un impercettibile rialzo dell'occupazione maschile si registra, difatti, una significativa diminuzione di quella femminile (rispettivamente più 0,6 e meno 0,3 su base congiunturale; più 0,3 e meno 1,0 su base annua). Ad aprile 2014 le donne occupate erano 9.311.000, a maggio 9,263.000. Mentre il tasso di occupazione maschile sale al 64,8 per cento, quello femminile scende al 46,3 per cento: il tasso di disoccupazione femminile dal 13,3 per cento sale al 13,8 per cento. Oltre al dato disoccupazionale deve considerarsi un'altra anomalia della partecipazione delle donne al mercato del lavoro ovvero la presenza di una forte segregazione orizzontale. Da un'indagine condotta dall'Isfol nel 2012, recante «Analisi di genere del mercato del lavoro», risulta che le donne sono presenti massicciamente in specifici settori di servizi ritenuti «naturalmente femminili», che le confinano nelle qualifiche contrattuali più basse oltretutto con tipologie contrattuali non standard, quali il contratto a termine, l'associazione in partecipazione e la collaborazione continuata e continuativa. Inoltre, l'elevata presenza femminile nei lavori-non standard presenta effetti di medio periodo differenti tra lavoratore e lavoratrice, in termini di prospettive di «stabilizzazione». L'Isfol rileva, difatti, che, tra gli uomini che nel 2008 avevano un contratto di lavoro atipico, il 59,4 per cento dopo due anni ha visto una trasformazione in contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato, mentre lo stesso fenomeno ha riguardato solo il 48,4 per cento delle donne. La cosiddetta trappola dell'atipicità risulta più gravosa per le donne che per gli uomini. Sempre l'Isfol sottolinea che le cause della disoccupazione femminile risiedono, oltre che in una diseguale divisione tra i partner dei carichi di lavoro familiari, nell'inadeguatezza dell'attuale modello di welfare, connotato dalla carenza di servizi pubblici per l'infanzia, oltreché di reti informali di supporto, e con un'organizzazione del lavoro poco conciliante e caratterizzata dalla rigidità dei tempi e degli orari, specie in relazione al periodo successivo al parto; in questo contesto di evidente criticità, le misure varate dal Governo non hanno dedicato spazio alcuno alle politiche finalizzate a rimuovere gli ostacoli strutturali alla realizzazione di pari opportunità e di effettiva conciliazione tra cura della famiglia e lavoro, ma, all'opposto, hanno finito per incrementare il trend involutivo sopra evidenziato;
              in ordine alle politiche di incentivo alle assunzioni – ivi comprese quelle delle donne – le misure introdotte dalla cosiddetta riforma Giovannini si sono rilevate fallimentari, a causa delle notevoli restrizioni agli sgravi fiscali previsti, che ne hanno, di fatto, reso impossibile l'utilizzo; anche il successivo intervento dell'attuale Governo, messo a punto con l'iniziativa «Garanzia giovani», non appare una misura adeguata in relazione a quelle che sono le allarmanti esigenze relative all'occupazione e all'inserimento delle donne nel mondo del lavoro: oltre ad una scarsa informazione sul contenuto dei piani attuativi regionali e sulla data di avvio del programma, va detto che l'offerta di posti di lavoro è disomogenea, frammentata e disorganica, in quanto ogni regione decide, in autonomia ed in base allo stanziamento di sua competenza, quali azioni finanziare tra quelle previste dal piano nazionale, inoltre appare molto ridotto il numero di sportelli, a disposizione dell'utenza, nelle regioni meridionali;
              sul piano del diritto sostanziale, le modifiche introdotte dal Jobs act sulla disciplina del contratto a termine reso «acasuale» hanno solo incrementato il lavoro precario ed introdotto minori garanzie in caso di interruzione del rapporto per maternità: la flessibilità così concepita è unicamente finalizzata ad incrementare le performance aziendali e non tiene conto delle esigenze delle lavoratrici madri; le entrate dei comuni hanno subito una drastica diminuzione per effetto di tagli che hanno indotto molti comuni a ridurre drasticamente, se non addirittura ad eliminare l'offerta di servizi pubblici, quali asili nido, scuole a tempo pieno e centri di assistenza di supporto alle donne e alle mamme. Tale perdurante riduzione dei fondi da destinare alle spese nel settore dei servizi alla famiglia reca effetti negativi sull'occupazione femminile, a causa delle evidenti difficoltà di conciliare famiglia e lavoro, nonché effetti diretti sul personale impiegato nel settore dell'assistenza educativa;
              a fronte del quadro descritto, non sembra che abbia fornito risposte risolutive la misura dei voucher, prevista dalla cosiddetta riforma Fornero, ovvero la possibilità per le madri lavoratrici di utilizzare, in alternativa al congedo parentale, «buoni» per l'acquisto di servizi di baby sitting per fare fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l'infanzia o dei servizi privati accreditati; lo strumento del voucher non è risultato in grado di compensare la diminuzione di offerta di servizi pubblici oggi in atto in considerazione dell'esiguità delle risorse stanziare, pari a soli venti milioni di euro l'anno, della farraginosità della procedura di assegnazione del «buono» e della circostanza che si tratta di un intervento sperimentale, destinato a concludersi nel 2015, non promosso a sufficienza;
              questa assenza di serie e concrete politiche per la crescita, la disoccupazione dei giovani che sono costretti a vivere in famiglia imporranno ancora più carico di lavoro alle donne «anziane», che, con l'incremento dell'età pensionabile prevista dalla cosiddetta «legge Fornero», dovranno conciliare lavoro e famiglia per un numero maggiore di anni: un vero e proprio cortocircuito che deve essere arrestato;
              le dimensioni e la gravità del fenomeno analizzato impongono l'adozione di interventi normativi strutturali ed idonei ad invertire rapidamente la tendenza in atto, in maniera tale da aumentare la presenza delle donne sul mercato del lavoro ed eliminare i descritti divari di genere;
              il Jobs act contiene cinque deleghe che spaziano dalla revisione degli ammortizzatori sociali, alle politiche attive, alla semplificazione nella gestione dei contratti, al riordino delle forme contrattuali, alle tutele per la maternità: è questa la sede per introdurre in via definitiva concrete misure di promozione dell'occupazione femminile, anche attraverso nuovi strumenti di conciliazione tra attività di cura e lavoro, tra le misure «flessibili», in funzione conciliativa delle esigenze delle lavoratrici, non potranno non considerarsi le opportunità che riserva il telelavoro, il quale, grazie all'uso della tecnologia, permette un elevato grado di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi e nei tempi. L'invocata flessibilità, finalizzata alla conciliazione dei bisogni familiari con i tempi di lavoro, deve riguardare anche l'attuale disciplina del congedo obbligatorio, introducendo la possibilità di utilizzare i congedi a tempo pieno per un certo numero di mesi e per la parte restante in modalità a tempo parziale, affinché si pervenga ad un bilanciamento tra l'esigenza della lavoratrice di conservare il proprio patrimonio professionale, evitando periodi troppo lunghi di assenza dal lavoro, e la volontà di dedicarsi ai figli per una certa parte della giornata o della settimana. Bisogna, altresì, provvedere ad una rivisitazione dell'istituto degli assegni per il nucleo familiare perché venga concesso anche alle lavoratrici autonome, così come risulta opportuno introdurre ogni misura utile ad incentivare il lavoro a tempo parziale ed il lavoro autonomo;
              a ciò deve affiancarsi il rafforzamento di adeguati incentivi fiscali e sgravi contributivi sia per i genitori che assumono direttamente personale specializzato per la cura dei bambini e delle persone adulte non autosufficienti, sia per i datori che assumono personale in sostituzione dei lavoratori in congedo; politiche ad hoc e risorse devono, inoltre, prevedersi per i datori di lavoro che investono nella realizzazione di asili o baby parking aziendali ovvero che stipulano convenzioni con ludoteche o asili privati;
              in questo quadro desolante, nonostante gli impegni sottoscritti dall'Italia con la ratifica della Convenzione di Istanbul contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, il perdurare di situazioni di discriminazione e disuguaglianza originate da un'ampia gamma di motivi, i descritti divari di genere che penalizzano le donne sul mercato del lavoro, il Governo non ha nominato un Ministro delle pari opportunità e le deleghe sono rimaste nelle mani del Presidente del Consiglio dei ministri, mentre invece «le funzioni di indirizzo politico-amministrativo concernenti le competenze istituzionali relative alle direzioni generali per le politiche dei servizi per il lavoro, ivi comprese le attività di promozione delle pari opportunità» necessitano di un impulso e di un'azione che non può che essere propria di un apposito Ministro. La complessità e l'attualità delle problematiche emarginate, oltreché il rilievo istituzionale e sociale che esse posseggono, devono essere urgentemente rimesse all'attenzione di un Ministro appositamente dedicato, ovvero ad una figura che ne abbia le deleghe: perché discriminazioni ed ostacoli di fatto alla parità di opportunità sono ancora ampiamente presenti; perché la partecipazione al processo di integrazione comunitaria impone all'Italia un vincolo a sviluppare le politiche antidiscriminatorie e di pari opportunità, particolarmente sentite dall'Unione europea. Inoltre, l'effettività della tutela contro le discriminazioni poggia sulla corretta intelaiatura istituzionale opportunamente individuata dal legislatore allo scopo di sostenere e realizzare le politiche di pari opportunità. Le istituzioni rilevanti in tale settore sono identificabili nel Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità (articoli 8-11 del decreto legislativo n.  198 del 2006) e nei consiglieri di parità, nazionale, regionali e provinciali, disciplinati dagli articoli 12-19 del decreto legislativo n.  198 del 2006; in particolare, con il decreto legislativo n.  196 del 2000 si è cercato di rafforzare il ruolo dei consiglieri di parità attraverso la delega di molteplici funzioni in tale materia, nonché grazie all'istituzione di un fondo nazionale destinato a finanziare anche le spese per il funzionamento e le attività della rete nazionale dei consiglieri di parità;
              tuttavia, l'aggravarsi della condizione della situazione occupazionale, specie con riferimento alla presenza delle donne nel mercato del lavoro, richiede un'ottimizzazione del lavoro e del contributo prodotto, in ambito nazionale, dalla Consigliera nazionale di parità e dalle consigliere presenti nei territori, anche attraverso un'attività di razionalizzazione, indirizzo e coordinamento degli organismi di pari opportunità e degli altri attori istituzionali, che, ciascuno per la competenza attribuita, sono chiamati ad intervenire nella materia in esame, nella specie: il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Comitato per l'imprenditoria femminile, le commissioni per le pari opportunità regionali e provinciali, istituite presso i consigli regionali e provinciali, il Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni (CUG) istituito nelle pubbliche amministrazioni, introdotto dall'articolo 21 della legge 4 novembre 2010, n.  183;
              si sottolinea, altresì, come nel giugno 2012 sia stato approvato il primo piano nazionale di politiche familiari, previsto dall'articolo 1, comma 1251, della legge finanziaria per il 2007. Per quanto riguarda le priorità, il suddetto piano individua tre aree di intervento urgente: le famiglie con minori, in particolare le famiglie numerose; le famiglie con disabili o anziani non autosufficienti; le famiglie con disagi conclamati sia nella coppia, sia nelle relazioni genitori-figli, e bisognose di sostegni urgenti. Le azioni previste, fra cui si ricordano la revisione dell'Isee, il potenziamento dei servizi per la prima infanzia, dei congedi e dei tempi di cura, nonché interventi sulla disabilità e non autosufficienza, devono essere adottate all'interno dei piani e programmi regionali e locali per la famiglia, secondo le risorse disponibili,

