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XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere

Resoconto stenografico



Seduta n. 124 di Martedì 1 dicembre 2015

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori.
Bindi Rosy , Presidente ... 3 

Audizione di Salvatore Lupo, professore ordinario di storia contemporanea presso l'università di Palermo.
Bindi Rosy , Presidente ... 3 
Lupo Salvatore , professore ordinario di storia contemporanea presso l'università di Palermo ... 3 
Bindi Rosy , Presidente ... 7 
Lupo Salvatore , professore ordinario di storia contemporanea presso l'università di Palermo ... 7 
Bindi Rosy , Presidente ... 9 
Mattiello Davide (PD)  ... 10 
Lumia Giuseppe  ... 10 
Fava Claudio (SI-SEL)  ... 12 
Mirabelli Franco  ... 13 
Molinari Francesco  ... 14 
Bulgarelli Elisa  ... 14 
Bindi Rosy , Presidente ... 15 
Lupo Salvatore , professore ordinario di storia contemporanea presso l'università di Palermo ... 16 
Fava Claudio (SI-SEL)  ... 18 
Lupo Salvatore , professore ordinario di storia contemporanea presso l'università di Palermo ... 19 
Fava Claudio (SI-SEL)  ... 19 
Lupo Salvatore , professore ordinario di storia contemporanea presso l'università di Palermo ... 19 
Bindi Rosy , Presidente ... 19

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE ROSY BINDI

  La seduta comincia alle 20.25.

  (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
  (Così rimane stabilito).

Audizione di Salvatore Lupo, professore ordinario di storia contemporanea presso l'università di Palermo.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di Salvatore Lupo, professore ordinario di storia contemporanea presso l'università di Palermo. L'audizione del professor Lupo, illustre studioso, storico della mafia e osservatore attento dell'evoluzione del fenomeno mafioso in tutti i suoi aspetti, inaugura un filone di inchiesta sul movimento civile dell'antimafia, per approfondirne i tratti caratteristici e individuarne anche i limiti e le contraddizioni evidenziate dai recenti fatti di cronaca. L'obiettivo è quello di salvaguardare e rilanciare un ricco patrimonio di esperienze e prassi di contrasto dei poteri mafiosi, che ha dato un grande contributo in ambito sia locale che nazionale. Occorre, infatti, oggi più che mai verificare quali siano gli strumenti culturali, sociali, associativi e istituzionali che garantiscono un effettivo presidio contro i condizionamenti criminali. In base a quanto convenuto in ufficio di presidenza, l'inchiesta prenderà inizialmente le mosse dai contributi di docenti e studiosi, per poi proseguire con le audizioni di numerosi soggetti non solo istituzionali, dai giornalisti impegnati nel contrasto alle mafie alle associazioni no profit e al mondo imprenditoriale, dal sindacato della pubblica amministrazione al mondo dell'informazione. Ricordo che la seduta si svolge nelle forme dell'audizione libera e che, ove necessario, i lavori potranno proseguire in forma segreta. Lascio ora la parola al professor Lupo, che, oltre che per lo straordinario contributo dato come studioso al nostro Paese, ringraziamo per essersi reso immediatamente disponibile quando l'abbiamo convocato, nonostante gli orari sicuramente comodi per noi, ma non altrettanto per i nostri auditi, soprattutto per coloro che vengono da lontano. Grazie, professore.

