Camera dei deputati

Vai al contenuto

Sezione di navigazione

Menu di ausilio alla navigazione

MENU DI NAVIGAZIONE PRINCIPALE

Vai al contenuto

Resoconti stenografici delle audizioni

Vai all'elenco delle sedute >>

XVII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 16 di Venerdì 10 aprile 2015

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 3 

Audizione del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, Paolo Gentiloni, sui recenti attacchi terroristici contro le minoranze cristiane nel mondo (ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del Regolamento):
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 3 
Gentiloni Paolo , Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale ... 3 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 7 
Amendola Vincenzo (PD)  ... 7 
Di Battista Alessandro (M5S)  ... 9 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 10 
Anzaldi Michele (PD)  ... 12 
Gentiloni Paolo , Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale ... 12 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 14 
Gentiloni Paolo , Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale ... 14 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 14

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: LNA;
Per l'Italia-Centro Democratico: (PI-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera: Misto-AL.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE FABRIZIO CICCHITTO

  La seduta comincia alle 17.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, Paolo Gentiloni, sui recenti attacchi terroristici contro le minoranze cristiane nel mondo.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, Paolo Gentiloni, sui recenti attacchi terroristici contro le minoranze cristiane nel mondo.
  A nome di tutta la Commissione ringrazio il Ministro per la sua disponibilità allo svolgimento di questa audizione, che ha luogo a ridosso del suo rientro da una delicata visita in Kenya finalizzata a testimoniare la vicinanza e la solidarietà dell'Italia dopo la strage dei centoquarantotto studenti trucidati dai terroristi fondamentalisti il 2 aprile scorso nel campus universitario di Garissa, nel nord-est del Paese, a centocinquanta chilometri dalla frontiera con la Somalia.
  Sulla strage è intervenuto anche il Papa, invocando una presa di posizione da parte della comunità internazionale.
  Ringrazio il Ministro non solo per aver accolto la nostra richiesta di audizione, avanzata all'indomani della strage, ma anche per la sensibilità dimostrata con la sua decisione di recarsi in Kenya come primo ministro europeo dal giorno dell'attentato a sostegno della comunità cristiana, che in tale Paese rappresenta la maggioranza della popolazione (circa il 70 per cento), e dello sforzo profuso dalle autorità kenyane contro il terrorismo di matrice jihadista.
  Negli ultimi mesi si è assistito a una parabola ascendente di attentati e di massacri in numerosi Paesi a maggioranza islamica ai danni delle comunità cristiane autoctone, in quanto sempre più spesso identificate con l'Occidente e con talune leadership locali oggi assai fragili. È il caso della Siria e dell'Iraq, ma anche della Nigeria e del Pakistan. Il 2014 è stato un anno tragico, con almeno 4.334 persone uccise in quanto cristiane e oltre mille luoghi di culto distrutti per la stessa ragione. Se tra i primi cinque Paesi nemici dei cristiani compare la Corea del Nord, lontanissima geograficamente e ideologicamente dall'epicentro della neo-jihad, il primato per numero di attacchi è detenuto purtroppo dalla Nigeria, dalla Siria, dalla Repubblica Centrafricana e dal Kenya.
  Premesso tutto ciò, invito il Ministro a svolgere il suo intervento.