impegna il Governo:

          a prevedere un coordinamento operativo a livello centrale e nazionale, al fine di una razionalizzazione e valorizzazione degli organismi nazionali e territoriali preposti, a vario titolo, al monitoraggio delle politiche di pari opportunità e alla rimozione delle discriminazioni e degli ostacoli che minano l'effettiva realizzazione della parità di genere;
          ad assumere ogni iniziativa di competenza per introdurre misure volte a contrastare le molteplici forme di diseguaglianza, con particolare riguardo a quelle che si presentano tra cittadini del Nord e cittadini del Sud Italia, che risultano in sensibile aumento per effetto della crisi economica in atto e che si riverberano in misura amplificata sulle donne;
          ad assumere, in tempi rapidi, ogni iniziativa di competenza per introdurre misure volte a contrastare la violenza psicologica endofamiliare e quella sul posto di lavoro, anche attraverso l'individuazione di fattispecie di reato ad hoc;
          ad introdurre nuove e concrete politiche per la conciliazione tra la cura della famiglia e l'attività lavorativa, incentivando particolari forme di flessibilità degli orari e dell'organizzazione del lavoro, quali il part-time, il telelavoro, il lavoro autonomo e imprenditoriale, introducendo la possibilità di un uso flessibile e personalizzato dei congedi obbligatori e facoltativi unitamente alla previsione di sgravi contributivi ed agevolazioni fiscali per il genitore lavoratore che assuma alle proprie dipendenze baby-sitter ovvero professionisti dei servizi di cura ed assistenza della persona;
          ad adottare iniziative volte a incoraggiare le donne a scegliere professioni «non tradizionali», per esempio in settori verdi e innovativi;
          ad adottare iniziative volte allo sviluppo dell'autoimprenditorialità femminile, con particolare riferimento all'agevolazione dell'accesso al credito;
          a fornire la relazione dettagliata dei dati relativi ai rapporti prodotti dal Gruppo di monitoraggio e supporto alla costituzione c sperimentazione dei Comitati Unici di Garanzia per le pari opportunità ai sensi dell'articolo 4, comma 2, del decreto interdipartimentale (Dipartimenti della Funzione pubblica e delle Pari Opportunità) del 18 aprile 2012, illustrando, più in generale, gli eventuali risultati prodotti e i conseguenti miglioramenti delle condizioni lavorative, nonché l'andamento delle attività in corso, a distanza di tre anni dalla costituzione dei CUG;
          a porre in essere opportune attività di adeguamento della normativa nazionale, ottemperando così agli impegni assunti in sede comunitaria, con particolare riferimento all'implementazione della Direttiva 2000/78/CE (Parità di trattamento in materia di occupazioni e di condizioni di lavoro) e alla non conformità della legge 22 dicembre 2011, n.  214 (Riforma delle pensioni) con la normativa UE in materia di parità di trattamento tra uomini e donne (direttiva 2006/54/CE).
(1-00611)
(Nuova formulazione) «Mucci, Rostellato, Di Vita, Rizzetto, Bechis, Chimienti, Ciprini, Tripiedi, Cominardi, Prodani, Spadoni, Da Villa, Vallascas, Baldassarre».