  SALVATORE LUPO, professore ordinario di storia contemporanea presso l'università di Palermo. Buonasera a tutti, grazie alla presidente, grazie a voi, è un onore per me essere qui, in un luogo importante, oltre che per l'intervento politico, legislativo, anche per l'autopercezione del nostro Paese, per l'idea che abbiamo di noi stessi, altrimenti non ci sarebbe ragione che io sia qua, in quanto non sono giurista, non faccio politica, se non nei limiti in cui ogni cittadino ha qualche idea politica, peraltro progressivamente sempre più confusa nel caso mio. Sono stato invitato a parlare dell'antimafia e – non suoni riduttivo – capisco che la proposizione da cui parto possa destare perplessità e possa essere Pag. 4anche usata in maniera strumentale: «non esiste mafia se non nel pensiero dell'antimafia». Con questo naturalmente non voglio dire che la mafia sia un'invenzione dell'antimafia: voglio dire che viene pensata dall'antimafia, infatti la mafia di per se stessa non è un reato se non attraverso la recente – ragiono da storico, quindi dico «recente» – definizione dei reati di associazione mafiosa, e in realtà vediamo sempre come questa definizione giuridica sia stretta, perché ci sono tante altre cose che definiamo mafia, che nel senso comune si definiscono mafia e che anche gli studiosi definirebbero mafia. La definizione giuridica, dunque, non basta, ci vogliono definizioni forti, ci vuole un elemento politico, perché la mafia è un soggetto così eterogeneo nelle sue componenti politiche, sociali, culturali, economiche: malaffare, malcostume, mala politica, mancanza di cultura civica, tutte cose che rischiano di andare fortemente sul generico, secondo la vecchia battuta secondo la quale «se tutto è mafia, niente è mafia», per cui evidentemente ci vuole una forte iniziativa che riveli l'esistenza della mafia, che la snidi, che la definisca e quindi la combatta. Nessuno definirà la mafia se non per combatterla, se non certe volte in maniera estremamente difensiva, prima tra tutte «la mafia non esiste», oggi piuttosto rara ma una volta frequentissima, la seconda «la mafia non è criminalità, ma è costume, la mafia non è malaffare ma è cultura, la mafia non è cosa di criminali ma di interi popoli... mediterranei, siciliani, gente barbara però alla fine non cattiva, gente che se gli dici cornuto tira fuori il coltello». Su questo non è un caso che la mafia sia vista nei momenti in cui si sviluppano movimenti che possiamo definire rinnovatori. Per far capire meglio di cosa voglio parlare, posso riferirmi a un luogo citatissimo del giurista Santi Romano del 1918: esistono – i giuristi ne sapranno più di me – varie forme di ordinamento giuridico, quella maggiore è lo Stato, esistono altre forme di ordinamento giuridico nella società, che non sono competitive con quelle dello Stato, perché l'ordinamento giuridico competitivo con lo Stato è solo quello del partito rivoluzionario: 1918, rivoluzione bolscevica, fascismo alle porte, quindi cosa sia un partito che conquista lo Stato già poteva essere chiaro. Santi Romano dice che tra questi ordinamenti giuridici c’è anche la mafia o comunque intende questo, però non credo pensasse che la mafia potesse essere nemica dello Stato, in quanto tale riteneva che fosse normale che lo Stato la tollerasse, in quanto storicamente non c'era ragione di conflitto. Storicamente però ci sarebbe potuta essere, se le condizioni fossero state diverse da quelle che erano, e nel 1918 le condizioni stavano diventando diverse perché, come sapete, siamo in una delle grandi ondate di violenza mafiosa, quella del primo dopoguerra, e a questa ondata di violenza mafiosa e di disordine segue la repressione fascista, che possiamo pur considerare il primo momento di antimafia. So che molti studiosi validissimi dicono che ci sono state altre forme di antimafia, ad esempio movimenti contadini che hanno incontrato la mafia sulla loro strada, si sono dovuti scontrare spesso con i mafiosi e ne hanno pagato il prezzo di sangue nel primo come nel secondo dopoguerra. È importante dirlo, in quanto non si deve avere un'idea di una società da sempre e per sempre deferente, strutturalmente deferente nei confronti del potere, perché per fortuna non esistono queste società, in quasi tutte si sviluppano movimenti di opposizione. Non sarei però tanto d'accordo a definire antimafia quella cosa lì, perché erano movimenti riformatori o anche rivoluzionari, intesi a un radicale mutamento politico e/o a una rivoluzione sociale, quello era quello che volevano essere, anche se poi nel concreto dello scontro politico e sociale si trovavano davanti proprio i mafiosi. Il primo momento in cui la mafia viene definita e viene combattuta sotto il suo profilo politico generale è quindi proprio la repressione fascista, con una grande complicazione che non vi posso tacere: il fascismo Pag. 5considerava la mafia sottoprodotto della democrazia e detestava la mafia in quanto frutto della democrazia. Vi chiederete cosa c'entri la mafia con la democrazia Agli occhi miei e spero di tutti voi esistono anche le patologie del fenomeno democratico, la democrazia è sempre in bilico, è sempre in dubbio, è sempre a rischio di degenerazioni, quindi ci distingueremo dalla repressione fascista dicendo che la mafia non è coessenziale alla democrazia, ma certo è una possibile degenerazione della democrazia, del progresso, della modernizzazione, dello sviluppo economico. Contrariamente a tutte le previsioni ciclicamente reiterate, infatti, sviluppo economico, modernizzazione, democratizzazione non hanno distrutto la mafia, anzi in certi casi l'hanno addirittura rafforzata nella logica delle occasioni di crescita di organizzazioni criminali che spesso storicamente sono andate a corrispondere a strati sociali intermedi, che avevano una strada da fare davanti a sé, come spiega la grande letteratura politico-sociologica, a cominciare da Leopoldo Franchetti, nel 1877, a continuare con la grande riflessione di Emilio Sereni sulle strutture profonde dell'agricoltura italiana. Quando ho cominciato a studiare questo argomento, all'inizio degli anni Novanta o alla fine degli anni Ottanta, quello che mi colpì è l'inverosimile, sconcertante tenuta attraverso il tempo di un certo nucleo della mafia siciliana, che ruota intorno alla città di Palermo, alla provincia e alla zona costiera della provincia di Trapani. Lo scrissi in una storia della mafia che pubblicai nel 1993, però, se vi devo dire la verità, adesso non la penso più così, ossia è vero che c’è una tenuta straordinaria, che è un fatto sconcertante e in un certo senso anche affascinante, però d'altra parte è vero che la mafia e la questione della mafia non hanno mai avuto tanto peso nella nostra storia come dalla fine degli anni Settanta all'inizio degli anni Novanta. Questo naturalmente batte in breccia l'interpretazione tradizionale che vuole la mafia fenomeno di arcaismo, i fatti confutano questa idea. Io faccio lo storico accademico, come ho detto, mi confronto con la mia disciplina, ma un mio collega molto bravo, Marco Gervasoni, ha scritto un libro sugli anni Ottanta intitolato Quando eravamo moderni e in questi discorsi sulla modernizzazione italiana negli anni Ottanta è riuscito a non parlare mai della mafia. Lo dico senza menarne scandalo, il libro è bello e sviluppa delle idee, quindi non sono tra quelli che sostengono che avrebbe dovuto scrivere altre cose, perché ha scritto quello che voleva scrivere e se il risultato è buono è buono, però questo è davvero paradossale perché la mafia negli anni Ottanta è un fatto centrale nella storia italiana, non è costume regionale, non è una vicenda parziale. In questi anni, infatti, la mafia meridionale esce dai suoi confini di enclave subregionali, dalla Sicilia occidentale passa anche alla Sicilia orientale, dalla zona di Reggio Calabria passa alla Calabria settentrionale, trasmigra in Puglia, investe l'intera Campania come non era mai avvenuto e ovviamente, attraverso l'industria dei sequestri e le varie industrie ad essa connesse, dilaga su tutto il territorio nazionale. Vorrei ricordare che uno dei più grandi banchieri del mondo, il più grande banchiere privato italiano e il proprietario della più grande banca americana, non sto dicendo Colombia, sto dicendo Stati Uniti d'America, si chiamava Michele Sindona ed era connesso – non è facile vedere come, quando, perché – con alcuni dei gruppi di comando della cosa nostra siciliana e americana. In un solo anno, 1993, sono morte ammazzate per ragioni di mafia il doppio delle persone che sono state uccise per terrorismo politico in tutti i cosiddetti «anni di piombo», in un solo anno il doppio. Se prendiamo invece il più lungo periodo di cui parlo, dieci volte, e, come si sa, almeno sul versante siciliano le cifre sono sottostimate, perché di una serie di morti ammazzati sicuri non si è mai potuto appurare legalmente la morte, perché i cadaveri non sono mai stati ritrovati. Inoltre, la vicenda dei cadaveri eccellenti, il termine è letterario però è efficace: Pag. 6personaggi del mondo di sopra, quindi ci mettiamo insieme amici e nemici della mafia, amici non abbastanza docili, nemici troppo determinati, la grande escalation di cui dicevo prima che va considerata escalation delle mafie, senza pensare che possa esistere un'unica regia – non credo mai in queste uniche regie – va messa a larghissimo carico, forse per quasi il cento per cento, della mafia cosa nostra siciliana e delle sue gemelline o consociate di altre aree siciliane come l'agrigentino o il catanese. Questo naturalmente determina un pericolo incombente per la democrazia italiana, perché un Paese in cui poliziotti come i dirigenti della Squadra mobile palermitana dicono «domani mi ammazzano», si nomina un super prefetto per dare un significato simbolico, simbolicamente il giorno dopo viene assassinato, non è un Paese sovrano, non è un Paese libero. Si diffonde quindi nella mafia cosa nostra, nella cosiddetta «era corleonese» – se non si esagera con l'enfasi su questo aggettivo e non si pensa che i corleonesi fossero tutti di Corleone, perché altrimenti non si capisce un granché, diciamo corleonesi per dire l'orientamento alla banda – quella che ho definito una coazione a ripetere, quindi usano un metodo terroristico nella competizione inframafiosa e nella competizione tra la mafia e lo Stato, che ci fa meglio riflettere sul concetto enunziato tanti anni prima da Santi Romano, secondo cui esiste un momento in cui una serie di organizzazioni criminali così sfrontate e arroganti possono diventare un nemico. Ovviamente è questo che determina l'antimafia. L'antimafia è un orientamento dell'opinione pubblica attraverso canali di informazione ufficiosi o ufficiali o anche vis a vis, in piazza, un flusso di opinione che spesso definisce se stessa come società civile, con termine hegeliano, se mi scusate adesso cercherò di dimostrare perché piuttosto spaesato, perché la società civile nell'interpretazione che diedero Hegel, da noi Gramsci e tanti altri, non è altro che il tessuto delle relazioni di questa società, non distingue i buoni dai cattivi, quindi nella società civile ci stanno i buoni e i cattivi, ammesso che il mondo possa essere interpretato così semplicisticamente. L'antimafia dunque, definendo se stessa società civile, riflette il senso della sua rivolta – i barbari alle porte – un'immagine forte e opportuna dal punto di vista etico-politico, però nel contempo rifiuta di considerarsi una parte e raffigura se stessa come il tutto, la società civile, mentre invece spesso questo flusso prende la forma di parti, che non si definiscono partiti, ma si definiscono movimenti. Potremmo a lungo discutere di cosa tipologicamente distingue i partiti dai movimenti, ma in questo momento non mi interessa la distinzione, mi interessa che anche i movimenti sono parti, saranno partiti embrionali ma sempre parti sono. A maggior ragione è paradossale e foriera di infinite confusioni, problemi e guai crescenti l'abitudine di pezzi delle istituzioni dello Stato di definirsi società civile, in particolare la magistratura penale, che quando ero piccolo si definivano corpi separati nel linguaggio di noi giovani marxisti, cosa che non sarà tanto giusta, ma società civile è ancora più sbagliato. Tanto più separati sono questi corpi che per la necessità della lotta si costituiscono nuove forme di apparati, non necessariamente in sintonia con i precedenti e con l'idea dello Stato gerarchicamente ordinato, a seconda di funzioni e di visioni del potere, che noi abbiamo ricavato dalla rivoluzione francese, mescolando le tradizioni centraliste con quelle liberali. Credo che molti di noi, forse tutti, abbiano usato il termine «guerra alla mafia», ma trattasi evidentemente di un termine, come quasi sempre il termine guerra, fuori contesto, perché uno Stato non può fare guerra ai propri cittadini, bisogna essere Stalin o Hitler per fare guerra ai propri cittadini, lo Stato deve applicare le leggi. Lo stato di guerra per fortuna non è stato dichiarato e dunque il termine guerra non è opportuno, seppur giustificato da quelle circostanze, perché io faccio lo storico, quindi sono spesso sostanzialista, e gli Pag. 7eventi che urgono gli esseri umani e le nazioni spesso non possono essere frenati con un'opzione di principio, però la moltiplicazione di istituzioni, di magistrature speciali, di polizie speciali e di legislazioni speciali basate su una logica di guerra vera o presunta sarebbe tantomeno giustificata in quanto costoro si definissero società civile. Come molti di voi ricorderanno, fu Leonardo Sciascia a prendere di petto questo tipo di sviluppo, dicendo che non voleva essere un intellettuale impegnato ma voleva essere libero da questi impegni, tirarsi fuori da questo moto, a cui però per certi aspetti aveva dato origine, e gli sembrava che la commistione tra politica e giustizia fosse tipica di regimi illiberali, totalitari. Il riferimento ancora una volta andava opportunamente al fascismo, gli veniva dalla lettura del libro di uno storico inglese, Christopher Duggan, che mi piace ricordare perché recentemente e davvero inopportunamente scomparso in giovane età, il quale aveva visto nell'operazione antimafia del fascismo un'operazione liberticida come tante altre compiute in quegli anni. Disse Sciascia la frase secondo cui succedono nei regimi totalitari, potrebbero succedere, in regimi democratici «retorica aiutando e spirito critico mancando». Disse questo nel momento più aspro dello scontro, mentre i morti cadevano, Il Corriere della sera pubblicò l'articolo Professionisti dell'antimafia, Sciascia se la prendeva – nominandolo – con Paolo Borsellino, nessuno capisce e nemmeno lui forse capiva perché proprio Borsellino, e – senza nominarlo – con Leoluca Orlando, che stava costruendo un movimento antimafia. Spesso gli storici non si fanno intendere, perché quando raccontano chi li ascolta pensa che siano d'accordo con i fatti, ma non è questione di essere d'accordo con i fatti: io penso che Sciascia esagerasse, perché non è vero che solo nei regimi totalitari politica e giustizia si sovrappongono e il diritto penale viene usato a fini politici, perché nel Paese corifeo del campo occidentale, gli Stati Uniti d'America, questo accade continuamente. Uomini politici ben più illustri di Orlando hanno fatto una carriera di primo piano partendo da processi penali. Il caso più noto è quello di Thomas Dewey, due volte candidato alla Presidenza degli Stati Uniti, Governatore dello Stato di New York, più recentemente Rudolph Giuliani e chissà quanti altri che non ricordo, perché la mafia è un fenomeno politico così come la corruzione politica, che nei casi citati viene accoppiata alla mafia. Il fatto che la lotta contro la mafia e la corruzione abbia una ricaduta politica e anche finalità politiche è ritenuto normale nel sistema americano, dove l'accusa è elettiva, non è nemmeno una patologia, seppur possa avere l'effetto patologico di qualche innocente mandato in carcere per ragioni politiche. Nel caso italiano, in cui la tradizione è diversa, c’è l'obbligatorietà dell'azione penale, il concetto del giudice naturale, che escluderebbe il concetto delle magistrature speciali, il caso è diverso. Non riesco però a capire come si sarebbe potuto uscire da quella situazione senza una stretta in questo senso. Si ricorderà che anche sul versante del terrorismo il nostro Paese è stato accusato di aver introdotto sistemi liberticidi, magistrature speciali, leggi speciali e roba di questo genere, i radicali hanno molto insistito sulla somiglianza dei due aspetti, intervento antimafia e intervento antiterrorista o anti dissenso politico dicono loro, e non a caso Sciascia era l'elemento di punta di questo gruppo. Credo non sia così o perlomeno, se anche fosse vero, è un fatto storico che è rimasto nei limiti e in circostanze davvero straordinariamente difficili, in cui le nazioni sono indotte a difendersi. Quanto tempo mi resta, presidente, perché l'ora è tarda e mai mi sono trovato a discutere con i rappresentanti del popolo...

