Sulla pubblicità dei lavori:
Migliore Gennaro , Presidente ... 2
Audizione del Presidente dell'agenzia Habeshia, don Mussie Zerai, e di Vittorio Longhi, giornalista, collaboratore del New York Times:
Migliore Gennaro , Presidente ... 2
Zerai Don Mussie , presidente dell'agenzia Habeshia ... 2
Migliore Gennaro , Presidente ... 2
Zerai Don Mussie , presidente dell'agenzia Habeshia ... 2
Migliore Gennaro , Presidente ... 11
Longhi Vittorio , giornalista collaboratore del ... 11
Migliore Gennaro , Presidente ... 15
Chaouki Khalid (PD) ... 15
Palazzotto Erasmo (SI-SEL) ... 15
Migliore Gennaro , Presidente ... 15
Zerai Don Mussie , presidente dell'agenzia Habeshia ... 15
Chaouki Khalid (PD) ... 16
Zerai Don Mussie , presidente dell'agenzia Habeshia ... 16
Migliore Gennaro , Presidente ... 16
Zerai Don Mussie , presidente dell'agenzia Habeshia ... 16
Migliore Gennaro , Presidente ... 16
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GENNARO MIGLIORE
La seduta comincia alle 14.10.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Propongo che la pubblicità dei lavori sia assicurata anche mediante l'impianto audiovisivo a circuito chiuso e la trasmissione diretta sulla web-TV della Camera dei deputati.
Non essendovi obiezioni, ne dispongo l'attivazione.
Audizione del presidente dell'agenzia Habeshia, Don Mussie Zerai, e di Vittorio Longhi, giornalista, collaboratore del New York Times.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del presidente dell'agenzia Habeshia, don Mussie Zerai, e di Vittorio Longhi, giornalista collaboratore del New York Times, sulle tematiche dell'accoglienza dei migranti nel nostro Paese, con particolare riguardo alle persone provenienti da Eritrea ed Etiopia. Ringrazio, altresì, Emilio Drudi, collaboratore di Don Mussie Zerai.
Ringrazio Don Mussie Zerai per la sua disponibilità, ma soprattutto – credo di poter parlare a nome di tutti i membri della Commissione – per l'opera che svolge da anni in difesa dei diritti e della vita stessa dei richiedenti asilo e dei migranti in fuga da guerre, dittature, terrorismo, persecuzioni, fame e miseria. Ricordo, peraltro, che la sua attività trova riconoscimento anche nella candidatura al Premio Nobel per la pace, proposta direttamente dal direttore dell'Istituto di ricerca internazionale per la Pace di Oslo.
Ringrazio, altresì, per la sua presenza ai lavori della Commissione il dottor Vittorio Longhi, anch'egli da tempo impegnato a diffondere i valori dell'accoglienza e dell'integrazione.
Cedo, quindi, la parola al presidente dell'agenzia Habeshia, Don Mussie Zerai.
DON MUSSIE ZERAI, presidente dell'agenzia Habeshia. Buongiorno a tutti. Grazie dell'invito. Non so quanto tempo ho a disposizione, perché ho 21 pagine da leggere.
PRESIDENTE. Le chiederei di fare una sintesi. Poi potrà consegnarci il testo scritto.
DON MUSSIE ZERAI, presidente dell'agenzia Habeshia. Consegnerò poi il testo. Vorrei iniziare intanto – visto che sono io stesso originario dell'Eritrea e che io stesso vivo con uno status di rifugiato in Italia – descrivendo in breve che cos’è oggi la situazione eritrea, che situazione sta vivendo il popolo eritreo.
In Eritrea, dopo trent'anni di lotta per l'indipendenza, siamo arrivati nel 1991 alla liberazione militare e poi nel 1993, con il referendum, all'indipendenza, che è stata riconosciuta. Dal 1997 in poi, però, la situazione è cambiata, con la guerra che c’è stata con l'Etiopia tra 1998 e il 2000 e successivamente. Questa situazione di non guerra e non pace perdura tuttora da quindici anni.
Le Nazioni Unite si erano prese la responsabilità di creare una Commissione Pag. 3per demarcare i confini dei due Paesi. La Commissione ha fatto il suo lavoro, ma le decisioni finali – in base all'accordo di Algeri, che ambedue i Paesi hanno firmato – devono essere accettate da ambedue i Paesi.
Il risultato è stato accettato dall'Eritrea, ma non dall'Etiopia. L'Etiopia dice che lo accetta a determinate condizioni, ma queste condizioni l'Eritrea non le accetta, dicendo che bisogna accettare l'accordo di Algeri così come è stato firmato, senza «se» e senza «ma». Questo è diventato nel tempo un perfetto alibi per il regime eritreo, che ha militarizzato il Paese dicendo: «Siamo in guerra». Sempre con lo spauracchio di un'eventuale invasione dell'Etiopia verso l'Eritrea, nel Paese più di 300.000 giovani sono costretti a prestare servizio militare a tempo indeterminato.
Per fare un esempio, persone vicine a me e alla mia famiglia hanno iniziato a fare il servizio militare nel 1994 e lo stanno ancora facendo, con una paga di 10 euro al mese, non potendo provvedere né a se stessi, né alle loro famiglie.
Consideriamo anche le condizioni in cui vengono trattati i giovani in questi campi militari, soprattutto le ragazze. Basta vedere il rapporto che è stato redatto dalla Commissione d'inchiesta per i diritti umani istituita dall'ONU. Nel mese di giugno è stato pubblicato un rapporto di 500 pagine in cui sono descritte minuziosamente le violenze che subiscono queste persone, le forme di tortura. Anche per degli errori, per delle stupidaggini, vengono punite legando loro le mani alle spalle e appendendole ad un albero, oppure esposte al sole dopo aver buttato loro addosso latte e zucchero per attirare gli insetti. Quanto alle ragazze, i capi dell'esercito venivano nei campi di addestramento, giravano, sceglievano le ragazze più belle e dicevano ai loro sottoposti: «Mandami questa come dolcificante». Così venivano definite le ragazze che potevano diventare di fatto schiave sessuali dei capi dell'esercito.
Questa situazione di non guerra e non pace ha dato giustificazione al regime, il quale non ha permesso che entrasse in vigore la Costituzione: è stata scritta e approvata dal popolo eritreo con un referendum nel 1997, ma non è mai entrata in vigore.
Nel 2001, quando la dittatura ha preso la piega più dura, sono iniziati gli arresti, a cominciare dai famosi G15, cioè i ministri e i generali che sono stati arrestati. Successivamente sono stati arrestati diversi giornalisti e leader religiosi e ci sono state persecuzioni sistematiche verso gruppi minoritari di cristiani, ma anche di musulmani. Sono stati arrestati tutti i loro leader religiosi, accusati di essere uno strumento nelle mani della CIA e di altri Stati esteri che volevano spiare lo Stato eritreo. Venivano arrestati e messi in container in cui subivano ogni forma di tortura, esposti a 40-50 gradi sotto il sole. Molti di loro hanno perso anche la vita a causa di queste torture.
Questa situazione ha dato avvio ad un esodo, soprattutto dal 2003 in poi, nel quale 3-4.000 giovani ogni mese hanno lasciato il Paese. Il flusso che arriva qui verso l'Europa è solo la minima parte. Se noi andiamo a vedere nei campi profughi del nord dell'Etiopia, ce ne accorgiamo. Ci sono quattro campi profughi, in cui ci sono 70.000 rifugiati. Questo è un bacino che viene alimentato, dalle statistiche che l'UNHCR ha fornito, perché vengono registrati 1.000 nuovi arrivi ogni mese nel campo in Etiopia.