      La Camera,
          premesso che:
              il più significativo cambiamento sociale dei nostri tempi è rappresentato dalla volontà e dal desiderio delle donne di affermare la loro autonomia e indipendenza;
              tale cambiamento sollecita la responsabilità pubblica a realizzare indispensabili misure volte a: riconoscere la libertà femminile, creare più lavoro per tutte e tutti, superare la tradizionale divisione dei ruoli in tutti i campi, prefigurare un welfare universale, per donne e uomini che lavorano e si adoperano per fare in modo di garantire a tutti i soggetti la libertà di dare il loro contributo alla vita e all'economia secondo diverse strategie personali e familiari;
              indirizzi su cui l'Unione europea è impegnata e su cui, però, emergono nel nostro Paese ritardi e arretratezze da affrontare con rapidità in occasione del semestre italiano della Presidenza del Consiglio dell'Unione europea;
              la Strategia per la parità tra donne e uomini 2010-2015 nell'Unione europea, presentata dalla Commissione europea nel settembre 2010, ha previsto specifiche priorità: pari indipendenza economica; pari retribuzione per lo stesso lavoro e lavoro di pari valore; parità nel processo decisionale; dignità, integrità e fine della violenza nei confronti delle donne. Sotto quest'ultimo aspetto il 2013 ha visto da parte dell'Unione europea l'adozione di leggi e azioni volte contrastare la violenza basata sul genere, con un bilancio di circa 15 milioni di euro per finanziare apposite campagne;
              secondo una relazione annuale dell'Unione europea, pubblicata nell'aprile 2014, le disparità uomo-donna stanno diminuendo in Europa, ma i progressi sono ancora lenti. Persistono ancora evidenti disparità fra i due sessi a livello di occupazione, retribuzione e rappresentanza, mentre la violenza contro le donne continua a essere un grave problema;
              nell'ambito dell'Unione europea, malgrado il 60 per cento dei laureati siano donne, le retribuzioni femminili sono ancora del 16 per cento inferiori rispetto a quelle degli uomini per ora lavorata. Inoltre, le donne tendono più spesso a lavorare a tempo parziale (il 32 per cento contro l'8,2 per cento degli uomini) e interrompono la carriera per occuparsi di altri membri della famiglia. Con tutto quello che ciò comporta in termini di divario pensionistico (che si attesta al 39 per cento);
              il tasso di occupazione femminile dell'Unione europea si attesta al 63 per cento contro il 75 per cento per gli uomini;
              la sopradetta relazione dell'Unione europea ricorda, inoltre, che sulle donne incide sensibilmente il lavoro non retribuito in casa e in famiglia e che la presenza femminile ai posti di comando è ancora poco diffusa. Per quanto riguarda, infine, la violenza contro le donne, un'indagine svolta dall'Agenzia dell'Unione europea per i diritti fondamentali mostra come circa il 33 per cento ha subito violenza fisica e/o sessuale dall'età di 15 anni;
              il 13 giugno 2013, l'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere (Eige) ha presentato il primo rapporto sull'indice dell'uguaglianza di genere. Un rapporto che rappresenta un indicatore delle disparità di genere nell'Unione europea e nei singoli Stati membri, nei settori del lavoro, del denaro, della conoscenza, del tempo, del potere e della salute;
              il rapporto mostra come le disparità di genere risultino ancora prevalenti nell'Unione europea, nonostante decenni di politiche volte a sostenere l'uguaglianza di genere a livello europeo;
              l'indice dell'uguaglianza di genere, riportato dal sopradetto rapporto dell'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere, ha un valore tra 1 e 100, dove 1 indica un'assoluta disparità di genere e 100 segna il raggiungimento della piena uguaglianza di genere. Ebbene, l'Unione europea ha un indice medio pari a 54, ossia è ancora a metà strada rispetto all'obiettivo della piena uguaglianza fra donne e uomini;
              se si esaminano gli indici dei vari Stati membri, emerge una forte differenza. Assolutamente negativa è la posizione dell'Italia, a cui il rapporto assegna un indice pari a 40,9, collocandosi al ventitreesimo posto su un totale di 27 Paesi. In testa alla graduatoria si trovano i Paesi scandinavi, con valori superiori a 70. Il Regno Unito ha un indice pari a 60,4; la Francia di 57,1; la Spagna di 54 e la Germania di 51,6;
              peraltro, il medesimo rapporto mostra come il nostro Paese sia quello più ricco tra i tredici Paesi che hanno un indice inferiore a 45;
              a livello mondiale, secondo l'analisi annuale del World economic forum sul Global gender gap, nella graduatoria diffusa nel 2013, l'Italia si colloca al settantunesimo posto su 136 Paesi. Per quanto riguarda altri Paesi europei, il Belgio si colloca all'undicesimo posto, la Germania al quattordicesimo, il Regno Unito al diciottesimo e la Francia al quarantacinquesimo posto. L'indice tiene conto delle disparità di genere esistenti nel campo della politica, dell'economia, dell'istruzione e della salute;
              l'Italia si conferma uno dei Paesi europei a più bassa occupazione femminile. E qui la crisi mostra il suo volto nell'impoverimento dei redditi e delle opportunità e, infine, nella sempre maggiore difficoltà di determinare il proprio progetto di vita;
              per quanto riguarda il nostro Paese, il rapporto annuale 2013 dell'Istat riporta i dati 2012 relativi al tasso di occupazione, che confermano – se mai ve ne fosse bisogno – il sensibile divario tra uomini e donne, laddove l'occupazione maschile si attesta al 66,5 per cento, contro il 47,1 per cento femminile. Nel confronto con il resto d'Europa, sempre l'Istat evidenzia come il tasso di occupazione femminile al 47,1 per cento si «scontra» con un 58,6 per cento della media dell'Unione europea a 27 Stati (59,8 Unione europea a 15 Stati);
              il medesimo rapporto Istat ricorda come «la bassa valorizzazione delle competenze, la segregazione occupazionale e la maggiore presenza nel lavoro non standard, sono elementi che concorrono a spiegare la disparità salariale femminile. In media, la retribuzione netta mensile delle dipendenti resta inferiore di circa il 20 per cento a quella degli uomini (nel 2012, 1.103 contro 1.396 euro)», così come la retribuzione oraria delle donne è dell’ 11,5 per cento inferiore rispetto ai maschi;
              i dati regionali indicano un'occupazione femminile al 56,5 per cento nelle regioni del Nord e al 30 per cento nelle regioni del Sud, con un divario molto più alto con l'occupazione maschile;
              in Italia, quindi, più di 5 donne su 10 sono senza reddito da lavoro e, per quelle che lo hanno, la retribuzione media pro capite (calcolata tra impiegate e operaie) si ferma sotto i 25 mila euro annui, mentre quella di un uomo sfiora il tetto dei 31 mila. Un divario che incide non solo sul quotidiano, ma che si ripercuote anche sulla consistenza della futura pensione;
              una delle vie maestre per risolvere il problema della diversa incidenza della disoccupazione femminile sta certamente nell'investire nelle politiche sociali;
              le donne sono ancora le uniche interpreti del lavoro di cura, con margini di tempo per loro stesse estremamente ristretti e con evidenti minori possibilità di occupazione e crescita professionale, e spesso costrette a lasciare il proprio lavoro dopo la nascita dei figli;
              l'autonomia delle donne è ancora ostacolata da condizioni svantaggiate: precarietà; insufficienza dei servizi di welfare quali strumenti di sostegno nella gestione del lavoro di cura e della vita professionale; dimissioni in bianco; mancato riconoscimento sociale della maternità e dei congedi di paternità; carenza di strutture per l'infanzia; un welfare con alti costi e forti disparità nell'offerta tra le diverse aree del Paese; assenza di politiche organiche e attive di sostegno al lavoro femminile. Questa è la fotografia del nostro Paese in materia di politiche di sostegno alle responsabilità familiari e alle scelte delle donne;
              nella relazione al Parlamento dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza del 2012, l'Autorità aveva sollevato la problematica relativa all'impatto negativo della mancanza di investimenti, da parte dello Stato, a favore dell'infanzia e dell'adolescenza;
              il dossier 2012 di Cittadinanza attiva ha sottolineato come le strutture comunali su cui possono contare le famiglie superano di poco quota 3.600 e sono in grado di soddisfare circa 147 mila richieste di iscrizione. Il 23,5 per cento dei bambini restano in lista d'attesa e i genitori sono costretti a rivolgersi altrove;
              è inevitabile che l'insufficienza nell'offerta dei servizi socio-educativi per l'infanzia aggravi la fatica delle donne alla loro partecipazione al mercato del lavoro;
              un importante ambito che condiziona fortemente e incide sulle opportunità e sulle prospettive di accesso al lavoro, di carriera, di tempo dedicato alla persona, è certamente quello relativo al depotenziamento dei servizi territoriali socio-assistenziali. I tagli di questi anni al sistema del welfare e, più in generale, alle regioni e agli enti locali, hanno visto indebolirsi la rete dei servizi territoriali e l'assistenza socio-sanitaria;
              insomma, se si vuole promuovere una buona e stabile occupazione femminile nel nostro Paese, vanno avviate efficaci politiche per incrementare l'offerta qualitativa e quantitativa della scuola, del tempo pieno, dei servizi socio-educativi per l'infanzia e dell'assistenza socio-sanitaria;
              riguardo al mercato del lavoro va sottolineata la pratica delle «dimissioni in bianco» del lavoratore o della lavoratrice, una delle piaghe più sommerse in questo ambito, una clausola nascosta nel 15 per cento dei contratti di lavoro a tempo indeterminato che costituisce un ricatto che vede coinvolto circa il 60 per cento delle lavoratrici donne e il 40 per cento dei lavoratori maschi;
              secondo i dati forniti dagli uffici vertenza della Cgil, ogni anno circa 2 mila donne chiedono assistenza legale per estorsione di finte dimissioni volontarie. Si può essere dimissionati con molti pretesti, ma i motivi più frequenti sono la nascita di un figlio, una malattia, il rapporto con il sindacato ed altro;
              il Governo ha deciso di non porre fine immediatamente a questa pratica, ma piuttosto di rinviare il necessario intervento normativo alla delega del cosiddetto «Jobs act», appena approvato dal Senato della Repubblica, e dunque di «annullare» così, di fatto, la proposta di legge in materia, già approvata in prima lettura alla Camera dei deputati;
              si ricorda che detta proposta di legge approvata dalla Camera dei deputati vincola la validità della dichiarazione di dimissioni volontarie all'utilizzo di appositi moduli usufruibili solo attraverso gli uffici provinciali del lavoro e le amministrazioni comunali, assicurando che gli stessi siano contrassegnati da codici alfanumerici progressivi e da una data di emissione che garantiscano la loro non contraffazione, e, al tempo stesso, la loro utilizzabilità solo in prossimità dell'effettiva manifestazione della volontà del lavoratore di porre termine al rapporto di lavoro in essere. Viene così meno la possibilità di estorcere al momento dell'assunzione la contestuale sottoscrizione di una possibile, postuma lettera di dimissioni volontarie;
              è inoltre necessario intervenire per aumentare gli sgravi fiscali, in particolare per le micro e piccole imprese, sulle quali incidono in misura proporzionalmente maggiore i costi delle misure a favore della maternità delle lavoratrici;
              per favorire le madri lavoratrici occorre intervenire con incentivi a favore della destandardizzazione degli orari, sotto forma di orari flessibili e riduzioni volontarie temporanee o durature dell'impegno lavorativo;
              in considerazione del costo che la maternità ha in termini di salute e di dedizione totale del proprio tempo a favore dei figli, andrebbe riconosciuta a tutte le donne madri la contribuzione figurativa di almeno un anno per ogni figlio, indipendentemente dallo svolgimento di attività lavorativa al momento della gestazione e un'ulteriore integrazione contributiva per i periodi di lavoro part-time legati alla maternità;
              così come andrebbero rivisti i congedi parentali, ancora troppo poco utilizzati dai padri, estendendoli a tutte le tipologie contrattuali;
              l'articolo 24 della legge n.  92 del 2012, cosiddetta legge Fornero, ha introdotto alcune disposizioni volte a sostenere la genitorialità e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro;
              in particolare, si prevede la possibilità, in via sperimentale per gli anni 2013-2015, di concedere alla madre lavoratrice, al termine del periodo di congedo di maternità, per gli undici mesi successivi e in alternativa al congedo parentale, la corresponsione di voucher di 300 euro, per l'acquisto di servizi di baby-sitting, ovvero per fare fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l'infanzia o dei servizi privati accreditati, da richiedere al datore di lavoro;
              in risposta all'interrogazione n.  5-03085 del 25 giugno 2014, in Commissione XII (Affari sociali), a prima firma dell'onorevole. Nicchi, vertente sul suddetto bonus, il Sottosegretario di Stato Franca Biondelli dichiarava che si sta valutando l'opportunità di aumentare l'importo del voucher da 300 a 600 euro. Tale aumento sembra, infatti, compatibile con lo stanziamento finanziario disponibile e mira a rendere più conveniente tali voucher rispetto ai congedi parentali,

impegna il Governo:

          a rafforzare, di concerto con le regioni, sia in termini di incremento quantitativo che di crescita qualitativa, le politiche a favore dei servizi socio-educativi, attraverso la previsione di maggiori e più adeguate risorse finanziarie per la messa in sicurezza e l'incremento delle strutture e dei servizi socio-educativi per l'infanzia e, in particolare, per la fascia neonatale e pre-scolastica, con particolare attenzione alla riduzione delle attuali forti disomogeneità territoriali nell'offerta di detti servizi;
          ad assumere iniziative, per quanto di competenza, per valorizzare, nel contesto sopraindicato, la rete dei nidi intesi non più come «servizi a domanda individuale»;
          a sostenere politiche attive e misure efficaci per ripensare il rapporto tra tempi di lavoro e di cura al fine di promuovere una maggiore condivisione della cura da parte degli uomini, e favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, valorizzandone la differente soggettività e rimuovendo la disparità economica ancora persistente;
          ad assumere iniziative, per quanto di competenza, per potenziare – anche attraverso adeguate risorse – la rete dei servizi territoriali e l'assistenza socio-sanitaria e, più in generale, le politiche sociali del nostro Paese;
          ad assumere iniziative per incrementare il bonus attualmente previsto in 300 euro, e introdotto dall'articolo 4 della legge n.  92 del 2012, per l'acquisto di servizi di baby-sitting ovvero per far fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l'infanzia o dei servizi privati accreditati, dando così seguito all'impegno preso dal Governo in risposta all'interrogazione in Commissione XII (Affari sociali) n.  5-03085 del 25 giugno 2014, a prima firma l'onorevole Nicchi;
          ad adottare iniziative per introdurre incentivi a favore della destandardizzazione degli orari, sotto forma di orari flessibili e riduzioni volontarie temporanee o durature dell'impegno lavorativo, per favorire le madri lavoratrici;
          ad adottare iniziative per stanziare adeguate risorse finanziarie volte ad aumentare gli sgravi fiscali delle misure a favore della maternità delle donne lavoratrici che ricadono sui datori di lavoro, con particolare riguardo alle piccole e micro imprese, sulle quali i costi incidono in misura proporzionalmente maggiore;
          ad assumere iniziative per elevare a diciotto mesi la durata dei congedi parentali incentivandone il ricorso da parte dei padri, con un aumento della quota indennizzata (almeno al 60 per cento), e prevedendone una maggiore flessibilità e l'estensione graduale a tutte le tipologie contrattuali;
          a considerare le fasi della vita dedicate alla cura, come crediti ai fini pensionistici con il riconoscimento di: contributi figurativi legati al numero dei figli o ad eventuali altri impegni di cura; integrazioni contributive per i periodi di lavoro part-time per ragioni di cura, possibilità di anticipo della pensione per necessità di accudimento di persone non autosufficienti nel quadro di una revisione del sistema pensionistico che contempli flessibilità e libertà di scelta;
          ad adottare, nell'ambito delle proprie competenze, le opportune iniziative volte a favorire la conclusione dell’iter parlamentare della proposta di legge sulle «dimissioni in bianco», già approvata dalla Camera dei deputati.
(1-00613)
(Nuova formulazione) «Nicchi, Pannarale, Matarrelli, Scotto, Duranti, Costantino, Ricciatti, Pellegrino, Airaudo, Placido».