  PRESIDENTE. Non la priveremo di questo piacere, però per poter discutere meglio avremmo bisogno di vedere la completezza della sua esposizione.

  SALVATORE LUPO, professore ordinario di storia contemporanea presso l'università Pag. 8di Palermo. Il punto è che la guerra, se c’è stata, è finita. La guerra è finita non perché nel nostro Paese non ci sia più la criminalità organizzata – magari – non perché la criminalità organizzata non abbia ancora il suo livello di arroganza e non riesca a imporsi, e neanche perché siano venuti a mancare i composti della mafia, ovvero il contatto tra criminalità, cattiva politica e cattivo business, elementi che ci sono ancora. Forse perché ho una certa età, ma mi sembrava anche che la capacità reattiva del popolo italiano allora fosse superiore, però questo è un fatto davvero generazionale e prendetelo per quello che vale. La guerra non c’è perché quei caratteri non ci sono più: non ci sono i morti per le strade, il numero dei morti ammazzati in questo Paese è drasticamente diminuito, il Mezzogiorno sta nella media nazionale, in Sicilia si ammazza meno gente che in Lombardia, quindi quell'elemento della conflittualità inframafiosa non esiste più, non con questa forza, non con questo carattere fuori controllo. I delitti eccellenti, strada terribile percorsa da cosa nostra, non si vedono più, magistrati uccisi con esplosioni non ne abbiamo visti e Dio voglia che non ne vedremo, perché chiaramente non posso prevedere il futuro, però non ci sono elementi che indichino che si vada verso situazioni di questo genere, anzi ci sono elementi che indicano che non si va verso situazioni di questo genere, perché cosa nostra siciliana e cosa nostra americana, la sua gemellina, sono state pesantemente colpite dalle autorità, sollecitate da questo moto di opinione pubblica e di società civile. Io che ho studiato la repressione fascista della mafia vi posso dire che per quantità di pene e durezza di condanne rispetto a quella che è avvenuta nella democratica Italietta degli anni Novanta la repressione fascista fa ridere, perché la grandissima maggioranza delle persone incriminate nei processi del ’28 e ’29 erano fuori già nel ’31 per tenui condanne per fatto associativo, non c'era l'associazione mafiosa come sapete, e perché il Governo ritenne opportuno emanare un'amnistia, tanto che alcuni anni dopo, nei documenti che abbiamo ritrovato e pubblicato, gli apparati della polizia fascista dicevano che la mafia era più forte nel ’38 che prima dell'operazione Mori. Non esiste alcuna possibilità di confronto tra la forza con cui la repressione si è abbattuta su cosa nostra al passaggio tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta e con più forza ancora negli anni Novanta rispetto a quello che è avvenuto in qualsiasi altro periodo della nostra storia, e vi devo dire come siciliano che ha poche cose di cui gloriarsi, e anche come italiano, che è paradossale e frustrante che una delle poche cose conseguite in questo Paese nessuno dica che è successa e tutti sembrino rifiutarlo. Tempo fa ho litigato con il giornalista Lodato, perché nel momento clou passavo davanti a una libreria di Palermo e c'era un'enorme vetrina tutta piena di libri intitolati La mafia ha vinto, opera di Tommaso Buscetta, che si prendeva le ennesime royalties, e di Saverio Lodato, che con tutta la buona volontà pensava che il modo migliore di battere la mafia fosse dire che la mafia vince sempre, anche quando palesemente sta perdendo, almeno per il momento. Il punto fondamentale è che la guerra è finita, quella mafia non c’è più, ce n’è un'altra, che sarà pericolosa anch'essa, ci sono altre mafie come la ’ndrangheta, ci sono tante cose che non vanno in questo bel Paese, su questo versante e su altri, però quella guerra non c’è più, mentre sul fronte dell'antimafia tutti quei soggetti sono attivi come se niente fosse successo. Non vi dico quali sono le mie reazioni dinanzi a uomini politici o magistrati che dicono tutti i giorni che sta per scoppiare un'altra bomba, che Riina sta uccidendo qualcun altro, perché intercettato in carcere dice che deve ammazzare quello e quell'altro, perché Riina fa quello che ha sempre fatto, solo che prima lo poteva fare e adesso non lo può fare più. Il problema fondamentale è che oggi l'antimafia è una risorsa piuttosto libera per molta gente. Se aprite la massiccia ricerca coordinata dal collega Rocco Sciarrone dal titolo Alleanze nell'ombra sull'economia mafiosa, trovate che tutte le imprese top della connectionPag. 9mafiosa in provincia di Palermo hanno aderito ad associazioni antimafia. Come sapete, l'ex presidente della Regione Siciliana, Salvatore Cuffaro detto Totò, che poi è stato condannato, è uno dei pochi che è andato veramente in galera e ancora ci sta, ha vinto la campagna elettorale al grido «la mafia fa schifo». Rosario Crocetta, attualmente presidente della Regione Siciliana, è uno che ha fatto una buona carriera con l'antimafia. Attenzione, io preferisco di gran lunga che si faccia carriera con l'antimafia piuttosto che con la mafia, e capisco anche che l'antimafia sia una legittima risorsa politica, non etica – in interiore homine io non guardo, non sono capace – laddove in queste sedi bisognerebbe evitare di parlare troppo di etica, ma di etica politica sì, e l'antimafia è una risorsa politica plausibile. Non credo però che possa giustificare i grandi problemi politico-amministrativi che non riesce a risolvere con il fatto che è contro la mafia e tantomeno credo che, come va dicendo, tutti quelli che lo criticano siano amici della mafia. D'altra parte, come tutti sanno, sono state diffuse su Crocetta delle presunte intercettazioni telefoniche che sembra fossero false, in cui il problema fondamentale era che erano false e che Crocetta parlava male della famiglia Borsellino. Anche per quanto riguarda la signora Saguto, giudice, amministratrice dei beni confiscati alla mafia, che sembra – poi la magistratura si pronuncerà – potrebbe aver disposto malamente del patrimonio sequestrato, sulla stampa nazionale il principale articolo di demerito nei suoi confronti è che in una privata telefonata una volta disse qualcosa di poco simpatico sulla famiglia Borsellino. Questa persona è oggetto di tali gravissime accuse, ma il problema fondamentale è che in una privata telefonata... Dico questo perché esiste rispetto a tutte queste cose – con tutto il mio affetto per la famiglia Borsellino come per tutte le altre famiglie delle vittime – un'aura di sacralità che non ci aiuta, perché induce a creare rendite di posizioni morali che con il realismo dei fatti e la politica, come voi che fate politica sapete, hanno poco a che vedere, e poi soprattutto rinchiudono il dibattito in barriere infrangibili. È successo anche a me, che pure non faccio politica ma faccio il professore, avendo scritto un libro insieme al collega Fiandaca un po’ critico sul processo della cosiddetta «trattativa» di essere accusato, addirittura da un alto magistrato che vi esercitava l'azione penale, di minacciare la vita dei magistrati con il mio lavoro per aver scritto qualcosa che può essere una sciocchezza, può essere giusta o sbagliata. In breve, la mia conclusione è che l'antimafia nasce con queste caratteristiche in un momento tragico della nostra storia, di fronte a un avversario terribile, ed è una sana reazione di popolo, si sarebbe detto una volta, e comunque della Repubblica italiana. Vi è però un'ostinazione a guardare a un passato ormai remoto, perché sono passati ventidue anni dalle stragi, come se nulla di nuovo fosse successo, di cui lo stesso processo sulla trattativa è un'evidente prova, c’è un pezzo di opinione pubblica che è convinto che Napolitano sia coinvolto nelle questioni della trattativa per quanto è evidente che sono successe quindici anni dopo. Esiste quindi anche una specie di appiattimento della nostra prospettiva storica e civile, come se dovessimo guardare sempre indietro e non a tutti i gravi, enormi problemi del presente, che anche nel vostro ruolo vi trovate davanti, e questo elemento della sacralità è una delle ragioni per cui avviene. Spero quindi che impareremo a guardare questa cosa con spirito laico. L'antimafia è un movimento politico-istituzionale, come tale va soggetto alla critica possibile o al sostegno possibile dei cittadini, e ovviamente il futuro del Paese non è basato sull'agitare le bandierine o mettersi la casacca, ma sul fare politica buona, fare business buono e migliorare la qualità democratica e il progresso civile ed economico del nostro Paese.