Da lì poi ogni giorno queste persone partono per proseguire il loro cammino verso il Sudan, poi dal Sudan verso la Libia e dalla Libia verso l'Europa o anche verso l'Egitto, dove poi veniva alimentato il traffico di esseri umani e di organi che noi denunciammo tra il 2009 e il 2013. Il qui presente onorevole Pezzotta ha seguito questo tema con me, quando io venivo convocato dall'ambasciata egiziana che protestava contro le mie denunce, sostenendo che io stessi danneggiando l'immagine dell'Egitto e del suo turismo. Io stavo denunciando la situazione di persone che venivano sequestrate e torturate nel Sinai a scopo di riscatto.
Nel giro di quattro o cinque anni sono state vittime di questo sistema circa 30.000 Pag. 4persone. Era impossibile che le autorità locali del Sinai non sapessero che cosa stava succedendo. Eppure è successo: 3.000 persone hanno perso la vita torturate da questi trafficanti. Veniva chiesto di pagare il riscatto. Si era arrivati, a un certo momento, fino a 60.000 dollari a persona. Hanno iniziato chiedendo 7-8.000 dollari e poi, a mano a mano che le famiglie, per paura e per disperazione, pagavano, loro hanno capito che si poteva guadagnare di più e hanno alzato il prezzo. Oppure le persone venivano vendute tre o quattro volte da un gruppo all'altro e quindi, ad ogni passaggio, aumentava il prezzo.
Questo flusso, questo esodo – che è partito dall'Eritrea passando da questi due Paesi, ossia dall'Etiopia e dal Sudan – continua e oggi in Italia (non solo in Italia, ma anche in Europa) rappresenta il secondo gruppo. Dopo i siriani il secondo gruppo di rifugiati è composto da eritrei.
In Italia, anzi, quest'anno gli eritrei sono diventati il primo gruppo, perché i siriani non vengono più. Non passano più dall'Italia, ma vanno verso la Grecia. Dietro tutto questo c’è la situazione politica che vige in Eritrea, con un regime così duro, che qualcuno ha definito «la Corea del Nord dell'Africa», perché nega i diritti basilari, i diritti fondamentali delle persone, dalla libertà di movimento alla libertà di stampa, di espressione e di organizzazione in associazioni e partiti.
In Eritrea l'unico partito è quello che sostiene il regime. Nessun altro è consentito. Chi ha tentato di crearne un altro è finito nelle carceri sotterranee. In Eritrea abbiamo 360 carceri e neanche un'università. L'unica università che avevamo è stata chiusa, perché ritenuta fonte di guai, di contestazioni e di problemi.
L'emigrazione per il regime è diventata anche una specie di valvola di sfogo per mandare via tutti i giovani che possono creare problemi. Questo si è visto soprattutto dal 2009-2010 in poi. Mentre nel Nord Africa assistevamo alla primavera araba, in Eritrea – sono testimonianze dei giovani – gli stessi colonnelli e generali dicevano ai ragazzi: «Meglio che andiate via da questo Paese, invece di crearci problemi qui dentro». Era un modo di scaricare la tensione che si poteva creare all'interno.
Nello stesso momento questo è diventato anche una fonte di economia. Abbiamo raccolto testimonianze di persone che hanno pagato 7-8.000 dollari in Eritrea, per essere accompagnate addirittura con auto di Stato fino al confine con il Sudan, per poi da lì varcare il confine. Un apparato del regime era coinvolto in questo traffico. Erano uomini al potere ad arricchirsi, mettendo in pericolo la vita di moltissimi giovani.
Questa è la situazione dell'Eritrea che oggi i giovani si lasciano alle spalle. Oggi, come avete visto anche in Italia, vi è un incremento di minori non accompagnati, molti dei quali provengono anche dall'Eritrea, perché fuggono prima di raggiungere l'età per essere convocati al servizio militare. Oggi arrivano a 13-14 anni. L'età ufficialmente è 18, ma spesso vengono portati via già a 16 anni.
All'inizio, a 18 anni, prima ancora di fare l'esame di maturità, l'ultimo anno scolastico, i giovani venivano trasferiti e l'ultimo anno dovevano farlo nei campi di addestramento. Venivano addestrati e contemporaneamente dovevano anche studiare e sostenere gli esami. Anche questo sistema era utilizzato per ridurre la richiesta di persone che chiedevano di accedere all'università, dopodiché l'università è stata chiusa.
Il regime ha creato una serie di college in giro per il Paese, ma vi si può accedere soltanto se si ottiene un determinato risultato. I giovani, però, sfiniti dalla stanchezza e dalle condizioni durissime dei campi di addestramento, non erano in grado di arrivare ad ottenere tali risultati. Quei pochi che riuscivano a ottenerli erano spesso raccomandati e figli di qualcuno al potere e anche nei campi di addestramento ricevevano un trattamento di favore. Mentre gli altri si addestravano, loro venivano lasciati a studiare di nascosto.
Quelli che riuscivano a ottenere i risultati accedevano, quindi, a questi college. Pag. 5Tutti gli altri diventavano schiavi «legalizzati» e andavano a costruire le case dei generali e a coltivare il terreno dei colonnelli e di chi era al potere, oppure venivano utilizzati in altri modi, come è successo per esempio in una di queste nostre isole, nel Dahlak, dove il Qatar e gli Emirati costruivano alberghi di lusso e a lavorare per queste costruzioni venivano impiegati i soldati di leva. Gli Emirati pagavano 1.000 dollari al mese come stipendio per ogni dipendente, ma quei soldi li prendeva il regime, che ai ragazzi che lavoravano dava lo stipendio di tutti gli altri, quello del soldato di leva, cioè i famosi 10 euro al mese.
Questo era un altro modo di sfruttare e lo stesso è stato documentato nelle miniere d'oro, dove sono state coinvolte anche aziende australiane e canadesi. Oggi c’è anche la Cina che in alcuni posti ha soppiantato le altre aziende che si sono ritirate. Si va avanti. Al momento anche l'Unione europea ha promesso dei finanziamenti allo sviluppo per 320 milioni, da qui al 2020.
Tutto questo è figlio del Processo di Khartoum. In cambio si dovrebbe arrestare il flusso in uscita di questi giovani, secondo il concetto: «Se voi ci date aiuto, noi creiamo posti di lavoro». Il problema, però, è che deve cambiare il sistema. Se i posti di lavoro creati sono usati come servizio militare e, quindi, lo stipendio resta quello e le condizioni di vita restano quelle che ci sono oggi, non cambierà nulla. Non verranno fermati i giovani che scappano.
Questi giovani stanno scappando, ma non dalla povertà. C’è anche la povertà, ma c'era anche prima del 2003. L'Eritrea non è mai stata un Paese ricco. Questo esodo scatta dopo il 2003. Perché non prima ? Prima partivano al massimo all'anno 100-200 persone, non 30-40.000 come adesso. La ragione è che non ci sono più le condizioni per vivere dignitosamente in libertà e con i diritti basilari garantiti. Eppure queste persone stanno spendendo, per raggiungere l'Europa, decine di migliaia di dollari che avrebbero potuto utilizzare investendoli nel Paese, se ci fossero state le condizioni per vivere liberamente.
Da qui vengono l'esodo cui noi stiamo assistendo e le sofferenze che queste persone incontrano lungo il percorso della loro migrazione verso l'Europa. Penso a quello che sta succedendo in Sudan in questo momento. Ci sono persone sequestrate dai trafficanti in Sudan, alle quali viene chiesto di pagare 15.000 dollari a testa per essere rilasciate, altrimenti rischiano di essere vendute ancora ad altri. Questo vuol dire alimentare il traffico e aumentare il prezzo.