  PAOLO GENTILONI, Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale. Ringrazio il presidente e la Commissione per l'occasione che mi è offerta di affrontare in tempo quasi reale un tema così sensibile, su cui credo ci sia una forte e condivisa sensibilità parlamentare.
  La persecuzione dei cristiani è una delle sconvolgenti realtà del tempo che viviamo e credo che farsene carico ci riguardi come italiani e come parlamentari, credenti e non credenti. È una delle Pag. 4minacce più gravi a cui oggi assistiamo. Ignorarla credo non sarebbe prova di spirito laico, ma di ignavia; la stessa ignavia che vent'anni fa, come mi è capitato di ricordare, portò la comunità internazionale ad assistere passivamente alla strage di 8.000 bosniaci di fede musulmana a Srebrenica. Era il luglio 1995.
  Come sapete, sono tornato dal Kenya un'ora fa. Lì ho incontrato la Ministra degli esteri, Amina Mohamed, e l'Arcivescovo metropolita di Nairobi, cardinale Njue, per testimoniare la vicinanza del Paese. In primo luogo, è stato molto apprezzato il fatto che il Governo italiano sia stato tra i primi – certamente il primo tra i governi occidentali – a compiere una visita di solidarietà. In secondo luogo, il Kenya è un Paese sotto shock dopo questo attacco, per tante ragioni. La prima è che si trattava dell'unica università nella zona settentrionale del Paese. Peraltro, hanno deciso di chiuderla, ma si discute su quanto debba durare questa chiusura.
  Il Kenya è sotto shock anche per le caratteristiche dell'attacco all'università di Garissa. Da un lato, c’è il fatto – che ha colpito la nostra attenzione nell'ambito della persecuzione dei cristiani – che i terroristi sono entrati e hanno separato gli studenti in base alla loro fede religiosa, eliminando 142 studenti di religione cristiana, oltre che 6 operatori dell'università.
  Dall'altro lato, ci sono le caratteristiche del commando di Al-Shabaab protagonista dell'attentato, il cui responsabile secondo le autorità kenyane – ma di questo si discute molto nel Paese – sarebbe uno studente universitario di famiglia abbiente, laureato in legge. Questa sarebbe una lettura diversa da quella che altre volte si è data del fenomeno, visto soltanto come infiltrazione di Al-Shabaab dalla Somalia e sfruttamento di condizioni di povertà e di emarginazione. Questo fa sì che la classe dirigente e l'opinione pubblica del Kenya lo vivano come un fenomeno più interno, se così si può dire.
  Certamente lo shock riguarda la comunità cristiana, che come ricordava il presidente Cicchitto è maggioritaria in quel Paese, sia come chiesa cattolica che come chiesa anglicana. In tutta la zona nord del Paese, per esempio, ci sono state molte difficoltà a svolgere le normali funzioni religiose delle festività di Pasqua per la preoccupazione, mentre lo stesso non è successo a Nairobi, come ci ha tranquillamente detto l'Arcivescovo.
  Da ultimo, per parlare del Kenya, dobbiamo anche ricordare che l'azione terroristica di Al-Shabaab è molto insidiosa e pericolosa in questo momento perché la sua matrice qaedista e le sue radici somale possono essere certamente influenzate dalle tensioni che esistono in questo momento nello Yemen. Yemen e Somalia sono uno di fronte all'altro, come sapete, e c’è il rischio che lo scontro in atto nello Yemen lasci la parte più orientale del Paese nelle mani di Al Qaeda. Al Qaeda nasce nello Yemen e si estende in Somalia. Quella è la base da cui parte la storia di Bin Laden e del terrorismo di matrice qaedista.
  Su questo c’è preoccupazione da parte delle autorità di Nairobi e c’è la segnalazione anche da parte loro del fatto che un'adesione, almeno simbolica via internet, di queste formazioni alla propaganda del Daesh cominci a essere presente anche in quell'area.
  Nel corso della visita ho espresso la nostra disponibilità a collaborare su alcuni fronti, in primo luogo nel campo dell'addestramento e dell'attività di contrasto al terrorismo. Come sapete, in Somalia svolgiamo un ruolo di primo piano nel sostegno al processo di stabilizzazione. Guidiamo infatti la missione europea di addestramento dell'esercito somalo, di cui esprimiamo il comandante, generale Maggi, e a cui forniamo il contingente più numeroso. Facciamo attività di formazione con le forze di polizia somale insieme all'Arma dei Carabinieri e abbiamo offerto la disponibilità a svolgere questa attività di formazione a Velletri anche per venti unità kenyane impegnate nel contrasto al terrorismo.
  Un altro messaggio che è stato molto apprezzato è stata la disponibilità alla collaborazione nel settore universitario, a cui il Ministero degli affari esteri e della Pag. 5cooperazione internazionale ha lavorato con il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Abbiamo presentato la disponibilità di venticinque borse di studio, destinate agli studenti di Garissa, per il prossimo anno accademico in nove università italiane che nel frattempo si erano rese disponibili.
  Inoltre abbiamo reso disponibili percorsi accelerati, sportelli e corsie preferenziali presso la nostra ambasciata per facilitare la pre-iscrizione da qui a giugno e l'ottenimento del visto da parte dei circa 500 studenti dell'università di Garissa, che è stata chiusa. Si trattava di una università di eccellenza, i cui studenti venivano da diverse parti del Kenya.
  La cosa è stata molto apprezzata. La Ministra degli esteri ha detto che chiederà agli altri Paesi dell'Unione europea di fare qualcosa di simile. Questo potrebbe creare tra Paesi europei un meccanismo di emulazione nella cooperazione, che credo sarebbe molto positivo.
  Dico questo non solo per ricordare una delle nostre tante iniziative di cooperazione, ma per dire che sono colpiti gli studenti universitari non a caso, e gli studenti di religione cristiana non a caso. Rispondere denunciando le persecuzioni dei cristiani e gli attacchi alla cultura, all'università e al diritto all'istruzione è molto importante.
  Non dimentichiamo mai che Boko Haram significa «l'educazione occidentale è un peccato». Non dimentichiamo mai che i talebani hanno, come loro bersagli, innanzitutto le donne che studiano e cercano di acquisire un livello di istruzione. I cristiani e contemporaneamente gli studenti, questo si è voluto colpire da parte di Al-Shabaab.
  Il fenomeno dell'intolleranza religiosa e della persecuzione dei cristiani si è enormemente diffuso nell'ultimo periodo tra il Sahara e il golfo di Guinea, in un'area cioè in cui la convivenza tra religioni diverse era un tempo un fatto normale. Boko Haram, da questo punto di vista, ha diffuso il terrore in alcune zone del nord della Nigeria, allargando il suo raggio d'azione verso nord, altri Paesi. In Medio Oriente Daesh e altri gruppi terroristici cercano addirittura di annientare o espellere intere comunità minoritarie cristiane, che sono parte imprescindibile del tessuto sociale della regione, di cui hanno tradizionalmente favorito la stabilità e lo sviluppo.
  Credo che tutti siamo chiamati in causa di fronte alla esecuzione selettiva e sistematica di vittime innocenti cristiane e alla distruzione di luoghi di culto e dei simboli del cristianesimo in quella che ne è stata la culla.
  Ricordo che a dicembre il Papa, in una lettera ai cristiani di Oriente, definì i cristiani di quell'area un piccolo gregge con una grande responsabilità. Piccolo perché ormai in Iraq si ritiene che la comunità cristiana abbia una consistenza numerica ridotta a circa 300.000 unità, mentre fino al 2003 erano circa 1,5 milioni. Questi 300.000, come sapete, sono divisi tradizionalmente in tre gruppi, cioè caldei, assiri e siriaci occidentali. Si tratta di un piccolo gregge con una grande responsabilità perché vive in luoghi, come la Piana di Ninive e altri siti in Iraq, che in un certo senso sono la culla del cristianesimo.
  Insieme alla minoranza yazida, un'altra minoranza di culto zoroastriano presente in Iraq e in altre parti fino all'Armenia, la comunità cristiana è una di quelle più vulnerabili. È molto difficile – l'ho verificato io di persona, ma credo anche la Commissione, visitando la zona di Erbil – indurre le popolazioni cristiane cacciate a tornare in quelle aree perché la situazione è molto pericolosa. Il rischio che lo sradicamento diventi permanente è notevole. Questo vale anche per le minoranze yazide e in particolare per le donne yazide, che sono state oggetto di una specifica persecuzione da parte di Daesh.