  PRESIDENTE. Grazie, professore. Credo che ci sia stato offerto un contributo originale, estremamente interessante e importante per il nostro lavoro, sul quale avremo modo di tornare. In questo senso Pag. 10gli interventi dei numerosi colleghi iscritti a parlare saranno già l'occasione per approfondire e chiarire alcuni aspetti. Avrei anch'io una domanda da porre, ma mi disciplino e la farò alla fine.

  DAVIDE MATTIELLO. Grazie, presidente, grazie, professor Lupo, per disciplinarmi anch'io leggo un appunto, così non spreco parole, e faccio riferimento al libro che lei ha citato, pubblicato da Laterza e scritto insieme al professor Fiandaca, La mafia non ha vinto. Nel libro, come lei poco fa ha ricordato, c’è un attacco frontale – non direi qualche sciocchezza – all'impostazione accusatoria della DDA di Palermo rispetto al processo-trattativa. Tra gli argomenti che vengono usati per provare l'infondatezza dell'impianto mi sembra che il più sofisticato sia proprio il ricorso all'articolo 54 del codice penale, cioè lo stato di necessità, laddove lo Stato italiano avrebbe cercato l'accordo con cosa nostra per salvare il più alto numero di vite umane nell'unica maniera possibile.
  Voglio usare questa occasione istituzionale per dissentire ancora pubblicamente da quanto avete scritto. Dissento perché un altro modo era certamente possibile, e questa convinzione è ancorata nella memoria del lavoro che Paolo Borsellino fece tra il 23 maggio e il 19 luglio del 1992, quando per fermarlo dovettero ucciderlo. Dissento perché la Commissione antimafia presieduta da Luciano Violante nell'aprile del 1993 votava una relazione sui rapporti mafia-politica nella quale prendeva esplicitamente le distanze da qualunque tentazione negoziale. Dissento perché credo che il fatto stesso di aver cercato il contatto con cosa nostra in quel particolare contesto o, per dirla con Riina, «di essersi fatti sotto» o ancora «mi cercarono loro» abbia rafforzato in cosa nostra il convincimento che la strategia stragista pagasse, e quindi abbia motivato anziché disincentivare Riina e i sodali a continuare, mettendo a repentaglio i cittadini italiani e la tenuta delle istituzioni repubblicane, il che mi pare essere il cuore dell'impostazione accusatoria della DDA di Palermo. Per tutto questo le chiedo, avendo finalmente l'occasione di confrontarci in questa sede, cosa pensi di questi argomenti e se sia ancora convinto della fondatezza e dell'opportunità dei medesimi. Grazie.

  GIUSEPPE LUMIA. Ringrazio il professor Lupo. Penso che il suo invito a una sana laicità del movimento antimafia possa essere raccolto, è un elemento che può aiutare anche a non svilirne la funzione, come molti oggi si aspettano, e che permette all'antimafia come movimento politico, etico, sociale, di ripensarsi e di riflettere sulle sue ragioni fondative, chiedendosi se esista ancora una necessità su questo fronte. Non sono però d'accordo su questa riduzione storica, per cui la mafia è forte in quegli anni, lo Stato ha fatto bene la sua parte, la partita è stata vinta. Considero le due coppie speculari, la mafia ha vinto e lo Stato ha vinto, una dialettica riduttiva che rischia di falsare la realtà ed entrambe le due estremizzazioni, la mafia ha vinto e lo Stato ha vinto, non ci permettono di vedere i risultati ottenuti, l'evoluzione delle mafie e la necessità di chiedere al movimento antimafia una sua evoluzione piuttosto che una sua celebrazione retorica. Non penso che la prima reazione antimafia sia stata quella del fascismo, perché anche il fascismo non aveva un obiettivo specifico contro la mafia, così come il movimento opposto, quello riformista, riformatore e rivoluzionario dei fasci siciliani, non aveva come obiettivo prioritario la lotta alle mafie, però sul suo terreno – l'emancipazione, il lavoro, le affittanze collettive, la prima forma, secondo gli storici, di contratto collettivo di lavoro, lo dico per celebrarne la modernità, l'innovazione, gli spunti interessanti che ebbe alla fine dell'Ottocento e all'inizio del Novecento – incontrò la mafia e ci fu conflitto, ci furono morti, ci fu uno Stato che in quell'occasione non si schierò con quel movimento, anzi contribuì insieme alla mafia a reprimerlo, a liquidarlo, a scatenare una reazione che anche per ragioni esterne portò alla sua sconfitta. Anche il fascismo incontra nella sua visione totalitaria la mafia e non poteva accettare che sul territorio non si Pag. 11esercitasse la sua potestà totalitaria e apre un conflitto con la mafia. A differenza di quel movimento, che era progressivo ed emancipativo, questo tentativo reazionario ebbe un periodo di breve respiro, dopo il quale si tornò a una sorta di convivenza tra fascismo e mafia. Ci sono storie locali che spiegano come, superata la stagione dei primi anni Trenta, ci siano stati un riassorbimento e una sorta di coabitazione. Non credo quindi che il primo movimento antimafia sia nato in quell'occasione, perché la storia precedente andrebbe valorizzata e rivista, naturalmente non celebrata retoricamente, ma vissuta come un tentativo interessante che produsse effetti interessanti, ma ebbe questo punto centrale: lo Stato contro, uno Stato che represse non la mafia, ma il movimento di emancipazione dei diritti del lavoro che incontra la mafia, per cui la repressione dei fasci siciliani si fa più acuta, più feroce e più dirompente. Lo Stato quindi come una sorta di moltiplicatore delle forze reazionarie che combattevano i fasci siciliani ebbe il noto effetto in termini di vite umane e di futuro negato a quel territorio. La seconda questione è la vicenda della società civile. In termini hegeliani la definizione di società civile tout court è riduttiva, quindi lei ha ragione, ma sa anche, professore, che quel movimento della società civile era innervato da un fatto che cambia la storia del nostro Paese: la liberazione, la Costituzione, la crescita democratica del Paese. Questo fatto storico concreto riscrive la dinamica della società civile anche in termini fondativi, quindi non ne fa una classica società civile che lungo la storia scorre con un'ambivalente dinamica hegeliana, ripresa da Gramsci, che giustamente lei ha voluto richiamare, ma c’è un elemento di rottura, di novità. Lei considera questo elemento di rottura e di novità per comprendere i caratteri inediti e nuovi che si diede la società civile negli anni Ottanta e Novanta, in quello scontro feroce di cui lei ha illustrato i caratteri ? Come lei evidenzia giustamente, è sbagliato non rivendicare allo Stato quei risultati, ed è sbagliato non rivendicare questa crescita, questa evoluzione della società civile con limiti, che vanno evidenziati senza alcuna sacralizzazione, che ci porta a un risultato estremamente positivo. Non penso che, essendo finita la mafia con le caratteristiche degli anni Novanta, ci sia anche una fine per l'antimafia, perché, se fosse così, un'antimafia laica dovrebbe accettare la conclusione del suo oggetto sociale, mentre assistiamo a un'evoluzione e a una trasformazione delle mafie. Forse le mafie riprendono il loro antico cammino, che non è quello della contrapposizione con lo Stato e la società civile tipica degli anni Ottanta e Novanta imposto dall'egemonia corleonese in collusione con apparati dello Stato, ma è il vecchio cammino collusivo ? Le caratteristiche identitarie della mafia non sono quelle di rottura con l'ordinamento statuale, per cui lei ha richiamato Santi Romano, ma sono quelle di un parassitismo collusivo con lo Stato, quindi le mafie capiscono che la strada di rottura è perdente e riprendono il loro cammino collusivo. Ci vuole anche qui una rivisitazione del movimento antimafia capace di produrre elementi di novità e di radicale cambiamento al suo interno, che consentano di comprendere questo carattere più sottile, più perverso, senza naturalmente cedere all'idea che la mafia abbia vinto – sono d'accordo con lei e non l'accetto – e ridefinirsi. L'ultima cosa è la trattativa. Penso sia sbagliato accusarla di aver ceduto al nemico per aver messo in discussione quel processo, però è chiaro che lei può sviluppare meglio un giudizio – non penale ma politico – e un'analisi più critica sui rapporti collusivi e su quella trattativa, su uno Stato che con i suoi rappresentanti si siede, tratta e crea un meccanismo di legittimazione e di effetto verso la violenza e le stragi consumatesi nel 1993, e questa lettura critica vista dal suo punto di vista sarebbe più interessante del giudizio penale, perché altrimenti il giudizio di condanna o assoluzione rischia di essere troppo semplicistico. Un giudizio più critico sul piano storico e della valutazione politica potrebbe aiutarci non a concludere che la trattativa non ci fosse, ma a liberarla del suo sovraccarico penale Pag. 12e recuperarla in un giudizio storico severo e critico, come i fatti ci hanno dimostrato.