Lo stesso sta succedendo nel sud. I trafficanti che prima sequestravano le persone nel Sinai, dopo il martellamento militare che ha fatto l'attuale Governo egiziano nel Sinai, si sono solo spostati al sud. Nel triangolo tra Libia, Sudan ed Egitto i sequestri continuano, in questi container sotterranei. Hanno messo dei container sotterrati nel deserto, in cui hanno creato delle prigioni dove vengono trattenute queste persone.
Una volta superato questo, le persone arrivano in Libia o in Egitto. Anche il passaggio in questi centri di detenzione in Libia spesso è controllato da queste milizie. Mi dicevano che a Kufra c’è un generale che controlla una di queste ex prigioni che anche Gheddafi usava per trattenere i migranti o i profughi di passaggio, anche dopo l'accordo Italia-Libia. Adesso questo generale gestisce questa struttura. Chi può pagare 700-1.000-1.200 dollari per il suo rilascio per poter perseguire il viaggio, lo fa. Chi non può pagare viene mandato a lavorare nei campi del generale o a badare al suo bestiame. Così devono pagare il loro riscatto, il loro rilascio.
In queste condizioni le donne e i minori hanno sempre la peggio. Ci sono anche casi di minori venduti come schiavi verso altri Paesi del Golfo, soprattutto minori che venivano usati per la corsa con i cammelli. Ci sono tradizioni, in alcuni Paesi, come gli Emirati o i Paesi del Golfo, per le quali si usano i bambini come fantini per farli correre sui cammelli. Venivano a sceglierli. Sono spariti 4.000 Pag. 6minori dai campi profughi del Sudan e lo stesso sta succedendo anche da questi centri di detenzione. Ci sono minori non accompagnati o minori che vengono sottratti ai loro genitori per essere venduti in questi Paesi di fatto come schiavi per queste lobby.
Ho fatto questo quadro per descrivere la situazione dell'Eritrea e che cosa incontrano lungo il loro percorso prima di arrivare in Europa coloro che escono dall'Eritrea, quelli che sono in grado di raggiungere l'Europa, se non sono morti prima, nel deserto o nel Mediterraneo.
Visto che questa Commissione si occupa dei centri di accoglienza, dei CIE, dei CARA e via elencando, farò qualche accenno alla situazione italiana. Tornerò poi su eventuali soluzioni che noi vogliamo chiedere al Governo italiano, anche per il tramite di questa Commissione.
Le strutture le conoscete già meglio di me – i CARA, i CIE e via dicendo – ma vi illustro le condizioni che noi abbiamo riscontrato. Lascerò poi questo documento, che la Commissione potrà consultare, per non leggere tutto ora.
Quello che ci preoccupa di più sono i CIE e le condizioni di trattamento delle persone che sono ospiti lì, che sono condizioni peggiori di quelle di un detenuto qualsiasi, perché non hanno neanche i diritti garantiti a un detenuto in carcere. Sono negati loro i diritti che sono garantiti normalmente a un detenuto che viene arrestato per qualche reato.
Questi soggetti sono arrestati di fatto. Sono in prigione di fatto senza aver violato la legge, se non per una violazione amministrativa. Non c’è un'accusa ben precisa per un reato che abbiano commesso, eppure vengono trattati peggio di un detenuto qualsiasi. Viene negata la loro libertà personale. Viene negata qualsiasi visita di un familiare che venga dall'esterno e che possa visitarli e viene negato anche il diritto alla difesa. Queste persone vengono trattate peggio di un detenuto. Questa situazione è preoccupante.
Per quanto riguarda la novità, i famosi hotspot, noi abbiamo raccolto alcune testimonianze, per esempio, di eritrei che sono nel programma di riallocazione o di reinsediamento europeo. All'inizio c’è stata una fiducia verso questo programma e verso questo sistema, per i pochi che sono riusciti a partire all'inizio del programma, in questo mese e mezzo trascorso, perché era stato detto loro che potevano partire verso il Paese dove più o meno desideravano andare.
Poi, invece, qualcosa è cambiato. Hanno preso le impronte digitali alle persone, dicendo loro di scegliere dove volessero andare. Le persone hanno scelto e hanno scritto: c'era chi voleva andare in Germania, chi in Svezia, chi in Norvegia e via elencando. Poi, una volta prese le impronte, è stato detto loro che non sarebbero più andate in questi Paesi, ma alcune in Spagna, alcune forse in Francia, altre verso il Portogallo o la Romania.
In primo luogo, queste persone hanno detto: «Ci hanno ingannato». Le persone hanno detto agli altri – i social network funzionano; si scambiano al telefono le informazioni –: «Non fidatevi di quello che vi dicono, perché ci hanno ingannato. Hanno preso le impronte digitali dicendoci che saremmo potuti andare verso il Paese che avevamo scelto». Le scelte di queste persone, peraltro, sono dettate dai legami che esse hanno verso questi Paesi, perché vi è presente qualche parente o qualche amico. La presenza di un amico o di un parente diventa un aiuto verso il processo di integrazione di quella persona. Non scelgono così a caso.
Il criterio di assegnazione in questa riallocazione dovrebbe tenere conto anche del bisogno di quella persona e dei legami affettivi o parentali che ha in quel Paese. Se si manda un eritreo in Romania, dove non c’è nessun altro eritreo o nessun connazionale che lo possa aiutare nel suo accompagnamento e nel suo inserimento sociale, economico e lavorativo, lui si sente isolato e quindi è ovvio che non ci voglia andare. Bisogna considerare anche questo elemento e tener conto dei bisogni di quella persona e dei suoi legami affettivi di Pag. 7parentela o di amicizia che in un dato Paese la possono aiutare nel suo cammino di integrazione.
Questo è ciò che noi abbiamo raccolto. Nel contempo questi hotspot stanno per diventare non più un centro di identificazione e di accoglienza, ma anzi con il tempo diventeranno lo stanno già diventando – un centro di identificazione e di respingimento, di espulsione. Il metodo che si sta usando è di discriminare le persone in base alla nazionalità, non in base al caso personale, così come dovrebbe essere, anche secondo la Convenzione di Ginevra. La richiesta di asilo deve essere esaminata caso per caso. Non importa se io vengo dall'Eritrea, dal Sudan o dall'Etiopia. Quanti casi ci sono dall'Etiopia che sono perseguitati perché appartengono a un dato tipo di partito o ad altro ?
Per fare un esempio, gli Oromo sono tra le persone che all'interno del Paese stanno facendo una determinata lotta, condivisibile o no. Per il fatto che lottano per un determinato ragionamento o per determinate scelte politiche vengono perseguitati. Poiché, però, l'Etiopia non è più ritenuta un Paese pericoloso o a rischio, vengono considerati migranti economici, così come chi viene dal Burkina Faso, dal Benin o da altri Paesi. L'esame invece va fatto caso per caso, così come prevedono le leggi internazionali, fra cui anche la Convenzione di Ginevra che regola lo status di rifugiato.
Questo non sta succedendo, in questo momento. I migranti vengono divisi in base alla nazionalità. Se sei siriano, eritreo o afgano, si ritiene che tu abbia il diritto di chiedere asilo; se vieni da un'altra parte del mondo, no: sei automaticamente ritenuto immigrato economico. Questo sta mettendo a rischio lo stesso sistema del diritto di asilo, lo stesso diritto di ottenere la garanzia di una qualche forma di protezione.