  In Siria c'era una presenza cristiana, prima della crisi, molto consistente. Si trattava di circa 2,2 milioni di persone. Tuttora la consistenza numerica di questo gruppo è maggiore rispetto all'Iraq, ma la condizione di emergenza che riguarda i rifugiati, come vediamo e misuriamo tutti Pag. 6i giorni, da ultimo attraverso la vicenda del campo palestinese di Yarmuk, rappresenta un allarme anche qui.
  Sappiamo bene che atti simbolici di violenza barbarica hanno preso di mira anche cristiani di altre nazionalità, come nel caso dei ventuno egiziani di religione copta sgozzati da Daesh sulle spiagge di Sirte o degli attentati alle chiese cristiane di Lahore in Pakistan di un mese fa.
  In generale, direi che il fenomeno ha due caratteristiche che si intrecciano tra loro.
  Da una parte c’è il tentativo di un vero e proprio sradicamento di presenze plurisecolari e minoritarie in alcune zone. Il caso classico è l'Iraq. Dall'altro lato c’è il tentativo di prendere a bersaglio i cristiani, anche dove non sono minoranza ma maggioranza, identificandoli come un simbolo dell'Occidente, del male, del nemico del terrorismo fondamentalista.
  Cosa possiamo fare ? Innanzitutto credo sia fondamentale per il Governo e per il Parlamento, che lo ha fatto a più riprese, sollevare la questione. Come dicevo all'inizio, parlare di persecuzione dei cristiani oggi è prendere atto di una realtà senza girarsi dall'altra parte. Non è una scelta di fede: è una scelta da parlamentari e da cittadini italiani. Ognuno ha la sua fede e sappiamo bene che la fede cristiana ha particolari radici storiche e di fatto nel nostro Paese. Tengo però a dire che denunciare le persecuzioni dei cristiani in questo momento è una scelta che i francesi definirebbero «repubblicana».
  Dobbiamo farlo il più possibile nei contesti multilaterali, quali Unione europea e Nazioni Unite, sostenendo un punto molto delicato, ma in fondo molto semplice, e cioè che la libertà religiosa non è meno importante di altre libertà fondamentali per le quali noi ci battiamo. Non è che la libertà di espressione, per fare un esempio, valga cento e la libertà religiosa valga meno di cento. Mi rendo conto che non ha senso dare questo tipo di numeri. È solo per dire che ci dobbiamo battere in tutti i contesti multilaterali per affermare la libertà religiosa come una delle grandi libertà del nostro tempo.
  Da ultimo, ma certamente non per importanza, il tema è quello di rendere sempre più efficace il contrasto alla minaccia terroristica, che non è l'unica ma è una minaccia fondamentale nell'ambito della persecuzione dei cristiani. Non è l'unica perché non dobbiamo sottovalutare alcuni contesti locali: penso alle persecuzioni che si verificano in alcune realtà come il Pakistan e che non sempre sono identificabili con l'azione di gruppi terroristici classici. Ci sono persecuzioni che dobbiamo tenere d'occhio nella loro specificità, ma certamente il contrasto al terrorismo è la leva fondamentale.
  Ci siamo detti tante volte in questa Commissione e assieme ad altre Commissioni riunite che si tratta di una sfida ardua, di lunga durata, che va condotta su più piani. Sappiamo che la lotta al terrorismo non può prescindere da una dimensione militare, nella quale peraltro siamo impegnati. Ogni tanto vedo che fa scandalo parlare di una dimensione militare del contrasto al terrorismo, ma noi siamo impegnati nel contrasto al terrorismo in Iraq, in Siria, in Libano, in Somalia, di cui parlavo prima, in Afghanistan.
  Contemporaneamente sappiamo che la dimensione militare del contrasto al terrorismo, pur essendo fondamentale, non è sufficiente. Non è lo strumento attraverso il quale saremmo in grado di sradicare completamente il fenomeno.
  Mi dispiace che su questo punto si aprano discussioni che io ritengo lunari. Mi sembra cosa ovvia e normale sostenere che nel mondo di oggi il contrasto al Daesh e a diverse altre forme di terrorismo non possa che avere anche una dimensione militare. Sembra ovvio, almeno al Governo. Dovrebbe essere altrettanto ovvio che non è solo la dimensione militare che ci consente di vincere questa battaglia, e che in alcuni contesti altre dimensioni possono essere perfino più rilevanti.
  Certamente c’è una dimensione di cooperazione: una dimensione umanitaria, che è irrinunciabile. Basta pensare al dramma dei rifugiati siriani, i cui campi in Giordania ho visitato la settimana scorsa. Pag. 7Anche la situazione dei campi per i rifugiati somali in Kenya, che sono circa 300.000 raggruppati in alcuni campi vicino ai confini con la Somalia, è difficilissima. Stiamo stanziando ulteriori risorse di cooperazione.
  C’è il rischio che nell'opinione pubblica del Kenya emerga una reazione, che il governo non condivide, a sostegno della chiusura dei campi, perché la minaccia arriverebbe da lì, o addirittura a favore del ritiro dei 3.500 uomini che il Kenya impegna in Somalia con le Nazioni Unite perché quella sarebbe la motivazione degli attacchi terroristici.
  In realtà, il terrorismo attacca in Kenya come attacca in varie parti del mondo: individua degli obiettivi, individua dei simboli. Immaginare che non avere una politica di accoglienza nei confronti dei rifugiati possa risolvere il problema invece che moltiplicarlo credo sarebbe miope.
  Anche la dimensione della lotta al finanziamento del terrorismo è fondamentale. Nell'ambito della coalizione anti-Daesh – forse non ne abbiamo mai parlato dettagliatamente in Commissione – si sono creati cinque sottogruppi di lavoro, uno dei quali si occupa della lotta contro il finanziamento del terrorismo ed è co-presieduto dall'Italia: ci lavorano dirigenti del Ministero degli esteri, del Ministero del tesoro e della Banca d'Italia.
  Questa è una dimensione cruciale. La previsione a dimensione territoriale stabile, cioè se Daesh non subisse colpi sul piano del controllo del territorio, è che potrebbe avere a disposizione nel 2015 circa 900 milioni di dollari, per più di due terzi provenienti da banche locali di cui hanno acquisito il controllo, e per il resto da varie forme di contrabbando di petrolio e di altro. La dimensione del contrasto al finanziamento è quindi fondamentale.
  Infine, è sempre più evidente quanto sia fondamentale la sfida interna all'Islam, nella quale noi siamo certamente interpellati. Io sono abbastanza affezionato all'impostazione affermata tra gli altri in modo molto lucido dal re di Giordania, che definisce i terroristi fondamentalisti islamici «rinnegati» e sostiene che la lotta contro i rinnegati dell'Islam deve essere condotta in primo luogo dall'Islam.
  In fondo è la stessa posizione dell'Egitto, dell'Imam dell'Università di Al-Azhar. È una sfida interna, alla quale certamente noi possiamo e dobbiamo collaborare insieme alle comunità nei nostri Paesi e con il comune contrasto del terrorismo. È cruciale, e credo anche che dobbiamo agire contribuendo sul piano diplomatico a contenere, se possibile, le tensioni crescenti tra sunniti e sciiti, che possono diventare un altro fattore di tensione, all'ombra del quale può ulteriormente svilupparsi il terrorismo.
  Sul grande tema della persecuzione dei cristiani la nostra deve essere una risposta di consapevolezza e di coinvolgimento dell'opinione pubblica, per tenere accesi i riflettori anche quando i riflettori, accesi da eventi tragici, si spengono. Una quindicina di giorni fa ho incontrato il cardinale vicario di Roma Vallini, che raccontava che durante la quaresima la raccolta di denaro nelle chiese della diocesi di Roma è stata tutta destinata ai cristiani dell'Iraq. Questo pochi lo sanno.
  Dobbiamo ricordare a noi stessi e al mondo dell'informazione che, quando c’è, un'emergenza giustamente accende i riflettori e sollecita il Governo a intervenire, che questa è un'emergenza permanente e che quindi la nostra attività di diplomazia parlamentare e di cooperazione nonché l'attività di informazione devono essere permanenti, se siamo d'accordo sul fatto che questa è una delle grandi emergenze della contemporaneità.

