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XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro

Resoconto stenografico



Seduta n. 6 di Martedì 11 novembre 2014

INDICE

Comunicazioni del presidente:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3 

Sulla pubblicità dei lavori:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3 

Variazione nella composizione della Commissione:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3 

Audizione del senatore Giovanni Pellegrino:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 4 
Pellegrino Giovanni  ... 5 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12 
Pellegrino Giovanni  ... 12 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12 
Pellegrino Giovanni  ... 12 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 13 
Pellegrino Giovanni  ... 13 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 13 
Pellegrino Giovanni  ... 13 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 13 
Pellegrino Giovanni  ... 13 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 13 
Pellegrino Giovanni  ... 13 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 14 
Pellegrino Giovanni  ... 14 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 15 
Pellegrino Giovanni  ... 15 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 16 
Pellegrino Giovanni  ... 16 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 16 
Pellegrino Giovanni  ... 16 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 17 
Pellegrino Giovanni  ... 17 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 17 
Pellegrino Giovanni  ... 17 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 17 
Grassi Gero (PD)  ... 17 
Pellegrino Giovanni  ... 18 
Grassi Gero (PD)  ... 18 
Pellegrino Giovanni  ... 18 
Grassi Gero (PD)  ... 18 
Pellegrino Giovanni  ... 18 
Grassi Gero (PD)  ... 19 
Pellegrino Giovanni  ... 19 
Grassi Gero (PD)  ... 19 
Pellegrino Giovanni  ... 19 
Grassi Gero (PD)  ... 19 
Pellegrino Giovanni  ... 19 
Grassi Gero (PD)  ... 19 
Pellegrino Giovanni  ... 19 
Grassi Gero (PD)  ... 20 
Pellegrino Giovanni  ... 20 
Grassi Gero (PD)  ... 20 
Pellegrino Giovanni  ... 20 
Grassi Gero (PD)  ... 20 
Pellegrino Giovanni  ... 20 
Corsini Paolo  ... 20 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 21 
Corsini Paolo  ... 21 
Grassi Gero (PD)  ... 21 
Corsini Paolo  ... 21 
Pellegrino Giovanni  ... 21 
Corsini Paolo  ... 21 
Pellegrino Giovanni  ... 22 
Corsini Paolo  ... 22 
Pellegrino Giovanni  ... 22 
Corsini Paolo  ... 22 
Pellegrino Giovanni  ... 22 
Caliendo Giacomo  ... 22 
Fornaro Federico  ... 23 
Pellegrino Giovanni  ... 23 
Fornaro Federico  ... 23 
Caliendo Giacomo  ... 23 
Pellegrino Giovanni  ... 23 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 23 
Pellegrino Giovanni  ... 23 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 23 
Pellegrino Giovanni  ... 23 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 24 
Pellegrino Giovanni  ... 24 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 24 
Pellegrino Giovanni  ... 24 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 24 
Pellegrino Giovanni  ... 24 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 24 
Pellegrino Giovanni  ... 24 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 24 
Pellegrino Giovanni  ... 24 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 24 
Pellegrino Giovanni  ... 24 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 25 
Pellegrino Giovanni  ... 25 
Corsini Paolo  ... 25 
Pellegrino Giovanni  ... 25 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 26 
Pellegrino Giovanni  ... 26 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 26 
Pellegrino Giovanni  ... 26 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 26 
Pellegrino Giovanni  ... 26 
Bolognesi Paolo (PD)  ... 27 
Pellegrino Giovanni  ... 27 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 27

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIUSEPPE FIORONI

  La seduta comincia alle 20.20.

Comunicazioni del presidente.

  PRESIDENTE. Comunico che l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, nella riunione del 4 novembre scorso, ha convenuto di richiedere all'Autorità delegata e al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica la documentazione concernente il cosiddetto «lodo Moro» e il segreto di Stato sul caso dei due giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo, scomparsi in Libano il 2 settembre 1980.
  Nella medesima riunione si è, inoltre, concordato di svolgere, al termine del ciclo di audizioni già programmato, ulteriori attività conoscitive, anche in relazione alle tematiche sopra ricordate.
  Sempre nella riunione del 4 novembre, si è convenuto di richiedere al Consiglio superiore della magistratura di autorizzare la collaborazione con incarico a tempo parziale e non retribuito di almeno tre magistrati, da individuarsi da parte del Comitato di presidenza dello stesso Consiglio.
  Comunico altresì che, nell'odierna riunione l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha convenuto sull'opportunità che la Commissione si avvalga, quale «ufficiale di collegamento» con le competenti strutture della Polizia di Stato, della collaborazione, a tempo pieno e a titolo gratuito, del Primo dirigente Laura Tintinsona, che è stata designata dal Capo della Polizia con nota pervenuta il 6 novembre scorso.
  Comunico inoltre che, su conforme avviso dell'Ufficio di presidenza, domani alle ore 14.15 la Commissione procederà all'audizione del procuratore generale presso la Corte d'appello di Roma, Luigi Ciampoli, che riferirà sugli esiti delle indagini condotte in merito all'ipotizzata presenza di appartenenti ai servizi di intelligence in via Fani il giorno della strage.
  Segnalo, infine, che con nota pervenuta alla segreteria della Commissione il 6 novembre scorso, l'Archivio storico del Senato ha trasmesso un DVD contenente copia digitale di una prima parte dei documenti richiesti dalla Commissione con riferimento all'archivio della cessata Commissione parlamentare d'inchiesta concernente il «dossier Mitrokhin» e l'attività di intelligence italiana.
  Si tratta, per la precisione, dei documenti liberamente consultabili, dei quali – ai sensi dell'articolo 3 della deliberazione sul regime di divulgazione degli atti e dei documenti – è consentita la consultazione e l'estrazione di copia previa richiesta scritta.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori sarà assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.

Variazione nella composizione della Commissione.

  PRESIDENTE. Comunico che in data 6 novembre 2014 la Presidente della Camera ha chiamato a far parte della Commissione il deputato Paolo Bolognesi, in sostituzione del deputato Pier Luigi Bersani, dimissionario, che ringraziamo per il contributo dato fino a oggi.Pag. 4
  A nome della Commissione rivolgo al collega Bolognesi un saluto di benvenuto e l'augurio di buon lavoro.