Nello scenario del sistema di accoglienza qualcosa di positivo c’è, soprattutto il sistema SPRAR, laddove funziona, laddove è stato salvaguardato il modo in cui è nato e lo si è lasciato funzionare. In alcuni casi lo SPRAR ha finito per diventare un'accoglienza di emergenza. Laddove è stato mantenuto come un accompagnamento verso un processo di integrazione e, quindi, come una specie di secondo livello di accoglienza, funziona, ma non quando si raggruppano grandi numeri nello stesso edificio, nello stesso palazzo, che poi diventa un ghetto.
Basta vedere uno di questi, quello di Boccea, il Centro Enea: quello è una città nella città. Mi dicevano alcuni rifugiati ospitati lì che a volte non escono per settimane. Non sentono il bisogno di uscire perché c’è tutto lì dentro. Come può avvenire l'integrazione se io non sento il bisogno di entrare in contatto con i vicini, con gli abitanti, con il quartiere, con tutto ? Vivo per conto mio. Vivo isolato tra la mia gente o con gli immigrati come me.
Invece, laddove è stato organizzato in strutture piccole o in appartamenti piccoli, il sistema SPRAR funziona, perché quelle persone sono in mezzo alla gente autoctona, sono in mezzo al quartiere e sono come tutti gli altri. Vanno a fare la spesa, dialogano ed entrano in contatto con la gente. Questo li aiuta nel processo di integrazione.
Non basta, però, sistemarli in un appartamento in mezzo a un palazzo di qualsiasi condominio. Ci deve essere anche un progetto di accompagnamento, che è fatto anche di formazione, linguistica ma anche professionale. Io adesso vado spesso in Svizzera, perché sono stato destinato lì per la mia attività pastorale, per gli eritrei e gli etiopi che sono lì. Anche lì vedo lo stesso problema nel processo di integrazione.
Quando i giovani vanno in giro a chiedere lavoro, qui in Italia spesso capita che lo trovino, ma in nero, non in regola e in condizioni di sfruttamento. In Svizzera, invece, avviene il contrario. Dicono: «Se non hai il diploma, se non hai alcun titolo di studio, non ti assumiamo». Che cosa succede, quindi ? Se queste persone sono scappate giovanissime, prima ancora di avere la possibilità di avere una formazione professionale nel loro Paese di origine, si ritrovano qui con niente in mano. Se vogliamo integrarle anche nel tessuto Pag. 8sociale ed economico del Paese, bisogna dare loro una formazione, non solo linguistica, che è la prima chiave, ma anche professionale, che permetta poi loro di accedere al mercato del lavoro e di tutelarle anche così dallo sfruttamento. Anche qui abbiamo visto che cosa succede – per citare un caso – a Rosarno e in tanti altri Rosarno in giro per l'Italia, dove queste persone vivono situazioni di schiavitù.
Non aggiungo altro perché non vorrei prendere troppo tempo. Vorrei invece passare alle richieste che vorrei fare al Governo italiano, anche per il tramite di questa Commissione, per quanto riguarda sia l'accoglienza che la responsabilità italiana verso l'Eritrea, perché il legame storico e le responsabilità morali e politiche dell'Italia verso questo Paese non sono da trascurare. All'interno della Commissione europea l'Italia può svolgere un ruolo al fine di trovare una soluzione al problema.
Il primo problema da risolvere per la situazione dell'Eritrea è la questione del confine: per togliere l'alibi al regime eritreo bisogna che l'Unione europea riesca a convincere l'Etiopia ad accettare la decisione della Commissione ONU che ha demarcato i confini tra i due Paesi. Solo così noi possiamo sottrarre al regime eritreo questo alibi, questa scusa con cui ha sospeso tutti i diritti dei cittadini.
Dopodiché ci penseranno gli eritrei stessi a chiedere conto al loro Governo all'interno del Paese. In questo momento il Governo sta paralizzando qualsiasi iniziativa, qualsiasi tentativo di cambiamento, dicendo: «Siamo in guerra. Non è tempo di chiedere diritti, non è tempo di chiedere democrazia, non è tempo di chiedere Costituzione o altro. Siamo in guerra. Abbiamo i nostri territori occupati dall'Etiopia». Bisogna prima di tutto risolvere questo aspetto.
Il secondo aspetto è la collaborazione che si sta tentando di portare avanti, dovuta al Processo di Khartoum ed anche all'ultimo accordo firmato a Malta con 35 Paesi africani, tra cui l'Eritrea. Si è tentato di fare un accordo di riammissione verso questi Paesi, ma noi stiamo parlando con Paesi come l'Eritrea. Anche il Sudan non è meglio. Sappiamo che cosa sta succedendo in Sudan da anni: c’è al potere al-Bashir, con un mandato di cattura internazionale su di lui, che ha massacrato e continua a massacrare centinaia di villaggi interi nel Sudan, soprattutto nella zona del Darfur, ma anche nel sud del Kordofan.
Lo stesso sta succedendo in questi giorni nel Sud Sudan. Proprio ieri ho ricevuto notizie da un gruppo di profughi eritrei che sono in un campo nel Sud Sudan. Sono accerchiati. Si sta combattendo tra i ribelli e il Governo sud-sudanese e loro sono in mezzo ai due fuochi. Sono ospiti di questo campo, che è affidato all'UNHCR, ma rischiano la vita ogni giorno.
Anche lì la situazione dei diritti delle persone – anche di quelle autoctone – non è buona, ma si sta parlando di accordi di riammissione anche verso questi Paesi, di collaborazione e di finanziamenti a opere che, in teoria, dovrebbero fare questi regimi per creare il contesto di vita dignitosa per i loro cittadini, così che non vengano più verso l'Europa. Quali strumenti avete, però, per verificare sul campo che questi fondi siano realmente usati a beneficio della popolazione ? Quali strumenti o quale gruppo di monitoraggio ha l'Unione europea per verificare questo ? Nessuno.
Proprio all'inizio di quel processo che è iniziato a Khartoum, il Governo eritreo, forse per far vedere che è capace di controllare i confini, negli stessi giorni in cui c'erano gli incontri di Khartoum faceva fucilare 15 ragazzi al confine tra l'Eritrea e il Sudan semplicemente perché tentavano di varcare il confine e di lasciare il Paese.
Gli uomini al di sotto dei cinquant'anni e le donne al di sotto dei quarant'anni non possono uscire legalmente dall'Eritrea, perché sono tutti ritenuti sotto la leva. Il Governo non dà passaporti a nessuno se non ha superato i cinquant'anni per l'uomo e i quarant'anni per la donna. Se la donna è sposata e madre di figli, sì, altrimenti per le donne single non dà Pag. 9passaporti sotto i quarant'anni. Per l'uomo non importa se sia sposato o no: sotto i cinquant'anni è sempre sotto la leva militare. L'unica via che rimane loro è fuggire illegalmente, ma il regime ha dato mandato ai militari di fucilare a vista chiunque venga trovato a varcare i confini, a meno che gli stessi uomini del regime non siano pagati per far varcare il confine.
Si chiede a questo regime di arrestare il flusso in uscita, ma con quali strumenti ? Che metodi usa per fermare i fuggitivi ? Fucilarli, arrestarli ? Basta andare in giro in Eritrea. In queste 360 carceri ci sono situazioni... Di recente qualcuno è riuscito a far entrare una telecamera. Hanno pubblicato sui social network i filmati di come vengono trattate le persone in queste prigioni.
Questi filmati si riferiscono alle prigioni che sono visibili. Tutti gli altri sono in prigioni sotterranee, e nessuno li vede. Ci sono circa 10.000 detenuti in Eritrea che sono desaparecidos, che non hanno comunicazione con nessuno. Dal momento in cui sono stati arrestati nessuno li ha visitati, nessuno li ha visti e nessuno sa se sono vivi o morti.