  PRESIDENTE. Ringrazio il Ministro Gentiloni per il quadro che ci ha reso.
  Do ora la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  VINCENZO AMENDOLA. Ringrazio il Ministro per questo incontro e per la visita fatta in Kenya a nome del Governo italiano, ma credo a nome del sentimento che condividiamo tutti in queste ore, dopo il massacro dei giovani studenti cristiani a Garissa.Pag. 8
  Lei faceva alcune sottolineature che io vorrei riprendere perché è giusto che, come Commissione esteri e come Parlamento, rimaniamo aggiornati continuamente su un'emergenza – parole Sue – della nostra contemporaneità, che riguarda chi non vuole rimanere indignato al riparo del proprio recinto ma si preoccupa di una realtà che può modificare la storia anche di chi non vive in Medio Oriente o in Africa.
  Il Kenya è un Paese simbolico. Emerse lì, come Lei ricordava, la prima violenza di Al Qaeda. Era il lontano 1998 quando ci furono gli attacchi alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania. Esordì lì, all'incrocio tra Africa, Medio Oriente e penisola arabica, l'ideologia di Bin Laden, ovviamente con una prospettiva di attacco all'Occidente. Il Kenya è sempre stato, in quella zona del mondo, un luogo simbolico, dove negli ultimi anni le truppe e le milizie di questa nuova organizzazione Al-Shabaab, legata alla galassia del terrorismo di matrice fondamentalista islamica, ha compiuto attentati.
  Nel 2013 c’è stato un attentato con 67 morti proprio a Nairobi. Colpire lì, come dice lei, cristiani ma anche studenti è un modo per l'organizzazione di dare un segnale non solo al Kenya, impegnato con le Nazioni Unite per stabilizzare la Somalia, ma anche per colpire quel semplice, drammatico equilibrio che regge i rapporti tra i vari continenti.
  Credo che ci troviamo dinanzi alla sfida dell'ideologia totalitaria. È un'ideologia che non prevede minoranze, che non prevede differenze e che, sullo scacchiere che va dal Medio Oriente all'Africa, ha un unico obiettivo: far saltare il «pluriverso» del Mediterraneo, la ricchezza storica del Medio Oriente quale culla delle culture, e costruire, in base a una lettura della religione, l'egemonia politica di alcune organizzazioni che hanno natura totalitaria.
  Io non credo che dobbiamo fare una specificazione sul patrimonio della cristianità in quanto noi veniamo da un Occidente che trova le sue radici nella religione cristiana. Quello che queste organizzazioni vogliono colpire è infatti un patrimonio del Medio Oriente e dell'Africa, dall'Iraq alla Siria, alla Nigeria, al Centrafrica, al Kenya, fino alla Libia.
  Vogliono colpire la diversità colpendo quello che era l'elemento fondamentale della costituzione del Medio Oriente, il «pluriverso», come lo definiva il professor Cassano anni fa, che era la barriera contro chi minacciava non solo la convivenza fra i popoli del Mediterraneo, ma anche l'ordine e la pace internazionale. Come sappiamo, la ricchezza e l'equilibrio etnico, le differenze religiose e storiche che quei Paesi si vivevano erano uno dei fondamenti della forza del Medio Oriente e la sua principale attrazione per quanto riguarda gli incontri del mondo.
  Dobbiamo impegnarci a uscire dall'ignavia e dall'indifferenza sapendo che vengono colpiti i copti egiziani o le minoranze cristiane tra la Siria e l'Iraq, tracciando le case con simboli che conoscemmo nel Novecento europeo, o i cristiani tra la Nigeria e il Kenya perché l'idea del grande califfato, come alcuni la stanno teorizzando, è quella di legare in un'internazionale totalitaria un progetto politico che utilizza la religione come bandiera, da un lato, della pulizia etnica e, dall'altro, della costituzione di nuovi assetti, visti i fallimenti delle dittature e degli assetti statali novecenteschi nel Medio Oriente e nel Mediterraneo. Quello che dobbiamo difendere è quindi un patrimonio non solo della cristianità, ma anche del Medio Oriente.
  Il punto che Lei ci sottopone a proposito di Siria, Iraq, Nigeria, Pakistan o Libia sottintende una strategia complessiva e un'interconnessione anche operativa. Non ci troviamo di fronte a una centrale che muove le direzioni ovviamente, ma i collegamenti tra le varie organizzazioni sono chiari e ben pubblicizzati. Noi dobbiamo rispondere, come Lei indicava anche dalle pagine di un quotidiano, con una strategia comprensiva di vari aspetti.
  Innanzitutto, occorre una risposta diplomatica e politica, basata sempre sulle risoluzioni delle Nazioni Unite e sulla cooperazione. L'elemento diplomatico-politico, su cui facciamo leva anche nel Pag. 9sostegno al suo operato, è frutto di una dinamica tra gli Stati e i Paesi che si muovono nell'area del Medio Oriente e del Mediterraneo diversa dal passato.
  L'idea è quella di costruire coalizioni. A volte esse sono state concepite in maniera asimmetrica, nel senso che le partnership per il Centrafrica dal punto di vista dei componenti hanno una natura differente dalla coalizione contro il Daesh, ma hanno un'ispirazione comune. Sono cioè coalizioni basate sul lavoro diplomatico-politico, sulla cooperazione e sui fondamenti delle Nazioni Unite, che dal 2001 hanno iniziato a codificare le alleanze per combattere il terrorismo fino ad arrivare alle risoluzioni chiare contro il Daesh dell'agosto scorso.
  Su questo possiamo costruire varie opzioni, come Lei ha indicato, ivi comprese azioni mirate di polizia internazionale, che sono codificate nel diritto internazionale. Se le coalizioni di Stati che hanno un obiettivo comune finalmente si orienteranno anche sull'obiettivo comune che queste organizzazioni invece pianificano con una strategia più complessiva, forse potremo arrivare a risultati più forti.
  La settimana prossima, come Lei sa, andremo in Aula con una risoluzione sul tragico bilancio del massacro nel campo profughi di Yarmuk in Siria, dove sono stati colpiti profughi palestinesi, e ringraziamo il Governo per aver prontamente stanziato aiuti. Tutti questi fenomeni sono figli di quella logica. Yazidi, curdi, cristiani, palestinesi sono tutte minoranze che non vengono concepite all'interno di un'ideologia che vuole l'unificazione sotto un'unica bandiera, e non solo sotto una lettura unica di un credo che è invece un credo di pace. È un'impostazione politica egemonica che vuole sconvolgere la mappa del Medio Oriente, dell'Africa centrale e del Mediterraneo.
  Io credo che utilizzando questi vari strumenti, dalla diplomazia alla cooperazione, ad azioni mirate di polizia internazionale sotto l'egida delle Nazioni Unite costruendo coalizioni dedite a questo compito, potremo rispondere ad una minaccia complessiva.
  Dobbiamo portare la comunità internazionale a comprendere, come Lei ben fa negli incontri che ha svolto anche negli ultimi mesi, che ad una minaccia che si fa globale non si risponde in maniera settoriale o dividendosi. L'esplosione del conflitto nello Yemen, da Lei citato, è un elemento di contraddizione nell'ottica che noi proponiamo.
  Ci sarà molto lavoro da fare, ma penso che ci sarà consenso tra le forze politiche. Gli intergruppi nati in Parlamento parlano questo linguaggio. Anche lo sforzo di ragionare tra di noi con le differenze politiche interne, ma con unità di valori, possa essere molto utile.
  Quello che ci preoccupa è che questo continuo coordinamento tra Governo e diplomazia parlamentare è frutto di una età della storia che, come Lei diceva all'inizio, è fonte di tragedie e grande preoccupazione.