Audizione del senatore Giovanni Pellegrino.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del senatore Giovanni Pellegrino, che ringraziamo per la cortese disponibilità con cui ha accolto l'invito ad intervenire questa sera in Commissione.
  Il senatore Pellegrino, come è noto, è stato per due legislature – la XII e la XIII – presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, che venne istituita per la prima volta nella X legislatura. Durante la sua presidenza, la Commissione ha avuto modo di affrontare i fenomeni del terrorismo e dello stragismo nel nostro Paese da diverse prospettive, avvalendosi anche del patrimonio di documentazione e analisi acquisito dalla precedente omologa Commissione presieduta dal senatore Libero Gualtieri.
  Nell'ambito della sua attività la Commissione stragi ha dedicato uno specifico filone di inchiesta al caso Moro. A tal fine, nella X legislatura venne costituito un apposito gruppo di lavoro che condusse alla redazione e all'approvazione, al termine della legislatura, di un'ampia relazione presentata il 22 aprile 1992. Nella XI legislatura la Commissione riprese l'inchiesta, cui dedicò un'ampia parte nel documento del 28 febbraio 1994.
  Interessanti indicazioni concernenti in particolare la sede fiorentina del comitato esecutivo delle Brigate Rosse nei cinquantacinque giorni del sequestro Moro, tema sul quale come ricorderete si è soffermato anche l'onorevole Gerardo Bianco nella sua audizione della scorsa settimana, sono contenute nella relazione che la Commissione dedicò, nel corso della XIII legislatura, all'omicidio D'Antona.
  Lo stesso senatore Pellegrino fu presentatore, nel settembre del 2000, di una relazione – che non giunse all'approvazione da parte della Commissione – nella quale, all'esito di un analitico esame delle nuove risultanze nelle inchieste giudiziarie e parlamentari condotte sul caso, si affermava: «Permangono nella ricostruzione dell'agguato di via Fani, della prigionia di Moro e del suo omicidio numerose zone di opacità suscettibili in futuro di chiarimento».
  Considerato che è compito di questa Commissione tentare di fare finalmente chiarezza proprio su queste zone di opacità, sono evidentemente molteplici i profili sui quali l'audizione del senatore Pellegrino potrà fornirci utili spunti di riflessione, non solo con riferimento ai filoni di indagine che sono stati già approfonditi dalla Commissione stragi, ma anche e soprattutto con riferimento agli ulteriori filoni ancora da esplorare.
  Faccio presente al senatore Pellegrino – che lo sa bene – che nel corso della sua audizione, se lo riterrà necessario, i lavori potranno proseguire anche in seduta segreta.
  In più, per un ordinato svolgimento dei lavori, avviso che per non abusare della cortese disponibilità del senatore Pellegrino l'audizione, ove non conclusa entro le 22.30, proseguirà martedì 18 alle ore 13.30.
  Ricordo, infine, a tutti i componenti la necessità di evitare interventi a microfono spento che non verrebbero registrati e non sarebbero pertanto riportati integralmente nel resoconto della seduta.
  Prima di lasciare la parola al senatore Giovanni Pellegrino, vorrei entrare in argomento leggendo una considerazione di Giovanni Moro, espressa nella seduta della Commissione stragi del 9 marzo del 1999, a pagina 2137: «L'impressione, che rimane tale, che non fosse così difficile arrivare alla prigione è forte, così come è forte l'impressione che in questo Paese, in questo Parlamento, in questa capitale, ci sia un sacco di gente che potrebbe contribuire positivamente all'accertamento della verità e, secondo me, lo dovrebbe fare nel proprio interesse, sapendo per l'appunto che Pag. 5qui nessuno vuol fare rese dei conti, ma si vuole semplicemente chiudere una vicenda».
  Credo che questo sia anche lo spirito con cui noi siamo lavorando in questa Commissione.
  Do la parola al senatore Pellegrino.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Grazie, presidente. Ringrazio lei e i membri della Commissione a cui auguro di proseguire in un proficuo lavoro.
  Penso che la Commissione non farebbe bene a fidarsi della mia memoria, perché sono ormai passati tredici anni dalla fine dell'esperienza della Commissione stragi. Quindi, anche seguendo un consiglio telefonico del presidente Fioroni, ho portato con me alcuni documenti che penso voi in parte abbiate già acquisito o potete acquisire, e in parte no perché non sono stati pubblicati negli atti del Senato.
  Il primo documento è il capitolo che avevo dedicato al caso Moro in una proposta di relazione che da me redatta al termine della XII legislatura, senza però fare in tempo a discuterla e ad approvarla in Commissione perché, avendola io depositata il 12 dicembre, anniversario della strage di Piazza Fontana, la legislatura finì subito dopo. Però la proposta di relazione costituì il presupposto che venne richiamato dai Presidenti della Camera e del Senato della legislatura successiva, Violante e Mancino, quando mi confermarono l'incarico di Presidente della Commissione stragi, affinché ne concludessi i lavori portando in discussione quella proposta di relazione. In realtà, tutti i gruppi politici, in una composizione nuova, presenti nella Commissione ritennero invece che l'inchiesta dovesse riprendere e che la proposta di relazione non potesse quindi essere posta in discussione. Quindi, continuammo il lavoro di una Commissione che non era però monotematica, come è la vostra. Noi dovevamo occuparci degli oggetti più svariati. Dicevo prima al presidente che addirittura trovai un'inchiesta aperta da Libero Gualtieri sulla «Uno bianca», un argomento d'inchiesta che con Moro, Piazza Fontana, la strage di Bologna e via dicendo aveva pochissimo a che dividere.
  Nella XII legislatura noi in realtà proseguimmo il lavoro che aveva fatto la Commissione presieduta dal senatore Gualtieri. Ebbe un rilievo centrale un'audizione, che non esito a definire quasi drammatica, di uno dei più stretti collaboratori di Aldo Moro, il dottor Corrado Guerzoni, che era stato molto vicino alla famiglia in quei cinquantacinque giorni. Con grande crudezza, ma anche in maniera argomentata, il dottor Guerzoni pose alla Commissione l'ipotesi – che per lui era più che un'ipotesi, era quasi una certezza – che il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro fossero stati «appaltati» alle Brigate Rosse da un livello superiore che egli individuava nei vertici dell'Alleanza occidentale – i riferimenti furono a Kissinger, alla Francia, alla Germania – e che quindi le Brigate Rosse avessero agito per mandato sia rapendo Moro, sia gestendo il sequestro Moro, sia alla fine, concludendolo tragicamente.
  Devo dire che alla nostra analisi di allora l'ipotesi non sembrò verificabile. Era un'ipotesi seria, però restava tale. Quindi, riaffermammo la valutazione già data dalla Commissione precedente, secondo cui le Brigate Rosse erano un fenomeno nazionale e si erano mosse in una logica nazionale, e che in tale logica nazionale avevano individuato in Moro uno degli obiettivi dell'attacco al cuore dello Stato. Secondo questa logica lo avevano rapito, processato, condannato a morte e, sia pure a valle di un aspro conflitto interno, avevano poi deciso di eseguire la sentenza.
  Però, notammo anche che nell'azione di contrasto dello Stato c'erano tante di quelle carenze, discrasie, falle da rendere fondata l'ipotesi non già che il sequestro fosse stato appaltato alle Brigate Rosse, ma che il sequestro non fosse stato volutamente contrastato a sufficienza e che quindi questa convergenza di azioni da una parte e di omissioni dall'altra avesse portato all'epilogo tragico che tutti conosciamo.
  Su questa base proseguimmo, nella legislatura successiva, la XIII, attraverso una Pag. 6serie di audizioni che continuavano a riguardare Moro, ma anche, nel desiderio della Commissione di ripensarli, i molteplici oggetti della nostra inchiesta, decidendo di dare un taglio quasi seminariale al nostro lavoro. Pertanto, incaricammo uno staff di consulenti – che avevamo voluto fossero indicati dalle varie forze politiche – di rispondere a una serie di quesiti che riguardavano i vari oggetti d'inchiesta.
  In particolare, per quello che riguardava il terrorismo di sinistra, l'incarico fu dato al dottor Nordio, un consulente che era stato indicato, se non sbaglio, dalla Lega Nord. Relativamente al fenomeno generale delle Brigate Rosse, Nordio, con un lungo elaborato, confermò il carattere nazionale del fenomeno ed escluse la tesi di Giorgio Galli, cioè che il contrasto alle Brigate Rosse fosse stato ispirato da una logica di stop and go, vale a dire che fossero state contrastate ma che a un certo momento il contrasto fosse stato rallentato per consentire ad esse di riprendere la loro attività, nel desiderio di determinare un effetto stabilizzante della situazione politica. Però, pure in un apporto consulenziale ispirato a una grande prudenza, quando arrivò al caso Moro disse: «Però, sul caso Moro non mi sento di dire che sia così». Lo affermò perché le falle, le omissioni e le mancanze erano così forti e così gravi da far pensare che ci potesse essere a monte un mandato a non agire; quindi non un mandato ad uccidere, ma ad assumere un atteggiamento volontario di inerzia.
  Stavamo andando avanti, naturalmente, seguendo i molteplici filoni di inchiesta che ci erano affidati, quando, nel ventesimo anniversario della morte di Moro, il Presidente della Repubblica Scàlfaro, parlando alla Camera, commemorò la figura del politico e dello statista e poi espresse la propria soddisfazione perché i suoi rapitori e i suoi uccisori erano stati assicurati alla giustizia, ma si domandò se, per caso, non avessimo colpito soltanto i colonnelli e avessimo lasciato indenni i generali.
  Quella frase, detta dal vertice delle istituzioni, detta in luogo istituzionale, l'aula di Montecitorio, nell'occasione del ventesimo anniversario della morte di Moro, ebbe un enorme clamore. Siccome in questo Paese deve sempre essere colpa di qualcuno se le cose non vanno bene, ricordo che Mattarella, che era stato vicepresidente della Commissione nella legislatura precedente, in una dichiarazione alle agenzie disse: «La verità è che la Commissione stragi sulla vicenda Moro non sta facendo quasi niente».
  Noi andammo a sentire Scàlfaro, senza grandi clamori; non lo convocammo nella sede della Commissione, non pensammo di fare un'audizione pubblica, però una deputazione della Commissione andò a trovarlo. Lui ci ricevette con cortesia e sfumò l'importanza di quello che aveva detto, affermando di aver fatto una riflessione personale: quando aveva visto chi erano i protagonisti delle Brigate Rosse gli erano sembrate persone di modestissimo livello, per cui si era domandato come fosse possibile che persone di modestissimo livello avessero tenuto in scacco per oltre vent'anni uno Stato moderno, organizzato e via dicendo.
  Continuammo a fare una serie di audizioni, ma un po’ ci trovammo – se mi è permesso il rilievo – nella situazione in cui vi trovate voi oggi: la vicenda Moro non è un gomitolo aggrovigliato, ma è una matassa di fili diversi, anche di diverso colore, l'uno all'altro aggrovigliati. Quindi, io sentivo la necessità di prendere il capo di uno di questi fili e seguirlo fino alla fine, cioè di dare all'inchiesta un taglio nuovo, anche perché nel frattempo la magistratura era arrivata al Moro sexies, quindi solo i documenti accumulati dalla magistratura riempivano un archivio ed era difficilissimo ripercorrerli tutti, punto per punto.
  Tenete presente, e questo assumerà rilievo per quello che dirò dopo, che in quel momento il Moro sexies – noi sentimmo più volte il pubblico ministero Ionta che conduceva l'indagine – riguardava soprattutto l'individuazione dei due personaggi sulla motocicletta Honda e poi Pag. 7le ragioni per cui era stato difficile ottenere l'estradizione dal Nicaragua di Casimirri. Questi erano i due argomenti su cui Ionta ancora stava indagando.
  Predisposi allora un documento di indirizzo – sarà nell'archivio della Commissione stragi, però non è un documento ufficiale e, secondo me, potreste acquisirlo – su quello che sarebbe potuto essere lo sviluppo ulteriore dell'inchiesta, partendo dalla possibilità di rivedere un giudizio che avevamo espresso nella legislatura precedente e anche all'inizio di quella legislatura, cioè che nel contrasto dello Stato al sequestro Moro ci fossero state soprattutto operazioni di facciata e non, invece, quell'attività di intelligence, poliziesca eccetera che normalmente avviene nei sequestri di persona.
  In quel momento, un comitato della Commissione antimafia aveva da poco approvato una relazione del senatore Pardini, in cui effettivamente si poneva questa fisiologica normalità nei sequestri di persona: il contrapporsi di un'azione di facciata, che tende all'individuazione della prigione, alla liberazione dell'ostaggio, al blitz eccetera e che normalmente non serve a niente, e di un'operazione sotterranea, fatta anche di contatti nella zona grigia, che molto spesso porta alla liberazione dell'ostaggio.
  Questo mi aveva colpito, perché riflettevo sulla circostanza che la vicenda Moro, se all'inizio era stata una strage e alla fine era stato un omicidio, tra questi «alfa» e «omega» in realtà era stato un sequestro di persona. Quindi, mi domandavo se anche nel caso del sequestro Moro a questa apparente operazione di facciata – i blocchi stradali, le perquisizioni eccetera – non avesse corrisposto un'attività sotterranea di contatti, di trattative e via dicendo. Devo dire che una serie di acquisizioni nuove ci convinsero che in parte e fino a un certo momento questo era avvenuto.
  Per esempio, accertammo che non era affatto vero che, una volta sciolto il nucleo con vertice Santillo del Ministero dell'interno e sciolto il nucleo di Dalla Chiesa, Santillo e Dalla Chiesa poi non fossero stati utilizzati. Questo non era vero, perché Santillo e Dalla Chiesa avevano costituito un gruppo operativo e addirittura Dalla Chiesa aveva fatto venire i suoi uomini a Roma. Noi sentimmo il generale Bozzo, ai tempi colonnello, che in quel momento era il comandante dei vigili urbani di Genova, il quale ci disse: «Arrivammo tutti a Roma, solo che a un certo punto non avemmo più disposizioni, non avemmo più ordini e ci fermammo».
  Nello stesso tempo risultava da una molteplicità di indagini, che anche non avevano riguardato Moro – penso al processo palermitano ad Andreotti, al processo perugino sull'omicidio Pecorelli, a dichiarazioni dell'onorevole Cazora – che in una fase iniziale addirittura quell'attività sotterranea aveva anche implicato un'attivazione della criminalità organizzata (mafia, ’ndrangheta e banda della Magliana), però tutto a un certo punto si era fermato.
  Per esempio, Marino Mannoia – come ricorderete, è il pentito che è stato ritenuto credibile nel processo palermitano in cui Andreotti è stato prosciolto per prescrizione dall'accusa di un rapporto iniziale con la mafia di Bontade: quella sentenza è tutta fondata sulle dichiarazioni di Marino Mannoia – tra l'altro aveva riferito che Bontade all'inizio si era attivato – «diamoci da fare, vediamo di liberare Moro, acquisiremo credito politico» – ma a un certo punto Pippo Calò gli aveva detto: «Fermati, perché sono i suoi che non lo vogliono veramente liberare».
  L'impressione che ne ebbi, e che consacrai in quel documento, è che verso la metà di quel tragico aprile nella vicenda si sia determinato un momento di torsione. Improvvisamente le cose cambiano: continuano le operazioni di facciata, ma tutta questa attività sotterranea, che avrebbe potuto portare alla liberazione dell'ostaggio, improvvisamente si interrompe.
  Cercavo un riscontro documentale che potesse giustificare quel cambiamento, quella torsione dell'intera vicenda. Devo Pag. 8dire che, rileggendo le carte, trovai l'elemento determinativo della torsione nel comunicato n. 6 delle Brigate Rosse.