      La Camera,
          premesso che:
              il consolidamento e l'affermazione della cultura di parità, delle pari opportunità e dei diritti delle donne sono entrati, negli ultimi anni, di diritto tra le priorità e tra gli obiettivi strategici per l'azione del Governo italiano e delle istituzioni internazionali ed europee, affermandosi come importante principio trasversale delle politiche pubbliche;
              nel marzo 2011 il Consiglio diritti umani ha approvato all'unanimità la Dichiarazione delle Nazioni Unite sulla educazione ai diritti umani: un risultato di grande rilievo, per il quale l'Italia ha svolto un ruolo propulsore di primo piano. La dichiarazione costituisce un riferimento importante, poiché fissa in modo chiaro le definizioni, i principi, gli strumenti e gli obiettivi dell'educazione ai diritti umani: il precipitare degli eventi nel quadro internazionale al quale si sta assistendo richiama però, con forza, a rimettere al centro della discussione pubblica, anche in occasione del semestre europeo, la necessità che il nostro Paese si faccia promotore dello sviluppo, da parte dell'Unione europea, di una strategia complessiva sui diritti umani, strategia che può essere meglio applicata attraverso l'azione sinergica di tutti gli attori dell'Unione europea;
              il Consiglio dell'Unione europea, in attuazione della strategia comunitaria «Europa 2020», ha approvato, il 21 ottobre 2010, il cosiddetto «pacchetto occupazione» (decisione sugli orientamenti per le politiche degli Stati membri a favore dell'occupazione, 2010/707/UE), con il quale l'Unione europea invita gli Stati membri ad adottare misure in grado di «aumentare la partecipazione al mercato del lavoro e combattere la segmentazione, l'inattività e la disuguaglianza di genere, riducendo nel contempo la disoccupazione strutturale»;
              il Parlamento europeo, il 19 febbraio 2013, ha inoltre approvato una risoluzione sull'impatto della crisi economica sull'uguaglianza di genere e i diritti della donna (2012/2301(INI)), con la quale si invitano gli Stati membri ad «esaminare con grande serietà la dimensione della parità di genere» nel «gestire la crisi e nell'elaborare soluzioni», nonché «a rivedere e a focalizzarsi sull'impatto immediato e a lungo termine della crisi economica sulle donne, esaminando in particolare se, e in che modo, essa accentua le disuguaglianze di genere esistenti e le relative conseguenze»;
              la risoluzione del Parlamento europeo mette, inoltre, in evidenza il doppio impatto negativo che la crisi sta producendo sulle donne europee: un effetto «diretto», «con la perdita del posto di lavoro, i tagli salariali o la precarizzazione del lavoro» ed un effetto «indiretto», quale conseguenza «dei tagli di bilancio ai servizi pubblici e agli aiuti sociali»;
              il 5 marzo 2010 la Commissione europea ha presentato la «Carta delle donne», un documento con il quale rafforza il suo impegno a favore della parità fra uomini e donne entro i successivi cinque anni;
              è necessario registrare e apprezzare un cambiamento che, nel nostro Paese, ha visto le donne protagoniste di significativi passi in avanti in termini di una sempre maggiore presenza nelle istituzioni, nella vita economica e in quella sociale e politica: tale partecipazione, pur offrendo uno straordinario contributo alla crescita del Paese, è ancora, però, distante dagli obiettivi europei;
              è per questo che appare fondamentale e strategico «approfittare» di questo movimento positivo per contrassegnare il semestre europeo a Presidenza italiana come centrale per il tema della parità e dell'occupazione femminile;
              il programma della Presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea prevede, infatti, in materia di pari opportunità, in vista del XX anniversario dell'adozione della Dichiarazione di Pechino e della relativa piattaforma d'azione, una valutazione approfondita dell'attuazione dal 2010 del lavoro volto a conseguire gli obiettivi nelle dodici «aree critiche» della piattaforma d'azione, nel contesto delle priorità e degli obiettivi politici dell'Unione europea, al fine di presentare una situazione aggiornata e indicare i risultati, le lacune e le sfide future per ciascun settore a livello sia europeo che nazionale: da tale valutazione dovrebbero derivare raccomandazioni per ulteriori azioni volte a promuovere la parità di genere nell'Unione europea, che serviranno come base utile per la definizione degli obiettivi per lo sviluppo post-2015;
              per affrontare l'impegnativa sfida ad incrementare l'occupazione femminile è necessaria una valutazione attenta dell'impatto che la crisi economica e sociale in atto sta producendo sulla situazione occupazionale e sulla qualità della vita delle donne italiane: è da tempo noto, infatti, che il sistema economico italiano è caratterizzato da un basso grado di coinvolgimento della popolazione femminile in età attiva nel mercato del lavoro, un dato molto distante da quello dei Paesi dell'Unione europea comparabili all'Italia per livello di sviluppo economico, e gli effetti prodotti dall'andamento marcatamente negativo del ciclo economico, guidato dalla caduta della domanda, si sono riflessi in un peggioramento diffuso delle grandezze più rilevanti del mercato del lavoro: il tasso di disoccupazione ha toccato il 12,6, con un incremento dello 0,5 per cento nei 12 mesi, e si sono anche fortemente ridotte le possibilità quantitative e qualitative di accesso al mercato del lavoro per gli inattivi, in larga parte giovani e donne;
              secondo il Global gender gap report 2013 stilato dal World economic forum, l'Italia si attesterebbe al 71esimo posto per quanto riguarda la partirà di genere: tale graduatoria, stilata ogni anno, valuta la disparità di genere di ogni Paese in base a quattro criteri principali: partecipazione economica, livello di istruzione, politiche di empowerment e rappresentanza nelle strutture decisionali, salute e sopravvivenza. L'Italia, sebbene abbia ottenuto un miglioramento rispetto al 2012, si attesta ad un livello inferiore rispetto ai principali Paesi europei, come Germania, Francia, Inghilterra ed altri;
              il rapporto 2014 dell'Istat, pubblicato a marzo 2014, inoltre, ha restituito una fotografia a dir poco inquietante dello stato dell'occupazione femminile in Italia: i dati riportati sono, infatti, decisamente allarmanti. Nel 2013 il tasso di occupazione femminile si attesta al 46,5 per cento, segnando un ulteriore calo rispetto al dato 2012 (47,1 per cento), contro il 58,7 per cento della media Ue28 (59,8 Ue15). Il 2013, a differenza della ripresa dell'occupazione femminile registrata nel 2012 rispetto al 2011, evidenzia un calo dell'1,4 per cento rispetto al 2012;
              il tasso di occupazione delle madri è pari al 54,3 per cento, mentre sale al 68,8 per cento per le donne in coppia senza figli. Particolarmente accentuati sono i divari territoriali: nel Mezzogiorno le madri occupate sono il 35,3 per cento contro il 66,4 per cento del Nord e il 61,5 del Centro;
              seppure sia stata rilevata una lieve crescita del tasso complessivo di occupazione femminile, il dato suggerisce preoccupanti dinamiche negative, quali fenomeni di isolamento professionale, incremento di posizioni a bassa qualifica, una ricomposizione a favore di età più anziane quale conseguenza delle riforme pensionistiche: la quota di donne occupate in Italia rimane ancora di gran lunga inferiore a quella dell'Unione europea, si concentra in poche professioni e si associa a fenomeni di sovraistruzione crescenti e più accentuati rispetto agli uomini, anche l'aumento dell'offerta di lavoro femminile che si sta producendo nel periodo più recente è, più che un cambiamento profondo dei modelli di partecipazione, il risultato di nuove e diffuse strategie familiari volte ad affrontare le difficoltà economiche indotte dalla crisi;
              sia dal rapporto Istat 2014 che dal rapporto Bes (Benessere equo e sostenibile) 2014 presentato il 26 giugno 2014, emergono le gravi difficoltà di conciliazione che incontrano le donne, in particolare quelle che continuano a lavorare dopo il parto, così come le laureate, le donne in età più avanzata, le dirigenti, le imprenditrici e le libere professioniste: la quantità di ore di lavoro, la presenza di turni o di orari disagiati (pomeridiano o serale o nel fine settimana) e la rigidità dell'orario sono indicati da più di un terzo delle occupate come gli ostacoli prevalenti alla conciliazione. Per le donne meno istruite risulta un impedimento anche l'eccessiva fatica fisica, mentre sulle più istruite gravano anche l'eccessiva distanza da casa, l'elevato coinvolgimento e le frequenti riunioni o trasferte. La disponibilità di persone o servizi cui affidare i bambini è un requisito imprescindibile per entrare o restare occupate. Le lavoratrici con figli di circa 2 anni si avvalgono principalmente dell'aiuto dei nonni (poco più della metà nel 2005 e nel 2012) o ricorrono al nido, pubblico o privato, con un deciso incremento rispetto al 2005 (35,2 per cento, contro il 27,4 per cento);
              inoltre, nel 2013, le famiglie sostenute da una sola fonte di reddito da lavoro (famiglie monoreddito) sono in tutto 7 milioni 311 mila (+11,7 per cento rispetto al 2008; di cui 50 mila in più nell'ultimo anno). Nel 2013, quelle sostenute dal solo reddito femminile sono il 12,2 per cento, contro il 9,4 per cento del 2008. Sebbene in due casi su tre l'unico reddito da lavoro provenga ancora da un uomo, nell'ultimo quinquennio la crescita delle famiglie con un solo occupato è imputabile quasi esclusivamente all'aumento delle famiglie in cui l'unica persona occupata è una donna;
              dall'inizio della crisi economica e finanziaria, il ritmo di crescita dell'occupazione femminile nelle professioni non qualificate è più che doppio rispetto a quello degli uomini e più che triplo nell'ambito delle professioni che riguardano le attività commerciali e i servizi: le professioni a cui hanno accesso sono, soprattutto, quelle di commesse alla vendita al minuto, colf e segretarie (1 milione 737 mila unità, 18 per cento del totale dell'occupazione femminile);
              il nostro Paese risulta tra quelli maggiormente segnati da tale «doppio impatto negativo», soprattutto con riferimento alle ripercussioni della riduzione della spesa per i servizi alla persona: solo il 12,7 per cento circa dei bambini italiani frequenta gli asili nido (a fronte di una media superiore al 40 per cento di Belgio, Norvegia, Danimarca, Svezia, Francia, Paesi Bassi); la percentuale di donne che dichiara di lavorare part-time per conciliare lavoro e responsabilità familiari risulta del 33 per cento contro una media Ocse del 24 per cento (dati Ocde); il 40,8 per cento delle lavoratrici donne dichiara di aver abbandonato il lavoro dopo la nascita del primogenito, mentre il 5,6 per cento ammette di aver rinunciato alla propria vita professionale per dedicarsi alla famiglia o alla cura di parenti non autosufficienti (dati Isfol);
              va considerata, inoltre, un'elevata sperequazione salariale legata alla differenza di genere: in media, la retribuzione netta mensile delle dipendenti resta inferiore di circa il 20 per cento di quella degli uomini (nel 2012, 1.103 contro 1.396 euro). In una carriera spesso contraddistinta, oltre che dalla maggiore presenza dei fenomeni di sovraistruzione, anche da episodi di discontinuità dovuti alla nascita dei figli, il differenziale salariale a sfavore delle donne aumenta con l'età, soprattutto per le laureate, svantaggio che si riduce solo nei casi di istruzione post laurea fino a rendere la differenza retributiva tra donne e uomini non più significativa;
              il riconoscimento della parità di genere non è solo una questione diritti, ma soprattutto un investimento per il sistema Paese: l'occupazione femminile rappresenta un fattore produttivo che può fortemente contribuire alla crescita e allo sviluppo economico del Paese. Infatti, le ultime proiezioni della Banca d'Italia confermano che se fosse possibile aumentare il tasso di occupazione femminile al 60 per cento ciò comporterebbe un aumento del 9,2 per cento del prodotto interno lordo, a produttività invariata, e del 6,5 per cento se si considera l'effetto depressivo sulla produttività (minore qualificazione forza lavoro, rendimenti decrescenti): sulla stessa linea sono i dati pubblicati da Goldman Sachs, che evidenziano come il raggiungimento della parità di genere porterebbe a un aumento del prodotto interno lordo del 13 per cento nell'Eurozona e del 22 per cento in Italia; nella relazione della Commissione europea, pubblicata ad aprile 2012, sulla parità di genere, si asserisce che un maturo progresso verso la parità tra uomini e donne stimola la crescita economica: «per raggiungere l'obiettivo Europa 2020, di un tasso occupazionale del 75 per cento della popolazione adulta entro il 2020, i Paesi membri devono promuovere maggiormente la presenza delle donne nel mercato del lavoro. Un modo per accrescere la competitività dell'Europa consiste nel conseguire un migliore equilibrio tra uomini e donne nei posti di responsabilità in ambito economico. Vari studi hanno dimostrato che la diversità di genere apporta notevoli benefici e le aziende con una percentuale più alta di donne nei consigli di amministrazione sono più performanti rispetto a quelle guidate da soli uomini»;
              è necessario che il nostro Paese si doti al più presto delle misure necessarie in materia di conciliazione familiare: asili nido, servizi per gli anziani, incentivi per lo sviluppo del settore privato dei servizi alla famiglia, promuovendo un'offerta di qualità a prezzi contenuti (il modello dei voucher sperimentato in Francia, Belgio e Regno Unito), incentivi al lavoro femminile, superamento delle discriminazioni e degli ostacoli, sia per quanto concerne l'accesso al mondo del lavoro delle donne, sia per quanto riguarda la loro crescita professionale e l'avanzamento in carriera;
              con il decreto legislativo 11 aprile 2006, n.  198, «Codice delle pari opportunità tra uomo e donna», venivano istituite le consigliere di parità, con qualificazione di pubblici ufficiali nell'esercizio delle proprie funzioni e con il ruolo esclusivo di contrasto e rimozione delle discriminazioni di genere nell'ambito lavorativo, attraverso la ricerca di una conciliazione tra le parti in via stragiudiziale o anche attraverso l'azione in giudizio, ai sensi degli articoli 36 e 37 del medesimo codice: nel corso degli ultimi anni si è registrata una forte riduzione degli stanziamenti per il fondo nazionale destinato all'attività delle consigliere di parità;
              i 27 Paesi dell'Unione europea hanno approvato, a Bruxelles il 28 giugno 2013, un pacchetto di sostegno all'economia a favore dell'occupazione giovanile, che prevede otto miliardi di euro nei prossimi sette anni, di cui sei nel solo biennio 2014-2015, in modo da offrire alle persone con meno di 25 anni un lavoro, uno stage o un periodo di apprendistato entro quattro mesi dalla fine degli studi o dalla perdita del lavoro. La strategia è una risposta all'elevata disoccupazione di alcune regioni europee e all'emergere di partiti estremisti in numerosi Paesi membri;
              l'Italia è stato il primo Paese europeo a dotarsi di una legislazione intervenuta per conciliare i tempi di vita con i tempi del lavoro, contribuendo così in modo sostanziale ad alimentare il dibattito europeo intorno alle politiche temporali, sia in ambito accademico sia in ambito politico ed amministrativo, avvenuto nel nostro Paese con un notevole anticipo rispetto alle altre realtà europee,