  CLAUDIO FAVA. Noi concordiamo sulle premesse alla base del suo ragionamento, che sono quelle da cui parte anche la nostra Commissione. Se non fossimo convinti che c’è stato un uso e un abuso delle categorie proprie della cultura dei movimenti antimafia e se non ritenessimo necessario uno sguardo più laico e più attento al modo in cui si è in parte involuto questo movimento nel corso degli anni, non avremmo avviato un lavoro di indagine che per la prima volta la Commissione antimafia mette come responsabilità sulle proprie spalle. Antimafia risorsa libera e abusata sul piano fattuale dei comportamenti, delle responsabilità, delle carriere, dei privilegi, e gli esempi che lei ha citato mi vanno tutti bene, mi riconosco anche nella sacralità che diventa un abito della festa o un diritto divino alla propria immunità sul piano politico e a volte anche sul piano giudiziario o della credibilità imprenditoriale. Colgo un rischio e vorrei condividerlo con lei: che questa denuncia legittima della sacralità senza un binario ben definito su cui viaggiare possa sfociare nella banalizzazione di tutto. Lei ha fatto alcuni esempi ai quali mi aggancio per farle capire a cosa mi riferisco: Cuffaro non vince le elezioni perché dice «la mafia fa schifo», le ha vinte tre anni prima perché definitore di un sistema di potere e di consenso di straordinaria complessità e modernità. La mafia fa schifo è una spesa pubblica attraverso affissione nel momento in cui sente sul collo il fiato di una sentenza che sta per arrivare, uno slogan che non gli ha portato particolare fortuna. La stessa cosa nei confronti della dottoressa Saguto, perché è vero che quella telefonata è assai sgradevole nei toni, ma sono convinto che, se quella telefonata sgradevole e arrogante sul piano umano non si fosse accompagnata a quanto nelle settimane prima era stato messo a fuoco, ossia al fatto che uno dei magistrati più esposti perché presidente della sezione misure di prevenzione considerava i propri uomini della scorta come sbroglia faccende utilizzandoli per comprare il filo interdentale e riteneva che questo lavoro potesse diventare occasione per baratti, per allietare le carriere di amici e parenti, non sarebbe parsa così grave. La cosa che ha lacerato anche sul piano della credibilità con le conseguenze assunte nei suoi confronti credo che sia questa. Anche per quanto riguarda la vicenda di Sciascia, rileggendola a distanza di molti anni riconosco a Leonardo Sciascia in quell'articolo alcune preoccupate e utili intuizioni, non gli riconosco la buona fede con cui scelse di individuare Paolo Borsellino, perché in questo – non sono d'accordo con lei, professore – non era inconsapevole. Quando il 10 gennaio 1987 scrisse un articolo, indicando Paolo Borsellino come esempio di magnifiche carriere costruite istruendo processi alla mafia, lo fece assumendo che Paolo Borsellino fosse diventato procuratore a Marsala con meno anni di anzianità di un suo amico magistrato, che gli fornì gli indizi della storia e lo sollecitò, cosa che poi lo stesso Sciascia raccontò amichevolmente a Borsellino in tempi successivi. Penso anche a questo tema del passato, un tema centrale sul quale siamo chiamati a interrogarci non soltanto nel corso di questa indagine, ma nella funzione istituzionale che ci è stata attribuita dalla legge istitutiva della Commissione antimafia. Non credo che ci sia ostinazione a guardare al passato, alla vicenda delle stragi, perché è un passato orfano di verità. Al di là della vicenda del processo, che mi interessa relativamente o non mi interessa affatto, nel senso che il processo deve definire se alcune fattispecie penali si possano declinare con i comportamenti di alcuni rappresentanti delle istituzioni e alcuni capimafia, mi interessa un'altra cosa che sul piano fattuale è innegabile: c’è un procedimento in corso alla procura di Caltanissetta per riaprire la vicenda processuale che riguarda la morte di Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta perché è quasi certo che vi sia una concorrenza di volontà, ne abbiamo a lungo parlato con il procuratore Lai. La verità giudiziaria, che in questo caso è anche la verità storica, i Pag. 13corleonesi, questa cupola geograficamente vasta che rappresenta il punto terminale delle intenzioni criminali, è una verità totalmente parziale. È un fatto altrettanto vero che abbiamo scoperto vent'anni dopo, al netto delle conseguenze che potrà avere sul piano giudiziario e processuale tutto ciò, che alcuni alti rappresentanti delle istituzioni sapevano che c'era stato il contatto per una possibile trattativa, e questa verità di cui tutti avrebbero dovuto avere consapevolezza, perché siamo figli anche di quelle reticenze, è venuta fuori soltanto vent'anni dopo, e sappiamo di una sentenza che è stata rivista perché era stato organizzato un depistaggio scientifico, con condanne all'ergastolo che avevano portato alle conseguenze che sappiamo. Credo che non ci stiamo ostinando a guardare il passato, tralasciando la vicenda di quel processo, ma che sui tempi, sulle vicende legate alla strage abbiamo ancora un debito di verità al quale siamo legati per responsabilità. Lei ha detto che la guerra è finita, sono d'accordo con lei: sul piano militare la guerra è finita, anche se a volte il fatto che non si ammazzi manifesta una capacità di controllo del territorio straordinaria, c'erano paesi siciliani in cui la mafia governava e non volava uno schiaffo, ma il punto è che la strategia terrorista ed eversiva dei corleonesi è stata sconfitta. Mi chiedo e le chiedo se la fattispecie mafiosa di questo tempo non rischi di essere molto più insidiosa, perché la modernità della mafia oggi mette in campo una categoria che un tempo non c'era, che è quella del consenso. Non credo che Riina o i suoi amici lavorassero sul consenso: lavoravano sull'intimidazione, sulla paura e sull'omertà. Se lei avesse parlato come noi con i procuratori della Repubblica di Torino, di Milano e delle procure emiliane, avrebbe saputo che la grande preoccupazione è il modo in cui attorno alla capacità della mafia di farsi impresa, di essere sostegno economico, garanzia nella corsa agli appalti, punto di riferimento sul territorio, si sta creando consenso, al punto che non c’è stato un solo imprenditore che abbia collaborato con l'inchiesta Infinito. I magistrati di Milano che hanno lavorato anche in Sicilia dicevano che è una contraddizione abbastanza ingombrante, perché hanno più collaborazione in Sicilia che a Milano. Le chiedo quindi se condivida che questo tema del consenso e della convenienza, anche se non siamo più di fronte a una mafia militare, determini una forte insidia della mafia, e in questo senso forse dobbiamo riattrezzare più che archiviare il tema di un'attività di contrasto con gli strumenti dell'antimafia.