  Le Brigate Rosse all'inizio avevano detto che, rapito Moro, lo avrebbero sottoposto a un processo popolare e che gli atti di quel processo non sarebbero stati tenuti segreti, ma resi noti alla pubblica opinione. Poi Moro scrive la lettera a Cossiga, nella certezza che dovesse restare segreta. Invece Moretti gliela pubblica nel comunicato n. 3. Se rileggete quella lettera, vedete che all'inizio Moro non chiede di essere liberato per motivi umanitari, che saranno poi i contenuti della fase finale dei suoi scritti, ma in realtà pone una ragion di Stato. Dice sostanzialmente: «Io sono sottoposto a un processo popolare, sono preda di un potere incontrollato e potrei essere indotto a dire cose dannose per il partito e per lo Stato. Quindi, caro Francesco, Iddio ti illumini, parlane riservatamente con il Presidente del Consiglio, saranno importanti anche contatti con la Santa Sede, e vedete di aprire una trattativa».
  Quindi, in quella lettera iniziale, Moro sostanzialmente dice: «Potrei parlare».
  Nei comunicati successivi, dal n. 3 al n. 6, le Brigate Rosse affermano che il processo continua con la piena collaborazione del prigioniero, finché, nel comunicato n. 6, comunicano che il processo si è concluso con la condanna a morte: «Non ci sono rivelazioni clamorose». Però poi si aggiunge una frase in cui si spiega che le rivelazioni clamorose ci sono state, che Moro ha parlato. In un inciso, si dice in sostanza: «A questo punto facciamo una scelta. Poiché la stampa borghese è asservita al potere, eccetera, noi non renderemo pubblici i risultati del processo, ma li affideremo ai mezzi di comunicazione interni dell'organizzazione rivoluzionaria». Quindi, le Brigate Rosse affermano che Moro ha parlato, però quello che ha detto se lo tengono per loro.
  Scrissi allora: «Il problema non è il doppio delitto, ma probabilmente è il doppio ostaggio».
  Pensiamo al processo. Il processo ha un luogo dove l'imputato è incarcerato e poi c’è un altro luogo dove il processo si svolge. Noi avevamo ricostruito bene come si svolgeva il processo, un po’ secondo l'iconografia del fumetto di Metropolis. Dopo che avevano provato a interrogarlo, però, non riuscivano a capire che cosa Moro diceva – la differenza di qualità intellettuale fra interrogato e interrogante era troppo forte – e Moretti cominciò a portargli delle domande scritte, preparate fuori. Moro rispondeva per iscritto, ed è il memoriale, salvo quello che dirò sulle sue ultime pagine. Le risposte di Moro sono scritte, tant’è vero che l'analisi del memoriale ha consentito addirittura di ricostruire quali fossero le domande che Moretti gli rivolgeva. Peraltro, alcune domande non appartengono alla cultura brigatista e ciò fa pensare che ci fossero dei suggeritori delle domande. Però le risposte non restavano in via Montalcini – quindi la cancelleria del processo non coincideva con il carcere – ma venivano portate in altro luogo.
  Nel fumetto di Metropolis i vari protagonisti sono riconoscibili: si riconoscono Morucci, Faranda, Moretti e Gallinari. L'interrogatore però ha il volto cancellato. Nell'iconografia del processo, quello che rivolgeva le domande a Moro non ha un volto. Signorile ci disse in audizione una cosa molto intelligente: «Era un interrogatore collettivo». Non era Moretti che faceva le domande; erano i suggeritori di Moretti che formulavano le domande, che Moretti portava a Moro.
  In questa logica, quindi, ritenni che dovessimo prendere un filo – uno dei fili di quella matassa e, in fondo, il filo meno esplorato dalla magistratura romana, per un problema di competenza territoriale – cioè le carte Moro. Poiché le carte Moro si erano trovate solo a via Monte Nevoso, la magistratura romana non si era mai occupata del problema delle carte. La magistratura milanese se n'era occupata, ma non collegandole per niente all'inchiesta su Moro, bensì come un'indagine separata.
  Cominciammo quindi a cercare. Innanzitutto accertammo una cosa singolare, su cui forse una conferma da parte della vostra inchiesta sarebbe importante. Ci fu Pag. 9unanimemente dichiarato che nessun altro scritto di Moro era stato trovato in alcuno dei covi brigatisti che erano stati scoperti successivamente a quello di via Monte Nevoso, pur risultando da una serie di fonti che in realtà il memoriale era stato dattiloscritto, fotocopiato e distribuito dalle BR fra le varie colonne, perché si doveva fare un dibattito autunnale sui risultati dell'operazione Fritz, cioè il rapimento di Moro. Però le carte si trovano solo in via Monte Nevoso. Senza volervi dare suggerimenti, vi dico che dopo, quando non potevo fare più niente, mi è venuta una curiosità: sarebbe interessante vedere quanto tempo è intercorso, nelle scoperte degli altri covi, tra l'ingresso degli uomini di Dalla Chiesa e l'arrivo del magistrato che ha fatto l'inventario delle cose che c'erano nel covo. Se fossero trascorsi pochi minuti sarebbe un conto, ma se dovesse essere intercorsa una giornata, mezza giornata, più giornate, allora tutte le ipotesi sarebbero probabili. Tutto quello che era successo dopo il ritrovamento delle carte in via Monte Nevoso induceva a ritenere che difficilmente potessero venir fuori altri documenti.
  Quindi, il problema che avevamo davanti era come la magistratura aveva scoperto il covo di via Monte Nevoso. Su questo c'era un'incertezza assoluta. C'era innanzitutto un rapporto di polizia giudiziaria – lo troverete tra i documenti che sto consegnando – che raccontava che su via Monte Nevoso passeggiava un giovane alto, il quale portava un borsello che pesava sulla spalla. Ciò diede ai carabinieri il sospetto che quel borsello contenesse una pistola. Il giovane fu fotografato e fu individuato come Azzolini. Fu seguito, si vide in quale palazzo entrava e poi si preparò il blitz, anche se in un libro di memorie di un altro generale dei carabinieri, di cui non ricordo il nome, si diceva che c'era stato un contrasto fra i carabinieri territoriali di Milano e i carabinieri di Dalla Chiesa su quando si doveva fare il blitz.
  C'erano, però, versioni completamente diverse. Una era quella che Dalla Chiesa aveva dato alla Commissione Moro; un'altra era contenuta nel libro di memorie di quel generale di cui non ricordo il nome, che dava una versione diversa. Noi sentimmo Bozzo, che ci diede una versione ancora diversa da quella di Dalla Chiesa, correggendola in parte e dicendoci che Dalla Chiesa in alcune cose non era stato preciso perché voleva sempre parlare a braccio: gli avevano preparato degli appunti che però il generale si era rifiutato di leggere alla Commissione.
  Tutte queste altre versioni menzionavano il borsello, ma con una storia completamente diversa. Il borsello viene ritrovato in un autobus di Firenze; dentro c’è una pistola Beretta con la matricola abrasa, il libretto di circolazione di un ciclomotore e un mazzo di chiavi. Il libretto di circolazione porta a Milano, perché è un motociclo artigianale costruito in un'officina di quella città. I carabinieri di Firenze allora mandano tutto ai carabinieri di Milano. A Firenze si apre un fascicolo sul ritrovamento della Beretta con la matricola abrasa. I carabinieri di Milano vanno a interrogare il meccanico dell'officina dove si costruiva il motociclo, il quale, dopo che gli sono state mostrate alcune fotografie, dichiara che il motociclo è stato acquistato da un «rompiscatole», che continuamente ne chiedeva riparazioni, e che ha visto posteggiato diverse volte lo stesso motociclo in via Monte Nevoso.
  Nel borsello c'erano anche le ricevute di uno studio dentistico. I carabinieri vi si recano, interrogano l'infermiera, le mostrano varie fotografie e l'infermiera identifica Azzolini. Carabinieri in borghese, diligentemente, con le mogli, di notte passeggiano lungo via Monte Nevoso e, utilizzando quel mazzo di chiavi, riescono a trovare finalmente la chiave che apriva un portone di via Monte Nevoso. Così individuano il covo, stanno lì, fotografano chi entra e chi esce, vedono più volte la Balzerani entrare e uscire, e fanno il blitz.
  Noi ricostruiamo tutta la storia innanzitutto partendo dal fascicolo processuale, che stava a Firenze. Avevo scritto all'autorità giudiziaria di Firenze chiedendo di trasmetterlo alla Commissione, ma mi era Pag. 10stato risposto che non potevano mandarlo perché era in un deposito giudiziario, in un forte militare pericolante, nel quale non si poteva entrare. Chiamai allora un magistrato consulente della Commissione, Bonfigli, e gli chiesi di comprare un casco da minatore, di andare a Firenze e di non tornare senza il fascicolo. Difatti, ci portò il fascicolo.
  L'indagine era stata archiviata. La rivoltella era stata addirittura rottamata. Non si era tratto da lì nessuno spunto che pure si sarebbe potuto trarre, che fosse utile all'indagine Moro. Il resto della storia ve l'ho raccontato.
  A questo punto, però, c’è qualcosa che intendo dire e che voglio sia verbalizzato. Imboccando quella strada improvvisamente mi trovai dinanzi a un muro di resistenze di cui non riuscivo a capire le ragioni. Il figlio di Dalla Chiesa e il magistrato Spataro scrivono una specie di libro bianco, in cui mettono insieme una serie di domande che io rivolgevo nelle varie audizioni e sostengono che erano domande tendenziose, che volevo infangare il nome del generale Dalla Chiesa, perché formulavo il sospetto che a via Monte Nevoso ci fosse un infiltrato. Questo era vero: io sospettavo che ci potesse essere un infiltrato, ma non vedo perché questo dovesse offuscare la memoria del generale Dalla Chiesa. Il generale, addirittura, in un lungo rapporto a Rognoni, dice di essersi anche avvalso di infiltrati, però poco, avendo avuto utilità maggiori da un'attività di penetrazione fatta negli ambienti di contiguità alle Brigate Rosse (e lì indica il sindacato, l'industria e l'università, l'accademia).
  Addirittura, cento deputati – ma nessun senatore, debbo dire – firmarono un appello a Ciampi perché mi fermasse, tanto che dovetti andare dal Presidente della Repubblica a spiegare che non volevo infangare la memoria di nessuno, che stavamo facendo il nostro lavoro e che oltretutto, essendo una Commissione bicamerale di inchiesta, non poteva fermarci nessuno, nemmeno il Quirinale. La cosa che mi sorprese è che quando spiegai al Presidente Ciampi che la Procura nazionale antimafia non poteva indagare sui fatti di terrorismo perché non rientravano nella sua competenza – secondo me un grave errore – mi domandò con semplicità: «Come si fa a capire dove finisce il terrorismo e dove comincia la mafia ?».
  Quindi, noi andammo avanti nel nostro lavoro. Alla fine, Spataro e Pomarici chiesero di essere sentiti, vennero in Commissione e diedero, secondo me, una giustificazione del perché avevano accettato un verbale che sapevano non corrispondere alla realtà delle cose: «Volevamo sottrarre alla possibile vendetta brigatista sia il meccanico dell'officina che aveva prodotto il ciclomotore, sia l'infermiera». Risposi che secondo me erano ragioni plausibili.
  D'altra parte, l'esperienza professionale mi fa dire che molto spesso i rapporti di polizia giudiziaria iniziano da informazioni ricevute e dietro c’è una storia che è opportuno non mettere nel rapporto.
  Rimasi sempre colpito, anche perché se avete letto il libro di memorie di Spataro avrete visto che per quaranta pagine mi insulta. Insulta me, i collaboratori della Commissione, se la prende con Bonfigli: «Ma se Bonfigli fosse venuto e mi avesse domandato come andavano le cose io gli avrei detto subito...». Ma che modo di condurre un'inchiesta sarebbe stato ? Nel momento in cui noi sospettavamo che un rapporto giudiziario non dicesse la verità, potevamo chiedere direttamente la spiegazione a chi lo aveva accettato ? Quindi, ci sembrò giusto seguire l'altra strada.
  Tutto quel lavoro si intrecciò con l'attività d'inchiesta che svolgemmo sull'omicidio D'Antona. Dunque, il documento interno della Commissione è contemporaneo al deposito di una relazione che dopo appena due mesi dall'omicidio D'Antona consegnai alla Commissione, che lo approvò all'unanimità, e di cui, devo dire, oggi sono abbastanza orgoglioso. Dopo due mesi, infatti, noi individuammo subito che non erano nuove Brigate Rosse, ma erano le vecchie BR-PCC, uno dei rami in cui le Brigate Rosse si erano separate; che la ritirata strategica era ciò che le parole dicevano, cioè non era un modo per nascondere la resa, ma si trattava di un'organizzazione Pag. 11che, nel momento in cui era stata fortemente colpita, quindi non si sentiva più in grado di reggere quel livello di scontro, sostanzialmente si interrava in attesa di potersi riorganizzare.
  Formulammo quindi un'ipotesi. Le BR-PCC avevano ucciso Tarantelli, Conti e Ruffilli, gli ultimi tre omicidi storici delle Brigate Rosse. In tutti quei processi erano stati individuati i responsabili, però erano tutti irriducibili, nessuno aveva collaborato. Ciò rendeva estremamente probabile che ci fossero persone che facevano parte di quei gruppi e che fossero sfuggite all'individuazione giudiziaria.
  Tutto quel lavorìo di riorganizzazione ci portava lungo un asse Roma-Firenze. Lo abbiamo scritto nella relazione che fu approvata a settembre (ma io l'avevo depositata prima dell'estate). Ci vollero due o tre anni perché la Lioce e Gallesi incappassero, sul treno Roma-Firenze, in una perquisizione della polizia ferroviaria, e poi venisse decriptato il palmare della Lioce. A quel punto si è ricostruita una storia abbastanza corrispondente a quella che noi avevamo già scritto nella relazione.
  Ricordo che, per diversi convegni, percorsi la Toscana parlando di un nodo toscano delle vecchie e nuove Brigate Rosse. In una nota della relazione D'Antona avevo parlato del Comitato rivoluzionario toscano, che era una colonna di irregolari. Le Brigate Rosse a Firenze non avevano una colonna di clandestini, ma erano tutte persone irregolari, cioè persone che vivevano normalmente, però facevano parte delle Brigate Rosse. Avevo avanzato l'ipotesi che forse la magistratura toscana su quel Comitato rivoluzionario toscano non avesse portato le indagini fino in fondo. Mi telefonò il dottor Chelazzi, che era un sostituto di Vigna nella Procura nazionale antimafia e che chiedeva di essere sentito. Nella sua audizione il dottor Chelazzi affermò che i magistrati fiorentini avevano indagato benissimo sul comitato rivoluzionario toscano, tant’è vero che poteva dirci con precisione dove fosse ubicata la casa, di cui Moretti aveva solo genericamente parlato nel libro intervista a Rossanda e Mosca come il luogo fiorentino dove durante il sequestro Moro si riuniva il vertice delle BR, che doveva decidere sul destino del prigioniero.
  Chelazzi ci indicò con precisione l'indirizzo della casa e la persona del proprietario (un certo architetto Barbi), chiarendoci che sotto quella casa aveva una fermata l'autobus, in cui era stato ritrovato il borsello smarrito da Azzolini.
  Chelazzi ci disse che non aveva letto a suo tempo il libro intervista di Moretti a Rossanda e Mosca, ma di averlo acquistato solo dopo aver letto la nota della mia relazione sul caso D'Antona, in cui quella intervista era citata; Chelazzi mi esibì addirittura la ricevuta della libreria in cui aveva recentemente acquistato quel libro.
  Prendemmo così coscienza che le critiche che avevo mosso ai magistrati toscani non erano fondate, ma con l'audizione di Chelazzi venne a delinearsi con chiarezza il filo che portava a via Monte Nevoso, partendo dal covo fiorentino dove le BR avevano preso la decisione di uccidere Moro.
  A volte l'esito positivo di una indagine dipende anche da una serie di fortunate coincidenze !
  Tutto questo portava in nuova luce ciò che Morucci ci aveva detto nella sua audizione quando, proprio in questa stanza, a mezzanotte (andavamo avanti sino a mezzanotte e oltre), pressato dalle domande dei commissari, a un certo punto sbottò: «Ma insomma, perché chiedete a me tutte queste cose ? Perché non fate parlare Moretti la sfinge ? Perché non vi fate dire chi era il padrone di casa, chi era l'anfitrione e chi era l'irregolare che batteva a macchina i comunicati delle Brigate Rosse che poi venivano distribuiti in tutta Italia ?». Gli chiedemmo perché non ce lo dicesse lui e la risposta fu: «No, se volete fate parlare Moretti».
  Chelazzi si riagganciò a questo e formulò l'ipotesi che in realtà al vertice delle Brigate Rosse già nel 1978 ci fosse la presenza di Giovanni Senzani.
  A questo punto, noi volemmo sentire anche il magistrato che aveva archiviato Pag. 12l'inchiesta sulla Beretta, Tindari Baglione. Ho visto che volete sentirlo anche voi.