impegna il Governo:

          a promuovere l'istituzione presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Ministero dell'economia e delle finanze, il Ministero dello sviluppo economico e il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, di una task force con l'obiettivo di rendere coerenti e coordinati tutti gli strumenti vigenti, anche supportando il lavoro di attuazione delle legge delega (jobs act), oltre che di programmare interventi per l'occupazione femminile e misure in favore della conciliazione vita-lavoro per uomini e donne;
          a promuovere, nell'ambito del programma del Governo, la realizzazione di una conferenza nazionale finalizzata ad individuare gli obiettivi e le azioni che il Governo, le amministrazioni pubbliche, gli attori economici e sociali devono condividere e realizzare per la crescita dell'occupazione femminile, tenendo conto dei seguenti concetti chiave:
              a) analisi della realtà anche attraverso la messa a punto di indagini che supportino la valutazione dell'impatto delle politiche sulle reali condizioni di vita di donne e di uomini, sapendo che tra loro sono diverse e disuguali;
              b) empowerment, inteso nel senso della promozione delle donne nei centri decisionali della società, della politica e dell'economia, posto che la consapevolezza dell'aver maggior potere è uno stimolo per le donne per aumentare la propria autostima, autovalorizzarsi e far crescere le competenze e le abilità;
              c) prospettiva di genere intesa come promozione della persona per tutto il ciclo della vita, tenendo conto delle differenze di ogni fase dell'esistenza e della naturale diversità tra i sessi e del fatto che praticare la prospettiva di genere richiede a tutti un grande cambiamento culturale che metta al centro dell'agenda politica i temi della valorizzazione delle risorse umane, del contrasto alle disuguaglianze, delle grandi riforme sociali;
          a realizzare azioni di cooperazione internazionale per promuovere la tutela dei diritti delle donne nei Paesi del sud del mondo ed in via di sviluppo, con il fine di contribuire ad una crescita equa e sostenibile;
          a promuovere un approfondimento sulla strategia a sostegno dell'occupazione femminile nell'ambito dell'azione di lungo periodo dell'Unione europea in materia di pari opportunità, che vada nella direzione di rafforzare la convinzione che il necessario rinnovo del modello socio-economico europeo in un'ottica di genere è fondamentale per il futuro dell'Unione europea;
          ad assumere iniziative per prevedere incentivi per le imprese che assumono a tempo indeterminato manodopera femminile, per mezzo, anche, di una detassazione del lavoro femminile, misura di immediato impatto sul mercato del lavoro, poiché domanda e offerta di lavoro femminile risultano molto più elastiche, mediamente, di domanda e offerta di lavoro maschile, nonché incentivi fiscali per facilitare l'instaurazione di nuovi rapporti di lavoro per l'assunzione delle lavoratrici divenute madri che rientrano, almeno nei tre anni successivi al parto, al fine di controbilanciare la minore spendibilità nel mercato del lavoro delle neo mamme, aumentandone le possibilità di occupabilità, nonché l'implementazione degli incentivi fiscali, oltre alla riduzione del 50 per cento sui contributi previdenziali già in vigore, per le imprese che fanno assunzioni in sostituzione di personale in astensione dal lavoro per maternità obbligatoria e facoltativa nonché per malattia del bambino;
          ad incoraggiare le iniziative, pubbliche e private, volte all'innovazione di modelli sociali, economici, culturali e organizzativi per rendere compatibili sfera privata e sfera lavorativa, così da migliorare la qualità della vita, consentire alle lavoratrici ed ai lavoratori di conciliare le proprie responsabilità professionali con quelle familiari, di educazione e cura dei figli e consolidare la sperimentazione di azioni positive per la conciliazione famiglia-lavoro, come stabilito dall'articolo 9 della legge 8 marzo 2000, n.  53, in modo tale da intercettare i nuovi bisogni di conciliazione emersi, ampliando la platea dei potenziali beneficiari ed aggiornando il novero degli interventi meritevoli di accesso ai finanziamenti, ottimizzandone l'investimento in termini di progettualità, evitando un eccessivo gap tra progetti candidati ed ammessi, e rendendone le regole semplici e chiare anche attraverso un raccordo con altri strumenti di supporto alle imprese, quali gli incentivi ai contratti di rete, e ad incentivare fiscalmente le imprese ad attivare e/o implementare nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori, iniziative innovative di organizzazione del lavoro family friendly e di welfare aziendale ed interaziendale e la conciliazione famiglia-lavoro, anche prevedendo incentivi fiscali per rafforzare il ricorso al congedo di maternità-paternità nella gestione aziendale delle imprese;
          a prevedere, in sede di semplificazione della normativa sul lavoro, la possibilità di adottare modalità di flessibilità organizzativa che consentano una più elastica articolazione spazio-temporale della prestazione lavorativa, prevedendone la contrattazione e la regolazione a livello di contrattazione sia nazionale che territoriale o aziendale e che includano una semplificazione del ricorso all'utilizzo del telelavoro, coerentemente con quanto previsto dal disegno di legge sul cosiddetto smart working;
          a promuovere il fondo nazionale per lo sviluppo dell'imprenditoria femminile istituito dall'articolo 3 della legge n.  215 del 1992, adesso disciplinato dall'articolo 54 del decreto legislativo n.  198 del 2006;
          a monitorare la piena attuazione del decreto del Presidente della Repubblica 30 novembre 2012, n.  251, sulla parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo nelle società pubbliche, affinché sia garantita la presenza delle donne nella pubblica amministrazione e nelle società pubbliche.
(1-00615) «Speranza, De Micheli, Pollastrini, Martella, Roberta Agostini, Fregolent, Garavini, Martelli, Gnecchi, Valeria Valente, Gregori, Villecco Calipari, Iacono, Pes, Cimbro, Iori, Campana, Albanella, Narduolo, Marzano, Cenni, Cominelli, Coscia, D'Incecco, Murer, Carocci, Scuvera, Carnevali, Morani, Sgambato, Giacobbe, Amoddio, Malpezzi, Coccia, Giuliani, Cinzia Maria Fontana, Manzi, Malisani, Maestri, Ascani, Paola Bragantini, Schirò, Sbrollini, Zampa, Miotto, Capone, Gullo, Palma, Sereni, Piccione, Carrozza, Casellato, Rossomando, Blazina, Simoni, Bargero, Moretto, Venittelli, Ghizzoni, Fabbri, Mariano».