Su quali basi l'Unione europea pensa di cooperare con questo regime ? I diritti fondamentali di questi cittadini, di questa popolazione, dove vengono messi ? Qualcuno mi parla di Realpolitik. Va benissimo, ma la Realpolitik non può essere a discapito della dignità dei diritti delle persone. Anche in questo caso bisogna rivedere questa collaborazione, questa cooperazione, tra l'altro iniziata su iniziativa italiana, quando il Viceministro Pistelli era alla Farnesina e aveva dato via al Processo di Khartoum.
Si continua a dire che vogliamo mantenere un canale aperto con il regime. Va benissimo, ma a precise condizioni, non a discapito dei diritti delle persone, dei diritti della popolazione e della dignità di queste persone, che oggi sono costrette alla fuga perché non c’è altro spazio di manovra all'interno del Paese.
C’è tutto il traffico di esseri umani che è in giro. Come combattere questo traffico, anche all'interno dell'Eritrea ? Come ho detto prima, alcuni pagano e sono accompagnati da apparati del regime, che è coinvolto in questo sistema, ma anche fuori c’è il traffico di essere umani che va avanti. Per combattere questo traffico bisogna creare le condizioni. Prima di tutto occorrono zone sicure vicino ai Paesi di origine. Quando queste persone scappano, scappano verso il Sudan e verso l'Etiopia, ma, se in queste Paesi vicini non trovano condizioni di sicurezza e di vita dignitosa, sono costrette a continuare.
Quando le persone venivano sequestrate in Sudan – noi abbiamo delle testimonianze al riguardo – erano gli stessi poliziotti sudanesi che le vendevano ai trafficanti. Chi deve garantire la sicurezza di queste persone, se quei campi profughi – per esempio, in Sudan c’è Shagarab, che contiene 30.000 rifugiati eritrei – sono affidati alla sorveglianza della polizia sudanese, ma la polizia sudanese, a sua volta, è corrotta e le consegna nelle mani dei trafficanti ?
Se queste persone non trovano condizioni di sicurezza, sono costrette a continuare il loro viaggio, perché i trafficanti sono sempre lì, non essendoci alcuna via di accesso legale verso l'Europa. Gli unici a proporre vie alternative, costose e pericolose sono i trafficanti. I giovani, per la disperazione, per la condizione di insicurezza e per le politiche – in Sudan il regime organizza continuamente delle retate in base agli accordi del momento e organizza a volte deportazioni di massa verso l'Eritrea – non si sentono più al sicuro e continuano il loro viaggio. Nel continuare il viaggio trovano poi la situazione che ho descritto prima in Sudan o in Egitto e via dicendo.
Per combattere tutto questo, bisogna creare condizioni di sicurezza, ma anche condizioni di vita dignitosa. Se abbandoniamo i profughi in questi «megacampi»... Io sono stato due volte a visitare questi campi nel nord dell'Etiopia, dove ce ne sono quattro, in mezzo al nulla. I giovani mi dicevano: «Dateci un'alternativa. Non basta che ci venite a raccontare la pericolosità Pag. 10del percorso che ci aspetta se ci affidiamo ai trafficanti. Dateci un'alternativa a questo».
Si possono finanziare dei progetti. Per esempio, in Etiopia le autorità hanno autorizzato anche i rifugiati a frequentare le scuole e le università. Serve qualcuno che paghi le loro borse di studio. Nel nostro piccolo la mia associazione sta facendo questo in Etiopia: paghiamo borse di studio per i giovani che vogliono frequentare l'università, ma anche le scuole tecniche, dove imparano un mestiere.
Penso anche alle ragazze. Quando ho visitato questi campi, ho trovato una decina di tombe e mi sono chiesto: perché sono morte queste persone ? Erano donne morte durante il parto perché non c'era nessuno che le assistesse. In un campo di 14.000 persone c'era un'unica ambulanza. Quando quest'ambulanza andava via con un malato, gli altri erano scoperti.
Da lì è nato un progetto. Ci siamo chiesti perché non far studiare alcune di queste giovani ragazze rifugiate in modo che diventino infermiere e ostetriche e tornino a lavorare dentro il campo. Anche nella scelta delle donne per fare questo corso mi sono ritrovato di fronte a decine di ragazze che avevano subìto violenze sessuali dentro quei campi. La giustizia etiope non ha fatto niente per proteggerle e nemmeno per punire quelli che hanno abusato di loro. Convivevano quotidianamente guardando in faccia le persone che avevano abusato di loro.
Quindi, abbiamo scelto bene. Nel dare le opportunità di studio scegliamo le persone che sono più vulnerabili per tirarle fuori da quel contesto. Almeno per i prossimi tre o quattro anni mentalmente si riposano e non guardano in faccia le persone che hanno abusato di loro.
Se c’è la volontà di fare qualcosa, si può fare, laddove è possibile. Per esempio, in Sudan questo non si potrebbe realizzare, ma in Etiopia, in Kenya e in Uganda sì. Se noi vogliamo arginare il flusso in arrivo, dobbiamo dare un'alternativa, una possibilità di vita. Quando io offro borse di studio, vuol dire che trattengo un ragazzo o una ragazza per i prossimi tre o quattro anni lì vicino a casa. In più, gli sto dando un futuro in modo che si crei una professione. Un domani, quando tornerà a casa o verrà in Europa, non sarà una persona che non sa fare nulla, ma una persona che ha una professione. In più, non sarà costretto o disperato al punto tale da accettare qualsiasi proposta gli faccia il primo trafficante che gli propone un viaggio. Avrà il tempo e le condizioni per decidere con calma.
I trafficanti vanno in questi campi e fanno una vera e propria campagna pubblicitaria. Dicono agli ospiti che pagheranno all'arrivo, ma non è vero. Quando arrivano a metà strada, li tengono segregati nei capannoni e li picchiano per costringerli a pagare, facendo in modo che chiamino i loro parenti a casa, in Europa, in Canada e via discorrendo. Quando partono, dicono: «Mi pagherai quando sarai arrivato in Europa». Molti sono ragazzini, come dicevo, e accettano per disperazione, perché stare lì ventiquattr'ore su ventiquattro senza fare nulla per cinque o sei anni diventa un'attesa disperante. Diamo loro una possibilità di vita dignitosa vicino a casa.
Come terzo livello di intervento bisogna organizzare canali legali di accesso. Questo si può fare con i visti. Apriamo le ambasciate per concedere visti umanitari e facilitiamo anche i visti per il ricongiungimento familiare, che oggi è difficile. Molte donne e bambini che sono morti a Lampedusa nel 2013 io li conoscevo perché avevo seguito i loro casi. Avevano presentato la richiesta di visto per il ricongiungimento familiare, ma veniva chiesta loro di produrre della documentazione dal Paese di origine, da cui però erano fuggiti. Pertanto non potevano più ottenere quei documenti e non potevano ottenere più il visto. L'unica via che rimaneva loro era accettare di percorrere quella via illegale che attraversava il deserto e il mare.
Come facilitare il ricongiungimento familiare ? Ci sono stati centinaia di casi di donne e di ragazzi cui è stato detto che il loro matrimonio era falso. Qualcuno dalla Svezia o dalla Norvegia veniva a sposare in Pag. 11Etiopia e in Sudan una donna che non poteva tornare nel suo Paese di origine e quel matrimonio veniva ritenuto falso.