  PRESIDENTE. È l'unico rimasto. Chelazzi...

  GIOVANNI PELLEGRINO. Non c’è più, è morto. Poco tempo dopo morì d'infarto.
  Tindari Baglione, a un componente della Commissione che lamentava la debolezza nel contrasto con le Brigate Rosse, rispose che una debolezza vi era certamente, dal momento che la polizia e le Brigate Rosse avevano lo stesso consulente, cioè Senzani.
  Tutti e due ci dissero che l'ingresso al vertice delle Brigate Rosse di Senzani non risaliva – come invece ci aveva detto Ionta – al 1979, cioè al sequestro D'Urso e alla deriva delle BR-UCC (il ramo di Senzani, collegamenti con la camorra eccetera). Ciò naturalmente creava una serie di prospettive di indagine e innanzitutto dava consistenza a una serie di somiglianze che c'erano state fra la gestione del sequestro Cirillo e la gestione del sequestro Moro.
  Noi prendemmo tutto questo materiale e lo consegnammo – io e il vicepresidente Manca, che della successiva archiviazione ha fatto una malattia – alla Procura della Repubblica.
  Pochi giorni dopo facemmo un'ultima audizione, quella del colonnello Bonaventura. Le date di tutte queste audizioni sono nei documenti che vi consegno, quindi penso che voi potreste acquisirne i resoconti. Il colonnello Bonaventura, a un certo punto, senza essere provocato, disse che effettivamente lui era uno degli uomini di Dalla Chiesa che stavano a Milano, che era entrato nel covo di Monte Nevoso, aveva visto quelle carte sul tavolo, aveva capito subito che erano carte Moro, le aveva tolte da lì, le aveva portate fuori, le aveva fotocopiate, le aveva mandate a Dalla Chiesa e poi le aveva rimesse a posto.
  A quel punto gli chiesi – potete leggere il verbale – se si rendeva conto della gravità di quello che ci stava dicendo. E il colonnello, che era un alto ufficiale dei servizi, rispose: «Perché ?». Gli feci notare che aveva manomesso i luoghi prima ancora che arrivasse il magistrato che doveva disporre il sequestro. Rispose che forse aveva sbagliato, ma confermò due volte che le cose erano andate in quel modo.
  A questo punto, si hanno due effetti singolari. La Procura della Repubblica di Roma, che stava fino a quel momento indagando sempre sui due della Honda e sul perché non si era ottenuto l'espatrio di Casimirri eccetera, chiede e ottiene l'archiviazione dell'indagine.
  Prima di fare questo, sente Bonaventura e Spataro, e Bonaventura si rimangia tutto quello che aveva detto alla Commissione. Sostiene che quella sera era stanco e si era confuso; inoltre, dice che era vero che aveva fatto le fotocopie, ma dopo che Pomarici aveva fatto il verbale.
  Ebbene, guardate quel resoconto e giudicate se ciò è credibile. Da quel resoconto risulta che almeno due volte lo richiamo sulla gravità di quello che ci stava dicendo di spontanea volontà, non provocato dalle nostre domande.
  Questi sono due nodi che mi sono rimasti irrisolti. L'impressione che ho avuto è che, involontariamente e senza grandi meriti, noi avessimo toccato un nervo scoperto che si riallaccia a quella dichiarazione che il presidente ha avuto la bontà di leggere. È inspiegabile.
  Perché la Procura di Roma sente Bonaventura ? Quello che Bonaventura ci aveva detto era probabilmente un reato, ma commesso a Milano.

  PRESIDENTE. E perché sente Spataro ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Quindi perché se ne occupa la Procura di Roma ? Perché viene accettata la dichiarazione di Bonaventura e perché poi viene precipitosamente chiusa quell'indagine ?
  A quella relazione, pubblicata negli atti del Senato, aveva molto collaborato il vicepresidente della Commissione, Vincenzo Manca, già generale dell'Aeronautica – che però era stato nel SIOS dell'Aeronautica, quindi con una certa specializzazione, e poi era padre di due alti Pag. 13ufficiali dei carabinieri – che si era molto appassionato a tutta questa inchiesta e aveva collaborato moltissimo. Egli ha cercato vanamente di ottenere quello che voi adesso opportunamente state acquisendo, cioè la richiesta di archiviazione e la sentenza di archiviazione di un'indagine che non era solo sulla Honda, ma riguardava anche Casimirri e nella quale era confluito tutto quel materiale che veniva dalla Commissione.

  PRESIDENTE. Ringrazio il Presidente Pellegrino.
  Prima di lasciare la parola ai colleghi ho approntato una serie di domande. Non sono formulate in ordine cronologico, ma mi sembrano utili.
  Nella sua relazione sul caso Moro si afferma che è indubbio che da parte di servizi segreti stranieri, in particolare quello israeliano e quello bulgaro, vi furono tentativi di entrare in contatto con le BR al fine di strumentalizzarle e che, tuttavia, le offerte in tal senso di armi e di denaro furono respinte dalle BR per la loro estrema diffidenza verso tutti i servizi segreti.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Posso rispondere subito. Qui è importante l'audizione di Franceschini. È Franceschini che ci racconta questa cosa.

  PRESIDENTE. Però la domanda mia era questa: ritiene che di tali tentativi e del relativo esito sia possibile reperire traccia documentale ? Una simile traccia potrebbe rinvenirsi anche nell'archivio di qualche Paese straniero disponibile a collaborare con la Commissione ?
  In caso affermativo, di quali Paesi si tratta ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Ritengo di sì. Ho visto che voi state acquisendo il Rapporto Impedian, della Commissione Mitrokhin, ma sono lavori che io non ho seguito.

  PRESIDENTE. Al di là dei tentativi di strumentalizzazione delle BR, ha avuto modo di riscontrare altre interferenze di Paesi stranieri nel caso Moro, ad esempio con riferimento all'attività delle strutture incaricate delle indagini di altri apparati dello Stato o di singole formazioni politiche ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. A mia memoria, no.

  PRESIDENTE. Sempre nella sua relazione si dedica ampio spazio alle riunioni del comitato esecutivo delle BR a Firenze durante i cinquantacinque giorni del sequestro. Quali elementi sono stati raccolti ? A questo ha già risposto abbondantemente.
  L'oggetto della Commissione da lei presieduta era piuttosto ampio, in quanto riguardava il fenomeno del terrorismo e quello dello stragismo. Nel corso dell'inchiesta sono emersi collegamenti tra i filoni d'inchiesta relativi al caso Moro e gli altri filoni di indagine che la Commissione ha approfondito ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Sì. Voi troverete, sia nel documento interno delle Commissione stragi che mi accingo a consegnarvi sia nella proposta di relazione finale, l'elenco delle audizioni specifiche sul caso Moro e di quelle di carattere generale.
  Per esempio, noi sentimmo Cossiga su tutta la storia dell'Italia nella guerra fredda; sentimmo Andreotti sullo stesso argomento. In quell'occasione ho potuto apprezzare la differenza fra i due personaggi. Cossiga viveva la storia come una tragedia shakespeariana, che accettava a condizione che si riconoscesse il suo ruolo di protagonista. Andreotti, invece, sminuzzava la storia in una serie di episodi quotidiani di scarsissima importanza, per cui si perdeva il senso complessivo delle cose. Quando provai a dirgli che su tante cose bisognava fare luce, mi rispose: «Troppa luce può anche accecare».
  C’è una cosa che ho dimenticato di dire e che sarebbe opportuno che venisse inserita nella mia audizione. Si tratta di confidenze che mi ha fatto l'ammiraglio Pag. 14Martini quando già la Commissione stragi aveva ormai concluso i lavori. Avevo scritto il libro Segreto di Stato, nella speranza di poter convincere tutta la Commissione ad approvare una relazione condivisa. Lui aveva telefonato al segretario della Commissione dicendo che non stava bene, che avrebbe voluto che il presidente andasse a trovarlo e che avrebbe avuto il piacere di parlargli.
  Quando andai a trovarlo, vidi che aveva riempito il mio libro di post-it e appunti. Riguardo al caso Moro, Martini – che è stato il più «longevo» dei direttori dell'allora SISMI – mi disse: «Quando mi avete sentito, su un punto non sono stato sincero: quando mi avete domandato perché lasciai il servizio segreto militare». Aggiunse che in realtà aveva avuto uno scontro fortissimo con il Ministro della difesa Ruffini, nel momento in cui, come numero due del servizio segreto militare, era andato a trovare il segretario generale di Palazzo Chigi e il segretario generale del Ministero degli affari esteri per farsi scrivere un bigliettino, in cui si affermava che Moro non era portatore o titolare di segreti sensibili.
  Naturalmente, ciò non era credibile: chi è stato Ministro degli esteri e Presidente del Consiglio i segreti sensibili ce li ha. Abbiamo visto che Moro nel memoriale parla di Gladio, per esempio.
  Martini tornò e il Ministro della difesa, saputo che era stata firmata quella dichiarazione, affermò che si poteva stare tranquilli. A Martini saltarono i nervi e disse: «Proprio lei non può stare tranquillo, perché in questi giorni dalla cassaforte del Ministero della difesa è sparita la pianificazione segreta di Stay Behind». Si trattava di una pianificazione segreta che – Martini mi disse – esisteva solo in due copie: una era a Londra e una a Roma. Questa era riapparsa dopo qualche giorno, perché rimessa nella cassaforte in cui doveva essere custodita.
  Martini ebbe uno scontro fortissimo con Ruffini, tanto che si sentì male e lasciò per un certo periodo il servizio segreto militare.
  Se si pensa alle varie trattative che ci possono essere state, l'idea che quella possa essere stata una materia di scambio per la liberazione di Moro non è da scartare. In quei giorni quella documentazione sparisce e poi ritorna e, quindi, qualcuno l'ha fotocopiata: per darla a chi ?

  PRESIDENTE. Nella sua relazione sul caso Moro si afferma che «sussistono spunti documentali notevoli idonei ad attestare, almeno in termini di forte probabilità, che trattative siano intercorse volte alla liberazione dell'ostaggio non interamente riconducibili all'unica trattativa nota e derivanti dall'iniziativa assunta da esponenti del Partito Socialista attraverso la filiera Piperno, Pace, Morucci e Faranda».