      La Camera,
          premesso che:
              la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo evidenzia come è indispensabile promuovere l'uguaglianza dei diritti dell'uomo e della donna;
              la Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1979, ratificata dall'Italia nel 1985, rappresenta uno degli strumenti di diritto internazionale più importanti in materia di tutela dei diritti umani delle donne. La Convenzione impegna gli Stati che l'hanno sottoscritta ad eliminare tutte le forme di discriminazione contro le donne, nell'esercizio dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali, indicando una serie di misure cui gli Stati devono attenersi per il raggiungimento di una piena e sostanziale uguaglianza fra donne e uomini;
              i diritti delle donne costituiscono parte integrante ed inalienabile di quel patrimonio di diritti universali in cui si riconoscono le moderne società democratiche;
              nonostante la dichiarazione e il riconoscimento di fondamentali diritti civili, sociali e culturali a favore delle donne, la discriminazione sessuale, la negazione di una particolare tutela volta alla presa in carico della donna madre finalizzata a riconsiderare le politiche del lavoro, partendo dal presupposto basilare del riconoscimento del ruolo della famiglia nella società, la violenza fisica e sessuale rappresentano ancora oggi le forme di violazione dei diritti umani più grave e diffusa nel mondo;
              la violenza contro le donne è il primo problema da affrontare per il raggiungimento degli obiettivi di libertà, eguaglianza, non discriminazione e difesa dei diritti umani delle donne;
              la violenza contro le donne, quale risulta caratterizzata a seconda della sua dislocazione geo-politica, assume molteplici manifestazioni, quali la violenza domestica, non solo fisica ma anche intesa come forma di coercizione della libertà personale; la violenza sulla salute, che vede le donne quali soggetti più esposti ai rischi di contagio o alla morte per parto a causa della mancanza di assistenza medica elementare; la violenza contro le bambine, che si manifesta anche attraverso il turpe fenomeno della prostituzione minorile; la violenza nei conflitti armati, che provoca proprio tra le donne un enorme numero di vittime, anche di reati commessi in occasione di conflitti, che vedono le donne assenti ai tavoli negoziali ove si trattino i temi della guerra e della pace; la violenza nel lavoro, che si realizza attraverso le discriminazioni estreme o multiple che possono sommarsi agli ostacoli nell'accesso al mercato del lavoro ed alla disparità di trattamento nelle condizioni di occupazione; ulteriori forme di discriminazione connesse alla condizione di donna immigrata o disabile;
              la crisi economica internazionale, con l'aumento della disoccupazione e della responsabilità delle donne sul luogo di lavoro e della famiglia, induce insieme con la diminuzione del reddito un potenziale aumento della violenza domestica e sociale contro le donne ed una loro maggiore vulnerabilità nelle condizioni di mercato del lavoro;
              è necessario che gli Stati, sotto la Presidenza italiana del semestre europeo, si pongano come obiettivo la promozione della libertà della donna da ogni forma di violenza ed il rispetto della dignità umana delle donne;
              la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica dell'11 maggio 2011 ad Istanbul, per la quale è stata di recente autorizzata la ratifica dal Parlamento, si pone l'obiettivo di proteggere le donne da ogni forma di violenza e di contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione, promuovendo la concreta parità tra i sessi, ivi compreso il rafforzamento dell'autonomia e dell'autodeterminazione delle donne. Inoltre, la Convenzione mira a predisporre un quadro globale, politiche e misure di protezione e di assistenza a favore di tutte le donne vittime di violenza, anche sostenendo e assistendo le organizzazioni e le autorità incaricate dell'applicazione della legge in modo che possano collaborare efficacemente, al fine di adottare un approccio integrato per l'eliminazione della violenza contro le donne e la violenza domestica;
              nel nostro Paese, i primi veri accenni di libertà per le donne possono essere cronologicamente inquadrati nei primi anni Sessanta, il periodo del boom economico e, in particolare, dal Sessantotto in poi, anno celebre non solo per i movimenti studenteschi ma anche per le più aspre rivendicazioni femministe. Come in qualsiasi cambiamento radicale si assunsero presto posizioni talmente estremizzate da travisare il significato originale di quelle che nascevano come giuste rivendicazioni femminili. La libertà si trasformò in liberismo più sfrenato che sfociava, il più delle volte, nel pensiero anarchico. Il nostro tempo porta con sé retaggi non trascurabili di una libertà impropria. Oggi, infatti, le donne hanno una parvenza di maggiore libertà di scelta, ma quasi sempre si tratta di un'illusione. Ad esempio, negli anni l'attuazione della legge sull'interruzione volontaria di gravidanza ha rappresentato l'esempio lampante dell'illusione basata sulla proporzione: maggiore è il diritto di scelta, maggiore è la libertà. La donna, infatti, non è veramente libera di scegliere se le istituzioni non operano per rimuovere quelle condizioni che vincolano la sua reale libertà; Molte donne, di fronte alla mancanza di tutele da parte dello Stato, in caso di gravidanza, compiono una scelta quasi obbligata, in nome di una «libertà» che trascura il valore della vita;
              al contrario di quanto oggi sembra ispirare la linea politico programmatica dell'Esecutivo, basti pensare al disegno di legge delega sulla riforma del lavoro attualmente all'esame del Parlamento; è necessario sviluppare delle politiche a sostegno della donna capaci, da un lato, di creare le stesse condizioni di parità con gli uomini per l'accesso al mondo del lavoro e, dall'altro lato, in grado di valorizzare il ruolo della donna madre all'interno del nucleo familiare, sviluppando, di conseguenza, interventi atti a migliorare i servizi a sostegno della famiglia, a riconsiderare l'imposizione fiscale tenendo conto del fattore famiglia e a sviluppare progetti volti alla ricollocazione nel mondo del lavoro delle donne madri;
              l'introduzione del federalismo fiscale rappresenta un cambiamento epocale che segna finalmente una netta inversione di rotta in merito alle politiche a tutela della famiglia. I firmatari della presente mozione sono convinti, infatti, che l'autonomia impositiva regionale e locale disegnata dalla legge delega sul federalismo fiscale, che tarda ingiustificatamente a trovare la sua piena applicazione, diretta a superare la logica dei trasferimenti vincolati ad alto tasso di burocrazia e a basso tasso d'incidenza sullo sviluppo reale, apra una nuova stagione anche per le politiche fiscali a tutela della famiglia. Questa nuova autonomia regionale e locale sarà, infatti, guidata in base ai principi di coordinamento che sono elencati nella legge delega. Tra questi, quello del favor familiae: «individuazione di strumenti idonei a favorire la piena attuazione degli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione, con riguardo ai diritti e alla formazione della famiglia e all'adempimento dei relativi compiti». Si tratta di principi altamente innovativi che connotano la riforma del federalismo fiscale nella direzione di un maggiore riconoscimento fiscale dei carichi familiari e, quindi, nella direzione di una maggiore attuazione di quel favor familiae che orienta il dettato costituzionale;
              in Italia, il sistema fiscale si ostina ad operare come se la capacità contributiva delle famiglie non sia influenzata dalla presenza di figli e dall'eventuale scelta di uno dei due coniugi di dedicare parte del proprio tempo a curare, crescere ed educare i figli. Mentre di norma in tutti gli altri Paesi europei a parità di reddito la differenza tra chi ha e chi non ha figli a carico è consistente. Il sistema di tassazione deve essere riformulato in modo tale da lasciare a disposizione del nucleo familiare una maggiore disponibilità di reddito, ponendo fine all'iniqua penalizzazione a cui è sottoposta dall'attuale sistema fiscale;
              un'emancipazione matura trova compimento nella sinergia tra la donna madre, sostegno alla crescita dei figli e punto di riferimento nel cammino della vita e della famiglia e la donna lavoratrice, impegnata in tutti gli ambiti della vita sociale, economica, culturale, artistica e politica. Oggi, più che nel passato, le donne sono chiamate ad affrontare nuove sfide. La presenza sociale delle donne è indispensabile per contribuire a far esplodere le contraddizioni di una società organizzata quasi esclusivamente su criteri di produttività;
              in questi anni l'Italia ha visto aumentare progressivamente gli ingressi legali e illegali di immigrati sul proprio territorio nazionale. Il fenomeno dell'immigrazione, inevitabilmente, ha portato il nostro paese a confrontarsi con differenti modi di pensare e stili di vita completamente alieni alle radici culturali e religiose italiane. Si deve necessariamente fare i conti anche con l'islam che, favorito dal diffuso atteggiamento multiculturale e buonista, si sta radicando anche nel nostro Paese;
              secondo i firmatari del presente atto di indirizzo, l'Islam umilia e offende la donna, la considera sottomessa all'uomo dal quale può essere ripudiata (e non viceversa), la obbliga a celare il viso e il corpo, le impone l'infibulazione;
              ma la differenza sostanziale, più che nelle caratterizzazioni esteriori, sta nella concezione stessa che la donna ha di sé. Come l'Islam in quanto sistema rifiuta ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo la mediazione, l'integrazione, la modernità, così la donna islamica, sottomessa, velata, rinchiusa, privata di potestà genitoriale e di qualsiasi autonomia, giustifica ed addirittura difende questo stato. Non può esserci alcuna evoluzione se le principali protagoniste non vogliono modificare la propria condizione;
              a tutto ciò occorre rispondere con la forza generata dall'identità e dai valori di eguaglianza del nostro Paese, che nascono da tutta la tradizione storica italiana, con la consapevolezza che dignità e diritti sono elementi su cui non è possibile scendere a patti,