Io ho segnalato centinaia di casi alla Farnesina che erano stati bloccati per questa ragione. L'ambasciata italiana, per esempio, in Uganda, ad Addis Abeba e in Kenya negava il visto. Quelle donne poi hanno tentato di arrivare via mare. Alcune sono riuscite ad arrivare, altre hanno lasciato la pelle nel deserto e nel mare. Facilitare, quindi, anche l'accesso ai visti e il ricongiungimento familiare potrebbe essere un canale legale.
Il terzo è organizzare questo benedetto resettlement program, o programma di reinsediamento, ma ci deve essere un progetto europeo, non quello che è successo. Anche l'Italia ha tentato nel 2009-2010, con questo progetto di reinsediamento, di far venire dalla Libia una trentina di persone qui e una quarantina là, ma nei campi profughi ci sono 70.000 persone. In Sudan ci sono 200.000 rifugiati solo eritrei. In Etiopia ci sono in totale 650.000 rifugiati dalla Somalia, dall'Eritrea e dal Sudan. In entrata arrivano ogni mese 1.000 persone e in uscita, con il resettlement program, ne escono solo 100. Non è possibile. Bisogna aprire dei canali legali per sottrarre queste persone anche alle mani dei trafficanti.
Anche in termini economici vediamo che i trafficanti sono riusciti a guadagnare in un anno solo nel Mediterraneo un miliardo di dollari e che l'Europa ha speso altrettanto per difendersi dall'arrivo di queste persone, senza riuscirci, perché i disperati arriveranno lo stesso. Che ci sia muro, che ci sia filo spinato, che ci siano leggi restrittive, chi è disperato, chi non ha scelta tenterà di arrivare. È quello che sta succedendo in questi giorni: ieri sei bambini sono morti nell'Egeo e, dall'altra parte, nelle Canarie, sono morte altre 30 persone, perché anche lì, grazie all'accordo di Rabat tra Marocco e Spagna, è tutto chiuso. Per aggirare questo, i migranti hanno preso il largo nell'oceano con barchette che non reggono, ragion per cui succedono i disastri.
Quest'anno siamo già a quasi 4.000 persone che hanno perso la vita nel Mediterraneo. Se noi vogliamo combattere il traffico di esseri umani, dobbiamo aprire canali legali e, come ho detto prima, andare alla radice del problema, risolvere il problema che oggi costringe queste persone a lasciare il loro Paese. È ovvio che questo richiede tempo, ma bisogna iniziare.
Il secondo intervento è proteggere meglio i profughi nei Paesi di transito, vicino casa, e dare loro condizioni di sicurezza e vita dignitosa, non abbandonarli nei campi sperduti.
Il terzo punto è attivare questi canali legali. L'Italia in particolare verso la situazione dell'Eritrea deve impegnarsi. È vero che, come mi è stato detto da qualcuno del ministero, l'Italia, quando parla dell'Eritrea con l'Etiopia, viene guardata con sospetto, perché è ritenuta più vicina, più amica dell'Eritrea, ma non è detto che debba farlo per forza solo l'Italia in prima persona. L'Italia fa parte dell'Unione europea. Nell'ambito dell'Unione europea, nella diplomazia europea, deve insistere su questo tema: risolviamo questo benedetto conflitto freddo, di «non guerra» e «non pace», che sta producendo l'esodo cui noi stiamo assistendo oggi.
PRESIDENTE. Grazie per questa impegnativa relazione.
Do subito la parola al dottor Longhi, pregandolo di essere più sintetico.
VITTORIO LONGHI, giornalista collaboratore del New York Times. Sarò breve e cercherò di integrare quello che Don Mussie Zerai ha già anticipato e spiegato piuttosto bene.
Intanto spiego perché sono qui, anzi perché siamo qui insieme. Io sono stato in Eritrea nell'aprile del 2014. Ho ottenuto un visto – è molto difficile per i giornalisti entrare in Eritrea – per fare una ricerca sulla mia famiglia. La mia famiglia paterna è eritrea. I miei nonni erano eritrei. Quindi, sono riuscito ad entrare.
Io mi ero già occupato di Eritrea. Mi ero occupato di rifugiati e del flusso che Pag. 12parte dal Corno d'Africa e attraversa il deserto. Una parte va verso Israele e verso il Sinai e un'altra parte viene verso l'Europa.
Perché siamo qui a parlare di Eritrea, perché siamo qui insieme e perché è importante per l'Italia parlare dell'Eritrea e, se possibile, anche intervenire ? Gli eritrei sono diventati nel 2015 il primo gruppo di rifugiati che arrivano sulle coste italiane. Prima c'erano i siriani, ma i siriani – lo sapete meglio di me – adesso percorrono un'altra rotta, la rotta balcanica, verso la Germania e il Nord Europa. Dunque gli eritrei continuano ad arrivare e molti continuano a morire in mare. Mi riferisco a quei pochi che arrivano alle coste per partire. Questa sarebbe – anzi lo è già – una priorità.
L'altro punto politico – secondo me fondamentale – è che la soluzione alla crisi eritrea, come accennava Don Mussie, è possibile. Sarebbe una soluzione che potrebbe anche arrestare il flusso di rifugiati, il flusso di persone disperate, soprattutto di giovani, che lasciano il Paese a un ritmo di 5.000 – le Nazioni Unite calcolano questo – persone al mese. Immaginate un Paese che si svuota delle proprie energie migliori, dei ragazzi e delle ragazze, giovani e giovanissimi, a una stima di 5.000 persone al mese.
Perché è possibile fermare questo e trovare una soluzione a questa crisi ? Perché ci sono gli elementi politici per farlo. Come giornalista, quando il New York Times mi ha chiesto di scrivere questo pezzo di denuncia sulla situazione eritrea, io ho trovato una contraddizione politica abbastanza forte tra ciò che le Nazioni Unite, attraverso la Commissione d'inchiesta, andavano denunciando e hanno denunciato nell'ultimo anno e ciò che, invece, l'Unione europea, la Commissione europea, sta perseguendo attraverso questo programma di finanziamento al Governo di Asmara, dimostrando che la volontà politica per risolvere la crisi dei diritti umani in Eritrea non c’è. Sembra prevalere la volontà di tenere distante il problema e sostanzialmente, semplificando molto, di pagare il dittatore affinché blindi i confini, come ricordava Don Mussie, arrivando persino a sparare su chi tenta di attraversarli. Questo è successo nell'ultimo anno.
Vi fornisco qualche elemento sul lavoro della Commissione d'inchiesta dell'Alto Commissariato dell'ONU per i diritti umani. È una Commissione indipendente, che io ho incontrato. Sono stato in audizione da loro a Ginevra poco dopo che avevano cominciato la serie di interviste. Dal giugno del 2014 al giugno di quest'anno hanno condotto oltre 550 interviste in otto Paesi terzi, in tutti i Paesi intorno all'Eritrea e in diversi Paesi europei, tra cui anche l'Italia. Hanno raccolto 160 denunce che sono state scritte in questo rapporto di oltre 400 pagine, che poi è stato presentato alle Nazioni Unite a giugno. Il caso è stato poi ridiscusso lo scorso ottobre.
Questo rapporto contiene un elenco molto chiaro, con una serie dettagliata di testimonianze, di tutto quello che avviene in Eritrea ai dissidenti e di ciò che avviene anche fuori dall'Eritrea, che è l'altra parte molto grave di questa situazione.