  FRANCO MIRABELLI. La ringrazio, professore, perché ho trovato la sua esposizione molto interessante e stimolante. Voglio fare una riflessione sul tema che iniziamo oggi con la sua audizione, che è il tema dell'antimafia, perché è di questo che dobbiamo discutere. Capisco che ha dato molti spunti, capisco gli interventi dei colleghi, però voglio provare, su questo richiamava alcune cose Fava, a fare un paio di notazioni. Vediamo se capisco o come leggo la sua esposizione. Lei ci dice che l'antimafia è un movimento che ha avuto e può ancora avere un ruolo molto importante, se è in grado di interpretare il cambio di fase. Questo è il tema: è cambiata una fase ed è cambiata su due fronti. Il primo è quello che richiamava il vicepresidente Fava, cioè è cambiata la mafia, si è ritirata rispetto all'aspetto militare, c’è un'attenzione maggiore a entrare nell'economia piuttosto che a sfidare lo Stato e avere quel ruolo eversivo che ha segnato gli anni in cui forse il movimento antimafia è stato più forte. Il secondo punto è – ce lo dobbiamo dire – che probabilmente è cambiata la percezione dei cittadini rispetto alla mafia o rispetto alla pericolosità della mafia, e questo ha cambiato anche la dimensione di massa dell'antimafia. Oggi non siamo davanti a un'antimafia di popolo, quelle mobilitazioni di antimafia che ci sono state ora non ci sono più. Guardiamo le cose che richiamava adesso Fava: la percezione in Emilia e in Lombardia che siamo di fronte a un fenomeno criminale pericoloso non c’è, e questo segna l'antimafia, non può non segnare l'antimafia, soprattutto se Pag. 14l'antimafia continua a interpretare se stessa con lo sguardo all'indietro, facendo riferimento a quella storia nobile e importante, a quella funzione nobile e importante che ha svolto. Se ho ragione, io vedo due pericoli seri, che mi sembrava ci fossero nella sua illustrazione. Mi pare che, se l'antimafia non riesce a guardare ai mutamenti e a reinterpretare il rapporto con l'opinione pubblica e la necessità di ricostruire un rapporto che sottolinei la pericolosità e l'importanza di una battaglia democratica contro le mafie oggi, il rischio è che l'antimafia possa ridursi a una cosa che serve più come sovrastruttura a giustificare alcune scelte, a rendere indiscutibili alcune tesi perché arrivano dall'antimafia piuttosto che a fare altro. Temo in secondo luogo che, se l'antimafia non riesce a reinterpretare la fase anche nel rapporto con l'opinione pubblica, diventi più permeabile alle infiltrazioni, perché diventa sempre più un simbolo e non un fatto concreto di mobilitazione, di lavoro e di studio, e diventando un simbolo è facile che dei simboli possano appropriarsi persone che vogliano sfruttarli per finalità non consone.

  FRANCESCO MOLINARI. Cercherò di essere molto sintetico visto che come avvocato sono un giurista e quindi cerco di non allargarmi su altri settori storici. Naturalmente ho trovato molto interessante la sua tesi così come il suo libro, molto utile per diversi aspetti toccati dai colleghi, ossia sul modo in cui si dovranno ridefinire anche i compiti della cosiddetta antimafia alla luce dell'evoluzione. Ho trovato interessante il suo richiamo a Santi Romano perché mi ricorda i miei studi di giurisprudenza, quando il professore di procedura penale nel 1981-1982, nel momento in cui si stava costruendo il 416-ter, partendo proprio dagli studi di Santi Romano, che dava dei parametri entro i quali individuare gli ordinamenti giuridici, ci spiegava perché alla luce della nascita dello Stato democratico e della Costituzione repubblicana il rapporto fra lo Stato e la mafia fosse una questione di sopravvivenza, perché lo Stato democratico non poteva convivere con una struttura organizzata come le mafie che ne copiavano per intero gli ordinamenti. È vero che stiamo vivendo una fase nuova e diversa rispetto a quella degli anni Ottanta e della contrapposizione armata, abbiamo necessità di avere un quadro chiaro di quello che è avvenuto, se poi quelle evidenze si tramuteranno anche in una sentenza, laddove la verità giuridica si tramuta nella sentenza di un tribunale ed è diversa da quella storica, sarà essenziale capirlo, anche perché è compito di questa Commissione fare chiarezza su quanto è accaduto. Lei non crede che la sua tesi secondo cui la guerra è finita non porterebbe a mettere in discussione anche l'armamentario che lo Stato democratico ha messo in piedi per contrastare la mafia e l'ha indotta a trasformarsi in qualcosa di diverso ? Ritengo infatti che questo sia ancora essenziale, e mi riferisco soprattutto al 41-bis, che credo sia stato la chiave di volta di questa lotta.

  ELISA BULGARELLI. Intanto grazie per gli spunti, perché ho tanti pensieri in mente e faccio fatica a metterli tutti insieme, ma cercherò di essere sintetica. Se ho capito bene, lei ha detto che la mafia non è più pericolosa o è meno pericolosa, perché forse si riferiva ai morti ammazzati, ai giudici che saltano in aria, ma la pericolosità della mafia non è solo questa e, se non vogliamo sempre guardare a quanto è successo venti o trent'anni fa, in questo momento storico la parte pericolosa della mafia è proprio quella che non si vede, che fa muovere flussi finanziari infiniti, di cui facciamo fatica a quantificare l'onere, il flusso movimentato da tutte le tipologie di mafie e da tutta la criminalità organizzata e il flusso sottratto allo Stato, perché questa è attualmente la vera pericolosità della mafia, che sta portando via una parte di economia sana sia allo Stato che al Paese. In Emilia anche parlando con dei conoscenti si evince che queste persone sono simpatiche perché portano soldi, e questo è molto pericoloso, perché, se non si riesce più a distinguerne la pericolosità, se l'importante è far muovere Pag. 15l'economia in qualunque modo, questa è una parte pericolosissima che forse neanche l'antimafia ha capito e credo che sia proprio questa la vera sfida dell'antimafia. La società civile che segue tutte le questioni di mafia non è riuscita ancora a trasformarsi e a capire come contrastare questo grosso problema del flusso di denaro, e spesso, come lei diceva, viene invece usata come vetrina, per fare carriere politiche o non politiche, mentre deve trovare la forza di riformarsi e di diventare diversa, non solo ricordando quanto è successo, che è importantissimo, ma anche facendo capire quello che sta succedendo, che è estremamente grave soprattutto per l'economia italiana. Mi chiedo se l'antimafia come società civile possa dirsi veramente indipendente se viene finanziata dalla politica o dalle istituzioni, perché la commistione c’è e quindi torniamo al problema di quanto si possa definire indipendente una società civile che fa antimafia che viene finanziata con i soldi della politica e dalle istituzioni. Questo è un altro dei problemi. La vera antimafia non indossa il cappello di antimafia, ma combatte l'analfabetismo di secondo livello diffuso in Italia, perché l'unico modo per sconfiggere la mafia è la capacità di riconoscere certi meccanismi ma, se siamo il primo Paese in Europa per analfabetismo di secondo livello, non è possibile che le persone si rendano conto di quello che succede. Questo è molto grave perché non riescono a capire i meccanismi per cui la situazione è così grave. Più che ingaggiare una lotta, che sicuramente deve essere fatta ma dalle istituzioni, come adesso non stanno facendo, compresa l'ultima finanziaria che è tutto tranne che una guerra alla mafia, anche se anch'io non la definirei guerra, credo che la società civile dovrebbe insistere su altro, non mettendosi il cappellino dell'antimafia, ma diffondendo nelle persone una vera cultura di società civile e non solo uno sbandieramento.

