Sulla pubblicità dei lavori:
Ghizzoni Manuela , Presidente ... 3
Audizione del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, senatrice Stefania Giannini, sulle linee programmatiche del suo dicastero
(ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento:
Ghizzoni Manuela , Presidente ... 3
Giannini Stefania , Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca ... 3
Ghizzoni Manuela , Presidente ... 15
Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: FI-PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Nuovo Centro-destra: NCD;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Per l'Italia (PI);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE MANUELA GHIZZONI
La seduta comincia alle 14.05.
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.
Audizione del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, senatrice Stefania Giannini, sulle linee programmatiche del suo dicastero.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento, del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, senatrice Stefania Giannini, sulle linee programmatiche del suo dicastero.
Do il benvenuto alla Ministra Giannini, nostra ospite per la prima volta, sebbene in realtà fosse venuta qui in qualità di senatrice, in occasione di un'audizione in seduta congiunta con il Senato, durante il precedente Governo.
Do subito la parola alla Ministra Giannini, la quale al termine della lettura consegnerà la sua relazione.
STEFANIA GIANNINI, Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Grazie, presidente, e buongiorno a tutti, onorevoli colleghi.
In questa sede, così come è successo al Senato, illustrerò la prima parte della mia relazione; avendo a disposizione un'ora, temo che non sarà possibile portarla a termine, se non sacrificando ad una sintesi estrema la mia presentazione, così come peraltro è accaduto, accidentalmente, al Senato. Preferirei però non doverlo fare anche qui.
Senza retorica, è sicuramente un onore ritornare in quest'Aula. Ricordavo con la presidente che ho fatto parte, come sapete, per la prima fase della legislatura, della 7a Commissione del Senato, quindi ho un'idea molto precisa e puntuale del contributo che dai banchi di maggioranza e di opposizione può e deve derivare al lavoro complesso di programmazione e di pianificazione delle attività di un ministro.
Vorrei partire da un dato, che è sicuramente all'attenzione di tutti: questo Governo, di cui mi onoro di far parte, è il primo, a partire dall'immediato dopoguerra, che mette la scuola e il capitolo dell'istruzione al centro dell'agenda politica.
Credo che non si tratti né di una scelta casuale né di un annuncio propagandistico, ma piuttosto della volontà di essere e mostrarsi coerenti con una visione della società italiana. L'agenda politica si costruisce e si deve costruire soprattutto attorno a una visione e a un modello di società: nella fattispecie, una società in cui il sistema educativo diventi la leva più efficace per lo Stato e per i cittadini, per perseguire le finalità politiche più importanti, cioè la crescita civile, lo sviluppo economico e l'equità sociale. Sono tre compiti che, a partire dall'educazione, ma non esclusivamente contenuti in essa, la classe politica può e deve perseguire, particolarmente in questi tempi.
Il mio compito, quindi, all'interno del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, sarà quello di cercare, insieme Pag. 4al contributo delle Commissioni cultura della Camera e del Senato, di accelerare questo processo di ricostruzione culturale ed educativo del Paese, attraverso una serie di princìpi programmatici e di linee concrete di azione che passo a descrivervi.
Sarebbe molto bello se riuscissimo a trasformare un ministero che è diventato negli anni, per prassi, il ministero delle emergenze – di cui ho già avuto un assaggio, vi posso garantire, abbastanza «robusto» in questi primi trentadue giorni di lavoro – in un ministero della programmazione e della visione strategica.
Versiamo, come dicevo, in uno stato di criticità cronica e di quotidiana rincorsa a «tappare» la falla del momento, di logorio costante nel dettaglio burocratico e normativo, veramente molto difficile da gestire. Qualche volta può sembrare anche impossibile sollevare la testa dalla scrivania e mantenere la visione complessiva delle sfide e dei problemi che ci troviamo ad affrontare.
Si snoda (come conferma anche l'esperienza dei miei primi giorni di governo a capo del Ministero) una catena di crescenti complessità di cui credo anche questa Commissione è stata – durante la legislatura in corso – testimone e talvolta anche partecipe.
Per questo motivo, credo, abbiamo, oggi, una scuola afflitta da un precariato stabile ma non stabilizzato, in cui le legittime aspettative di generazioni di insegnanti e di professori si sono trasformate in quella che, con una certa crudezza verbale – me lo consentirete – io definisco una «ingiusta guerra tra poveri». In maniera politicamente corretta, potremmo parlare di una guerra tra ultimi dell'elenco o della lista, cioè precari e TFA, docenti in ruolo e supplenti, idonei e inidonei: insomma, un elenco inesauribile di legittime rivendicazioni.
Alcuni aspettano da anni, altri da decenni, altri ancora erano precari quando hanno iscritto i loro figli alla scuola elementare e magari sono ancora precari ora che i loro figli stanno per diplomarsi o laurearsi.
Per lo stesso motivo ci troviamo con un'università che registra un allarmante decremento di iscrizioni (meno 30 mila matricole negli ultimi tre anni) e un corpo docente fra i più anziani d'Europa (l'età media della categoria a cui appartengo professionalmente è di oltre cinquant'anni, considerando insieme i professori ordinari, quelli associati e i ricercatori).
È sempre per questo che ci ritroviamo con un sistema ingessato, talvolta incapace di dotarsi di quegli strumenti snelli e meritocratici, sia di reclutamento che di avanzamento in carriera, che dovrebbero facilitare, se non consentire direttamente, quella programmazione strategica e finanziaria nel medio termine che ritengo sia uno degli obiettivi doverosi, in questo settore più che in altri.
È, infine, per analoghe ragioni che anche nel campo della ricerca, nonostante una qualità media dei nostri ricercatori – certificata da dati a voi noti, che non cito nel dettaglio – piuttosto elevata, in alcuni casi con punte di vera eccellenza, si stenta a trovare l'ambizione e il coraggio di quell'investimento imponente e duraturo (insisto molto sul fattore «tempo» perché credo che sia molto rilevante), sia del settore pubblico che del settore privato.