  GIOVANNI PELLEGRINO. Non vi è dubbio. È Moro che ce lo dice. Moro ci dice che la trattativa era molto vicina a essere conclusa in quelle che, a torto, il mio amico Biscione ha ritenuto essere le ultime pagine del memoriale e che, invece, sono un documento completamente a parte, perché il memoriale contiene le risposte alle domande.
  Nell'edizione che ne ha fatto Biscione c’è un'ultima parte che, invece, è un documento totalmente eterogeneo rispetto al resto del memoriale e in cui Moro afferma (cito a memoria, non con esattezza): «In questi lunghi giorni di prigionia delle Brigate Rosse ho potuto riflettere sulla mia esperienza politica. Valuto la mia incompatibilità con il partito della Democrazia Cristiana e chiedo al Presidente della Camera di iscrivermi al Gruppo Misto». Scrive parole durissime contro Andreotti e contro Berlinguer. A quest'ultimo dice: «Vedrai che succederà. Vedrai a te, che hai rischiato di farmi uccidere, che cosa sarebbe successo se avessi dovuto trattare solo con Andreotti». Infine ringrazia l'unilaterale generosità delle Brigate Rosse perché l'avevano liberato.
  Che cos’è questo documento ? Secondo me, è una sorta di atto di transazione che Moro offre alle Brigate Rosse: «Salvatemi la vita e in cambio vi do la mia morte Pag. 15politica». In più, avrebbe offerto un documento che, pubblicato, sarebbe stato devastante per il quadro politico di allora.
  Questo può assumere un senso soltanto come esito quasi finale di una trattativa. Chiedo alla Commissione una riflessione su quelle ultime pagine, che sono impressionanti. Moro parla già al passato prossimo, dicendo: «In questi giorni in cui sono stato prigioniero delle Brigate Rosse». Era in un altro luogo, era passato di mano, ad altri carcerieri ?
  Noi avremmo voluto sentire Craxi, il che sostanzialmente ci fu impedito. Craxi l'ipotesi l'aveva avanzata, perché aveva detto che normalmente il plotone di esecuzione non coincide con i secondini: non sono i carcerieri che uccidono il prigioniero con il quale hanno convissuto cinquantacinque giorni; l'incarico viene affidato ad altri.

  PRESIDENTE. Le pongo altre due domande. Le informazioni rilevate da Moro potevano essere state oggetto di trattativa o di scambio ? A questa ha già risposto.
  Anche sul ruolo degli uomini del generale Dalla Chiesa mi sembra che abbia già detto.
  Nella sua relazione sul caso Moro lei afferma che «il generale dei carabinieri Nicolò Bozzo al tempo dell'antiterrorismo ha reso alla Commissione dichiarazioni riguardanti l'aspro contrasto che separava il generale Dalla Chiesa da altri settori dell'Arma, anche con riferimento a note vicende relative alla loggia massonica P2».
  Può fornirci qualche elemento di dettaglio in proposito ? Più in generale, qual è, secondo lei, il ruolo svolto dagli appartenenti alla P2 nel caso Moro, secondo quanto ha appreso nel corso dei lavori della Commissione stragi ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Sulla P2 io ho avanzato sempre una mia ipotesi. Non era il regno del male descritto nella Commissione presieduta da Tina Anselmi e non era nemmeno quella combriccola di allegri e disinvolti affaristi che è poi la soluzione a cui è arrivata l'autorità giudiziaria. Era un luogo di rifugio dell'oltranzismo atlantico. Nelle forze armate non si poteva fare carriera, ed era giusto che fosse così, se la fedeltà atlantica non era cristallina. Essere iscritti alla P2 era una sorta di super NOS di sicurezza.
  Il generale Bozzo ci disse che Dalla Chiesa, poiché nei carabinieri era molto contrastato, quando si rese conto che i suoi avversari nell'Arma si sentivano forti perché erano iscritti alla P2, chiese anch'egli di iscriversi alla P2 proprio per questo. Non, quindi, come poi disse – ovviamente, non poteva dire diversamente – perché voleva indagare. In realtà, voleva mettere le spalle al sicuro in una prospettiva di carriera.
  L'influenza che l'oltranzismo atlantico ha potuto avere sull'esito tragico della vicenda Moro e sul fallimento della trattativa è un'ipotesi, ma ha una sua serietà.
  Vi vorrei leggere, perché è impressionante, quello che ci disse il professor Cappelletti, che era uno dei responsabili dell’Enciclopedia italiana, un intellettuale che non dovrebbe avere a che fare con la polizia e con i servizi, ma che ci disse di essere stato messo da Cossiga, sulla base di un rapporto fiduciario, al vertice di uno dei due comitati di crisi che furono costituiti al Viminale nei cinquantacinque giorni. Leggo dal resoconto della sua audizione: «Moro doveva accettare di morire, anche se aveva tante ragioni dalla sua parte, in quanto era stato rapito. Tuttavia, a mio avviso, egli avrebbe dovuto accettare di morire. Se erano veri i valori in cui credeva, egli avrebbe dovuto accettare di morire. Tanta gente l'ha fatto, non sarebbe stato certamente lui il primo. Ritengo che chi vive l'avventura di Moro, chi è cristiano, debba morire come Moro non è morto. Quanti martiri ci sono stati che non hanno subito la sindrome di Stoccolma e che non sono venuti a patti con i loro carcerieri ?».
  Cappelletti aveva organizzato e dirigeva uno dei comitati di crisi costituiti da Cossiga. Non c’è dubbio che Cossiga volesse salvare Moro, altrimenti il Piano Victor non l'avrebbe mai predisposto. Era un piano singolare, perché Moro, liberato dalle Brigate Rosse, sarebbe diventato prigioniero Pag. 16dello Stato: non l'avrebbero potuto avvicinare i magistrati, non l'avrebbe potuto avvicinare la famiglia, non l'avrebbe potuto avvicinare nessuno. Chiaramente si sarebbe dovuto ristringere un nuovo patto politico per stabilire quello che Moro avrebbe potuto o non avrebbe potuto dire.
  Negli apparati, però, e nella stessa struttura del Viminale c'era gente che non era d'accordo e che, a un certo punto, fece un raffronto tra costi e benefici. Dopo che aveva scritto quelle lettere, Moro morto costava meno di Moro liberato. Su questo io non ho alcun dubbio e Cappelletti ce l'ha detto. Non era un passante, era uno che stava in un luogo...

  PRESIDENTE. A proposito di Cappelletti, ricorda il documento sull'intervento di Pieczenik che fu mandato dal Ministro dell'interno Napolitano ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Pieczenik dice quasi la stessa cosa. Non volle venire in Commissione, dopo che stavamo per acquistare per lui anche il biglietto dell'aereo, perché disse che non accettava di essere sentito alle otto e mezzo di sera. Negli Stati Uniti a quell'ora sono già al secondo whisky. Quello che ha detto Pieczenik, però, ripete ciò che, molto icasticamente, ci ha detto Cappelletti. Se si riflette sulla figura di Cappelletti, un grande intellettuale, direttore dell’Enciclopedia italiana, diviene legittima la domanda su cosa ci facesse al vertice di un comitato incaricato di gestire la crisi determinata dal sequestro Moro. Uno storico come l'onorevole Corsini lo definirebbe un’«antenna», uno che stava lì a tenere sotto attenzione il percorso di altri e a riferire ai suoi probabili mandatari.

  PRESIDENTE. Ancora, sempre nella sua relazione si prende atto dell'impossibilità allora riscontrata di far luce su alcuni punti oscuri, primo fra tutti quello della nota seduta spiritica e del falso comunicato delle BR n. 7 sul Lago della Duchessa. Ritiene che, a distanza di ulteriori quindici anni, vi siano oggi i presupposti per fare finalmente chiarezza ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Io ho continuato a rifletterci, ma mi sembrano due falsi misteri. A via Gradoli, durante il sequestro Moro, c'era la casa della Balzerani, dove Moretti andava a dormire. Prima era l'abitazione in cui vivevano Morucci e la Faranda, appartenenti a Potere operaio. Per chi ricorda la Roma di quegli anni, dobbiamo dire che moltissime coppie sono andate sicuramente a fare l'amore in quell'appartamento. Qualcuno di quei frequentatori, qualche ragazzo, ne ha serbato memoria e dovendo essere vicino a uno dei professori di Bologna gliel'ha detto, gli ha parlato di via Gradoli; poi il tamtam deforma e via Gradoli è diventata il paese di Gradoli. I professori, secondo me, non potevamo rivelare la fonte, altrimenti l'avrebbero messa nei guai e si sono inventati la storia della seduta spiritica.
  Noi avemmo un momento quasi di comicità, in questa stessa aula, quando venne il professor Clò e ci disse che il bicchiere si muoveva da solo. Io chiesi come fosse possibile che si muovesse da solo: qualcuno lo spingeva col dito. Noi avevamo fatto fallire tanti fidanzamenti, tanti matrimoni, perché muovevamo il tavolo. Chiedevamo: «Tizio ha qualche storia con Caia ?» Il tavolo si muoveva e a quel punto partiva lo schiaffone mortale di Sempronio a Caia. Per cui nella nostra seduta spiritica dovremmo pensare che qualcuno spingeva il bicchiere. Clò rispose che nessuno toccava il bicchiere, che si muoveva da solo. Castelli, che poi fu Ministro della giustizia, gli disse: «Lei il primo principio della dinamica lo conosce ? Dirige un aeroporto ! Il bicchiere da solo non si può spostare». Andreotti ci disse: «Secondo me, è uno scoperto tentativo di coprire una fonte».
  Quanto al Lago della Duchessa, è una falsificazione di Chichiarelli, che era un uomo piuttosto vicino ad apparati. Hanno ragione i brigatisti che ci hanno detto che, in realtà, era un messaggio che si inviava per dire: «Guardate che vi stiamo addosso».

Pag. 17

  PRESIDENTE. Con riferimento al filone di inchiesta concernente il caso Moro, durante la sua presidenza il contributo assicurato alla Commissione stragi dalle strutture delle forze dell'ordine e dagli organismi di intelligence è stato pienamente collaborativo, o ha avuto modo di riscontrare resistenze da parte di talune di esse ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Fu pienamente collaborativo e fu straordinario, peraltro in coincidenza con l'omicidio D'Antona. Noi quella relazione la elaborammo perché mettemmo insieme la relazione dei ROS e la relazione dello SCO. Ci mandarono tutte le relazioni, noi le mettemmo insieme e venne fuori un quadro chiarissimo.

  PRESIDENTE. Le pongo l'ultima domanda, che è riassuntiva: a suo giudizio, quali possono essere gli ulteriori punti oscuri, oltre a quelli che ha già citato, sui quali questa Commissione potrebbe concentrare la propria attenzione ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Sono moltissimi. Secondo me, il vero problema che avete è che sono troppi. Che cosa manca nella ricostruzione dell'agguato ? Quello potrebbe essere un filone di inchiesta.
  Che cosa manca nel trasporto da via Fani a via Montalcini ?
  Ci sono anche cose che non sono credibili. Le condizioni di prigionia di Moro possono essere quelle che abbiamo visto nel film di Bellocchio ? Riguardate l'autopsia di Moro. Un uomo di una certa età, che sta chiuso per cinquantacinque giorni in uno spazio così ristretto, alla fine ne porta i segni sul corpo: è sporco, ha la barba lunga, le unghie lunghe. Se Moro è stato sempre in via Montalcini – e metto un «se» – le condizioni di prigionia non sono quelle che dicono i brigatisti.
  Inoltre, non è vero che non gli annunciano la morte, perché c’è un bigliettino piccolo, che io ho ancora negli occhi. Il mio rimpianto è di averlo letto dopo che audimmo Maccari, che poi morì d'infarto. In quel biglietto Moro scrive: «Ormai è fatta. Mi hanno promesso di far trovare il corpo e alcuni ricordi». Quindi, non solo gli avevano detto che l'avrebbero ucciso, ma a lui, che era cattolico, venne promessa la possibilità di una sepoltura cristiana. Diceva: «Mi hanno promesso di far ritrovare il corpo». I ricordi di cui parla sono la prova che c'era il canale di ritorno, ossia che si era fatto portare nel carcere in cui si trovavano forse la fotografia del nipotino o altre cose del genere.

  PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  GERO GRASSI. Presidente Pellegrino, io la ringrazio per quanto ci ha detto. Come al solito, si evincono la sua abilità, i suoi ricordi e la sua capacità di affabulare chi l'ascolta. Con altrettanta sincerità, però, le faccio notare che su qualche argomento lei è stato di un'abilità eccezionale nello sminuire la portata dell'argomento stesso. Le dico su quali.
  Uno è il Lago della Duchessa. Dire Chichiarelli è dire una parziale verità, perché con Chichiarelli ci sono anche Vitalone e Varisco. Non lo dico io: Vitalone lo dice lui stesso alla magistratura e Varisco lo accerta la prima Commissione terrorismo e stragi su input di Gualtieri e Mattarella. Però capisco che nella relazione alcune cose sfuggano.
  Vado alle domande, riprendendo anche alcune cose che lei ha detto.
  Riguardo a via Monte Nevoso, accanto a Bonaventura e alle sue dichiarazioni, ci sono le dichiarazioni del capitano Arlati, il quale dichiara che alle 11.25 dette un certo numero di documenti e alle 17.25 di domenica 1o gliene restituirono in numero minore. Bonaventura ufficialmente andò a fare le fotocopie, ma le fotocopie non giustificano il tempo trascorso. Il magistrato arrivò nel covo di via Monte Nevoso dopo che Bonaventura aveva riportato le carte.
  Accanto a questo, la signora Setti Carraro, suocera del generale Dalla Chiesa, alla Corte d'assise di Palermo dichiara testualmente: «Col cucco il generale ha Pag. 18dato tutte le carte alla magistratura. Mia figlia mi ha detto che una parte piccolina l'ha data alla magistratura, un'altra parte piccolina ad Andreotti, il tutto l'ha tenuto per sé».
  La domanda è: lei ritiene che Dalla Chiesa abbia, di fatto, sottratto alla magistratura le carte di via Monte Nevoso ? Non pensa che l'inopportuna valutazione nei suoi confronti del figlio di Dalla Chiesa sia un malcelato tentativo di coprire le responsabilità ? Absit iniuria verbis, i morti vanno rispettati, ma le responsabilità vanno acclarate.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Sulle prime domande lei ha perfettamente ragione.

  GERO GRASSI. Risponde a una domanda alla volta ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Sì, altrimenti poi non ricordo la domanda successiva.
  Sulle prime domande lei ha perfettamente ragione. Non ho voluto glissare. Non volevo dilungarmi molto, ma è vero che probabilmente dietro l'iniziativa di Chichiarelli c’è un'idea di Vitalone. Questo è accertato. Di Varisco non ricordavo bene, ma le cose stanno come dice lei.
  La vicenda di Chichiarelli si complica moltissimo per la rapina alla Brink's Securmark. È una rapina che sembra quasi che gli lascino fare e che lui firmi. Il personaggio è misterioso e il modo in cui muore è misterioso due volte.
  Su Dalla Chiesa potrò sembrarvi cinico e in controtendenza rispetto a processi che si stanno celebrando in questi giorni in Italia, ma io non penso che il contrasto al crimine possa farsi seguendo sempre tutte le regole. Non è mai avvenuto in nessuna parte del mondo e non avverrà mai finché nel mondo ci saranno buoni e cattivi. I buoni devono a volte, nel combattere i cattivi, anche prendersi qualche libertà.
  Io non penso, però, che una grande parte del memoriale sia stata sottratta. I ricordi della signora Setti Carraro enfatizzano, ma qualche parte del memoriale... D'altra parte, voi avete nella Commissione – non lo vedo questa sera – il senatore Gotor, che sulle carte di Moro, partendo dal lavoro della Commissione stragi, ha fatto un lavoro molto più approfondito.
  Lui ha individuato – in parte l'aveva già fatto Biscione – quali sono i punti del memoriale che presentano incongruenze. Ci sono alcune parti del memoriale in cui Moro dice: «Come vi ho già detto», mentre si tratta di un argomento che sta affrontando per la prima volta.

  GERO GRASSI. Quando fu varato il Governo D'Alema, Cossiga fece una rivelazione pubblica, dicendo che aveva riferito a D'Alema, che sarebbe diventato dopo qualche giorno Presidente del Consiglio, cose dolorosissime e segrete relative alla morte di Moro.
  La premessa è che quel Governo si fece perché Cossiga a D'Alema portò i voti dell'UDR, altrimenti non sarebbe nato. Pertanto, io presumo che Cossiga nella dichiarazione pubblica abbia detto la verità. Anzi, io credo che in quell'occasione abbia detto la verità: così sono più esplicito.
  A lei risulta, considerato il suo rapporto con Cossiga durante gli anni della sua presidenza, quale sia l'entità di quella rivelazione dolorosa sulla morte di Moro ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Di quello che Cossiga ha potuto dire a D'Alema su Moro non so nulla. Non me l'ha detto Cossiga, non me l'ha detto D'Alema.
  Sul fatto che il Governo D'Alema nasca perché Cossiga in tutto quel periodo agisce da grande agente occidentale non ho alcun dubbio. Bisognerebbe, però, capire innanzitutto come convincono Bertinotti a mollare Prodi e come poi nasce l'UDR per sostituire Bertinotti. Se non ci fosse stato D'Alema a Palazzo Chigi, però, noi non avremmo retto alla prova della guerra del Kosovo. Su questo io non ho alcun dubbio.
  Il migliore giurista del nostro Gruppo era Salvatore Senese, il quale mi telefonava la mattina alle sette per dirmi che aveva studiato tutta la notte i diritti dell'uomo e la Carta dell'ONU e che, quindi, era convinto che noi stessimo compiendo Pag. 19dei crimini, bombardando i bambini di Belgrado per salvare i bambini del Kosovo. Io gli dicevo che quando andavamo all'università sapevamo che il diritto internazionale è un diritto per modo di dire. Se fosse andato a dire una cosa di quel genere in Senato, mezzo Gruppo l'avrebbe seguito e il Governo sarebbe caduto.
  Su questo, quindi, sono perfettamente d'accordo con lei.

  GERO GRASSI. Grazie. Secondo lei, ci fu in passato un tentativo da parte del brigatista Elfino Mortati di suffragare l'ipotesi che l'ultima prigione di Moro fosse stata in via Caetani ? Poi ci fu una fuga di notizie, che impedì la collaborazione di Mortati con i magistrati che l'avevano indotto a parlare.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Non ne ho un ricordo preciso, ma so che questo era uno dei temi su cui ritornava sempre Rosario Priore, ossia sul fatto che fosse stata «stoppata» dalla fuga di notizie la possibile collaborazione di Elfino Mortati, che avrebbe potuto portare a individuare un luogo finale di prigionia di Moro, diverso da via Montalcini.

  GERO GRASSI. Questo, però, sulla base di un presupposto molto determinato e oggettivo: sotto le gomme della Renault 4 e sotto le scarpe di Moro furono trovati dei filamenti, identici tra loro.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Venivano dal negozio di tessuti.

  GERO GRASSI. Non so da dove venivano. Purtroppo, io non c'ero.

  GIOVANNI PELLEGRINO. L'ipotesi è che venissero dal negozio di tessuti. Non ricordo il nome del proprietario. Era ebreo.

  GERO GRASSI. Il negozio di tessuti, però, era – io ho le foto – in Palazzo Caetani, con un ingresso in via Caetani e l'altro in via Botteghe Oscure, Ciò corrisponde all'articolo di Mino Pecorelli quando dice: «Parleremo del passo carraio nel ghetto e dei due leoni che stanno lì». Tutto questo si collega al russo Markevitch.
  Su questo, seppur sinteticamente, lei cosa può dirci ? Io credo che lei sia a un livello di conoscenza molto più avanzato di quello che pubblicamente si dice.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Secondo me, Markevitch non era il grande vecchio delle Brigate Rosse. Tante volte ci interroghiamo sulle intelligenze superiori, su altre intelligenze, sulle parole di Scàlfaro e via elencando. Senzani era un professore universitario e suo cognato, Fenzi, era uno dei maggiori dantisti italiani. Non abbiamo bisogno di andare a cercare chissà dove per trovare delle intelligenze superiori al livello di Gallinari, che potessero stare nel vertice delle Brigate Rosse, a parte le zone di contiguità, Negri e compagnia cantando, quello che ci ha detto Piperno.
  Markevitch, però, è un personaggio intrinsecamente doppio. Lui è ebreo, però riesce a far suonare per la prima volta Wagner in Israele. Ha partecipato alla Resistenza. Durante la Resistenza in smoking pranza con gli ufficiali tedeschi e viene a sapere da questi che stanno per fare una perquisizione in tutte le colline del fiesolano. Allora si veste da contadino, si mette in bicicletta, va a dare l'allarme e salva Carlo Levi.
  Secondo me, Markevitch è probabilmente il misterioso intermediario con cui Moretti, se non sbaglio proprio nel comunicato n. 6, dice che non voleva avere a che fare. In uno dei comunicati dice che era inutile mandare misteriosi intermediari. La trattativa fra lui e la DC doveva essere una trattativa viso a viso, aperta. Ha potuto, quindi, svolgere questo ruolo.
  La parentela con i Caetani è più sfumata, anche se, per esempio, il mio amico Fasanella, che ha scritto un libro sul tema, è convintissimo che anche Howard avesse avuto un ruolo nella crisi determinata dal rapimento di Moro. Se, però, andiamo a inseguire tutte le zone d'ombra, poi ci si Pag. 20perde. Io non ambisco a darvi consigli, ma penso che la cosa più utile sarebbe fare luce su una zona d'ombra per volta.

  GERO GRASSI. Anche questa risposta mi conforta. Le pongo un'ultima domanda. Nella Commissione da lei presieduta il generale Dalla Chiesa ironizza sul tempo trascorso tra l'arresto di Peci e la pubblicizzazione della notizia, dicendo a qualche commissario: «Voi siete abituati sempre a vedere ipotesi assurde, mai realizzate».
  La domanda è questa: lei ritiene che Patrizio Peci possa essere stato un infiltrato del generale Dalla Chiesa nelle Brigate Rosse ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Non lo so. Io non ho mai sentito Dalla Chiesa. È alla Commissione Moro che dice quelle cose.

  GERO GRASSI. Esatto. Quest'affermazione, però, io la faccio sulla base di una dichiarazione di Curcio e Franceschini, i quali indicano in Moretti una spia dei servizi segreti. Non a me, ovviamente, ma sempre alla Commissione. Lo dicono pubblicamente e lo suffragano sulla base del fatto che più volte Moretti sia andato via da un covo delle Brigate Rosse il giorno prima che arrivassero gli uomini del generale Dalla Chiesa.
  Accanto a questo, frate Girotto conferma che il generale aveva infiltrato le Brigate Rosse all'inizio degli anni ’70. Nell'interrogatorio alla magistratura Germano Maccari e Alberto Franceschini sul caso del giudice Sossi indicano in Francesco Marra, pescivendolo di Quarto Oggiaro, il ventesimo uomo, mai arrestato, perché infiltrato del generale Dalla Chiesa nelle Brigate Rosse. Aggiungono poi che era l'uomo che durante il rapimento Sossi diceva loro ogni giorno di uccidere il giudice.
  Più fonti, quindi, ci danno notizie di infiltrazioni. Lei ritiene che Peci possa essere un infiltrato ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Non so niente di più di quello che la pubblicistica ha reso ampiamente noto. Non so niente di più. Si diceva anche che Cossiga, a un certo punto, avesse detto che avrebbe spiegato perché Peci fosse un carabiniere.

  GERO GRASSI. È stato ufficiale dei carabinieri.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Dalle indagini che abbiamo fatto noi su questo non siamo riusciti ad apportare elementi di novità. Io vi ho parlato soltanto degli elementi di novità che, con la modestia dei nostri mezzi, ritengo che noi abbiamo apportato alla conoscenza complessiva dell'affare.