  PRESIDENTE. Molto sinteticamente, provo anch'io prima di formulare una domanda a capire se ho capito bene. Mi farebbe piacere approfondire anche gli aspetti più storici della lotta del fascismo alla mafia o le lotte sociali che incrociarono la mafia ma che non erano nate per combatterla, così come non ho letto il libro sugli anni Ottanta, ma non mi meraviglia che chi magnifica gli anni Ottanta neghi la mafia. Non l'ho letto, quindi esprimo un giudizio sommario, però non mi meraviglia perché chi scrive libri sui magnifici anni Ottanta ignora la mafia come ignora anche tante contraddizioni di quegli anni. Per venire al tema, in maniera molto sintetica ho capito questo: la mafia è cambiata anche perché, essendo stata, non sconfitta, ma avendo subìto un colpo molto pesante, ha dimostrato ancora una volta la sua capacità di mutare. La mafia quindi è cambiata, ma l'antimafia non è cambiata, continua a costruirsi sulla reazione alla fase nella quale è nata e non si è data gli strumenti per combattere la mafia di oggi, che credo non trovi la sua fonte maggiore in cosa nostra che è stata sicuramente sconfitta. Bisognerebbe avere più forza di parlarne e in questo senso credo che un contenuto importante della lotta alla mafia sia anche il coraggio di affermare i successi ottenuti, sui quali invece ci si sofferma troppo poco.
  Non perché non si debba anche indagare gli eventuali...Io non escludo che per sconfiggere quella mafia ci possa essere stato anche qualche comportamento improprio da parte delle istituzioni, non lo escludo, fa parte della storia, fa parte della realtà, non escludo neanche che si debba indagare. Io solo non accetto che si riduca tutto a quell'aspetto e che non si colgano i risultati ottenuti anche attraverso quelle eventuali contraddizioni. Per farla breve, o abbiamo il coraggio di privarci degli strumenti di intelligence, ma non mi sembra proprio il momento storico più adatto, o quando studieremo gli anni che stiamo vivendo troveremo anche comportamenti sicuramente contraddittori, ma dai quali magari si sono ottenuti anche dei risultati positivi. Fa parte della storia umana, nella quale il bene e il male convivono, la correttezza dei comportamenti convive con la loro devianza, vanno combattuti i Pag. 16comportamenti deviati, ma talora nella storia persino questi hanno fatto raggiungere qualche risultato. Io non li sto assolvendo, però questa è la lettura. Al di là di questo è giusto indagare sugli errori che si sono commessi, sulle commistioni che ci sono state, però bisogna anche dire che in quegli anni il risultato c’è stato e questo è un grande fondamento anche per suscitare nel popolo di questo Paese l'entusiasmo della lotta contro la mafia, evidenziando che c’è stato un popolo che ha reagito e che ha ottenuto risultati. Credo che questo si debba dire e che qualche volta si debba indossare il cappellino, perché tutto questo serve. Detto ciò, se il movimento antimafia – non solo quello civile, delle associazioni, ma anche quello della magistratura, delle istituzioni, della politica – non si è attrezzato per combattere la mafia di oggi, c’è da chiedersi se questo sia avvenuto semplicemente perché non ha capito o perché gli fa comodo rifugiarsi in un passato da cui finisce per trarre una rendita di posizione. Questo è il punto. Tutte le contraddizioni sono emerse perché la rendita di posizione dal movimento antimafia è diventata più importante della lotta alla mafia. Che sia il denaro, che sia il professionismo, che siano gli affari, che sia il prestigio, questo è quanto sta accadendo. Non demonizzo i finanziamenti, perché come si può pensare che un movimento antiracket possa vivere senza dei finanziamenti ? Quando però i finanziamenti diventano più importanti del creare movimento antiracket e di combattere la mafia... Penso che su questo dobbiamo riflettere e l'aiuto che chiediamo è questo: se la mafia è cambiata e l'antimafia è rimasta quella, cosa possiamo fare e come possiamo aiutarci per adeguare i nostri strumenti alla lotta che dobbiamo fare alla mafia ? Condivido molto gli interventi di chi diceva che, se raduni qualcuno in nome del ricordo dell'uccisione del periodo delle stragi, chi non si commuove, chi non sente la passione ? Guai a non farlo, perché sarebbe come non ricordare la Resistenza, ma, mentre si ricorda la Resistenza al fascismo di ieri, bisogna ricordare la Resistenza ai rischi che corre la democrazia oggi, bisogna attrezzarci per i rischi che corre la democrazia oggi e motivare la lotta alla mafia con intelligenza, ma anche sapendo suscitare passione e interesse, e non sentirci dire che inventiamo la mafia, perché l'accusa poi è questa. Noi scomodiamo quando ribadiamo che la mafia c’è ancora, che agisce in quel modo e che va combattuta, quindi bisogna creare un movimento antimafia che combatta la mafia di oggi, non semplicemente quella di ieri, anche se la reazione e i risultati ottenuti su quella di ieri non possono non motivare la necessità e la passione per l'aggiornamento. Questo mi pare che sia il senso del nostro lavoro e dalle sue parole ho colto che la mafia è cambiata, mentre l'antimafia è rimasta quella.

  SALVATORE LUPO, professore ordinario di storia contemporanea presso l'università di Palermo. Su molte cose che sono state dette io mi trovo d'accordo, devo dire in particolare sintonia con l'intervento della senatrice Bulgarelli, perché non so se fosse chiaro ma volevo dire proprio questo: non volevo affatto dire che il problema delle mafie non fosse un problema gravissimo in Italia, non sarebbe l'Italia, perché c’è un problema di cattiva politica e di malaffare di cui le mafie sono in qualche modo la conseguenza ineludibile. Finché ci saranno questi così gravemente, ci saranno mafie, queste mafie sono sicuramente molto pericolose, però non è facendo dell'antimafia necessariamente che si risolvono questi problemi. Ci vogliono politiche efficaci, ci vuole spirito democratico, ci vuole capacità di far funzionare la democrazia e non sempre le cose corrispondono. Nel periodo d'oro dell'antimafia io c'ero e so che non era un movimento maggioritario, anzi era un movimento di robuste minoranze, come sono i movimenti, di robuste minoranze che si fanno sentire perché in quel momento hanno la passione e la capacità di farsi sentire. Ci vuole altro, ma non è questo, perché la mafia oggi non ha questa evidenza di pericolosità, non dico che sia più o meno pericolosa, ma non ha questa Pag. 17evidenza di pericolosità, non è una sfida talmente palese da dire che domani scenderò in piazza. Siccome non posso scendere in piazza ogni giorno perché ho da lavorare, da fare, da studiare, da vivere – personalmente sono sceso in piazza per la guerra del Vietnam, mi arrabbio quando mi si chiede perché non scendo in piazza per tutte le guerre possibili e immaginabili – si vede che in quel momento ho sentito quel fatto come una sfida alla mia persona, alla mia idea e capisco benissimo che ci sia gente che scende in piazza per altre ragioni. A parte che i movimenti per loro natura non sono stabili, si accendono, esplodono, poi cadono proprio per questo, dunque affidarsi all'infinito a un movimento antimafia per queste cose... e poi ci sono delle istituzioni che devono fare e che faranno senz'altro il loro lavoro. La presidente Bindi bene ha capito il mio ragionamento: la mafia non è più quella di allora, non è detto che quella di ora sia meno pericolosa, è una sfida meno forte, però bisogna vedere quali patologie semina alla lunga, ma di sicuro non si potrà combattere con lo stesso sistema, anche perché un movimento che si irrigidisce e tende a istituzionalizzarsi come tutte le strutture che istituzionalizzano a sua volta pone dei problemi. Immaginate un procuratore della Repubblica che dice tutti i giorni che la mafia è oggi quella stragista di allora, immaginatelo, chi sarà ? Fate uno sforzo di fantasia. Tutti i giorni dice questo e ci sono un gruppo di giovani che in tutta buona fede si esibiscono con un bersaglio e dicono «sparate a noi», come i serbi quando gli americani bombardavano Sarajevo, solo che lì si bombardava per davvero, quindi sia che avessero ragione o torto si capisce il loro sforzo. Le istituzioni straordinarie che non corrispondono alla nostra tradizione giuridica, nate in periodo di straordinarietà, uscite da quel periodo di straordinarietà hanno come primo obiettivo quello di giustificare se stessi. Mi dispiace, Max Weber diceva questo e forse non era un babbeo. Naturalmente l'obiezione che mi è stata fatta è se ritenga che tutto questo apparato debba essere smantellato. A parte che io potrei non pensare niente di tutto questo e dirlo lo stesso, perché non è compito mio proporre quello che voi dovete fare: compito mio è dire che il mondo va così. Siccome non mi nascondo dietro il dito, non penso assolutamente questo, però se questo succede lo dobbiamo sapere. Se abbiamo cinque polizie, che si facciano concorrenza l'un l'altra e poi ce ne sia una che si inventa i reati, è possibile, e d'altronde, siccome parliamo di storia della mafia, uno dei problemi della repressione della mafia nel secolo passato è stata la concorrenza tra la Polizia e i Carabinieri, dunque non dico nemmeno niente di nuovo. Se ci inventiamo ogni giorno una polizia speciale e un altro giorno ci inventiamo una magistratura speciale, che applica leggi e metodologie speciali, oltre un certo limite del necessario e dell'utile avremo delle patologie, poi non stupiamoci se ci sono delle patologie. Con Lumia il discorso è andato troppo alle larghe e io ovviamente posso anche essere d'accordo con lui, può darsi anche che non mi sia ben spiegato. Volevo solo dire che c’è un momento in cui non il movimento antimafia, perché nel fascismo non c’è alcun movimento antimafia, non c’è alcun movimento, ma nella vita dello Stato italiano la lotta contro la mafia in quanto tale è stata messa al centro di un progetto politico dichiarato. All'assedio di Gangi è stata convocata la stampa mondiale, il New York Times uscì con titoli a tutta pagina. Che sia un'operazione largamente demagogica, propagandistica e comunque di corta durata mi pare di averlo detto io stesso, e naturalmente è vero che i movimenti di età repubblicana hanno in sé un'identità democratica costituzionale che i movimenti di quando la Costituzione non c'era non avevano, è assiomatico. Poi c’è un fatto di cui è difficile convincere i miei studenti che prima dell'età repubblicana mediamente in Italia l’intellighenzia era di destra se non di estrema destra, poi le cose sono cambiate e il mondo è cambiato. Una cosa che sia Lumia che Fava chiedevano è se la mafia attuale è più moderna e il consenso è più moderno, il nascondersi è più efficace ? Sì, può darsi, anzi se Pag. 18la mettiamo in prospettiva storica, questa vicenda cosiddetta corleonese sembrerà un’enclave, perché la mafia è nascosta di sua natura, la mafia si nasconde nelle pieghe delle relazioni sociali, si è inflitta da sola la più grossa sconfitta in quanto non ha più reso possibile che qualcuno dicesse che la mafia non esiste, perché la mafia si è palesata da sé nella sua esistenza indubitabile. Il consenso è parte essenziale del fenomeno mafioso e veramente anche in tempo corleonese la mafia aveva il consenso. Se parliamo in termini di società civile, di predisposizione culturale, se i siciliani sono antropologicamente mafiosi o no, non andiamo da nessuna parte: diciamo che ci sono diversi orientamenti dell'opinione pubblica che possibilmente si danno battaglia, non sempre si danno battaglia perché non sempre emergono nella loro chiarezza antinomica, e non sempre l'antinomia gira intorno alla questione della mafia. Tutto il nobilissimo richiamo a un passato fatto di movimenti contadini, di fasci siciliani, va benissimo, ma bisogna sapere per correttezza che l'antinomia che la gente aveva in mente era un'altra, tanto che non si sentivano legalitari, ma si sentivano rivoluzionari, quindi tanto meno può essere definibile nei termini iperlegalitari con cui poi l'antimafia si è definita. Tanto per non fare di tutta l'erba un fascio e non pensare che sia una categoria metastorica, perché così non è. Il consenso è parte essenziale, perché tutte le analisi della mafia parlano di consenso, e in Emilia o dovunque sarà allo stesso modo, perché pensare che ci siano popoli condannati per natura e popoli virtuosi per natura non va bene, se esistono organizzazioni di cattiva politica e di malaffare che fanno muovere i soldi e danno lavoro, quelli che ottengono lavoro acconsentiranno. Qual è il grande vantaggio ? Che la mafia come sistema economico funziona male, se funzionasse bene saremmo nei guai davvero: funziona male, perché in un tempo medio la selezione degli imprenditori avviene non al più capace ma al più scadente, le contabilità sono fasulle, le attività economiche sono di copertura, prevalgono gli elementi finanziari sugli elementi imprenditoriali. Questa è la mia idea, che può essere benissimo smentita, ma spero non lo sia. Questa è l'esperienza che abbiamo avuto finora. Da questo punto di vista ribadisco che il problema è che i bambini vadano a scuola, che la gente trovi lavoro, i problemi base sono questi, però ovviamente su questo tutti diranno che vogliono così, e comunque questa non è l'antimafia, perché altrimenti diamo un'interpretazione eccessiva. Infine, per quanto riguarda il primo intervento evidentemente non mi sono spiegato, perché non ho scritto questo, pensavo di scrivere chiaramente. Sulla trattativa io penso che ci sia stato un modo molto sbagliato di porre la questione da parte dell'opinione pubblica, della stessa magistratura e della stampa. La ricapitolo in poche battute: non è vero che lo Stato fa o non fa, lo Stato non fa niente di tutto questo, casomai è il Governo. Questo per pulizia mentale, perché se cominciamo ad usare le parole in modo che non si capisca, non ci capiremo, e non vorrei che l'effetto fosse questo. Solo le Brigate Rosse pensavano che lo Stato imperialista delle multinazionali facesse questo e quest'altro, ma, se vogliamo essere più raffinati, il Governo fa. Il Governo ha promosso una trattativa, il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro ha promosso una trattativa con la mafia, i ministri degli interni e della giustizia hanno promosso una trattativa con la mafia, una trattativa intesa a salvare la mafia, misteriosamente fallita. Esiste una sequenza logica: cose mostruose sarebbero avvenute per salvare la mafia, ma la mafia poi non è stata salvata chissà perché, quindi da questo punto di vista il problema è questo. Funziona questo modello cospirativo, per cui la storia d'Italia sarebbe stata condizionata da quello che è stato trattato in una certa riunione in una masseria in provincia di Enna ?