Vi ricordo che l'Italia si colloca, come innovatore moderato, al sedicesimo posto della classifica dell'Unione europea. Mi riferisco subito all'Europa e lo farò costantemente nel corso della mia esposizione, perché ritengo che essa sia un contesto necessario, direi indispensabile: il mio riferimento, dunque, non dipende soltanto dalla importante e imminente sfida del semestre europeo a guida italiana. L'Europa è una condizione, direi un contesto geopolitico di riferimento primario perché le politiche educative e le scelte strategiche in campo di ricerca e di education possano essere efficaci e competitive.
Alla luce di questa breve introduzione di sfondo, vorrei oggi presentarvi le mie linee programmatiche in riferimento al capitolo scuola, ricorrendo a quattro princìpi che considero essenziali per un sistema Pag. 5dell'istruzione, dell'università e della ricerca davvero moderno ed europeo.
Il primo principio è quello della semplificazione. Nella mia visione, semplificare significa resistere alla tentazione dell'ipertrofia normativa che ha afflitto il sistema universitario e scolastico per molti decenni – quella tentazione di voler sempre aggiungere, talvolta di dover sommare una norma a un'altra norma, con funzione emendativa o con funzione di superamento – e invece concentrarsi sull'attuazione dei provvedimenti già approvati, che sono tanti e che spesso non hanno avuto la possibilità di essere realizzati tramite provvedimento attuativo.
Semplificare significa, quindi, lavorare per ridurre quegli spazi di incertezza normativa che alimentano la conflittualità e il tasso di contenziosi che, vi garantisco, nel Ministero dell'istruzione rappresentano un dato credo insuperato e insuperabile rispetto a qualsiasi altro dicastero italiano.
Il secondo principio è quello della programmazione, che nella mia visione significa smettere di lavorare rincorrendo le emergenze, per darsi quell'orizzonte temporale di cui parlavo, di tipo strategico e finanziario, che corrisponde a un triennio almeno, necessario per trasformare gli aggiustamenti puntuali in soluzioni strutturali.
Il terzo principio è quello della valutazione, che significa eliminare i colli di bottiglia esistenti nei vari campi – mi riferisco a quello dell'università, dove già esiste una specifica struttura che può lavorare, ma anche a quello della scuola – e quindi sostituire la procedura dei controlli ex ante con la procedura della valutazione ex post. Principio semplice a enunciarsi, un po’ più complesso a realizzarsi. Significa anche assegnare le risorse ovviamente sulla base dei meriti e dei risultati ottenuti; significa, altresì, sottrarre risorse sulla base dei demeriti e dei risultati non ottenuti.
Il quarto principio, infine, è quello dell'internazionalizzazione, cioè l'apertura del sistema. Riteniamo che un sistema dell'istruzione, dell'università e della ricerca che non sia aperto alla comparazione e alla competizione con il resto del mondo non solo non riesca a generare una maggiore qualità intrinseca sul piano didattico, scientifico e strutturale, ma non riesca nemmeno, fino in fondo, a essere un motore diretto e indiretto dello sviluppo economico e della crescita della società italiana.
A partire da questi princìpi, intendo oggi assumere, in questa sede istituzionale, i miei impegni politici e programmatici in materia di scuola, università e ricerca.
Innanzitutto, inizio con la scuola. Per troppo tempo, a mio parere, abbiamo continuato a considerare la scuola come una spesa, come un costo, anche oneroso, e non come un investimento nel capitale umano del Paese, cioè nel suo futuro. Ci siamo abituati a vedere gli insegnanti come dipendenti pubblici, spesso molto demotivati e sindacalizzati, e a perdere di vista l'orizzonte che fa dell'insegnante la persona a cui ogni mattina noi affidiamo l'istruzione e la formazione umana e culturale dei nostri figli, quindi a prestare, anche da genitori, attenzione soprattutto ai voti che i ragazzi portano a casa in pagella (un elemento importante a proposito di valutazione, ma non esclusivo), rinunciando a capire che cosa stanno imparando veramente, cioè quali sono, in realtà, il processo e il risultato del percorso di apprendimento.
Ci siamo anche convinti, qualche volta – chi è senza peccato, e fa il mio mestiere, scagli la prima pietra –, che quando gli studenti protestano, scioperano, occupano, lo fanno perché sono ragazzi, perché talvolta sono adolescenti o adolescenti non ancora cresciuti, perché sono svogliati e anche un po’ viziati. Abbiamo anche smesso di pensare che, più di noi, forse loro, ogni giorno che passa, si rendono conto della differenza che c’è – e che sta anche aumentando – tra la velocità con cui cambia il mondo esterno e quella con cui si muove e si evolve il mondo dell'istruzione.
Come voi, anch'io non so quanto tempo avrò a disposizione per lavorare in questo settore, in un «sistema Paese» che ha una sua stabilità di fondo ma è anche soggetto Pag. 6a movimenti di tipo tellurico. Certamente, servirebbero anni, duri anni di lavoro, ma io sono certa che fino all'ultimo giorno in cui ricoprirò questo incarico, con il vostro aiuto dovrò far sì che i miei princìpi programmatici, che spero possano diventare i nostri princìpi programmatici, si possano tradurre in linee concrete di azione, che siano fedeli rispetto a tali linee guida, per ottenere gli obiettivi che ho enunciato all'inizio della mia audizione.
Siamo partiti – ve l'ho già detto e forse l'avete letto anche sulle cronache quotidiane – dalla improrogabile necessità di risolvere alcune questioni emergenziali. Ne cito solo due che forse stanno a cuore anche ad alcuni colleghi onorevoli qui presenti. La prima riguarda i 24 mila lavoratori cosiddetti «lavoratori socialmente utili» impiegati nei servizi di pulizia delle scuole, per i quali, con il Ministro Giuliano Poletti abbiamo avviato e stiamo portando a buon esito, dopo l'incontro sindacale della settimana scorsa, un piano straordinario biennale di riqualificazione professionale e inserimento per il biennio nelle scuole e successivamente, attraverso le gare CONSIP e gli appalti che sono già stati assegnati, quindi attraverso le aziende che hanno vinto questi appalti, anche in altri settori – perché no ? – del pubblico impiego. Questo è un primo strumento di politiche del lavoro attive e anche di assegnazione di una qualifica professionale a lavoratori che spesso ne sono privi.