Andiamo per sommi capi. Le denunce della Commissione d'inchiesta ONU confermano la grave violazione dei diritti umani, in particolare la violazione del diritto alla privacy, con la sorveglianza onnipresente del Governo, della libertà di movimento, della libertà di espressione e di opinione – ricordiamo che ci sono decine di giornalisti detenuti dal 2001 nelle carceri eritree – della libertà di culto. La Commissione denuncia arresti, detenzioni e sentenze di morte totalmente arbitrarie, senza possibilità di processo e di appelli, tortura, violazione del diritto alla proprietà, il servizio nazionale – o national service, come lo chiamano loro, che di fatto è un servizio militare, per cui si è a disposizione del Governo a tempo indeterminato, a tempo illimitato – e il lavoro forzato.
Persino l'Organizzazione internazionale del lavoro, l'agenzia dell'ONU che disciplina e regola gli standard e le norme internazionali del lavoro, ha dovuto ammettere che ci sono gli estremi per denunciare Pag. 13il Governo eritreo per lavoro forzato. Il lavoro forzato, come accennava prima Don Mussie, si traduce in grandi vantaggi economici per le imprese straniere, perché a quel punto non pagano più la manodopera. Il Governo mette a loro disposizione centinaia di persone per costruire le infrastrutture, dagli alberghi alle strade, e per ogni genere di esigenza che queste imprese hanno. Il sistema con cui il Governo regola poi questi rapporti è del tutto ignoto.
Quali sono state le conseguenze di questo rapporto ? Innanzitutto i commissari sono stati ripetutamente minacciati di morte. Contro di loro si è scatenato un attacco non solo mediatico sui social media. Sembra poco, ma in realtà è abbastanza inquietante quando arrivano da più parti della rete una serie di insulti e di minacce, che Don Mussie conosce bene. Pertanto, i commissari sono stati messi sotto protezione a Ginevra.
Il risultato politico è stato che, all'ultima discussione alle Nazioni Unite di questo rapporto della Commissione indipendente d'inchiesta, il Consiglio per i diritti umani ha deciso di rinnovare il mandato alla Commissione d'inchiesta, composta di tre commissari, per accertare e verificare se esistano gli estremi per denunciare il regime di Asmara per crimini contro l'umanità. Voi sapete che cosa vuol dire questo a livello politico nella comunità internazionale: si arriverebbe ad una definizione assolutamente forte e vincolante per la comunità internazionale, che a quel punto dovrebbe liberare la stessa comunità internazionale da ogni esitazione.
Qui arriviamo alla grande contraddizione con quanto sta facendo invece la Commissione europea: il pacchetto di aiuti di oltre 300 milioni di euro non è stato fermato e non è stato neanche messo in discussione. Non sono stati sentiti i commissari dell'ONU che hanno accertato e verificato queste violazioni dei diritti umani, ma sembra che questo processo vada avanti. È per questo motivo che Don Mussie ed io ci siamo attivati e abbiamo avviato questa campagna per chiedere alla Commissione europea e ai Governi europei di non concedere il pacchetto di aiuti, a meno che non si condizioni quel pacchetto di aiuti a una serie di riforme fondamentali per avviare un processo di democratizzazione del Paese.
Prendendo ispirazione dal rapporto della Commissione d'inchiesta, abbiamo ristretto il numero a cinque domande fondamentali, cinque domande di riforme che consentirebbero di avviare quel percorso democratico.
La prima è libertà per tutti coloro che sono detenuti in modo arbitrario, tra cui dissidenti politici e giornalisti.
La seconda è libertà di espressione e di associazione. Non esistono giornali in Eritrea. Non esistono associazioni e sindacati, niente di tutto questo. Pensate che anche le organizzazioni non governative che facevano cooperazione allo sviluppo sono state allontanate dal 2006. Non c’è la minima possibilità di entrare nel Paese e di entrare in contatto con tutti questi ragazzi, che potrebbero e dovrebbero, secondo me, attivarsi per tentare di agire dall'interno, perché sono assolutamente blindati. Sono chiusi dentro. Questo io l'ho potuto verificare con le persone che ho incontrato e che ho intervistato nel Paese.
Poi si chiedono elezioni libere e democratiche, con un sistema multipartitico. Purtroppo, la situazione politica o partitica dell'Eritrea è molto frammentata, perché i gruppi di opposizione sono sparsi fuori dal Paese e spesso sono ridotti a piccoli gruppi tribali, dobbiamo dirlo. Sono fazioni legate all'etnia che tra di loro non sono certamente coordinate. Avviare un percorso democratico è una cosa molto complessa in una situazione del genere, ce ne rendiamo conto, ma se ci fossero elezioni libere all'interno, come il Presidente Afewerki aveva promesso nel 1991 e nel 1993, alla liberazione dall'Etiopia, sarebbe già qualcosa.
Inoltre, chiediamo la fine del servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato. Da questo punto di vista il Governo continua a promettere alle Nazioni Unite che restringerà il periodo obbligatorio a 18 mesi, ma con il pretesto del conflitto al Pag. 14confine con l'Etiopia si sente autorizzato a militarizzare tutto il Paese e quindi a mantenere questo stato di cose.
Da ultimo, chiediamo la fine di ogni forma di lavoro forzato, di trattamenti abusivi e – non c’è nemmeno bisogno di dirlo – della pratica della tortura.
Le nostre richieste alla Commissione europea, che ha già anticipato Don Mussie, sono principalmente queste. Si tratta di condizionare il pacchetto di aiuti a una serie di riforme vere, che vadano nel senso del percorso democratico. Il Governo italiano – concordo e confermo – ha un ruolo. Ha un ruolo innanzitutto perché ha un legame storico con il Paese. L'Italia è ancora molto presente lì, dalle imprese che vi operano alla scuola italiana. Dovete sapere che ad Asmara noi abbiamo la più grande scuola italiana all'estero, che lavora insieme all'ambasciata.
Inoltre, il Governo italiano ha avuto un ruolo fondamentale nel Processo di Khartoum. Il Processo di Khartoum – voi lo conoscerete, immagino – si è tradotto in una serie di incontri mirati ad affrontare, risolvere o tentare di trovare soluzioni al problema del traffico di esseri umani che dal Corno d'Africa viene verso l'Europa. Tuttavia, seduti intorno a questo tavolo per discutere e trovare soluzioni ci sono anche il Governo sudanese e il Governo eritreo, ossia i Governi da cui le vittime di traffico scappano. Qui noi abbiamo colto una contraddizione. Per questo motivo chiediamo di fare chiarezza sulle intenzioni del Governo italiano riguardo a questo processo.
Sulla questione dei confini anche il Governo può avere un ruolo. Tra l'altro, i confini con l'Etiopia sono stati stabiliti dalle Nazioni Unite, da un'apposita Commissione delle Nazioni Unite alla fine dell'ultimo conflitto tra il 1998 e il 2000, con l'accordo di Algeri, di cui l'Italia si è fatta garante. Anche lì è rimasto tutto sospeso. La comunità internazionale ha messo sotto embargo l'Eritrea perché il dittatore è sospettato di alimentare alcuni gruppi terroristici più o meno identificati, da al-Shabaab ad alcuni gruppi minori nella regione, ma la questione dei confini non è stata più affrontata, offrendo il pretesto per militarizzare e opprimere il Paese.
L'ultima cosa che mi sento di suggerire a questa Commissione è di affrontare la questione degli eritrei discendenti di italiani. È una questione che, con sorpresa, io ho trovato nel Paese. Ci sono molte, moltissime famiglie di origine italiana. È una delle storie di colonialismo che abbiamo un po’ rimosso. Si tratta di circa 400 famiglie, quindi di un migliaio di persone, di origine italiana, che portano nomi italiani, che sono visibilmente discendenti di italiani, che parlano perfettamente l'italiano perché hanno frequentato le scuole italiane e che hanno fatto domanda dal 1992, dall'ultima legge sulla cittadinanza, per il riconoscimento della cittadinanza italiana.