  ALESSANDRO DI BATTISTA. Ministro, ultimamente mi hanno colpito due dichiarazioni. Claudia Roth, vicepresidente del Parlamento tedesco, ha detto che l'Arabia Saudita è il principale esportatore di terrorismo in Medio Oriente. Vorrei sapere se Lei è d'accordo con questa affermazione. Un intellettuale americano che si chiama Noam Chomsky ha invece definito Daesh niente di più che una società off-shore dell'Arabia Saudita.
  Lei prima parlava di diritti delle donne in Afghanistan, dove siamo in guerra come ha ammesso anche Lei. Volevo sapere se in Arabia Saudita c’è libertà religiosa, cioè se è possibile costruire una chiesa in Arabia Saudita; se è vero quanto ci risulta e cioè che nel 2013 l'Arabia Saudita è stato il principale partner commerciale di armi dell'Italia. Ha dati rispetto al 2014 ? Ha senso continuare a vendere armi in Arabia Saudita esistendo un dubbio simile, per altro condiviso ? Se non sbaglio Hillary Clinton nel 2009, pizzicata da Wikileaks, dichiarava che l'Arabia Saudita era il bancomat dei terroristi. È cambiato qualcosa ? Noi siamo preoccupati per queste dichiarazioni.Pag. 10
  Non vorremmo che per sconfiggere Daesh, cosa correttissima benché non tutti siano d'accordo sul come – quello che è ovvio per lei, Ministro, magari non è ovvio per qualcun altro –, venga abbattuto Assad, reiterando l'errore gravissimo compiuto con Gheddafi. Come ripeto sempre, non eravamo certo noi a baciare le mani dell'ex dittatore libico, ma gli ex colleghi di partito del presidente Cicchitto. Tuttavia i danni che sono stati fatti allora sono a pochissimi chilometri dalle nostre coste.
  Lei è sempre cortese, Ministro, e perciò Le chiedo una risposta su questo punto. Lei ritiene che oggi l'Arabia Saudita sia un partner così affidabile da vendergli addirittura armi ? Per quale motivo combattiamo per tutelare i diritti umani in determinati Paesi, ma l'Arabia Saudita ci va bene così com’è quando le donne saudite non possono guidare e da un rapporto di Amnesty International emerge che nei primi mesi del 2015 ci sono state 44 condanne a morte, quasi il doppio rispetto al 2014, e quasi tutte per decapitazione ?
  Vorrei capire se l'Arabia Saudita va bene per vendere armi, se è affidabile, se ritiene che la dichiarazione del vicepresidente del Parlamento tedesco sull'Arabia Saudita principale esportatore di terrorismo in Medio Oriente sia vera e se non è preoccupato da un aumento esponenziale del traffico di armi dall'Italia a questi Paesi, che legittimamente sono considerati quanto meno a rischio ingerenza nei confronti del terrorismo.
  Le chiedo una risposta su questo.