Nel Consiglio dei ministri di ieri pomeriggio, con un decreto specifico sul punto, abbiamo potuto risolvere l'emergenza di due regioni che restavano fuori da questo piano, per ragioni che richiederebbe tempo descrivere, la Campania e la Sicilia, su cui si concentra un'attenzione particolare doverosa.
Siamo anche partiti dal personale ATA, un'altra categoria a voi ben nota, risolvendo – almeno temporaneamente, ma forse anche definitivamente, grazie anche al contributo della 7a Commissione del Senato che ha lavorato in questo senso – l'annosa questione delle loro posizioni economiche, evitando che 15 mila lavoratori fossero costretti a restituire le somme già percepite nel corso dei precedenti anni scolastici, per mansioni aggiuntive già espletate.
Questi sono casi in cui sono state tamponate falle emergenziali costruitesi negli anni. Però siamo partiti anche da una visione strategica, prevedendo, in agenda, attenzione particolare ad un aspetto a voi ben noto; direi, per sintetizzare più efficacemente, che siamo partiti dai muri e dai tetti delle scuole. Questo semplicemente perché a scuola non ci si può far male, non si può compromettere la salute dei ragazzi e, in qualche caso, persino morire.
Ricordo un dato che è del 2012: vi sono 27 mila edifici scolastici, tre su quattro, che sono stati costruiti prima del 1980, quindi richiedono comunque una manutenzione attenta o la rivisitazione di alcuni criteri strutturali.
Più di 5 mila scuole sono ospitate in edifici addirittura costruiti, per esempio, per scopi molto diversi, come le caserme; si è attivato un processo anche virtuoso, in qualche caso, di assorbimento di queste strutture presso il Ministero dell'istruzione, però questo naturalmente richiede una attenta osservazione dei casi di vetustà manifesta, di cattivo stato di conservazione o di inadeguatezza strutturale. Non ci si muove, quindi, sull'onda dell'emotività, ma vi è una base di dati strutturali che hanno convinto il Governo che l'edilizia scolastica debba assolutamente essere una priorità per un Paese civile e avanzato.
Il primo atto che mi sono trovata a firmare da ministro è stata la proroga di due mesi – il provvedimento in questione scadrà a fine aprile – che consentirà a tutti i comuni e a tutte le province italiane – che avevamo inserito nella graduatoria dei quasi 700 vincitori – di potersi aggiudicare le gare e svolgere i lavori immediatamente cantierabili che erano già stati indicati precedentemente. Si tratta di 150 milioni di euro che si vanno ad aggiungere al piano relativo all'edilizia scolastica, che sarà gestito dall'unità di missione costituita presso la Presidenza del Consiglio.Pag. 7
In totale, si prevedono dagli 8 mila ai 10 mila interventi su tutto il territorio nazionale. Questo procedimento complesso sta funzionando. Ho l'auspicio, ma anche la convinzione, che riusciremo a cantierare e a consegnare le scuole entro l'inizio dell'anno scolastico, non solo perché stiamo individuando le risorse, ma anche perché le procedure di aggiudicazione, alle quali accennavo, sono state rapide. Questo è un altro principio di semplificazione adottato e realizzato con successo: la semplificazione delle regole, quindi, non è un esercizio di stile, ma una svolta politica e culturale, cui mi auguro si possa abituare non solo il mondo dell'istruzione, ma anche gran parte del settore pubblico del Paese.
Abbiamo cantieri aperti sul fronte della semplificazione e della razionalizzazione. Ne cito uno molto importante, vista la vostra attenzione specifica sul tema: l'anagrafe dell'edilizia scolastica: è un processo che è stato avviato e che stiamo velocemente completando, che ci permetterà di rilevare un censimento generale delle scuole. Terremo aperta una sorta di «cartella clinica» di tutti gli edifici, che potrà quindi essere in grado di registrare la loro vulnerabilità e i corrispondenti interventi di manutenzione sufficienti o necessari per risolverla.
Scuola vuol dire sicurezza sui luoghi di lavoro, come affermavo in precedenza, quando ho citato implicitamente alcuni drammatici casi di morte per mancanza di condizioni di sicurezza di base. Mi impegno fin d'ora a portare avanti speditamente il lavoro necessario perché sia data piena attuazione al decreto legislativo n. 81 del 2008 (che ha questa missione specifica), che è sospeso da diversi anni, declinandolo quindi sulle specifiche esigenze della scuola: si tratta infatti di un decreto che riguarda temi generali, che però può essere applicato utilmente anche al capitolo che ci interessa.
Di strumenti snelli e di semplificazione ritengo che ci sia bisogno ovunque, anche oltre la questione strutturale relativa ai muri ed ai tetti, di cui parlavo prima. Con riferimento, ad esempio, al tema della governance, si tratta di un tema molto delicato, dalla cui risoluzione o dalla cui evoluzione potrà dipendere effettivamente il grande cambiamento in termini di funzionalità dell'organico a livello nazionale, nonché degli organismi necessari a livello di intervento locale. A titolo di ulteriore esempio, cito la normativa scolastica nel suo complesso: l'ultimo testo unico, come sapete, risale al 1994; ormai sono passati vent'anni e da allora il corpus giuridico scolastico si è sedimentato in una sorta di geomorfologia inarrestabile, tanto che talvolta, per individuare una norma e la sua possibile applicazione, è necessaria un'esegesi testuale che impegna l'ufficio legislativo del MIUR per settimane. Anche solo sul piano interpretativo, questo diventa un ostacolo alla velocità.
Per questo motivo oggi mi impegno a lavorare – c’è però bisogno, doverosamente, anche del contributo del Parlamento, in particolare delle Commissioni cultura di Camera e Senato – all'elaborazione di un nuovo testo unico che semplifichi le regole, elimini le contraddizioni e riduca anche i numerosi errori commessi negli anni per ragioni di sedimentazione e non risoluzione della stratificazione all'origine.