  PAOLO CORSINI. Io sono molto grato al presidente Pellegrino per la sua presenza, perché credo che anche stasera, per quanto mi riguarda, anche alla luce dell'esperienza che ho vissuto come componente della Commissione stragi per una determinata fase, prima delle mie dimissioni, egli abbia confermato di essere non solo uno straordinario conoscitore, ma anche un acutissimo interprete di queste vicende.
  Posso rendere una testimonianza diretta delle modalità, dell'acribia e della tenacia con le quali ha condotto i lavori della Commissione nel corso della XIII legislatura.
  Peraltro, anche sotto un altro profilo credo sia meritoria la sua attività, perché ha fornito agli studiosi e agli storici fonti assolutamente indispensabili, accompagnate da interpretazioni che la storiografia ha suffragato. La declinazione che ha fornito, per esempio, della categoria di Franco De Felice del «doppio Stato», il tema della doppia fedeltà, la categoria della guerra a bassa intensità e l'oltranzismo atlantico sono ormai entrati nel linguaggio comune di chi si occupa di questi problemi.
  Vengo alle domande. Senatore Pellegrino – le darò del lei perché siamo in sede istituzionale – io sono andato a rivedermi la conversazione che lei ha avuto con Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri nel volume Segreto di Stato. Mi fa piacere che lei abbia concluso l'esposizione Pag. 21di questa sera tornando su Firenze e sulla figura di Giovanni Senzani, il quale, peraltro, è stato certamente processato e condannato, ma non per il caso Moro. Senzani è stato sicuramente, lei scrive, «il leader dell'ala più sanguinaria delle BR». Poi ricostruisce la sua biografia prima di studioso, poi di terrorista e – diciamo così – la sua attività. Incalzato dalle domande dei due giornalisti, sostanzialmente lei giunge a questa conclusione: «Mi pare chiaro: era il cervello politico delle BR e aveva forti rapporti con gli apparati». Nel momento in cui lei evoca la presenza degli apparati, i due giornalisti le chiedono di andare più a fondo e lei conclude che «Roberto Buzzati, un brigatista pentito, ha riferito a varie autorità giudiziarie di un possibile incontro avvenuto nella stazione di Ancona tra il Senzani e il generale Musumeci del SISMI». I giornalisti la incalzano sostenendo che, se questo collegamento fosse provato, potrebbe contribuire a chiarire le ultime zone d'ombra dell'intera vicenda. Lei conclude dicendo che non c’è dubbio e che riprenderebbe vigore, per esempio, la tesi del delitto in appalto, che è una delle interpretazioni che ha fornito questa sera.
  Non c’è dubbio, è molto probabile, ripeto, che ci sia un nesso tra Senzani e gli apparati e lei invita ad approfondire questa pista di ricerca. Questa è la prima domanda: vuole meglio chiarire questa ipotesi di lavoro ?
  Passo alla seconda domanda. Nelle molteplici vicende, nei fili intricati, nella matassa aggrovigliata delle possibili trattative e degli spiragli che si cercano di aprire c’è la figura di un sacerdote, don Mennini, il quale, a un certo punto, emigra in Inghilterra, mi dicono che poi è stato in Russia e adesso sembrerebbe tornato in Italia.
  Lei lo ricorda esattamente ? Anche questo è un caso sostanzialmente irrisolto. Anche il senatore Gotor, in quello splendido volume che è Il memoriale della Repubblica, che, peraltro, contiene in qualche misura le risposte rispetto alle quali lei si interrogava in ordine ai tempi e alle modalità della scoperta del memoriale, insiste molto sulla figura di Mennini. È una figura particolarmente emblematica, perché sostanzialmente non parla. Non riferisce qual è stato effettivamente il suo ruolo e di quali segreti sia a conoscenza. Lei riterrebbe utile una convocazione in Commissione, qualora il sacerdote... Non so quali gradi della carriera ecclesiastica abbia acquisito. È vescovo ?

  PRESIDENTE. È nunzio in Inghilterra.

  PAOLO CORSINI. È interessante questo filone, io credo. Potrebbe portare alla luce e svelare aspetti che oggi non sono conosciuti.
  Infine, c’è la figura di Casimirri, che mi pare viva in Guatemala.

  GERO GRASSI. In Nicaragua.

  PAOLO CORSINI. In Nicaragua. Anzi è titolare, mi dicono, di uno dei ristoranti migliori di Managua – c’è un amico che lo frequenta – ed è un personaggio assolutamente amletico e impenetrabile. Che impressione ha avuto, che ruolo assegna lei a Casimirri ? Che ruolo ha giocato in tutta questa vicenda, secondo lei ?
  Queste sono le tre domande: Senzani, Mennini e Casimirri.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Rispondo prima alla seconda domanda. Non c’è dubbio che sarebbe interessante sentire don Mennini. Io provai a convocarlo in Commissione e lui si trincerò dietro lo stato di ministro vaticano e, quindi, rifiutò di venire.
  Che potrebbe dire ? Potrebbe spiegarci meglio la condizione della prigionia, perché Mennini è la prova vivente del canale di ritorno. L'ipotesi più probabile è che, a un certo punto, nel rapporto che si era stabilito fra Moro e i suoi carcerieri, Moro si sia voluto confessare e Mennini sia andato nel carcere e gli abbia portato i ricordi.

  PAOLO CORSINI. Se fosse provato che è stato nel carcere, sarebbe un dato non irrilevante.

Pag. 22

  GIOVANNI PELLEGRINO. Io volevo sentire per questo motivo Mennini, ma non volle venire in audizione.
  Quanto a Casimirri, è uno di quelli che emergono in via Fani con una certa fatica. Nelle ricostruzioni iniziali non era individuato come uno dei membri del gruppo di fuoco. Rimanda, con la moglie Rita Algranati e insieme a Loiacono, ad ambienti romani che sono al di là del Tevere, ma di costruire su questo romanzi non me la sentirei. È probabile che i rapporti che aveva con gli ambienti di Oltretevere gli siano valsi quella protezione per cui l'estradizione non è stata concessa, ma non ho elementi per andare al di là.
  La terza domanda che cosa riguardava ?

  PAOLO CORSINI. Senzani e Musumeci.

  GIOVANNI PELLEGRINO. A me restano impresse più le audizioni che i documenti. Noi restammo sbalorditi quando Tindari Baglione ci disse: «Certo che eravamo deboli nel combattere le Brigate Rosse perché la polizia e le Brigate Rosse avevano lo stesso consulente, cioè Senzani».
  Senzani, quindi, è un uomo che ha rapporti provati, storici con gli apparati. Se sentite Tindari Baglione, potrebbe spiegarvi anche meglio in che modo facesse consulenza alla polizia e anche alle Brigate Rosse. Pertanto, che abbia potuto incontrare un uomo dei servizi è normale.
  Tutto sommato, se tutte queste cose si mettono insieme e si uniscono anche alla dichiarazione di Cappelletti, che mi sembra importante, si capisce che, a un certo punto, in una parte degli apparati, ci si era fatto il conto che Moro morto fosse più conveniente di Moro vivo. In questo ha ragione la famiglia.
  Attribuire questo a Cossiga mi è sempre sembrata una cattiveria e un'ingiustizia, perché Cossiga ha sofferto moltissimo della morte di Moro, probabilmente anche perché, a un certo punto, si è sentito prigioniero impotente di un meccanismo che portava a quella conclusione.

  PAOLO CORSINI. Voglio aggiungere io un particolare piccolo, ma non irrilevante.
  A conferma del fatto che Senzani intrattiene rapporti con l'apparato dello Stato sta il fatto che inizia la sua carriera di sociologo come consulente di un istituto carcerario di rieducazione per minorenni, infatti pubblica con Jaca Book, agli inizi degli anni ’70, un rapporto in ordine a questa sua esperienza. Fin dai primi passi della sua carriera, quindi, ha sicuramente un rapporto con le istituzioni preposte alla prevenzione e alla sanzione del crimine, anche se del crimine compiuto da giovanissimi, da adolescenti.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Nei racconti di Borges c’è spessissimo questo tipo umano, che comincia a contrastare il crimine, per contrastarlo ci si infila dentro e poi diviene prigioniero del meccanismo, diventando criminale lui stesso.

  GIACOMO CALIENDO. Presidente Pellegrino, devo dire che mi ha colpito molto la sua espressione: «Può darsi che l'abbia riferito a un professore a Bologna». Io non credo al complotto o al mandato.
  In quegli anni ero al Consiglio superiore della magistratura. Prima del sequestro Moro noi iniziammo – allora non c'erano le sedute pubbliche – una serie di incontri tra i procuratori generali d'Italia, il Ministro dell'interno, che era Cossiga, e il Ministro della giustizia, che era Morlino. Il sequestro Moro avviene durante questo periodo in cui, mancando una correlazione tra le procure – non vi era scambio, non esistevano nemmeno norme di scambio di notizie – quelle riunioni avevano queste finalità.
  Essendo lei stato presidente di quella Commissione, che era non solo sul processo Moro, ma sul terrorismo, avrà acquisito – glielo domando – i volantini che hanno rivendicato l'uccisione dei vari magistrati. Avrà notato che per circa i due terzi le indicazioni che vengono citate nei volantini di rivendicazione riguardano dichiarazioni e passi di interventi svolti in convegni del Centro di prevenzione sociale che, prima che i magistrati fossero ammazzati, non erano ancora stati pubblicati.Pag. 23
  Come secondo passaggio, noi non dobbiamo pensare che quelli delle Brigate Rosse fossero degli sprovveduti. Certamente da tutti gli atti, ma anche da quello che si percepiva all'epoca, risulta un forte finanziamento della borghesia italiana. Non è solo Feltrinelli. C’è una serie di rapporti della borghesia del Nord che ragionava in quell'epoca, come avviene nel nostro Paese, pensando: «Può darsi che poi vincano». Non era questo, però, il periodo di Moro. Era il periodo immediatamente successivo. Prima c'era solo un finanziamento.
  Lei ha colto la mia curiosità su via Monte Nevoso, perché quel covo vuol dire due cose. Una è che Dalla Chiesa si è portato via i documenti. Ma ne siamo certi ? Le polemiche dell'epoca me le ricordo ancora. La seconda è: fu trovato lì il memoriale – vi ricordate la polemica del muro, della rottura del muro dietro – oppure vi fu portato ?

  FEDERICO FORNARO. Nel 1990.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Certo, via Monte Nevoso è allora, non è immediatamente dopo.

  FEDERICO FORNARO. I riferimenti che ha fatto il presidente Pellegrino sono al 1978.

  GIACOMO CALIENDO. Ma non quello del documento che fu ritrovato.
  Dopodiché, Dalla Chiesa nel 1978 brancolava nel buio. Anzi, quando è stato ammazzato Guido Galli, io sono andato con Morlino a Milano. Pertini mi chiamò per mandarmi con il suo aereo. La notte alle quattro siamo rientrati e Dalla Chiesa mi chiese di intervenire sulla Commissione giustizia della Camera di allora, cosa che poi non feci, perché voleva un finanziamento, e credo che lo ebbe. Chiedeva allora alcuni milioni senza rendiconto per poter svolgere quell'attività di collegamenti e infiltrazione che non aveva ancora realizzato.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Devo dire che le sue informazioni hanno per molti profili uno spessore maggiore delle mie. Io, che spesso ragiono – forse sbagliando – da giurista, sono rimasto sempre colpito dagli atti che conferivano i poteri speciali a Dalla Chiesa. Erano atti che mettevano insieme poteri di polizia giudiziaria, poteri di polizia di prevenzione e poteri di intelligence. Pertanto, se uno deve valutare il comportamento del generale Dalla Chiesa, non può non pensare che, a un certo punto, egli operasse e ragionasse anche nella logica dell’intelligence.
  Forse oggi bisognerebbe domandarsi se gli uomini che hanno collaborato con Dalla Chiesa e che poi vengono criminalizzati non abbiano anche dopo continuato a obbedire a criteri di intelligence, per i quali una qualche intelligenza con il nemico si deve sempre avere, perché quello è il canale che offre informazioni.

  PAOLO BOLOGNESI. Innanzitutto la ringrazio di quest'audizione, che è stata sicuramente molto preziosa per i lavori della Commissione, anche per la ricostruzione di tutti gli avvenimenti che ha illustrato. Io ho una serie di domande che si collegano, perché in gran parte del suo eloquio sono state fornite alcune parvenze di risposte, ma non completamente.
  La prima domanda è la seguente: lei ha maturato un'opinione sul perché le Brigate Rosse decisero di non rendere pubbliche le rivelazioni di Moro sulla strategia della tensione, su Gladio e i suoi giudizi su Andreotti e Cossiga ? Lei dice che, a un certo punto, le Brigate Rosse decidono di non pubblicare.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Perché le utilizzano come merce di scambio, o provano a utilizzarle come merce di scambio.

  PAOLO BOLOGNESI. Merce di scambio in che senso ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Con gli apparati. Potevano esserci gli apparati orientali che volevano carpire il segreto o quelli occidentali che volevano coprirlo. È possibile che la trattativa si sia svolta su due tavoli contemporaneamente. Come si sia Pag. 24conclusa non lo so. Dalla Chiesa sospettava che si fosse conclusa e, infatti, lo dice alla Commissione Moro. Dice che hanno trovato soltanto la seconda battitura e chiede dove sia l'originale, dove sia la prima battitura, dove siano finite le borse e via elencando.

  PAOLO BOLOGNESI. Il fatto che una delle stampanti che usavano i brigatisti fosse dei servizi segreti non può indicare un collegamento da parte dei servizi con coloro che tenevano Moro ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Non so se i brigatisti usassero una stampante che veniva usata dai servizi segreti. So che Chichiarelli falsifica la testina rotante della macchina da scrivere per dare autenticità al falso comunicato sul Lago della Duchessa. Su quell'altro aspetto non so nulla.
  Il materiale su Moro, però, è infinito. Io riconosco con franchezza che non l'ho letto tutto.