  CLAUDIO FAVA. Mi scusi, professor Lupo, ma non voleva salvare la mafia: voleva salvare se stesso. L'ipotesi è che alcuni abbiano proposto questa trattativa salvare per se stessi.

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  SALVATORE LUPO, professore ordinario di storia contemporanea presso l'università di Palermo. Chi, Mannino ?

  CLAUDIO FAVA. Lasci perdere Mannino: qui stiamo parlando degli interlocutori, che non sono il Governo. Fosse il Governo...

  SALVATORE LUPO, professore ordinario di storia contemporanea presso l'università di Palermo. L'ipotesi è questa, lo so, ma questa ipotesi non sembra dimostrata, e infine non sono io che tiro fuori l'articolo, lo stato di emergenza, nel mio saggio non c’è scritto, non dico questo. Io dico che due ufficiali dei Carabinieri sono andati a trattare con un capomafia che non era latitante e non hanno commesso alcun reato facendo questo. Hanno instaurato una trattativa, come da un secolo e mezzo tutti i poliziotti instaurano trattative con capomafia per averne scambi di favori, informazioni. Questa intanto non è «la» trattativa, è «una» trattativa o forse una quantità di trattative. Nel corso di queste trattative possono essere stati commessi dei reati, se a questo signore o ai suoi amici sono state promesse cose illecite, oppure no. Può darsi che siano state promesse cose lecite o cose che astutamente il poliziotto si riservava di non mantenere, come in genere fanno i poliziotti. Da questo punto di vista, ben lungi dal dire che la trattativa è un crimine o un reato perché nel codice penale non esiste il reato di trattativa, giusto perché il termine è talmente vago che non può essere definito rilevante penalmente, fermo restando che tutti trattano con tutti normalmente e in particolare i poliziotti con i criminali, con i terroristi e con i mafiosi – perché questo è, così funziona – bisogna vedere se in questa trattativa siano state promesse e soprattutto concesse cose illecite. Ragion per cui il tribunale fa benissimo a inquisire queste persone per vedere, fermo restando che hanno già subìto sette processi uscendone sempre assolti, e fare un processo per l'ottava volta per la stessa cosa – mi dovrebbe confermare chi è di cultura giuridica – per me che vedo Law and Order non si dovrebbe poter fare. Che poi questo complotto sia stato guidato da Scalfaro o da Napolitano non risulta, non è vero allo stato attuale delle prove. Lei riteneva questo libro un frontale attacco alla procura, per me non è così: io ho solo ragionato sul modo in cui, sul piano della comunicazione pubblica e della ricostruzione della storia italiana, è stata elaborata una serie di documenti, alcuni giudiziari, altri di giornalisti, di uomini politici e degli stessi magistrati che un giorno fanno gli atti penali e il giorno dopo li volgono in libri, che possibilmente sono intitolati Io so, dove si sostiene che uno può dire le cose anche se non ha prove, non c’è bisogno di avere le prove perché so che è vero, credetemi sulla parola. Sono largamente d'accordo con Fiandaca, non necessariamente in tutto, d'altronde le due parti del libro sono ben distinte con il nome, quindi si potrebbe anche giudicare quello che scrive Salvatore Lupo. C’è una produzione di public history, la storia del nostro Paese come viene ricostruita in questi testi, che non ha niente a che vedere con qualsiasi modo plausibile in cui può essere immaginata la storia italiana, perché segue sempre la categoria del complotto, che distingue la ricostruzione penale dalla ricostruzione storica. Mentre infatti la ricostruzione storica tende a mettere in campo milioni di persone, grandi forze impersonali, la logica giudiziaria, dovendo trovare una responsabilità individuale, segue la logica del complotto, laddove i grandi eventi storici difficilmente seguono la logica del complotto. A me sembra che questo sia uno dei casi, poi quando mi dimostreranno, come finora non è avvenuto, perché i processi paralleli si sono conclusi con l'assoluzione, quali reati nell'ambito di queste trattative siano stati commessi, io che rispetto le sentenze dei tribunali e non pretendo di saper giudicare meglio dei giudici ne prenderò atto.

  PRESIDENTE. Grazie, professore. Forse bisognerebbe anche dire che ci sono fatti storici che possono essere analizzati per trovare delle responsabilità politiche Pag. 20piuttosto che dei reati. Il rischio è che, cercando dei reati, se non ci sono si finisca per assolvere anche responsabilità politiche che forse andrebbero individuate e che prescindono dai reati. Questo è il punto. Forse la sede per l'accertamento di quelle responsabilità non è un tribunale, ma è una sede politica. Quando il processo si concluderà, la Commissione antimafia del futuro potrà fare questo lavoro.
  Prima di concludere ricordo che è stata rinviata la missione a Bruxelles – avremo un incontro con la Commissione LIBE dopo le feste natalizie – che la missione a Ostia si svolgerà mercoledì 9 dicembre e che venerdì 11 dicembre si svolgerà una missione a Perugia per un fatto di attualità che riguarda un'azienda pubblica.
  Nel ringraziare il professor Lupo per il suo contributo, dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 22.15.