Ritengo anche che sarebbe un errore di visione e di prospettiva se ci limitassimo a una esegesi testuale delle leggi e dei regolamenti, sia pure con l'intento molto nobile di semplificarne l'architettura e di migliorarne l'efficacia.
Vorrei invece entrare nel merito dei processi fondamentali che rappresentano l'essenza della scuola e dell'istruzione: insegnamento e apprendimento. Se la scuola funziona trasmette dottrina e metodo – lasciatemi usare queste parole che, seppure antiche, hanno ancora una funzione molto importante nella nostra visione per il futuro – alle nuove generazioni, perché ne facciano tesoro in termini di patrimonio di conoscenze acquisite e di capacità di trovare nuove soluzioni a nuovi e a vecchi problemi.
Questo processo molto antico, secolare e anche delicato, per alcuni aspetti, può e deve essere osservato, e talvolta corretto, Pag. 8se necessario, con procedure in itinere. Questo corso può e deve essere oggetto di valutazione dei risultati (concetto al quale accennavo prima come principio programmatico) e dei procedimenti adottati per ottenerli.
Il capitolo della valutazione è quindi, a mio avviso, il singolo capitolo che può decidere da solo se saremo in grado di dare al Paese una scuola moderna nella funzionalità e negli obiettivi e antica nella sua missione fondante, oppure se arriveremo alla fine di questa legislatura con una scuola che conserva le imperfezioni da cui siamo partiti.
Nel secolo scorso, in tutto il corso del Novecento, l'obiettivo è stato la scolarizzazione di massa. Credo che sia stato un obiettivo necessario in un Paese che in alcune zone aveva tassi di analfabetismo – cito a memoria dal bellissimo libro del mio collega, il maestro Tullio De Mauro – negli anni Sessanta, dell'85 per cento: il dato non ci scandalizza, ma deve darci la misura del «delta» di miglioramento.
Oggi, però, l'obiettivo deve essere una scuola di qualità per tutti. La valutazione, cioè quel procedimento che permette di controllare, misurare e certificare la qualità dell'attività didattica (in altro campo, come dirò poi, scientifica), diventa decisiva per fondare la scuola italiana di questo secolo.
La valutazione è entrata nella cultura e nella prassi scolastica ormai da alcuni anni. Nell'ultimo decennio siamo riusciti a introdurre, per quanto con molta fatica, i testi INVALSI, di cui credo alcuni di voi siano abbastanza esperti, a effettuare rilevamenti sull'apprendimento o a garantire la nostra partecipazione alle grandi rassegne internazionali valutative (avete in mente, credo, soprattutto OCSE-PISA, che non ha dato risultati brillanti per il sistema educativo italiano).
Sono tuttavia legittimamente attesi progressi significativi nei singoli settori: dobbiamo porci come obiettivo congiunto la valutazione delle scuole, dei presidi (o dirigenti scolastici, se preferite) e dei docenti. Dobbiamo consolidare e valorizzare il sistema di misurazione degli apprendimenti, tramite le prove INVALSI, promuovendo un maggiore coinvolgimento delle scuole in questo processo, cosa che per ora, per vari motivi, non è avvenuta.
Abbiamo intenzione di lavorare con le singole scuole, analizzando i loro assetti organizzativi e la qualità dei servizi che esse sono in grado di erogare, promuovendo in questo modo un ciclo di auto-valutazione locale, che è la base del processo valutativo finale, per il miglioramento e per la verifica dei risultati.
Analogamente, intendiamo aiutare le scuole che si trovano ad affrontare situazioni critiche (ce ne sono per varie motivazioni, anche di contesto territoriale), nella piena consapevolezza che non potremo più fare a meno di un sistema trasparente e traducibile in altri contesti, dove i risultati relativi al miglioramento della didattica e della formazione siano comparabili sia nel Paese, tra scuola e scuola, sia all'esterno, tra il nostro Paese e gli altri sistemi internazionali.
Dopo più di un decennio è stato emanato uno specifico regolamento, il n. 80 del 2013: l'applicazione sistematica di questo regolamento in tutte le scuole, a partire dal settembre 2014 – quindi dall'anno scolastico 2014/2015 –, è un impegno politico che assumo in questa sede.
La questione della valutazione e della valorizzazione delle persone è poi legata anche a quella dei contratti, un altro punto molto importante e molto qualificante: un punto delicato, ma che deve essere affrontato, a mio parere, a viso aperto.
Dovremo iniziare presto la discussione sul contratto degli insegnanti. Anche questo è un impegno che mi sento di assumere; forse è quello più rilevante, di una politica sulla scuola che un Governo come questo deve poter affrontare.
Per una volta mi piacerebbe che i temi da cui partire fossero il valore della formazione; la valorizzazione della figura che maggiormente contribuisce all'autonomia di questo processo, cioè l'insegnante; la carriera professionale, per arrivare, alla Pag. 9fine di questo iter, ad una visione concreta in cui la retribuzione degli insegnanti non sia basata solo sull'anzianità.
Ci tengo a rettificare una mia affermazione, che è stata equivocata. Mi è stato chiesto – forse anche con malizia, che talvolta è doverosa da parte di chi svolge il mestiere del giornalista – se fossi contraria agli scatti di anzianità. Sarebbe una follia pensarlo, visto che questo è l'unico strumento che consente a chi svolge il mestiere dell'insegnante di avere un aggiornamento nel tempo di modestissimi stipendi.
Mi sento però di dire che, in un sistema ispirato a criteri di qualità, questo non può e non deve rimanere l'unico strumento. Il meccanismo della valutazione – che porta a un contratto che prevede criteri premiali di stipendio – deve mantenersi e irrobustirsi, rispetto al procedimento molto semplice che permette – lo dico ancora una volta con un linguaggio «crudo» – di migliorare solo invecchiando. Può andar bene, certo, perché ognuno di noi, andando avanti nella carriera, se non fa troppi errori, accumula esperienza che deve essere valorizzata; ma permettetemi di dire che quello, se è l'unico metro utilizzato, non serve a valorizzare la qualità della didattica.