  PRESIDENTE. Occorre avere consapevolezza perché la quotidianità talora sovraffolla le impressioni e si perdono i dati di fondo. Probabilmente in Europa negli anni Trenta c'era una quotidianità, per cui anche il fenomeno del nazismo passava come elemento quotidiano.
  Voglio sottolineare due questioni. La crescente persecuzione dei cristiani si intreccia, in una situazione assolutamente paradossale, ad un terrorismo islamico di stampo sunnita o di stampo sciita che contemporaneamente, per varie motivazioni, colpisce in modo generalizzato e comune ad altre tensioni sia i cristiani o le religioni minoritarie, come nel caso degli yazidi – chi è stato a Ebril coglie anche il fatto che le comunità cristiana e yazida rischiano, come diceva il Ministro, di essere disancorate dalla loro realtà, dove vivevano in una situazione minoritaria ma di convivenza e dove non vogliono tornare perché quelli che si sono salvati vivono lo shock di aver perso padri, madri, figli eccetera –, sia altri musulmani.
  Stiamo vivendo una fase assolutamente singolare perché non c’è una persecuzione dell'Islam contro i cristiani, bensì una persecuzione di settori dell'Islam contro i cristiani e contemporaneamente un'azione terroristica di un pezzo di Islam contro altri islamici. È una realtà tra le più drammatiche, piena anche di contraddizioni perché intrecciato a tutto questo c’è quanto sta avvenendo nello Yemen, dove egiziani, sauditi e altre otto o nove nazioni sunnite si sono unite per una contrapposizione all'Iran.
  Abbiamo una complessità molto rilevante. Anche in Iran emerge una dialettica politica atipica, ma assai stringente perché mi sembra evidente che quanto è stato detto da Khatami rispetto all'intesa che si è realizzata sottolinea una certa dialettica. Sembra quasi che Khatami abbia voluto mandare un messaggio al Parlamento americano per accentuare le perplessità e le contraddizioni esistenti.
  Viviamo una fase di questo tipo, in cui il bene e il male sono assolutamente intrecciati. Se ci mettiamo a fare l’«analisi del sangue» di ognuno dei Paesi con cui dobbiamo fare i conti – lo dico a proposito di questa vicenda dell'Arabia Saudita –, a quel punto non dovremmo avere più relazioni con nessuno e chiuderci in isolamento, mentre altrove si scannano.
  Tuttavia, c’è un punto che voglio cogliere che va al di là anche della riflessione che stiamo facendo oggi, ma era contenuto nell'intervista che il Ministro ha rilasciato al Corriere della Sera. È il punto, che sembra ovvio, della globalità della risposta.
  Quando parlo di globalità della risposta dico anche che, secondo me, la risposta culturale, la risposta economica e la risposta Pag. 11militare sono tre aspetti che, se divisi, determinano un'incapacità di risposta. Quella culturale è per certi aspetti fondamentale: non devo dire io che siamo in un Paese che ha, nel retroterra culturale di ognuno, indipendentemente dalle posizioni personali, la lettura della riflessione di Gramsci sull'egemonia. L'egemonia evidentemente si esprime nelle forme più straordinarie e inusitate a seconda dei momenti storici, delle realtà e così via. Non c’è dubbio, però, che nei messaggi e nella comunicazione di Daesh, come di altre componenti, c’è un disegno di egemonia: atipico, perverso, ma c’è un disegno di egemonia. Quindi, la contestazione di quella egemonia all'interno del mondo islamico, secondo me, ha una straordinaria importanza.
  Il discorso fatto da Al Sisi, il discorso fatto dal re di Giordania, un documento molto articolato prodotto da un gruppo di Imam e di personalità del mondo islamico, che è uscito qualche tempo fa, rivestono secondo me una straordinaria importanza. Se non ci fosse questa dimensione dall'interno stesso del mondo islamico, sarebbe una battaglia non dico persa, ma comunque una battaglia tra chi manda messaggi devastanti ma di straordinaria forza e violenza e chi è muto, e chi è muto alla fine perde sempre.
  Vi è un secondo aspetto che, a mio avviso, va al di là del discorso sulla cooperazione, che comunque va benissimo. È uscito, qualche tempo fa, un articolo di un osservatore sempre molto attento, Negri, su Il Sole 24 Ore, che parlava dell'occasione persa anni fa dal mondo occidentale di fare un grande Piano Marshall. Insomma, se noi riandiamo alle vicende europee, se nel 1945-46 non ci fosse stato il Piano Marshall che gli Stati Uniti fecero per l'Europa – e lo fecero avendo due risvolti, uno perché erano interessati anche a quel mercato, l'altro politico, di dare una risposta all'azione comunista e così via – non so come sarebbe andata la vicenda dell'Europa occidentale, se accanto ai messaggi politici e così via non ci fosse stata quell'operazione.
  L'aspetto che oggi manca è una dimensione di intervento economico, che non possiamo fare noi, che facciamo il possibile sul terreno della cooperazione e così via, ma che dovrebbe fare tutto il mondo occidentale rispetto a queste realtà. Quando siamo andati in Tunisia ci siamo sentiti dire che, mentre noi rivolgevamo loro una serie di lodi ed esprimevamo una serie di preoccupazioni, loro erano stretti da una certa realtà. Lo stesso vale per la Giordania e, per certi aspetti, anche per l'Egitto, che pure ha trovato, con gli Emirati Arabi e con la stessa Arabia Saudita, dei rapporti economico-finanziari.
  Altrettanto importante è l'aspetto della risposta sul terreno militare. Il terrorismo è un attacco innanzitutto sul terreno militare, ma se non si combinano, secondo me, la risposta sul terreno culturale, una risposta economica che sia un salto di qualità rispetto a quella attuale che è assolutamente insufficiente, e una risposta militare non indifferenziata ma mirata, ho paura che noi non daremo risposte selettive né per quello che riguarda i nodi della persecuzione dei cristiani né per altre situazioni. Non c’è dubbio che interventi militari sbagliati provocano conseguenze disastrose, come è avvenuto per l'intervento in Libia, per il secondo intervento in Iraq e così via; ma anche mancati interventi militari, in altre situazioni, determinano altrettante catastrofi.
  Il mio è un invito ad una riflessione – non ne dobbiamo trarre in questo momento alcuna conseguenza – perché ognuno di noi, leggendo i libri di storia che attengono alle vicende europee degli anni Venti, degli anni Trenta e così via, vede che in certi momenti e in certi casi un falso eccesso di pacifismo ha portato a conseguenze disastrose e a guerre a quel punto molto più drammatiche.
  Secondo me, il Governo italiano, il Ministro degli affari esteri ha manifestato una grande sensibilità su questo tema che va al di là del nostro modo di essere laici o cattolici e così via, che ci deriva da una sensibilità assolutamente accentuata che abbiamo. Personalmente, avendo più anni Pag. 12di voi, ho altrettanta sensibilità per tutto quello che riguarda Israele, la persecuzione degli ebrei e così via.
  Il fatto che oggi sia al centro questa persecuzione dei cristiani dà anche l'indice del rischio di spostamento di equilibri di civiltà. Come ricordava prima Amendola e come vediamo in ogni visita che facciamo, alle nostre spalle c’è non un miglioramento ma un peggioramento della situazione. C'era un Medio Oriente che aveva dei problemi, ma aveva anche una ricchezza religiosa e culturale e una convivenza che è completamente rotta, sia all'interno del mondo islamico che rispetto a religioni minoritarie.
  L'invito che ha pronunciato il Ministro all'inizio del suo intervento, quello a non voltarsi dall'altra parte ma essere presenti, è secondo me fondamentale, altrimenti il giudizio storico che si darà su di noi ho paura che sarà un giudizio storico molto negativo, come quello che noi diamo su nomi emblematici (Chamberlain, Daladier e così via). Non vorrei che noi rischiamo di rappresentare, in una situazione totalmente diversa, la ripetizione di quelle vicende storiche.