Non è possibile, però, per loro avere il riconoscimento perché non si riesce a dimostrare la discendenza. Mentre per i discendenti di italiani dall'America Latina o da altri Paesi è possibile farlo semplicemente venendo in Italia, facendo le ricerche o incaricando un legale o qualcuno di fare le ricerche, dall'Eritrea non si può certo pagare nessuno con quei redditi e non si può neanche comunicare con l'esterno. È molto difficile. Figuriamoci se si può venire a fare ricerche in Italia.
Io so che questa piccola comunità di discendenti di italiani ha tentato di farsi ascoltare dalle Istituzioni italiane. Nel 1990 – mi sembra – il Presidente Scalfaro andò sul posto, promise di intervenire e affidò la questione al Ministero dell'interno. Poi la cosa è caduta. Credo che anche Gianfranco Fini e Mirko Tremaglia abbiano fatto la stessa promessa, ma queste persone continuano a vivere in un limbo.
Si può discutere sullo ius soli e sullo ius sanguinis e se l'uno o l'altro sia la forma migliore rispetto alla cittadinanza, ma è un fatto che da noi questa legge è in vigore ed è un fatto che queste persone avrebbero tutto il diritto di ottenere la cittadinanza, o perlomeno di poter presentare la domanda. Invece, la loro domanda si ferma all'ambasciata, perché non Pag. 15riescono a produrre i documenti. Si tratta – ripeto – di circa 400 famiglie, che, moltiplicate per i figli, consistono in 1.000-1.200 persone.
È una situazione che mi sembrava utile e importante segnalare, perché sono persone che altrimenti tenteranno anche loro di scappare e di fuggire attraverso i canali del traffico, con le conseguenze che immaginiamo.
PRESIDENTE. Grazie. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
KHALID CHAOUKI. Grazie per questo intervento. Rispetto al Niger, di cui non avete parlato, qual è la situazione attualmente nei vari campi ? So che anche il Niger è protagonista in questo processo. Qual è la situazione dal punto di vista dei diritti umani ? Ci sono dei campi. Vorrei sapere se avete segnalazioni particolari.
ERASMO PALAZZOTTO. Anch'io mi associo al ringraziamento ai nostri ospiti. Mi premeva fare due domande specifiche nell'insieme del quadro piuttosto esaustivo che è stato fornito sulla vicenda Eritrea per quello che, in maniera particolare, è di pertinenza dei lavori della nostra Commissione.
In primo luogo, qual è il ruolo del regime eritreo nell'organizzazione della tratta ? C’è un ruolo riconosciuto di funzionari del regime o di militari rispetto al traffico di esseri umani ? E quali sono le relazioni con le grandi organizzazioni di trafficanti, che hanno sede prevalentemente in Sudan ?
In secondo luogo, guardando i numeri dei flussi in Italia, salta subito all'occhio la grande sproporzione rispetto al numero di arrivati. Attualmente la popolazione eritrea allo sbarco è un quarto del complessivo degli sbarchi arrivati in Italia, ma, allo stesso tempo, è probabilmente l'ultima o la penultima per richieste d'asilo. Noi abbiamo un dato, certificato dal Ministero dell'interno, secondo il quale su quasi 40.000 eritrei sbarcati in Italia solo 500 circa sono nel sistema Eurodac e, quindi, sono stati identificati e sono entrati nelle maglie di Dublino.
Poiché evidentemente gli altri, come ci diceva prima Don Mussie Zerai, a conoscenza delle procedure, hanno tentato una fuga da quel sistema – ed evidentemente sono molto preparati sul sistema legislativo italiano ed europeo –, vorrei sapere se vi è un'organizzazione che anche in Italia funge rispetto all'ultima parte della tratta o del viaggio. Vorrei sapere se noi possiamo parlare di un pezzo dell'organizzazione dei trafficanti che ha una base in Italia e che aiuta nel pagamento della cifra che viene pagata ai trafficanti e, quindi, se è inclusa anche la parte di transito dall'Italia verso altri Paesi di destinazione.
Dico questo perché noi abbiamo avuto un fenomeno che ha riguardato prevalentemente gli eritrei. Mi riferisco al fenomeno dei «dublinanti» su Roma, ossia di persone che, arrivando su Roma, sono in transito verso altre parti. Molto spesso questi soggetti sono ignari del percorso che devono fare.
PRESIDENTE. Io vorrei passare alla seduta segreta per fare una serie di considerazioni.
(I lavori della Commissione proseguono in seduta segreta, indi riprendono in seduta pubblica)
DON MUSSIE ZERAI, presidente dell'agenzia Habeshia. Per quanto riguarda la situazione in Niger, anche lì, intorno a questi campi profughi, come in Sudan, ci sono questi giri di persone che vengono ricattate e sequestrate. Al confine tra la Libia e il Niger abbiamo notizie di persone che sono state sequestrate e tenute segregate per settimane, in attesa che i loro familiari pagassero i soldi che venivano chiesti. Allora chiedevano 7.000 dollari a persona. Il problema è nato creando anche il Processo di Khartoum, che prevedeva di creare questi centri o questi campi profughi in cui raccogliere ed esaminare le loro richieste. La prima condizione riguarda chi garantisce la sicurezza di questi campi.
Pag. 16KHALID CHAOUKI. Il Governo del Niger dice di impegnarsi per applicare tutte le norme e le tutele. Questo vi risulta ? Rispetto al Sudan, per esempio, il Niger è a un livello che tutela di più, oppure non vi risulta da questo punto di vista ?
DON MUSSIE ZERAI, presidente dell'agenzia Habeshia. Da quello che mi risulta spesso anche i militari e i poliziotti del Niger si comportano come quelli sudanesi. Ufficialmente il Governo può fare tutte le promesse, ma poi sul terreno le persone sono facilmente corruttibili e lasciano spazio ai trafficanti o ai passeur di agire, addirittura entrando dentro i campi a fare campagna per le loro proposte alternative.
Come può il Governo proteggere questi campi ? I «megacampi», così come sono concepiti, non funzionano. L'unico modo è istituire in questi Paesi di transito degli uffici dove le persone si possono recare, presentare la loro richiesta e di avere un visto, che questi uffici possono concedere organizzando i documenti di viaggio. Molti di questi soggetti scappano e non hanno passaporto. L'UNHCR potrebbe concedere i passaporti o questi documenti di viaggio, sui quali poi i Governi potrebbero mettere i visti in base a ogni Paese che è disposto ad accogliere quelle persone, senza concentrarle in questi «megacampi», che sono il posto ideale in cui i trafficanti agiscono.
PRESIDENTE. Io ritengo che Don Mussie Zerai e Vittorio Longhi debbano essere ringraziati molto dalla Commissione per aver fornito questa testimonianza così impegnativa. Faremo certamente tesoro di queste considerazioni e dei racconti – mi permetto di dire – talvolta scioccanti. Ringrazio anche per questa relazione. Nel caso in cui ci fossero parti classificate, possiamo utilizzare e rendere pubblico questo testo oppure no ?
DON MUSSIE ZERAI, presidente dell'agenzia Habeshia. Sì.
PRESIDENTE. Allora lo allegheremo certamente alla relazione finale della Commissione come contributo raccolto nell'ambito dell'audizione. Io sono anche emotivamente molto colpito da molti dei passaggi che sono stati fatti. Vi ringrazio ancora per il tempo che ci avete dedicato e dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 15.50.