Vorrei anche affrontare un altro punto «scabroso», che però fa parte dello stesso «pacchetto», quello relativo alle modalità di reclutamento degli insegnanti stessi. I due punti non possono essere disgiunti. Vorrei valutare insieme al Parlamento, quindi principalmente insieme a voi, onorevoli colleghi, una modifica dello status giuridico che oggi prevede, come sapete, un meccanismo «infernale» – lo dico senza pudori –, di diastole e sistole: un periodo caratterizzato da «mega-concorsi» ed uno caratterizzato invece dal blocco dei concorsi, con conseguente accumulo di sacche di precariato, che hanno caratterizzato, unico caso nel mondo avanzato, il nostro sistema scolastico.
Per la selezione degli insegnanti e anche dei dirigenti scolastici servono probabilmente nuove regole. Vi enuncio alcuni princìpi: non vi illustro il risultato di un pensiero e di un'azione, ma l'inizio di un processo da avviare. Su questo fronte, credo che si possa e si debba applicare il principio di autonomia e il principio di valutazione delle risorse con un'allocazione che non sia on demand, anno per anno, ma di medio termine, come la base per poter arrivare a un reclutamento più snello e semplificato.
In questo primo mese da Ministro dell'istruzione, è stato portato alla mia attenzione, tra gli altri, un caso che fa da paradigma negativo in ordine al modo in cui funzionano le cose oggi. Esso ha mostrato tutti i limiti del meccanismo vigente in tema di reclutamento. È un caso anche a voi molto noto: la situazione incresciosa che riguarda i presidi toscani, laddove il concorso che li ha portati a vincere il posto di dirigenti è stato in parte, non in toto, annullato da una sentenza di ultimo grado del Consiglio di Stato.
Non voglio entrare nel dettaglio, signor presidente, per non consumare minuti preziosi per voi, ma è interessante cercare di costruire la possibile strada nella cultura emergenziale del momento. Lo strumento a disposizione era ed è stato adottato nel medesimo decreto che abbiamo approvato ieri in Consiglio dei ministri e prevede di consentire a questi dirigenti di restare in servizio per tutto l'anno scolastico: il prezzo «amaro», sia per gli individui che per la «specie», sarebbe stato doverli rimuovere immediatamente, pena l'invalidità degli atti che avrebbero firmato. Potete immaginare lo stato di caos in cui sarebbero precipitate oltre quattrocento scuole.
Dall'altra parte, ho subito scritto all'Avvocatura dello Stato perché, essendo il nostro difensore d'ufficio, si facesse relatrice presso il Consiglio di Stato di una chiarificazione. Qui è davvero necessaria un'esegesi: se si afferma che la prova è invalidata, mi adopero affinché sia di nuovo espletata. Se, invece, si afferma che la prova è invalidata per i capitoli A e B, ma non per il capitolo C, devo avere strumenti precisi per poter effettuare un concorso che salvi quanto è stato fatto bene e modifichi quanto è stato fatto male. Pag. 10Questa è la procedura che abbiamo seguito fino a oggi. Ho però il dovere di mettere in evidenza, con quell'onestà intellettuale che credo dovremmo recuperare tutti, che il Consiglio di Stato è un organo che non deve entrare nel merito di una valutazione concorsuale. È un tema di fondo, che bisogna avere il coraggio di sollevare non con riferimento specifico a questa sentenza – absit iniuria verbis –, ma nella dinamica generale, perché potrei citare altri casi simili, per il passato, per il presente e anche per il futuro imminente.
Per descrivere il clima, che voi ben conoscete, in cui ci troviamo a operare, vi dico che ci troviamo a un bivio tra soccombere all'emergenza o cercare di programmare. «Avvitarci» in questa contingenza quotidiana diventa una rinuncia a fare programmazione strutturale, per procedere invece con il meccanismo della risoluzione specifica. Io mi sto orientando al secondo obiettivo, ma c’è bisogno di un forte consenso politico sulla volontà di andare in questa direzione.
Oltre ai «difetti di fabbrica» del sistema di reclutamento che ho cercato di evidenziare, il nodo più importante su questo specifico punto ha a che fare con la soluzione del problema del precariato. Come sapete, si tratta di una questione molto rilevante sul piano quantitativo, ma io mi permetto di dire che talvolta è anche drammatico sul piano qualitativo, sia per gli individui sia per i contesti familiari che esso coinvolge. Credo, quindi, che non lo si possa ignorare nella speranza che scompaia, come talvolta succede per situazioni che sono lì da vent'anni e per le quali si aspetta che succeda qualcosa.
Vi fornisco i dati precisi, perché le stesure giornalistiche li hanno un po’ ritoccati, come spesso avviene, forse anche per mie imperfezioni nella comunicazione. In realtà, i precari della scuola non sono mezzo milione: i precari – che noi e voi definiamo come «precariato storico» – sono poco meno di 170.000 e sono inseriti nelle cosiddette graduatorie a esaurimento di prima, seconda, terza e quarta fascia aggiuntiva. Verosimilmente, grazie a un turn over molto lento e legato ai procedimenti pensionistici, costoro sarebbero immessi in ruolo nel corso dei prossimi dieci anni. Tenendo conto che in alcuni casi hanno un'età sicuramente superiore ai quarant'anni e talvolta anche superiore ai cinquanta, queste persone hanno un orizzonte decennale in questa condizione.
Più di 460.000 sono, invece, i precari inseriti nelle graduatorie di istituto. Tra questi vi sono anche quelle figure non necessariamente in corsa per un posto nella scuola, che entrano comunque nella graduatoria di istituto. In più, ci sono i 10.000 abilitati al tirocinio formativo attivo, il TFA, ordinario e speciale; i 70.000 che hanno maturato i titoli di servizio utili all'abilitazione tramite i percorsi abilitanti speciali (PAS), che rappresentano la seconda categoria; i 55.000 diplomati magistrali e i 40.000 idonei di vecchi concorsi. La somma di tutte queste tipologie dà quel numero eclatante che ho citato prima.