  MICHELE ANZALDI. Ringrazio il Ministro per essere venuto subito, appena arrivato in Italia, in Parlamento a riferirci del viaggio. Soprattutto grazie per essere stato il primo ministro europeo, mi pare, a esprimere le nostre idee e la nostra vicinanza al Governo kenyano.
  Se fosse possibile, vorrei avere altre informazioni sulla collaborazione delle università italiane con l'università kenyana. Vorrei sapere se c’è un elenco, se è ampliabile, quante sono le università, quanti studenti ci sono ancora. Mi è sembrata un'iniziativa molto bella, utile e concreta in questo momento di grande lutto e dolore. Immagino che, per i ragazzi che sono rimasti lì a studiare o a tentare di studiare, forse si potrebbe non solo allargare l'iniziativa ad altri Paesi europei ma approfondirla anche nel nostro Paese.
  Se fosse possibile, nonostante il tempo ormai sia finito, mi piacerebbe approfondire questo aspetto.

  PAOLO GENTILONI, Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale. Il senso della nostra audizione è riassumibile nelle parole che il Presidente ha pronunciato alla fine del suo intervento. Non che io pensi che noi rischiamo di essere Chamberlain, magari mi viene da pensare più a Srebrenica che agli anni Trenta del secolo scorso, però il concetto è esserci: i governi, la diplomazia parlamentare, l'attenzione dell'opinione pubblica. Diciamo la verità, la persecuzione dei cristiani è un fatto che dieci anni fa non avremmo immaginato. Questo fatto c’è e richiede una mobilitazione, una sensibilità, forme di cooperazione.
  Vengo a punti specifici, e poi tornerò a questioni più generali che sono state evocate e vengono spesso evocate, inevitabilmente, nei nostri dibattiti di politica internazionale di adesso.
  Certamente non siamo il maggior esportatore di armi verso l'Arabia Saudita, ma possiamo dare all'onorevole Di Battista dei dati meno all'impronta di quelli che potrei dire io adesso. Sul piano politico, credo che l'Arabia Saudita sia un bersaglio del terrorismo, anzi uno dei bersagli più ambiti, da un certo punto di vista, proprio perché la storia ha fatto sì che il regno dei Saud sia il custode della Mecca e di Medina, cioè di due dei luoghi fondamentali della religione islamica, per le ragioni che sapete benissimo. Quindi, sinceramente non condivido i riferimenti dell'onorevole Di Battista al parlamentare tedesco o a Noam Chomsky.
  Non c’è il minimo dubbio che una delle questioni più delicate oggi della politica estera dei governi europei e occidentali è trovare il giusto equilibrio, che non è facile, tra la dimensione che noi dobbiamo avere di promozione dei diritti umani e la dimensione che dobbiamo ugualmente avere di cooperazione politica con i Governi, talvolta di cooperazione militare, di scambi economici e commerciali. È un tema che, come sappiamo benissimo e sa benissimo anche l'onorevole Di Battista, non riguarda questo o quel Paese, ma Pag. 13purtroppo riguarda un'ampia serie di Paesi nell'area di cui stiamo parlando, il Medio Oriente, l'Africa eccetera.
  Quindi, è compito della politica estera, cioè delle scelte che fa la politica estera dei governi con l'indirizzo e le decisioni fondamentali del Parlamento, trovare quei punti di equilibrio. È la discussione che c’è stata in questi anni sulle «primavere arabe», ad esempio, cioè in quale misura quella grande speranza di democrazia, partecipazione, avanzamento sul terreno dei diritti umani fosse alla fine compatibile con un fattore di stabilità nella regione. In alcuni Paesi i processi sono andati molto avanti (siamo stati tutti frequentemente in Tunisia, in questi mesi), mentre in altri Paesi la storia è andata diversamente, ma sarebbe difficile oggi negare il ruolo fondamentale di stabilizzazione e potenzialmente anche di pacificazione che svolge un Paese come l'Egitto, per fare un esempio.
  Questo significa che non ci sono temi che riguardano la promozione dei diritti umani ? Ci sono, ma dobbiamo trovare – ed è uno degli esercizi meno facili della politica estera contemporanea – un equilibrio tra questi elementi.
  All'onorevole Anzaldi do una risposta un po’ a memoria, quindi mi riservo di fornire elementi più concreti. Insieme al MIUR noi finanziamo venticinque borse di studio; altri Paesi europei, su invito del Governo kenyano, probabilmente faranno altre cose. I destinatari sono gli studenti di Garissa. Le università italiane che hanno dato disponibilità al CRUI, la Conferenza dei rettori, per ospitare queste scholarship nell'anno accademico 2015-2016 sono al momento nove (non ho con me l'elenco, non so se lo stanno inviando al ministro Genuardi). A memoria ricordo che ci sono certamente «La Sapienza», il Politecnico di Milano, alcune università rilevanti, altre meno.
  Come sono state individuate, avendo noi fatto tutto molto rapidamente ? Si tratta di università italiane che hanno già rapporti di collaborazione e di scambio interuniversitario con università del Kenya, non con quella di Garissa, ma di Mombasa o di Nairobi, e che quindi più facilmente hanno dato subito una disponibilità. Tuttavia, è un lavoro in progress, su cui credo si possa costruire.
  Io discuterei ancora a lungo, ma devo incontrare il ministro degli esteri armeno tra poco e, comunque, credo che tutti abbiate impegni.