  PAOLO BOLOGNESI. Lei prima ha citato l'episodio di Scàlfaro, che, a un certo punto, parla di altre intelligenze sul caso Moro. Lei ha anche riferito che, nel colloquio che ha avuto con lui, Scàlfaro ha sminuito la questione.
  Nel parlare della P2, poi, ha detto quello che ha detto, cioè non è che abbia visto la pericolosità della P2 come l'aveva vista Tina Anselmi.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Non ho voluto dire questo. Ho voluto dire che la P2 è qualcosa di complesso. C'erano fedeli servitori dello Stato, come Dalla Chiesa, che si iscrivevano alla P2 per fare carriera; c'erano fior di mascalzoni; c'erano persone che tutto sommato obbedivano a interessi diversi dall'interesse nazionale.

  PAOLO BOLOGNESI. Però in tutti i comitati di crisi costituiti da Cossiga ci sono membri della P2. I verbali non vengono trovati, tranne due forniti da Napolitano quando era Ministro dell'interno. La domanda è questa: secondo lei, quello può essere un filone su cui indagare o si deve cercare di recuperare gli altri verbali, ammesso che possano essere ancora esistenti, per poter far luce su quei cinquantacinque giorni anche da quel versante ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Sì, sapendo però che se uno guarda il cielo della P2 vedrà che è pieno non di stelle, ma di stellette. Negli elenchi della P2 i militari erano in grande prevalenza, perché secondo me avevano bisogno di accreditarsi per fare carriera.

  PAOLO BOLOGNESI. Potrebbe essere comunque una strada, per intenderci.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Non toglie che alcuni di quelli fossero fior di mascalzoni.

  PAOLO BOLOGNESI. Lasci stare, adesso, i mascalzoni che secondo me erano proprio fior di mascalzoni. Il problema è questo: il filone dei verbali dei comitati di crisi può essere...

  GIOVANNI PELLEGRINO. Noi riuscimmo ad acquisirli solo in parte. Se si acquisissero anche gli allegati, come è scritto in una delle relazioni, lo riterrei un risultato importante.

  PAOLO BOLOGNESI. Un'altra cosa. Lei, in più occasioni, ha affermato che l'unica verità certa è che la versione ufficiale delle ultime ore di vita del politico DC è falsa e che le cose non andarono così. Prima ha citato la detenzione in un posto chiuso molto piccolo. Nel momento in cui fu fatta l'autopsia di Moro, sia per la pulizia, sia per la tonicità dei muscoli eccetera, si vide che aveva avuto la possibilità di muoversi, di pulirsi e via di questo passo. Avete maturato delle idee su quali altri posti possano essere stati le sue prigioni, oltre via Montalcini ? Anche se via Montalcini non è poi detto che sia stato...

  GIOVANNI PELLEGRINO. Come conclusioni della Commissione, no. Un consulente Pag. 25della Commissione, Giuseppe De Lutiis, per esempio, aveva delle idee molto chiare – riteneva di sapere anche il posto in cui Moro poteva essere stato prigioniero – però secondo me erano intuizioni, che restavano nel campo delle ipotesi.
  Non so se Moro si sia spostato da via Montalcini. Quell'ultimo brano del memoriale sembra dire di sì, cioè che lui non fosse più nella condizione originaria di prigionia («nel lungo periodo in cui sono stato prigioniero delle Brigate Rosse»), però la certezza dell'altro luogo in cui era prigioniero non ce l'abbiamo. Probabilmente era più vicino a Palazzo Caetani. Infatti, se rileggete i risultati dell'autopsia, vedete che Moro non muore subito. Malgrado le raffiche delle due armi, Moro non riceve nessuna ferita che lo uccide immediatamente. La versione dei brigatisti è che gli sparano nel portabagagli della Renault e lo coprono con la coperta. Tuttavia, mi dicevano – non ne sono sicuro, non è una verifica che ho fatto io – che il vano bagaglio della Renault e la coperta non erano perfettamente in linea con la descrizione dell'esecuzione. Comunque, se Moro non muore subito, è mai credibile che i brigatisti chiudano il portabagagli della Renault – un portabagagli dentro al quale si guarda, essendo privo di copertura – e con un agonizzante attraversino la città di Roma, che era piena di posti di blocco ? Il sospetto che l'uccisione di Moro avvenga in un luogo più vicino a via Caetani è fortissimo, perché non è verosimile la storia che raccontano.
  È certo, documentalmente, che gli avessero detto che lo avrebbero ucciso. Lo scrive Moro: «Ormai è fatta. Mi hanno promesso che faranno trovare il corpo e alcuni ricordi».

  PAOLO BOLOGNESI. Un'altra cosa. Alla presentazione del libro di De Lutiis, lei ha avanzato seri dubbi sulla dinamica del sequestro Moro. Lei ha detto: «Non si sa ancora quanti e chi fossero i brigatisti che parteciparono all'agguato; di certo non sette o nove, di cui hanno parlato sempre i brigatisti. Basti pensare che per un sequestro come quello assai più facile del giudice Mario Sossi nel 1974 è stato accertato che vi parteciparono diciannove brigatisti. C’è da supporre che in via Fani siano stati almeno venti o trenta. Ancora non si conosce la loro identità, salvo renderci conto, dopo le perizie balistiche, che l'eliminazione della scorta di Moro è stata compiuta da due soltanto, capaci, per la loro abilità militare, di sparare una gragnuola di colpi in modo da uccidere i cinque uomini della scorta con matematica precisione senza torcere un capello al Presidente».
  Su questo voi avete fatto delle valutazioni più approfondite ? Siete andati oltre ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Siamo rimasti agli accertamenti giudiziari e all'audizione di Morucci. La cosa che appare scarsamente verosimile è il fuoco incrociato; che sparino dai due lati della strada è un'operazione pericolosa e difficilissima. Questo potrebbe giustificare perché avevano la divisa dell'aeronautica: la divisa serve a individuare i bersagli, a distinguere l'amico dal nemico. Però sparano dai due lati, con il rischio fortissimo di ferirsi. Quindi, sembra effettivamente un'operazione a un livello militare non proprio delle Brigate Rosse.
  C’è il sospetto – che resta tale – che ci potesse essere qualche tiratore scelto che ha dato loro una mano in quell'occasione. Qui dentro, però, la Faranda diede una risposta che gelò la Commissione. Quando le fu contestato che l'assalto di via Fani non sembrava a livello della preparazione militare dei brigatisti lei disse: «Sparare con un mitra a distanza ravvicinata non è difficile. Quello che è difficile è raggiungere dentro di sé la convinzione che quello a cui stai sparando non è un uomo, ma un bersaglio». Restammo agghiacciati.

  PAOLO CORSINI. Vi ha gelato soprattutto Morucci, dicendo questo, perché i due erano compresenti, se ben ricordo.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Però Morucci non mi fece una grande impressione.Pag. 26
  Senatore Caliendo, lei ha detto una cosa molto giusta. Su tutta la vicenda delle Brigate Rosse l'Italia sconta un fenomeno di rimozione collettiva. Noi abbiamo con troppa facilità confinato tutta la violenza degli anni ’70 in una pura dimensione criminale, senza renderci conto di quanti legami ci fossero fra quelli che poi hanno pagato per tutti e quelli che l'hanno fatta franca. Di questo sono convinto.
  Sono persuaso, per esempio, che Dalla Chiesa, proprio nella logica dei poteri di intelligence che aveva, ha trattato promettendo impunità in cambio di informazioni che gli hanno consentito di smantellare le Brigate Rosse.
  Una volta in televisione c'erano Cossiga e Andreotti. I due, com’è noto, non andavano d'accordo, erano troppo diversi. Però in televisione era tutto un «Giulio mio», «Francesco mio» eccetera. A un certo punto, parlando delle Brigate Rosse e di queste zone di contiguità, Andreotti disse: «Io non escludo che per interesse o per calcolo politico ci siano potuti essere questi tipi di rapporti tra ceti borghesi e Brigate Rosse». Cossiga aggiunse, con una perfidia incredibile: «O per irresponsabile civetteria». Mi faceva pensare alla bella signora che la sera aspettava il brigatista che andava a trovarla; quello arrivava, si toglieva la P38 e lei era già in deliquio. Quell'espressione mi fa pensare che sapessero qualche cosa a proposito di rapporti con chi l'ha fatta franca.
  Poi quello che ci disse Maccari. Leggete la sua audizione. Ci disse che saremmo rimasti stupiti se avessimo saputo cosa faceva in quegli anni tanta parte della buona società romana per avere a cena il capo guerrigliero. E il capo guerrigliero era lui. Lui era uno di Potere operaio e proveniva da Centocelle; era un popolano, un artigiano. Però era il capo guerrigliero.
  Questo lo abbiamo rimosso, perché poi soltanto alcuni hanno pagato per tutti; e se ora vanno in televisione tutti gridano allo scandalo, in realtà ci sono responsabilità collettive di cui in qualche modo tutti ci dovremmo fare carico.

  PAOLO BOLOGNESI. Altre due domande. Alcuni giorni fa si è svolta l'audizione del Sottosegretario Minniti ed è stato affrontato il discorso della declassificazione e del versamento all'archivio storico dei documenti anche del caso Moro. Le domando se, in qualità di presidente della Commissione stragi, richiese alle varie amministrazioni dello Stato un inventario di tutti i documenti sul caso Moro che non erano mai stati consegnati alla magistratura, se questa richiesta fu evasa e se gli elenchi furono coperti da classifica da parte degli enti originatori.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Qual è la domanda ?

  PAOLO BOLOGNESI. Lei l'elenco di questi documenti l'ha chiesto ai vari centri originatori degli stessi ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. Noi non facevamo che chiedere documenti. Non ricordo se abbiamo chiesto questo elenco. Quello che è certo è che come Ufficio di presidenza della Commissione stragi, alla chiusura della nostra esperienza, deliberammo che tutto doveva essere declassificato e messo su supporto informatico.
  Un paio di anni fa, essendo Presidente del Senato Schifani, fui invitato all'inaugurazione di questo archivio informatico e scoprii che moltissimi documenti non erano stati ancora declassificati.
  Secondo me, la vostra Commissione avrà a disposizione documenti che sono ancora coperti da classifica e che voi potete esaminare, mentre non possono esaminarli gli studiosi.

  PAOLO BOLOGNESI. Una domanda sui Carabinieri. In un'altra dichiarazione, lei ha affermato che dicono di non avere l'archivio, ma a lei sembra una cosa molto strana. Ho chiesto al generale Gallitelli se hanno un archivio e non mi ha risposto.
  Non so se lei si è fatto un'idea di come e dove possa essere un archivio di questo tipo.

  GIOVANNI PELLEGRINO. Ricordo di aver detto questo. Qualcuno mi ha detto Pag. 27che poi i Carabinieri lo avrebbero smentito. A me dissero che non avevano un archivio generale perché, essendo un'arma territoriale, avevano gli archivi sparsi per l'Italia. È un'affermazione che può essere credibile come il fatto che io possa fare i cinquanta metri in cinque secondi. Chi può credere che oggi non abbiano gli archivi territoriali collegati ? Nessuno.
  Ciò che è singolare è che la magistratura non ha mai disposto sequestri ai Carabinieri. Fate questa riflessione. Mastelloni è andato al Viminale, si è fatto consegnare da Napolitano, allora Ministro dell'interno, l'elenco delle spie, che è il documento più sacro che dovrebbe essere conservato: non lo si può dare a nessuno, altrimenti le si può condannare a morte. Mastelloni l'ha sequestrato, ma ai Carabinieri non hanno mai sequestrato niente.

  PAOLO BOLOGNESI. Sulla morte di Fausto e Iaio, a Milano, che probabilmente è avvenuta non tanto perché avevano scoperto il covo di via Monte Nevoso, ma i carabinieri o gli uomini dell’intelligence che controllavano quel covo, avete approfondito il discorso ?

  GIOVANNI PELLEGRINO. No, era un problema che affiorava spesso nel dibattito della Commissione, però non abbiamo fatto accertamenti specifici.
  La situazione in cui vi trovate voi è un oceano sterminato. A un certo punto si deve scegliere una rotta. Si sceglie una rotta, si visitano alcuni isolotti e si lasciano perdere gli altri.

  PRESIDENTE. Sono ancora iscritti a parlare il senatore Fornaro, l'onorevole Galli, l'onorevole Distaso, l'onorevole Cozzolino, l'onorevole Garofani e l'onorevole Carra.
  Rinvio il seguito dell'audizione a martedì 18.

  La seduta termina alle 22.30.