Affrontare questo tema, onorevoli colleghi, significa a mio parere darsi un obiettivo politico molto preciso. Da un lato, serve un riassorbimento che non segua la filosofia di questo decennio, perché significherebbe condannare più di una generazione a una condizione anomala. Nello stesso tempo, non bisogna rinunciare a un reclutamento fisiologico e in tempo reale, che consenta a chi si diploma o si laurea di accedere all'insegnamento: non è questione banale.
A livello generale, noi stiamo pensando a un piano necessariamente di medio termine, passando da dieci a tre – primo slot – e a cinque anni, che serva a reintegrare i precari e a inserirli all'interno dei cosiddetti organici funzionali – in quanto addetti ai lavori sappiamo di cosa stiamo parlando –, e che, grazie a tale inserimento, permetta ai dirigenti scolastici di avere una migliore gestione del pacchetto delle supplenze temporanee e un aumento dell'offerta formativa.
L'organico funzionale, in altre parole, deve servire ad affrontare il tema del sostegno e dell'integrazione e ad assicurare la continuità didattica e la formazione specifica per le diverse abilità, deve diventare Pag. 11parte costitutiva dell'organico della scuola e non deve essere soggetto, quindi, alla temporaneità e alla discontinuità delle supplenze, come accade oggi: in tal modo si sottrae alla condizione anomala del precariato una parte consistente dei docenti inseriti nelle graduatorie storiche.
Questo si traduce nella creazione di un gruppo professionale qualificato che operi in una rete di scuole – come patrimonio non di una scuola, quindi, ma di una rete di scuole, che può essere anche immaginata come un consorzio territoriale – e che si occupi dalla formazione dei docenti all'integrazione degli alunni disabili, senza che questo determini un mero aumento quantitativo delle ore di sostegno nell'anno.
Sono perfettamente consapevole che percorrere questa strada comporta un impegno finanziario molto preciso. Questa operazione non si fa solamente con la volontà e con la giusta chiarezza programmatica: è necessario un finanziamento che copra le spese, peraltro compensate, come vi dimostro subito, da risparmi in un altro settore. È un impegno politico che deve essere chiesto al Governo di cui faccio parte e sarà mio compito portare sul tavolo del Consiglio dei ministri questo punto.
Vi è poi un elemento interessante, che stiamo scoprendo attraverso una due diligence sui costi sostenuti dalla scuola per le supplenze brevi e per l'integrazione degli alunni disabili. Si tratta di un capitolo che ha autonomia di bilancio e che presenta costi davvero molto significativi. Il recupero di questi costi, in aggiunta a un impegno finanziario ex novo, può diventare il pacchetto concreto per avviare il programma di reintegro e inserimento dei precari nel medio termine.
Affinché tutto questo avvenga, occorre recuperare anche l'articolo 50 del decreto-legge n. 5 del 2012, convertito con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, che istituiva il cosiddetto organico dell'autonomia: norma rimasta inattuata, per mancanza, da un lato, delle risorse necessarie e, dall'altro, di un quadro funzionale ove collocare tale organico.
Nel breve periodo, la necessità è quella di assicurare ai nostri alunni una nuova generazione di insegnanti. Come ho detto, è il secondo obiettivo rispetto al riassorbimento del precariato storico. Ribadisco qui quanto ho affermato al Senato e cioè che avvieremo una tornata del tirocinio formativo attivo: se vi fosse discontinuità, penalizzeremmo una generazione per il prossimo anno accademico.
Credo anche doveroso che questo modello del TFA possa essere ricondotto a un principio sacrosanto: l'abilitazione si ottiene dopo aver dimostrato in aula di avere la preparazione e l'attitudine all'insegnamento, due elementi distinti nel processo didattico. A tale riguardo, per il futuro vi propongo un modello più semplice, ossia l'inserimento, direttamente nel percorso della laurea magistrale, come avviene in molti Paesi europei, di un periodo di tirocinio, con cui poter ottenere, al momento della laurea e dopo un esame parallelo alla discussione della tesi, anche l'abilitazione. Si tratta di una sorta di anticipazione di un TFA esterno al percorso di apprendimento nell'università, sicuramente maggiormente efficace.
Con riferimento alla materia linguistica, di cui ho esperienza, chi ha la possibilità di sperimentare in aula la procedura glottodidattica mentre sta ancora studiando, ha un matching virtuoso nella possibilità di diventare insegnante di lingua straniera, con risultati acquisizionali migliori. Questo principio si estende anche alle altre discipline, il che significa accordarsi con le università. Le università non ci rimetterebbero, ma dovrebbero modificare parte del processo di ordinamento didattico.
Programmare nella scuola, oltre a quello di cui ho già parlato, significa – è un tema anch'esso antico – disporre di risorse certe e non solo adeguate allo scopo. Un punto politico che è già emerso nel corso di queste prime settimane è il reintegro dei fondi destinati al miglioramento dell'offerta formativa. Il Fondo per il miglioramento dell'offerta formativa (MOF), anche recentemente, è stato decurtato di una quota significativa per poter Pag. 12far fronte agli scatti stipendiali, come affermavo in precedenza. Per evitare di tirare da una parte e poi dall'altra una coperta stretta, occorre chiarezza in ordine al fatto che questo fondo venga ripristinato: ne ho già fatto menzione in un altro intervento al Senato della Repubblica e lo ribadisco qui. Vi ricordo che la capienza del fondo, nel 2011, era pari a un miliardo e 500 milioni di euro, mentre oggi è di circa 500 milioni di euro, arrotondando per eccesso con un briciolo di ottimismo: è stato quindi ridotto del terzo.
Credo che la disponibilità di risorse sia un elemento essenziale. Un altro principio che ritengo prioritario è quello relativo alla certezza e alla tempistica degli stanziamenti. Questo vale in massima misura per l'università, ma vale anche per un sistema scolastico che dia alle scuole e ai dirigenti scolastici maggiore autonomia e responsabilità nella gestione del budget.
Occorre quindi prevedere l'assegnazione di stanziamenti certi, già all'inizio dell'anno scolastico, in un budget unitario, che non abbia vincoli di spesa, se non quelli regolamentati dalla normativa in vigore e quelli fissati – questo è il punto qualificante – dalla scuola e finalizzati all'applicazione del MOF. Il budget deve essere certo, deve essere assegnato nel momento giusto e deve però anche implicare il raggiungimento di obiettivi.