impegna il Governo:

          a sostenere, nel contesto del semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea, la promozione della libertà della donna da ogni forma di violenza ed il rispetto della dignità umana delle donne;
          a mettere in campo gli strumenti necessari per incentivare le politiche di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro attraverso il potenziamento delle politiche attive per l'occupabilità femminile e dei servizi per il welfare;
          a promuovere reali politiche incentrate sul riconoscimento della famiglia quale nucleo fondamentale della società, dando attuazione al favor familiae declinato nella legge delega sul federalismo fiscale;
          a promuovere un programma di educazione e formazione ai diritti umani per tutti, anche a partire da tutti gli ordini di scuole, dato che il fenomeno della violenza contro le donne rappresenta un problema culturale che investe l'intero Paese, soprattutto in ragione del fenomeno migratorio che comporta il coacervo di culture portatrici di valori profondamente diversificati rispetto alle tradizioni italiane;
          a lanciare iniziative pubbliche di sensibilizzazione e a promuovere codici etici per l'informazione riguardo all'immagine femminile, anche attraverso i siti istituzionali e il servizio di radio-diffusione pubblico nazionale;
          a lanciare iniziative pubbliche di sensibilizzazione affinché tutte le donne utilizzino le strutture pubbliche esistenti, quali i centri di ascolto preposti ad affrontare realtà di sopraffazione e violenza, anche motivate da convinzioni culturali e religiose;
          ad assumere iniziative normative dirette a definire nuove fattispecie di reato connotate da maggior rigore sanzionatorio nei confronti di chi, se pur per motivi di appartenenza culturale o religiosa, istiga a mettere in atto comportamenti compromettenti il principio della parità di genere e della libertà personale.
(1-00620) «Rondini, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Simonetti».


      La Camera,
          premesso che:
              la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo evidenzia come è indispensabile promuovere l'uguaglianza dei diritti dell'uomo e della donna;
              la Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1979, ratificata dall'Italia nel 1985, rappresenta uno degli strumenti di diritto internazionale più importanti in materia di tutela dei diritti umani delle donne. La Convenzione impegna gli Stati che l'hanno sottoscritta ad eliminare tutte le forme di discriminazione contro le donne, nell'esercizio dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali, indicando una serie di misure cui gli Stati devono attenersi per il raggiungimento di una piena e sostanziale uguaglianza fra donne e uomini;
              i diritti delle donne costituiscono parte integrante ed inalienabile di quel patrimonio di diritti universali in cui si riconoscono le moderne società democratiche;
              nonostante la dichiarazione e il riconoscimento di fondamentali diritti civili, sociali e culturali a favore delle donne, la discriminazione sessuale, la negazione di una particolare tutela volta alla presa in carico della donna madre finalizzata a riconsiderare le politiche del lavoro, partendo dal presupposto basilare del riconoscimento del ruolo della famiglia nella società, la violenza fisica e sessuale rappresentano ancora oggi le forme di violazione dei diritti umani più grave e diffusa nel mondo;
              la violenza contro le donne è il primo problema da affrontare per il raggiungimento degli obiettivi di libertà, eguaglianza, non discriminazione e difesa dei diritti umani delle donne;
              la violenza contro le donne, quale risulta caratterizzata a seconda della sua dislocazione geo-politica, assume molteplici manifestazioni, quali la violenza domestica, non solo fisica ma anche intesa come forma di coercizione della libertà personale; la violenza sulla salute, che vede le donne quali soggetti più esposti ai rischi di contagio o alla morte per parto a causa della mancanza di assistenza medica elementare; la violenza contro le bambine, che si manifesta anche attraverso il turpe fenomeno della prostituzione minorile; la violenza nei conflitti armati, che provoca proprio tra le donne un enorme numero di vittime, anche di reati commessi in occasione di conflitti, che vedono le donne assenti ai tavoli negoziali ove si trattino i temi della guerra e della pace; la violenza nel lavoro, che si realizza attraverso le discriminazioni estreme o multiple che possono sommarsi agli ostacoli nell'accesso al mercato del lavoro ed alla disparità di trattamento nelle condizioni di occupazione; ulteriori forme di discriminazione connesse alla condizione di donna immigrata o disabile;
              la crisi economica internazionale, con l'aumento della disoccupazione e della responsabilità delle donne sul luogo di lavoro e della famiglia, induce insieme con la diminuzione del reddito un potenziale aumento della violenza domestica e sociale contro le donne ed una loro maggiore vulnerabilità nelle condizioni di mercato del lavoro;
              è necessario che gli Stati, sotto la Presidenza italiana del semestre europeo, si pongano come obiettivo la promozione della libertà della donna da ogni forma di violenza ed il rispetto della dignità umana delle donne;
              la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica dell'11 maggio 2011 ad Istanbul, per la quale è stata di recente autorizzata la ratifica dal Parlamento, si pone l'obiettivo di proteggere le donne da ogni forma di violenza e di contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione, promuovendo la concreta parità tra i sessi, ivi compreso il rafforzamento dell'autonomia e dell'autodeterminazione delle donne. Inoltre, la Convenzione mira a predisporre un quadro globale, politiche e misure di protezione e di assistenza a favore di tutte le donne vittime di violenza, anche sostenendo e assistendo le organizzazioni e le autorità incaricate dell'applicazione della legge in modo che possano collaborare efficacemente, al fine di adottare un approccio integrato per l'eliminazione della violenza contro le donne e la violenza domestica;
              nel nostro Paese, i primi veri accenni di libertà per le donne possono essere cronologicamente inquadrati nei primi anni Sessanta, il periodo del boom economico e, in particolare, dal Sessantotto in poi, anno celebre non solo per i movimenti studenteschi ma anche per le più aspre rivendicazioni femministe. Come in qualsiasi cambiamento radicale si assunsero presto posizioni talmente estremizzate da travisare il significato originale di quelle che nascevano come giuste rivendicazioni femminili. La libertà si trasformò in liberismo più sfrenato che sfociava, il più delle volte, nel pensiero anarchico. Il nostro tempo porta con sé retaggi non trascurabili di una libertà impropria. Oggi, infatti, le donne hanno una parvenza di maggiore libertà di scelta, ma quasi sempre si tratta di un'illusione. Ad esempio, negli anni l'attuazione della legge sull'interruzione volontaria di gravidanza ha rappresentato l'esempio lampante dell'illusione basata sulla proporzione: maggiore è il diritto di scelta, maggiore è la libertà. La donna, infatti, non è veramente libera di scegliere se le istituzioni non operano per rimuovere quelle condizioni che vincolano la sua reale libertà; Molte donne, di fronte alla mancanza di tutele da parte dello Stato, in caso di gravidanza, compiono una scelta quasi obbligata, in nome di una «libertà» che trascura il valore della vita;
              al contrario di quanto oggi sembra ispirare la linea politico programmatica dell'Esecutivo, basti pensare al disegno di legge delega sulla riforma del lavoro attualmente all'esame del Parlamento; è necessario sviluppare delle politiche a sostegno della donna capaci, da un lato, di creare le stesse condizioni di parità con gli uomini per l'accesso al mondo del lavoro e, dall'altro lato, in grado di valorizzare il ruolo della donna madre all'interno del nucleo familiare, sviluppando, di conseguenza, interventi atti a migliorare i servizi a sostegno della famiglia, a riconsiderare l'imposizione fiscale tenendo conto del fattore famiglia e a sviluppare progetti volti alla ricollocazione nel mondo del lavoro delle donne madri;
              l'introduzione del federalismo fiscale rappresenta un cambiamento epocale che segna finalmente una netta inversione di rotta in merito alle politiche a tutela della famiglia. I firmatari della presente mozione sono convinti, infatti, che l'autonomia impositiva regionale e locale disegnata dalla legge delega sul federalismo fiscale, che tarda ingiustificatamente a trovare la sua piena applicazione, diretta a superare la logica dei trasferimenti vincolati ad alto tasso di burocrazia e a basso tasso d'incidenza sullo sviluppo reale, apra una nuova stagione anche per le politiche fiscali a tutela della famiglia. Questa nuova autonomia regionale e locale sarà, infatti, guidata in base ai principi di coordinamento che sono elencati nella legge delega. Tra questi, quello del favor familiae: «individuazione di strumenti idonei a favorire la piena attuazione degli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione, con riguardo ai diritti e alla formazione della famiglia e all'adempimento dei relativi compiti». Si tratta di principi altamente innovativi che connotano la riforma del federalismo fiscale nella direzione di un maggiore riconoscimento fiscale dei carichi familiari e, quindi, nella direzione di una maggiore attuazione di quel favor familiae che orienta il dettato costituzionale;
              in Italia, il sistema fiscale si ostina ad operare come se la capacità contributiva delle famiglie non sia influenzata dalla presenza di figli e dall'eventuale scelta di uno dei due coniugi di dedicare parte del proprio tempo a curare, crescere ed educare i figli. Mentre di norma in tutti gli altri Paesi europei a parità di reddito la differenza tra chi ha e chi non ha figli a carico è consistente. Il sistema di tassazione deve essere riformulato in modo tale da lasciare a disposizione del nucleo familiare una maggiore disponibilità di reddito, ponendo fine all'iniqua penalizzazione a cui è sottoposta dall'attuale sistema fiscale;
              un'emancipazione matura trova compimento nella sinergia tra la donna madre, sostegno alla crescita dei figli e punto di riferimento nel cammino della vita e della famiglia e la donna lavoratrice, impegnata in tutti gli ambiti della vita sociale, economica, culturale, artistica e politica. Oggi, più che nel passato, le donne sono chiamate ad affrontare nuove sfide. La presenza sociale delle donne è indispensabile per contribuire a far esplodere le contraddizioni di una società organizzata quasi esclusivamente su criteri di produttività;
              in questi anni l'Italia ha visto aumentare progressivamente gli ingressi legali e illegali di immigrati sul proprio territorio nazionale. Il fenomeno dell'immigrazione, inevitabilmente, ha portato il nostro paese a confrontarsi con differenti modi di pensare e stili di vita completamente alieni alle radici culturali e religiose italiane. Si deve necessariamente fare i conti anche con l'islam che, favorito dal diffuso atteggiamento multiculturale e buonista, si sta radicando anche nel nostro Paese;
              secondo i firmatari del presente atto di indirizzo, l'Islam umilia e offende la donna, la considera sottomessa all'uomo dal quale può essere ripudiata (e non viceversa), la obbliga a celare il viso e il corpo, le impone l'infibulazione;
              ma la differenza sostanziale, più che nelle caratterizzazioni esteriori, sta nella concezione stessa che la donna ha di sé. Come l'Islam in quanto sistema rifiuta ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo la mediazione, l'integrazione, la modernità, così la donna islamica, sottomessa, velata, rinchiusa, privata di potestà genitoriale e di qualsiasi autonomia, giustifica ed addirittura difende questo stato. Non può esserci alcuna evoluzione se le principali protagoniste non vogliono modificare la propria condizione;
              a tutto ciò occorre rispondere con la forza generata dall'identità e dai valori di eguaglianza del nostro Paese, che nascono da tutta la tradizione storica italiana, con la consapevolezza che dignità e diritti sono elementi su cui non è possibile scendere a patti,