  È evidente che noi – ne abbiamo parlato altre volte anche nel dibattito in Aula sulla politica estera – ci troviamo di fronte a una cosa certa, cioè che un determinato tipo di schemi che si sono ripetuti nel secolo scorso funzionano adesso fino ad un certo punto. Gli schemi erano quelli secondo i quali le coalizioni, gli schieramenti, le scelte politico-militari nell'area dell'Africa e del Medio Oriente erano in qualche modo figlie di dinamiche che riguardavano le grandi potenze del momento. Questo valeva sia per la dinamica tra Impero Ottomano, francesi, inglesi all'inizio del secolo, come per la dinamica tra Unione Sovietica e Stati Uniti nel secondo dopoguerra, come per certi versi per la dinamica Stati Uniti-non Stati Uniti che ha attraversato un certo periodo tra gli anni Novanta e l'inizio del nuovo secolo, il periodo dei grandi interventi militari degli Stati Uniti.
  Noi giustamente parliamo di dimensione militare, dimensione economica, dimensione della cooperazione, dimensione del conflitto religioso, ma – come ci ricordava l'onorevole Amendola – la dimensione politico-diplomatica è quella che in qualche modo è la premessa di tutto questo.
  Non c’è più una discendenza diretta da scelte che derivano da altri scacchieri globali e che fanno dire, in modo automatico, che un Paese è buono e ci si può fare un'alleanza, un altro Paese è cattivo e non ci si fa un'alleanza. Il contesto è più complicato. Non è un'opinione mia. Non so se avete letto – immagino di sì – l'intervista rilasciata dal Presidente degli Stati Uniti a Thomas Friedman, laddove c'era un discorso che si potrebbe riassumere con la ricerca di nuove forme di multipolarismo: si affrontano le crisi, i problemi del mondo, soprattutto nell'area Pag. 14Mediterraneo, Medio Oriente, Africa, certamente con un impianto generale che è la lotta al terrorismo, l'impegno per lo sviluppo economico, la cooperazione economica, l'impegno per la pace, ma con attori, protagonisti a geometria variabile, che possono essere coinvolti e interessati in alcune regioni ed essere meno protagonisti e meno coinvolti in altre regioni.
  Ci sono dei pilastri di stabilità in diverse aree regionali, con i quali si può dialogare per costruire queste forme di multipolarismo. È più difficile ? Certamente c’è meno automatismo di quando era semplice dire che un Paese era amico di tale grande potenza e un altro era amico di tale altra grande potenza, quindi era evidente da che parte si stava.
  Tuttavia, con questa realtà dobbiamo fare i conti, e vi assicuro che per un Paese come l'Italia fare i conti con questa realtà è relativamente più facile che per altri Paesi. Per le caratteristiche del nostro Paese, per il suo soft power, per la sua propensione al dialogo e alle alleanze, per il fatto che tra i Paesi che hanno una certa rilevanza siamo quelli meno sospettati di egemonismi e di ingerenze in affari interni di altri Paesi, abbiamo un ruolo da giocare in questo schema di coalizioni multipolari per la pace, contro il terrorismo, che intervengono in diverse aree.
  Ne parleremo meglio; abbiamo cominciato a farlo in altri contesti e troveremo occasioni per parlarne in modo più approfondito. Dentro questo schema c’è naturalmente anche la questione di cui parlava il presidente Cicchitto, cioè l'accentuarsi del contrasto nel mondo islamico non solo tra maggioranza sunnita e fondamentalismo estremista, terrorista, sunnita, quindi tra maggioranza sunnita da una parte e Al Qaeda o Daesh dall'altra, che sempre quella radice hanno, ma anche tra il mondo sunnita e il mondo sciita.
  Io ho chiara una cosa sola su quest'ultimo punto, perché la situazione è in grande evoluzione. La crisi dello Yemen è una crisi in grande evoluzione. Oggi è avvenuto un fatto importante, la decisione del Parlamento del Pakistan. È tutto un processo in corso. Noi abbiamo un interesse nazionale ed europeo a contenere il più possibile questa linea di faglia tra mondo sunnita e mondo sciita, che se diventa la cornice fondamentale nell'arco della crisi rischia non di aiutare la lotta contro il terrorismo ma di incrinarla.
  Il fatto che noi, sia pure senza un'alleanza politica, ci troviamo Arabia Saudita e Iran in fondo impegnate entrambe contro il Daesh, anche se ovviamente non c’è nessuna forma di alleanza da questo punto di vista, è un fatto positivo, è una risorsa. Quindi, noi dobbiamo lavorare il più possibile per contenere questo fattore di tensione. Non possiamo aspettare decine e decine di anni per arrivare, come è successo in Europa, ad una cuius regio eius religio nel mondo islamico. Non credo che possa essere questa la vicenda alla quale ci prepariamo.

  PRESIDENTE. O la Pace di Westfalia.

  PAOLO GENTILONI, Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale. Esatto, o di Aquisgrana. Credo che dobbiamo muovere il più possibile, dal punto di vista politico, culturale, economico, in modo tale che questa grande tensione sia in qualche modo attenuata.
  Le università al momento sono dieci: Milano Bicocca, Politecnico di Milano, Modena e Reggio Emilia, Molise, Perugia (Università per stranieri), Sapienza, Tor Vergata, Siena, Torino e Catanzaro.
  Grazie.

  PRESIDENTE. Ringrazio il Ministro Gentiloni.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 18.20.