Autonomia scolastica è un'altra parola d'ordine: significa riconoscere agli istituti e alle scuole spazi di flessibilità, come peraltro previsto dall'autonomia e dai nuovi ordinamenti. Significa anche trasferire il budget orario previsto per il personale, favorendo l'utilizzo condiviso di risorse strumentali e umane tra reti di scuole.
Un esempio molto concreto, che mi sta molto a cuore, è quello dell'apprendimento delle lingue straniere. Oggi stiamo sperimentando il modello CLIL (Content and Language Integrated Learning), che forse conoscete: si tratta dell'insegnamento della lingua straniera non come oggetto di studio, ma come veicolo di altri contenuti. Tale tipologia di apprendimento è utilizzata molto utilmente in Lombardia, per esempio, e deve essere estesa, non cominciando, però, dalle classi già avanzate della scuola secondaria: occorre che ne sia anticipato l'utilizzo almeno alla scuola primaria, perché, come è stato scientificamente verificato in tutto il mondo, cominciare ad apprendere una lingua straniera oltre l'età puberale riduce le capacità e le potenzialità cognitive necessarie per acquisire un bilinguismo secondario alla fine del processo.
Programmazione vuol dire avere le risorse per investire anche sui più piccoli. So di toccare un tema di pertinenza parziale del Ministero, che ha già molte competenze da gestire. Non ho alcuna intenzione di ampliare questo dominio, ma superare l'inaccettabile disparità oggi esistente tra le diverse aree del Paese nell'offerta per tutta la fascia dell'infanzia deve essere un obiettivo condiviso con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con tutto ciò che questo comporta.
A livello di princìpi chiave, il diritto educativo delle bambine e dei bambini deve sostituire il servizio a domanda individuale. I comuni non possono essere lasciati soli, perché non possono perseguire da soli tale obiettivo e forse non lo sanno nemmeno fare, come è naturale nella divisione dei compiti in un mondo avanzato. Il principio di sussidiarietà deve essere pienamente applicato, cercando di sostenere una sintonia e una sinergia tra il sistema pubblico, quello privato e gli enti locali, anche attraverso l'incentivazione dei meccanismi delle convenzioni, che in alcune aree del Paese danno risultati eccellenti. Tutti gli studi dimostrano che la dispersione si combatte – sembra quasi impossibile crederlo – a partire dalla scuola dell'infanzia o addirittura dall'asilo nido.
È evidente che questo tipo di programmazione comporta anche il monitoraggio di tutte le decisioni che sono state assunte, ma non sono state ancora realizzate. All'inizio dell'audizione, infatti, mi riferivo all'importanza del principio programmatico. Penso, per esempio, a un provvedimento importante, contenuto nel decreto-legge n. 10 del 2013 («L'istruzione riparte»), che ha rappresentato la prima Pag. 13inversione di tendenza in termini di investimento nell'istruzione. Esso prevede una serie di decreti ministeriali attuativi, che in parte non sono stati ancora emanati. Ho attivato subito un'azione di monitoraggio di tale applicazione e vorrei assumere un impegno che possa assicurarne una celere attuazione nelle scuole italiane.
Mi avvio a concludere questo capitolo trattando un ultimo aspetto, quello dell'apertura del sistema. Ho parlato di «internazionalizzazione» nella sua veste più ampia, ma nel caso della scuola «apertura» forse è un termine più adeguato. Un sistema scolastico e dell'istruzione aperto significa, a mio avviso, saper rispondere alle esigenze degli studenti e contrastare soprattutto il drammatico fenomeno italiano della dispersione scolastica, che dati recenti pongono oltre il 18 per cento: un dato veramente allarmante. Gli strumenti sono quelli a voi noti, che dovremmo cercare di mettere a sistema. Mi riferisco all'apertura oltre l'orario delle lezioni e allo sviluppo di progetti e programmi dedicati, anche nell'interazione con il territorio, che rappresenta un altro punto molto importante di possibile sintonia.
Scuola aperta significa anche vicinanza a un tema sempre più forte – i dati, ahimè, sono allarmanti –, quello della disabilità. Il dato numerico relativo ai piccoli disabili è in aumento costante. Bisogna tenere conto che nella cifra complessiva confluiscono talvolta anche gli esiti di una parte delle certificazioni eseguite sui bambini stranieri. È chiaro che talvolta, in totale buonafede, la diagnostica può non essere precisa, per via dei fattori linguistici e culturali. Bisogna monitorare bene la situazione affinché il dato sia corretto alla fonte.
Al di là di questo aspetto, il dato relativo alla disabilità fisica e psicomotoria è purtroppo molto alto. Questo significa intervenire a sostegno delle scuole, anche con la presenza negli ospedali e nelle case dei ragazzi malati o disabili, per contrastare quell'abbandono scolastico che la malattia e l'ospedalizzazione talvolta producono come effetto ultimo.
Apertura significa anche svolgere, all'interno degli edifici scolastici, attività rivolte non solo agli studenti, ma alla cittadinanza. Penso a un capitolo a me caro, anche per la mia storia personale, cioè quello dei corsi di alfabetizzazione e insegnamento linguistico e culturale per le comunità immigrate. È un'attività educativa, ma è anche un'attività integrativa a tutto tondo. Sono esperienze che esistono e che bisogna valorizzare e generalizzare, perché credo rappresentino un elemento fondamentale di supporto, tanto alle famiglie quanto a un modello di società integrata. Nei piccoli centri, talvolta, questo modello già esiste: se messo a sistema, è possibile immaginarlo con efficacia anche nei grandi centri.
Infine, apertura significa vedere la diversità come una ricchezza. Ribadisco, con maggiore enfasi, anche riguardo al contesto dei bambini quanto affermavo prima relativamente al contesto degli adulti. Come sapete, la scuola italiana ha un tasso di presenza di alunni stranieri molto elevato, superiore al 10 per cento e oltre in alcune zone. Al centro dell'agenda scolastica deve perciò essere posto il tema dell'integrazione linguistica e culturale. Questa non può essere lasciata alla buona volontà o all'improvvisazione, ma deve essere strumento efficace di una didattica che ha le sue regole, le sue potenzialità e i suoi risultati attesi.