impegna il Governo:

          a sostenere, nel contesto del semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea, la promozione della libertà della donna da ogni forma di violenza ed il rispetto della dignità umana delle donne;
          a mettere in campo gli strumenti necessari per incentivare le politiche di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro attraverso il potenziamento delle politiche attive per l'occupabilità femminile e dei servizi per il welfare;
          a promuovere reali politiche incentrate sul riconoscimento della famiglia quale nucleo fondamentale della società, dando attuazione al favor familiae declinato nella legge delega sul federalismo fiscale;
          a promuovere un programma di educazione e formazione ai diritti umani per tutti, anche a partire da tutti gli ordini di scuole, dato che il fenomeno della violenza contro le donne rappresenta un problema culturale che investe l'intero Paese, soprattutto in ragione del fenomeno migratorio che comporta il coacervo di culture portatrici di valori profondamente diversificati rispetto alle tradizioni italiane;
          a lanciare iniziative pubbliche di sensibilizzazione e a promuovere codici etici per l'informazione riguardo all'immagine femminile, anche attraverso i siti istituzionali e il servizio di radio-diffusione pubblico nazionale;
          a lanciare iniziative pubbliche di sensibilizzazione affinché tutte le donne utilizzino le strutture pubbliche esistenti, quali i centri di ascolto preposti ad affrontare realtà di sopraffazione e violenza, anche motivate da convinzioni culturali e religiose.
(1-00620)
(Testo modificato nel corso della seduta) «Rondini, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Simonetti».


TESTO UNIFICATO DELLE PROPOSTE DI INCHIESTA PARLAMENTARE: FRATOIANNI ED ALTRI; MARAZZITI ED ALTRI; FIANO: ISTITUZIONE DI UNA COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SUL SISTEMA DI ACCOGLIENZA E DI IDENTIFICAZIONE, NONCHÉ SULLE CONDIZIONI DI TRATTENIMENTO DEI MIGRANTI NEI CENTRI DI ACCOGLIENZA, NEI CENTRI DI ACCOGLIENZA PER RICHIEDENTI ASILO E NEI CENTRI DI IDENTIFICAZIONE ED ESPULSIONE (DOC. XXII, NN. 18-19-21-A)

Doc.  XXII, nn. 18-19-21-A – Parere della V Commissione

PARERE DELLA V COMMISSIONE SUL TESTO DEL PROVVEDIMENTO E SULLE PROPOSTE EMENDATIVE PRESENTATE

Sul testo del provvedimento in oggetto:

PARERE FAVOREVOLE

sugli emendamenti trasmessi dall'Assemblea:

PARERE CONTRARIO

sull'emendamento 5.1, in quanto suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica privi di idonea quantificazione e copertura;

NULLA OSTA

sulle restanti proposte emendative.

Doc. XXII, nn.  18-19-21-A – Articolo 1

ARTICOLO 1 DELLA PROPOSTA DI INCHIESTA PARLAMENTARE NEL TESTO UNIFICATO DELLA COMMISSIONE

Art. 1.
(Istituzione e funzioni della Commissione).

      1. Ai sensi dell'articolo 82 della Costituzione, è istituita, per la durata di un anno, una Commissione parlamentare di inchiesta, di seguito denominata «Commissione», sul sistema di accoglienza e di identificazione, nonché sulle condizioni di trattenimento dei migranti nei centri di accoglienza (CDA), nei centri di accoglienza per richiedenti asilo (CARA) e nei centri di identificazione ed espulsione (CIE).
      2. La Commissione, ferme restando le competenze e le attività del Comitato parlamentare di controllo sull'attuazione dell'accordo di Schengen, di vigilanza sull'attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione, ha il compito di:
          a) accertare se nei CDA, nei CARA e nei CIE si siano verificati condotte illegali e atti lesivi dei diritti fondamentali e della dignità umana e se, in particolare, siano stati praticati trattamenti disumani o degradanti nei confronti dei migranti ivi accolti o trattenuti;
          b) ricostruire in maniera puntuale le circostanze in cui si siano eventualmente verificati le condotte e gli atti di cui alla lettera a);
          c) indagare sui tempi e sulle modalità di accoglienza nei CDA e nei CARA e sulle modalità di trattenimento nei CIE e, in relazione a tali ultimi centri, verificare se sia data effettiva e puntuale applicazione alle disposizioni e alle garanzie a tutela degli stranieri espulsi e trattenuti previste dalla direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, anche al fine di accertare eventuali responsabilità che possono aver determinato eventi critici in tali centri;
          d) verificare l'adeguata tenuta di registri di presenza delle persone trattenute all'interno di ciascun CIE e di quelle ospitate all'interno di ciascun CDA, e di ciascun CARA, che contengano altresì informazioni precise e dettagliate sul tempo di permanenza dei soggetti trattenuti, sulle loro condizioni di salute o sulla dipendenza da sostanze psicotrope, sulla loro eventuale precedente permanenza in carcere o in altri CIE, CDA e CARA nonché la trasparenza di tali informazioni e la loro adeguata messa a disposizione, in particolare nei riguardi delle autorità amministrative, di polizia e giudiziarie interessate al fenomeno dell'immigrazione regolare o irregolare;
          e) valutare l'efficacia dell'attuale sistema dei CIE sotto il profilo dell'identificazione delle persone ivi trattenute, in relazione sia alla durata massima del periodo di trattenimento all'interno dei centri, sia alla sua proporzionalità rispetto al grado di privazione della libertà personale delle persone sottoposte a detenzione amministrativa;
          f) verificare le procedure adottate per l'affidamento della gestione dei CDA, dei CARA e dei CIE ai rispettivi enti;
          g) esaminare le convenzioni stipulate con gli enti gestori dei centri e accertare eventuali responsabilità relative alla mancata offerta dei servizi ivi previsti secondo livelli adeguati e di qualità;
          h) verificare l'effettivo rispetto dei criteri di gestione previsti dalle vigenti disposizioni normative e regolamentari per ciò che attiene ai servizi di orientamento nonché di tutela legale e sociale erogati nei CDA, nei CARA e nei CIE, con particolare attenzione alle prestazioni sanitarie, al rispetto della disciplina relativa al diritto d'asilo e alla tutela dei soggetti più vulnerabili;
          i) valutare l'attività delle autorità responsabili del controllo e del rispetto delle convenzioni di cui alla lettera g);
          l) valutare la sostenibilità dell'attuale sistema sotto il profilo economico e la possibilità di adottare, a parità di risorse impiegate, nuove e diverse soluzioni normative per la gestione della questione dell'immigrazione.

PROPOSTE EMENDATIVE RIFERITE ALL'ARTICOLO 1 DEL TESTO UNIFICATO

ART. 1.
(Istituzione e funzioni della Commissione).

      Al comma 1, sostituire le parole: e di identificazione con le seguenti:, di identificazione e di espulsione.
1. 1. Matteo Bragantini, Invernizzi.

      Al comma 1, dopo le parole: condizioni di trattenimento aggiungere le seguenti: e di rispetto degli obblighi derivanti dalle norme vigenti nei centri e nel nostro paese da parte.
1. 2. Invernizzi, Matteo Bragantini.

      Al comma 2, lettera a), dopo le parole: condotte illegali aggiungere le seguenti:, gravi violazioni delle regole dei centri nonché comportamenti violenti o in violazione di disposizioni normative da parte delle persone ospitate.
1. 3. Matteo Bragantini, Invernizzi, Caparini.

      Al comma 2, sostituire la lettera e) con la seguente: e) valutare i rischi della mancata attivazione dei centri di identificazione ed espulsione attualmente non operativi, i tempi per l'attivazione in ciascuna regione di un centro per l'identificazione ed espulsione, le responsabilità per il mancato allontanamento dal territorio nazionale degli stranieri sottoposti a procedure di rimpatrio;
1. 4. Invernizzi, Matteo Bragantini.

      Al comma 2, lettera g), aggiungere, in fine, le parole: e che gli stessi non siano implicati in procedimenti penali relativamente alla gestione, anche in passato, di centri di accoglienza o di identificazione ed espulsione.
1. 5. Matteo Bragantini, Invernizzi.

      Al comma 2, lettera h), dopo le parole: l'effettivo rispetto aggiungere le seguenti: delle norme vigenti nei centri e degli obblighi da esse derivanti,.
1. 6. Invernizzi, Matteo Bragantini.

      Al comma 2, lettera l), sostituire le parole: per la gestione della questione dell'immigrazione con le seguenti: per rendere effettivo e più celere l'allontanamento degli stranieri sottoposti a procedure di rimpatrio.
1. 7. Matteo Bragantini, Invernizzi.

      Al comma 2, lettera l), aggiungere, in fine, le parole: e per rendere effettivo e più celere l'allontanamento degli stranieri sottoposti a procedure di rimpatrio.
1. 8. Invernizzi, Matteo Bragantini.

      Al comma 2, aggiungere, in fine, la seguente lettera:
          m)
valutare le misure più idonee atte ad evitare allontanamenti illegittimi dai centri per sottrarsi alle procedure di identificazione o espulsione.
1. 9. Invernizzi, Matteo Bragantini.