Ci sono altri capitoli che il MIUR sta già sviluppando e potenziando in questi giorni. Uno di essi riguarda la diffusione della cultura della legalità e del rispetto delle regole. Si tratta di un tema che viene posto in evidenza in una data simbolica, il 23 maggio, giorno della partenza da Civitavecchia e Napoli della nave della legalità che arriva fino a Palermo.
Tornando ai temi curricolari, credo non si possa rinunciare ad affrontare un altro capitolo molto delicato e sensibile, quello dell'alfabetizzazione motoria e sportiva nella scuola primaria. So che alcuni di voi, per storia personale e per conoscenza diretta di questo settore, sono molto sensibili al tema. Ebbene, mi permetto di fornirvi un dato allarmante: il 10 Pag. 14per cento dei bambini italiani risulta obeso. Non si parla di sovrappeso, che sarebbe già un fattore da correggere nell'ambito dell'educazione alimentare, ma di obesità: si tratta di parametri allarmanti, in una cultura, come quella italiana, che ha fatto della salute e dell'educazione al cibo un tratto distintivo della propria storia, non solo nella modernità.
Su questo aspetto, forse avete avuto modo di sapere che abbiamo iniziato una collaborazione molto stretta con Expo, la cui agenda è incentrata sul cibo, tema che secondo me deve essere trasferito anche nelle scuole e nelle classi. Credo che fare dell'anno scolastico 2014/2015 l'anno dell'educazione alimentare, attraverso vari strumenti che sono già stati pensati, possa diventare un punto di partenza per continuare su questa strada.
Oltre alla dottrina e al metodo, che sono patrimonio antico, a mio parere, da valorizzare e potenziare, apertura richiede anche utilizzo di quella struttura digitale che la scuola di un Paese avanzato deve possedere. Si tratta di infrastrutture per la connettività, a partire dal Wi-Fi interno agli istituti, presente oggi in un raggio sostanzialmente modesto, ma anche della maturazione, sia nel contesto didattico sia nell'apprendimento da parte degli alunni, di metodologie e linguaggi ancora non molto diffusi.
Per formazione personale non vedo nell'iPad e nel libro elettronico sostituti della carta, perché si è passati da un antico stadio di oralità a un lunghissimo periodo di cultura del libro, per ritornare adesso a una nuova forma di oralità. Quella che viviamo oggi, attraverso gli strumenti dell'informatica, è in sostanza un'infrazione del principio di sequenzialità che il testo impone. Penso che una scuola moderna debba affiancare queste due dimensioni dell'apprendimento, senza scardinarne una a vantaggio dell'altra, il che produrrebbe una perdita irrecuperabile. In momenti cruciali della sua storia, l'Occidente ci è riuscito e credo che dovremmo porci questo obiettivo anche noi.
Per concludere, il tema del rapporto tra la scuola e il futuro lavorativo degli studenti è un capitolo di cui tornerò a parlare a proposito di università. Lo riassumo in qualche punto specifico: la sinergia scuola-lavoro aveva già una propria storia nel sistema italiano dell'istruzione, ma è rimasta indietro, anche in questo caso, credo, non soltanto per trascuratezza politica, ma perché non si è riusciti a dare continuità al sistema.
L'alternanza, durante gli anni terminali del percorso scolastico secondario, tra stage e insegnamento in aula, soprattutto nella formazione tecnica e professionale, è un principio semplice da applicare, perché le imprese sono pronte a fare questo passo, così come è pronta la scuola. Il capitolo della formazione tecnica è stato sviluppato solo in un segmento importantissimo, come dirò nel corso della prossima audizione, cioè quello degli istituti tecnici superiori, che, come ben sapete, riproducono modelli europei di grande successo quali le Fachoberschule in Germania e i Bureaux d’études techniques in Francia, che rappresentano la scelta professionale dopo il diploma. È molto importante potenziare questa possibilità, perché offre agli studenti che non necessariamente si sentono vocati per una preparazione teorica uno sbocco professionale non di «serie B», ma di grande impatto sul mondo del lavoro. Se però si comincia, dalle scuole professionali e dagli istituti tecnici, a collegare il mondo del lavoro all'istruzione in classe, questa scelta diventa minoritaria. Dobbiamo pertanto poter iniziare prima tale processo di orientamento.
A questo riguardo, abbiamo avviato con ENEL un progetto che coinvolge circa un migliaio di studenti che trascorreranno il 35 per cento dell'ultimo anno scolastico in stage presso le aziende. Se riuscissimo a riprodurre questo modello anche con piccole e medie imprese, laddove è possibile la ricezione, credo che potremmo andare nella direzione giusta.
Un modello di scuola e di istruzione più semplice, programmabile, valutabile e aperta al contesto e al resto del mondo è un obiettivo doveroso, più che avanzato. Penso però che a questo si debba aggiungere Pag. 15un tratto di tipo più politico e culturale, cioè un ruolo, inclusivo per quantità e competitivo per qualità, dell'istruzione, sia nella fascia di cui stiamo parlando sia nella fascia universitaria.
A tale riguardo, io mi sono già espressa. Credo che l'articolo 2 del protocollo addizionale della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, da cui deriva la piena affermazione della libertà di scelta educativa da parte degli alunni e delle famiglie, nel nostro Paese non sia ancora attuato. La legge n. 62 del 2000 sulla parità, cosiddetta «legge Berlinguer», prevede questo modello integrato, che non significa pubblico versus privato. Il sistema privato in Italia non esiste: esiste la scuola statale e paritaria ed esiste l'università statale e non statale. Ciascuno dovrebbe avere la sua funzione per riuscire ad avere un modello inclusivo, cooperativo e competitivo alla fine del percorso. È un punto che fa da sfondo a tutte le considerazioni che ho fatto.
PRESIDENTE. Grazie, Ministro Giannini. Rinvio il seguito dell'audizione ad altra seduta.
La seduta termina alle 15.10.